domenica, maggio 19, 2024

'UNA SPIEGAZIONE PER TUTTO': CONVERSAZIONE CON GABOR REISZ

Vincitore del premio per il miglior film nella Sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, “Una spiegazione per tutto” di Gabor Reisz racconta l’Ungheria dei nostri giorni con una cinematografia che fa della forma la chiave per capire il senso delle immagini. Del film e dei suoi temi abbiamo parlato con il regista Gabor Reisz.
Una spiegazione per tutto è nelle sale, distribuito da I Wonder Pictures.

Nel prologo che introduce Una spiegazione per tutto le sequenze iniziali mescolano tempo, luoghi e persone senza spiegarci nulla. Ad andare in scena sono tranche de vie in cui a emergere è l’indecifrabilità del reale. 

Anche se messe all’inizio del film le sequenze di cui parli sono state le ultime scritte in fase di sceneggiatura perché, a un certo punto, abbiamo capito di aver bisogno di qualcosa che fosse utile a presentare la generazione più giovane, quella vittima della Storia. Abbiamo finito il film con i giovani, per cui volevamo farli comparire anche all’inizio. Mi rendo conto, com’è successo agli spettatori non ungheresi, che non è facile capire il contesto di quei frammenti. Si riferiscono alla tradizione ungherese per cui gli studenti delle scuole superiori la sera prima degli esami vanno a trovare i professori, bevono con loro, cantano per le strade.

Si tratta di una narrazione molto frammentata in cui anche l’utilizzo di diversi format rimanda all’incomunicabilità tra generazioni diverse. La discontinuità della forma traduce la confusione di significato presente nel linguaggio utilizzato dai personaggi.  

Per quanto riguarda la forma a me interessava usare uno stile molto realistico. Tra le altre cose abbiamo girato anche con la fotocamera dell’Iphone dando il cellulare in mano agli studenti. Molte scene le hanno girate loro e mescolate a quelle realizzate dal nostro cameraman hanno dato vita a un bel mix caotico. Anche se il risultato non rientra nella struttura tradizionale dei film ho pensato che rendesse bene la diversità del linguaggio giovanile.

Peraltro il fatto che i personaggi si muovono senza una direzione precisa coglie con efficacia la mancanza di riferimenti e la ricerca d’identità tipica delle generazioni giovani. Una caratteristica, quella di far dialogare la forma con i contenuti, tipica del cinema ungherese. 

Tenendo conto che certe soluzioni vengono d’istinto, sono concorde con la tua analisi. Non ci avevo pensato prima, ma ragionandoci a posteriori penso sia proprio così.

In Una spiegazione per tutto l’incomunicabilità esiste tra padre e figlio, tra alunni e professori e si ritrova anche all’interno di gruppi omogenei: per esempio tra i compagni di scuola di Abel, come pure tra militanti dello stesso partito politico. Esemplare in questo senso è la sequenza dell’intervista, con l’epilogo all’insegna di una frattura insanabile. Sei d’accordo nel dire che l’incomunicabilità è uno dei temi del film?

Completamente! È uno dei temi principali del film e pure della mia esperienza personale. In Ungheria a un certo punto abbiamo iniziato a perdere la vera comunicazione tra le diverse generazioni e tra le persone comuni a causa della politica e della troppa pressione causata dalle aspettative sociali, anch’esse di matrice politica.

Si tratta di una condizione che genera fantasmi a cominciare da quelli presenti nella politica. Lo sono quelli del passato che impediscono ai personaggi di interpretare il presente con le categorie contemporanee. Lo sono in maniera più classica quelli legati alla sfera affettiva e sentimentale, con Abel e Janka innamorati dell’idea dell’altro e dunque incapaci di vedere chi hanno veramente davanti. 

Sì, tra Janka e Abel la mancanza di comunicazione è dovuta al fatto che per loro si tratta della prima storia d’amore, dunque di una dimensione in cui tutto è molto confuso. Cuore e sentimenti vanno per conto proprio quindi è difficile riconoscere cosa provi. La fine dell’adolescenza è molto strana per i giovani. Il contesto degli esami finali l’ho scelto proprio per questa ragione. Alla fine delle scuole superiori, per la prima volta, devi prendere delle decisioni importanti per la tua vita, un po’ come succede quando per la prima volta inizi a provare qualcosa per qualcuno. In entrambi i casi si tratta di un periodo della tua vita completamente caotico. Per quanto riguarda l’insegnate di Abel, anche con lui volevo rappresentare i diversi modi attraverso i quali le persone perdono la capacità di comunicare.

