sabato, settembre 28, 2013

Sotto assedio- White House Down

Sotto assedio- White House Down
di Roland Emmerich
con Tatum Channing, Jamie Foxx, James Woods
Usa 2013
genere, drammatico
durata, 137'


Un tempo li chiamavano film di propaganda e si distinguevano per il fatto di sponsorizzare l'operato di istituzioni pubbliche e politiche con storie e personaggi generalmente legate all'idea di una violenza morale e necessaria. Un esempio di questo genere potrebbe essere questo "Sotto assedio- White House Down" del tedesco Roland Emmerich noto ai più per essere stato il regista di blockbuster come "Indipendence Day", "10.000 A.C.", "2012" Il film prende le parti di un agente di polizia di Washington, John Cale (un imbolsito Channing Tatum), della sua figlioletta e dei loro rispettivi sogni. Lui vorrebbe entrare a far parte dei servizi segreti destinati alla protezione del presidente degli Stati Uniti, lei invece da fan sfegatata del presidente americano, John Sawyer, vorrebbe visitare i luoghi da cui governa il mondo. Emmerich li accontenta con una visita guidata nelle residenza presidenziale che si trasforma  ben presto in tragedia a causa di un complotto che mette a ferro ed a fuoco l'edificio nel tentativo di catturare il suo famoso inquilino. A Cale ed al Presidente non resterà che unirsi in un'alleanza santificata dall'obiettivo di salvare le sorti dell'America prima ancora che se stessi. Intanto intorno alla Casa Bianca si scatena un vero e proprio assedio nel quale buoni e cattivi rischiano di perire senza distinzione di sorta.
Emmerich gioca con temi e possibilità finanziare che conosce molto bene se è vero che l'istutuzione presidenziale ed i valori dell'America (Dio, patria e famiglia) tornano continuamente nelle produzioni miliardarie di cui si trova a capo. A differenza di altre volte però la scommessa si fà più dura perchè la fuori c'è da convincere un popolo di delusi travolti dalla crisi e traditi dal loro salvatore. Sarà forse questo il motivo per cui "Sotto assedio" spinge l' accelleratore dell'empatia e del riscatto aprendo il film sul volto della bambina che invece di impazzire per gli idoli dei teen ager si sveglia trepidante ad ascoltare le news presidenziali. Un incipit bissato dall'effetto simpatia che scaturisce dalla richiesta di Sawyer di far compiere un volo radente all'elicottero che lo sta riportando a casa. Insomma il Presidente americano nonostante i problemi e le responsabilità rimane uno di noi, ed Emmerich c'è lo dimostra nel corso dell'azione non solo con lo spirito di sacrificio che ad un certo punto lo porterà a rischiare la vita per salvare quella della ragazzina, ma anche per il mea culpa sui propri errori recitato allo scopo di rilanciare la vulgata di un ottimismo da new frontiers kennedyana.

Detto di una storia che contiene tutti i clichè del genere, dal poliziotto bravo ma incompreso agli affetti familiari sacrificati alle responsabilità lavorative, per non parlare delle varie concatenazioni che porteranno al trionfo dei buoni ed il castigo dei cattivi "Sotto Assedio - White House Down" si costruisce la sua eccezionalità con una serie di scene "memorabili" in cui i due protagonisti facendosi beffa del pericolo danno vita ad un rally sui prati della Casa Bianca inseguiti da nemici armati fino ai denti, il presidente imita Ethan Hunt e spara con il bazooka da un auto in corsa, e con carri armati, aerei e missili speciali pronti a radere al suolo il tempio della politica statunitense. La sensazione di deja vu regna sovrana, e neanche l'ironia del presidente ("Togli le mani dalle mie Jordan" dice al cattivo di turno dopo aver indossato le mitiche scarpe da basket) i riferimenti alla cronaca drogata dai media cosi come alle disfunzioni di una politica strutturalmente corrotta  ("Non cominci da politico ma poi lo diventi" confessa Sawyer a Cale) riescono a riscattare un film che suona troppo falso per far scattar adesione e verosimiglianza. Ed anche la confezione, solitamente il pezzo forte delle produzioni del regista tedesco in questa uscita si dimostra insufficiente quando accanto al dispiegamento di soldi ed effetti speciali fa seguire alcune sequenze inaccettabili a questi livelli, con personaggi che dialogano  sullo sfondo di esterni palesemente finti. Hai voglia allora di abbinare lo spirito irriducibile del presidente a quello ribelle e musicale dei Rolling Stones presenti nel finale per commentare con "Street Fighting Man" il commiato degli eroi perchè il pubblico ha smesso da un pezzo di credere alle promesse dei politici: che si chiamano John Sawyer o Barak Obama di cui il prima è la versione cinematografica poco cambia, ma almeno al cinema si può uscire dalla sala mettendo fine ad ogni forma di oppressione e di malgoverno.

venerdì, settembre 27, 2013

Via Castellana Bandiera

Via Castellana Bandiera
di Emma Dante
con Emma Cotta, Emma Dante, Alba Rorwacher
Italia 2013
Genere, drammatico
Durata, 90'

Ogni esordio cinematografico per le caratteristiche di novità che porta con se è destinato a calamitare l'attenzione degli appassionati. Nel caso di "Via Castellana Bandiera" opera prima diretta da Emma Dante questa tendenza è rafforzata dal fatto che il film era stato selezionato per una vetrina importante come quella del Festival di Venezia, dove il film è passato in concorso. Alla pari di meritevoli colleghi Emma Dante era la conferma di una trend festivaliero che negli ultimi anni aveva visto la presenza di registi provenienti da percorsi artistici estranei al mondo del cinema: dal drammaturgo Ascanio Celestini con il suo "Pecora nera", al disegnatore Gipì con "L'ultimo terrestre", i responsabili del festival avevano aperto la settima arte alle contaminazioni suscitate dal potere d'attrazione che il cinema è in grado di innescare sul resto delle arti. In questo caso la regista siciliana rappresentava con la sua matrice teatrale il valore aggiunto di una storia che si annunciava quantomeno singolare.

"Via Castellana Bandiera" è infatti il nome della via a senso unico in cui si ritrovano una di fronte all'altra e senza intenzione di cedere il passo, le automobili di Samira e Rosa, impegnate a riversare in quella presa di posizione i rispettivi problemi esistenziali. Samira (Emma Cotta) è ridotta ad una larva dopo la morte della figlia scomparsa prematuramente per un male incurabile, Rosa (Emma Dante) si ritrova agli sgoccioli della relazione con Clara (Alba Rochwacher) la donna amata che sta accompagnando al matrimonio di un amico. Come nel coro di una tragedia greca le donne sono supportate dal sostegno degli abitanti del luogo divisi in fazioni che ne contraddistinguono credenze e sotterfugi. Nessuno ne uscirà indenne. De Profundis di un’umanità in via d’estinzione e ritratto di un paese morente “Via Castellana Bandiera” condivide con il giovane cinema d’autore italiano la visione di un Italia logora e fatiscente. Alla pari d’opere come “L’intervallo” di Valerio Di Costanzo e di “Sangue” di Pippo Delbono (ancora e colpevolmente senza distribuzione) il film di Emma Dante si apre su un day after urbano destinato a diventare il paradigma della precarietà esistenziale e materiale dei personaggi. Concentrato quasi per intero nella via del titolo, “Via castellana Bandiera” è caratterizzato da una dialettica narrativa in continua oscillazione tra il particolare, riferito alle vicende personali dei protagonisti (con il passato doloroso e fuori campo a scavare un solco incolmabile tra le persone) e l’universale, rappresentato dal valore simbolico che la vicenda assume quando descrive gli espedienti di un mondo emarginato e ferito che sopravvive mettendo in scena una guerra civile tra poveri ed emarginati. Girato con stile nervoso ed insieme contemplativo, il film di Emma Dante ha il fascino dei film che riescono a rendere nuova una realtà abituale e sottovalutata. Cosi accade per il paesaggio siciliano, qui più che altrove visualizzato come uno spazio di frontiera dove l'eccezionale diventa normale (scopriamo infatti che diatribe come quella tra Samira ed Emma sono una consuetudine per gli abitanti del luogo) ed in cui il moderno della nostra contemporaneità, qui rappresentato dai costumi emancipati di Rosa e Clara, amanti senza alcuna paura e sotterfugio, deve fare i conti con una civiltà arcaica ed immobile, raffigurata dalla famiglia di Samira, dominata da un assolutismo maschile opprimente e rozzo, a cui solo la morte può sottrarre.