Rappresenti la tensione tra padre e figlio senza stacchi, ma muovendo nervosamente la macchina da uno all’altro durante le loro conversazioni. A differenza del campo e controcampo questa continuità rende al meglio il sentimento di Abel, prigioniero delle aspettative del padre allo stesso modo in cui lo è del legame stabilito dal movimento della mdp.

Per quanto riguarda il lavoro fotografico sono state prese diverse decisioni, specialmente nella prima parte del film in cui ci siamo concentrati sui personaggi principali dei vari capitoli. Li abbiamo seguiti cercando di identificarci con loro.

Dal punto di vista visivo il legame stabilito dalla mdp di cui parlavamo sopra dà ancora più senso a due sequenze di tenore opposto perché la corsa in bicicletta di Abel prima e quella sulle acque del mare poi sono una reazione a tale costrizione. Si tratta di movimenti che non hanno una meta precisa se non quella di esprimere il desiderio di una libertà conquistata almeno in parte. 

È così. Attraverso il personaggio di Abel volevo ragionare sul concetto di libertà in un momento in cui non sei ufficialmente adulto perché vivi ancora con i genitori e non hai iniziato l’università o un lavoro. Insomma nell’ultimo momento della vita in cui, essendo ancora ragazzo, e in questo caso figlio, puoi sentire completamente la libertà. La corsa notturna in bicicletta mi dava modo di esprimere questo sentimento in un’unica inquadratura. La mancanza di tagli lo rendeva ancora più forte.

Dopo essere stato girato in modo molto realistico l’ultima sequenza del film… non lo è. La sua eccezionalità sta anche nel fatto che è l’unica ripresa dall’alto e che la corsa nell’acqua è realizzata senza nascondere il possibile utilizzo di effetti digitali. Ciò ti permette di esprimere il concetto di libertà a livello metafisico rendendo ancora più profondo il senso di liberazione del giovane protagonista. 

Esatto, sono molto felice che tu li abbia notati perché mentre giravamo queste scene a volte l’attrice che interpretava Janka mi chiedeva perché non c’erano dialoghi. Mi diceva che i giovani parlano di continuo facendo sempre domande, invece per me quella sequenza si deve immaginare non in termini realistici, ma come la scena di un sogno.

Una spiegazione per tutto analizza il funzionamento distorto dei media e in particolare la capacità delle fake news di rovinare la vita a chi ne è vittima. Anche in questo caso si torna in qualche modo al tema dell’incomunicabilità.

Sì, volevo sottolineare cosa succede in Ungheria con il governo di Viktor Orban in cui questa cosa si trasforma in propaganda. Non so come funziona in altri paesi, ma nei nostri media esiste un certo tipo di manipolazione dietro ogni notizia.

Dal tuo film emerge l’idea che la politica in Ungheria abbia uno spazio molto importante nella vita quotidiana delle persone. Al di là delle generazioni tutti finiscono per parlarne e per esserne influenzati. 

Per me, prima di questo film, non era importante. Dopo la delusione politica vissuta quindici anni fa ho deciso che non ne sarei stato più influenzato. Solo dopo, durante la preparazione del lungometraggio, ho scoperto l’impossibilità di vivere senza alcuna idea su quello che stava accadendo nella nostra politica. L’idea del film nasce in concomitanza con la decisione del governo di riformare l’università delle Arti teatrali e Cinematografiche. Gli studenti dell’università hanno iniziato l’occupazione organizzando diverse dimostrazioni. Io li ho sostenuti e questa è stata la prima volta in quindici anni che ho preso una posizione che non era né di destra né di sinistra. È diventata di sinistra solo perché il governo non era d’accordo con il movimento studentesco e nonostante io non appartenga a quella corrente politica. L’occupazione è durata alcuni mesi ed è stata un momento terribile che, in qualche modo, è entrato a far parte della storia raccontata nel film.

Parliamo del cinema che preferisci.

È molto difficile fare nomi. Nell’ultimo anno ho iniziato a guardare i film di Abbas Kiarostami e l’ho veramente amato come è successo per altre opere iraniane. Ho studiato filmografia e sono una persona appassionata di cinema, interessata a diversi periodici storici. Dalla Hollywood degli anni cinquanta ai giorni nostri. Questo per farti capire i miei gusti e l’impossibilità per me di farti un elenco di film e registi.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

1 commento:

Marco Raimondi ha detto...

Sembra interessante. Grazie per il vostro post!
Potete iscrivervi come lettori fissi al mio blog per cortesia?
https://raimondiit.blogspot.com/
Grazie.