Astrazioni che il film fatica a coniugare con la progressione della storia che si avvale di espedienti narrativi deboli (l'amicizia di Clara con il nipote di Samira è uno di questi) per dare respiro ad un racconto che fatica a superare l'evento da cui è scaturita. Cortometraggio espanso all'impossibile "Via Castellana Bandiera" ha trovato il modo di farsi onore grazie al premio attribuito all'ottantenne Emma Cotta scelta come miglior attrice della manifestazione veneziana.

giovedì, settembre 26, 2013

LA RELIGIOSA


Regia: Guillaume Nicloux


Cast: Pauline Etienne, Isabelle Huppert, Martina Gedeck, Louise Bourgoin


Francia 1768. La giovane Suzanne (Pauline Etienne) viene inviata in convento dai genitori contro la propria volontà. E' questo il modo in cui la giovane deve pagare la relazione extraconiugale della madre ( Martina Gedeck). Infatti, il motivo per cui viene rinchiusa in convento è che Suzanne è stata concepita fuori dal matrimonio, cosa a lei sconosciuta. La ragazza si trova così ad affrontare la dura vita del convento,cerca di resistere, ma quando anche lei viene a conoscenza di essere figlia illegittima e di dover scontare la colpa materna, cerca con tutti i mezzi di riconquistare la libertà.

La carne al fuoco c'è (il romanzo omonimo di Diderot) , il cast è di buon livello e le atmosfere non mancano, quello che purtroppo latita è la regia. Nicloux si limita a raccontare, a prendere atto di quanto scritto da Diderot, non impone mai un guizzo, si limita ad una regia scolastica e piatta, che richiama quella di uno sceneggiato televisivo anni settanta (quando non si chiamavano ancora fiction e la regia era affidata a fior di professionisti). Assolutamente negativa la scelta di Louise Bourgoin per il ruolo della madre superiora Christine, troppo giovane e troppo bella e soprattutto artisticamente troppo inferiore all'esordiente Pauline Etienne e a Martina Gedek (Isabelle Huppert è fuori concorso). Da segnalare positivamente la ricercata ricostruzione ambientale e l'uso (limitato) della camera a mano che restituisce un certo senso di realismo.

Come già detto, il romanzo di Denis Diderot, da cui è tratto questo film, è senza dubbio un'ottima base di partenza, ma è datato 1760 e gli argomenti trattati non scandalizzano più nessuno. Sevizie ed abusi sessuali all'interno di un convento nella Francia del settecento sono purtroppo stati sostituiti da migliaia di casi di pedofilia che si consumano nella parrochia sotto casa, ne consegue che la pellicola non eserciti particolare appeal nei confronti dello spettatore. La Religiosa è comunque film dignitoso che tiene vivo l'interesse dello spettatore, non solo perché il romanzo da cui è tratto è incompiuto e quindi il finale voluto dal regista è destinato comunque ad essere una sorpresa, ma soprattutto perché non si tratta della banale storia di una ribelle che nulla a che vedere con il mondo ecclesiastico, ma di una giovane che possiede una fortissima fede, pura, visibile e che proprio in virtù di questa vive drammi interiori forse più atroci delle vessazioni fisiche che il regista, almeno in questo caso, riesce a trasmettere efficaciemente.


Non è la prima volta che il romanzo del filosofo e scrittore francese (che aveva un fratello sacerdote, una sorella morta in convento ed egli stesso aveva subito una reclusione in un istituto religioso con relativa fuga) viene portato sullo schermo. Ufficialmente l'unico precedente è la pellicola di Jacques Rivette Suzanne Simonin la religiouse (1966) sceneggiato da Jean Gruault. In realtà esiste una versione exploitation, ovviamente italianissima (e non poteva essere altrimenti), firmata da tale Dario Donati, pseudonimo dietro al quale si celava il sempre spregiudicato Aristide Massaccesi, noto anche come Joe D'amato (pseudonimo usato quando si dedicò al porno). Il titolo in questione è La monaca nel peccato (1986) con protagonista una giovane e discinta Eva Grimaldi. Si tratta di un B-movie catalogabile come nunsploitation, dove il romanzo di Diderot è solo un pretesto per mettere in scena suore lesbiche e sadiche.

Fabrizio Luperto

mercoledì, settembre 25, 2013

CULT MOVIE: Pat Garrett and Billy the Kid


di: S. Peckinpah
con: J. Coburn, K. Kristofferson, R. Jaeckel, B. Dylan, S. Pickens, K. Jurado, J. Robards. J. Elam, R. G. Armstrong.

USA 1973
106 min.

La fragilità o la consistenza di una storia si misura anche - se non soprattutto - dalla frequenza con cui viene raccontata. Tralasciando di proposito il versante letterario che, per così dire, fatalmente, ha concorso all'edificazione di una piccola quanto inossidabile mitologia e restando al mondo delle immagini, la vicenda che pone al centro i destini prima solidali e poi discordi di Pat Garrett e Billy the Kid conta oltre una ventina di lavori per il grande schermo e nessuno sa bene quante riduzioni singole o seriali per la televisione.

Henry McCarty alias Henry Antrim alias William Harrison Bonney alias Billi the Kid (1859 - 1881) e Patrick "Pat" Floyd Garrett (1850 - 1908) incrociano la propria strada con quella di un personaggio altrettanto singolare e spigoloso come Sam Peckinpah agli inizi degli anni Settanta, quando la cosiddetta "New Hollywood" stava muovendo i primi passi e il regista californiano di San Joaquin Valley ne stava già prendendo le misure se non addirittura le distanze: "Non ho idea" - dichiaro' Peckinpah - "in quale rapporto io sia col 'giovane cinema americano' e me ne fotto. Quello che spero e' di fare dei film all'altezza di quelli dei registi che rispetto". Cantore del lato oscuro di un lirismo ancorato a valori considerati desueti - lealtà, coerenza, coraggio, fermezza di fronte alla morte - ma mai incline all'agiografia o a una nostalgia spicciola e consolatoria, quanto profondamente interessato alla condizione dell'animale-uomo in un contesto in rapida, pressoché incontrollabile e con ogni probabilità irreversibile trasformazione, Peckinpah guarda alle figure dei due ex amici, per certi aspetti apparentati - sebbene in uno scambio brutale e alla fine funesto - in un legame padre-figlio, così come in un itinerario prospettico simmetrico ma di segno opposto (Garrett come un Billy invecchiato e compromesso; Billy ancorato ad una irrequietezza senza via di uscita come esorcismo alla "corruzione" di Garrett) fuori da ogni connotazione leggendaria potenzialmente rassicurante (lasciata in parte allo splendore della messinscena e all'aspra magnificenza dei luoghi), a dire, nella loro dimensione umana, con tutto ciò che essa implica in fatto di viltà, testardaggine, slanci senza calcolo, risoluzioni a lungo termine che proprio nel calcolo, nell'opportunismo, trovano la loro ragion d'essere, coronando alla fin fine la complementarità di fondo dei due uomini, di ciò che sembrava allontanarli su direttrici opposte. Il desiderio manifestato più volte da parte di Garrett con l'espressione "Il paese sta invecchiando e io intendo invecchiare con lui", parla, cioè, la stessa lingua, seppur con tono diverso, del Billy cocciutamente aggrappato al suo disegno anarchico tardo adolescenziale mascherato da allergia verso i soprusi dei grandi proprietari terrieri spalleggiati dalla Legge (simboli, questi, dell'Autorita', del Denaro e della frenesia conquistatrice dell'incipiente Progresso). Le due istanze, in altre parole, calate nella carne di un mondo che dell'epopea western conserva poco o niente - povero, sporco, quasi senza parole e infido qual e' - e che a grandi passi (a dire, con un suo inquietante ottimismo non esauribile nell'interesse materiale dei soliti pochi ma ascrivibile, forse, a viluppi interiori ancora in buona parte oscuri e che soprattutto riguardano ognuno di noi), si sta consegnando alla Modernità, appaiono come riflessi condizionati sovrapponibili quanto fondamentalmente inefficaci, nei confronti dei quali, quella carne, quel mondo, sebbene colti entrambi ancora sul crinale di una mutazione decisiva, già promettono di metabolizzare tanto le smanie senili d'integrazione dell'uno quanto le convulsioni ribellistiche dell'altro entro la medesima indifferente irrilevanza.

Quando Garrett (un James Coburn subdolo e spiccio nella sua latente "rigidità" di inflessibile uomo di legge minato dal tarlo di dover sostanziare con una patente di "legalità" il tradimento dell'Amicizia), dice a Billy (un Kris Kristofferson guascone e provocatore così come indifferente se non persino ignaro delle conseguenze innescate dai suoi comportamenti): "Le cose sono cambiate", per sentirsi rispondere: "Le cose sono cambiate. Io no", ci troviamo di fronte alla certificazione di una sconfitta che va molto al di la' delle traiettorie personali dei protagonisti ma abbraccia - ecco uno dei rovelli di Peckinpah - un modo stesso di stare al mondo, nel senso che affermazioni del genere, con tutto il loro portato psicologico, emotivo e "culturale", nell'orizzonte prossimo venturo, ad esempio di una ricchezza talmente opulenta da essere insensata a cui si giustappone una miseria ridotta ad atroce agonia, non possono essere più formulate, se non come detonatori di azioni via via sempre più irrimediabili (il sopruso, il fatalismo, la delazione, l'intenzionale ricerca del pericolo, la trappola) o come materiale da consegnare alla rilettura postuma di un ipotetico aedo sagace (nel caso, il Bob Dylan/Alias discreto ma attento osservatore del dipanarsi/precipitare degli eventi). Lo stesso: nell'istante in cui Katy Jurado accompagna con lo sguardo in lacrime Slim Pickens colpito a morte sullo sfondo di un imperturbabile tramonto bluastro, da un lato muore il western come lo abbiamo sempre conosciuto - o magari sognato o anche odiato, irriso -; dall'altro resta - ma per quanto ancora ? - la forza di una miscellanea di forme e colori irriducibili, di spazi senza tempo, di silenzi risolti nel loro millenario e misterioso succedersi, prima che anche tutto questo venga violato dall'ultima e forse definitiva "modernizzazione".

Per tale motivo nel film non c'è quella inerzia febbrile, quella frammentazione particolare che imprimeva un ritmo inesorabile ad opere come "Il mucchio selvaggio" (1969), con le sue celeberrime tremilaseicento e passa inquadrature. Qui, ora, e' possibile altresì "rallentare", guardarsi meglio intorno (i dettagli secondo la fantasmagoria cromatica giocata da John Coquillon in specie sull'ocra, sugli scuri "pieni", sui riflessi bronzei), come per comprendere una volta per tutte - anche secondo i parametri della scala dei colori, quindi in ragione degli sfondi, le penombre, i riflessi, i riverberi, i giochi più o meno falsi - ciò che si sta perdendo o si sta contribuendo a distruggere. Ora e' tempo di asciugare l'elegia accordandola alle scansioni meste della ballata ("Knockin on heaven's door"); riconoscere la sconfitta (Billy finge di credere che Garrett lo stia raggiungendo per un bicchiere assieme), trattenere il respiro e predisporsi alla morte. Morte che sancisce l'esecuzione di un "contratto" ma non risolve nulla (Garrett appena freddato Billy disarmato - disgustato e sconvolto - impedisce allo sgherro di Chisum - il boss dei proprietari terrieri - di scempiarne il corpo). Morte che ti lascia vivo e t'imbeve di rimorso, appiccicoso e contundente, come i sassi che un ragazzino ti lancia contro mentre ti allontani a cavallo verso una frontiera (personale, materiale/spirituale) che non esiste più.


TFK

lunedì, settembre 23, 2013

The Grandmaster

The Grandmaster
di Wong Kar-wai
con Toni Leung, Zhang Ziyi
Cina, Hong Kong
Genere, biografico, drammatico
Durata, 130'


Il ritorno al cinema di Wong Kar-wai è sempre un evento. Salutato come uno dei numi tutelari della settima arte all'indomani de "In The Mood For Love" cinemelò considerato dagli esperti come una delle opere più belle mai apparse sugli schermi, Wong si è trovato da quel momento in poi a fare i conti con una fama che ne ha in parte condizionato l'ispirazione, imbrigliandolo in una serie di scelte lavorative a dir poco complicate tanto sul piano estetico ("2046" seguito irrisolto di "In the mood") che su quello produttivo, che lo hanno visto approdare addirittura in America con la direzione di "Un bacio romantico" (2007) passato alla storia più per l'esordio d'attrice della cantante Norah Jones che per la riuscita artistica. Si capisce quindi l'attesa per un film come "The Grandmaster" sul quale pesavano le aspettative dei molti cinefili, ansiosi di verificare le condizioni di "salute" del regista. Progetto a lungo pensato "The Grandmaster" giunge sugli schermi dopo quasi due anni di riprese e tre anni complessivi di lavorazione tormentata da dubbi e continui cambi di direzione conclusi con una sensibile riduzione del minutaggio originale (130' invece che le 4 ore del primo montaggio).


"The Grandmaster" è la biografia romanzata di Yip Man, (il bravissimo Toni Leung) noto maestro di arti marziali diventato famoso anche in occidente per essere stato il maestro di Bruce Lee. Nel raccontare i passaggi salienti della sua esistenza Wong ci porta nella Cina degli anni 30 quando Yip viene scelto per succedere a Gong Yutian, il venerabile maestro che aveva unito le scuole di nord e sud della Cina. Una successione contrastata da Gong Er, (la Zhang Ziyi di "Memorie di una Geisha"), la figlia di Yutian che però dopo un mirabile duello finisce per innamorarsi di Yip dando il via ad uno di quegli amori impossibili (Yip è felicemente sposato e padre di tre figli) che costituiscono uno dei temi forti di tutto il cinema del regista di Hong Kong. Una consapevolezza che porterà i due protagonisti ad attraversare separatamente la storia del proprio paese nel frattempo impegnato a confrontarsi con gli eventi della Storia:dall'invasione del nemico giapponese destinato a conquistare la parte nord della Cina, alla seconda guerra mondiale, fino alla grande rivoluzione maoista che avrebbe cambiato per sempre il volto della nazione.
A scanso di equivoci va detto fin da subito che "The Grandmaster" non è un film di Kung- Fu perchè Wong Kar-wai pur mettendo in scena le vite di coloro che ne furono grandi interpreti, e quindi contaminando il suo cinema con inserti dedicati all'esibizione di quella tecnica attraverso spettacolari combattimenti mantiene intatto il suo interesse per le cose dell'animo umano. Ed è proprio l'aspetto emotivo a farla da padrone, da una parte riversandosi sulla relazione mancata tra Yip e Gong Er e su un desiderio che si trasforma in ammirazione e rimpianto, dall'altro incarnardosi nella nostalgia malinconica del regista per un epoca di uomini e di valori leggendari, e per questo irripetibili. Quello che ne viene fuori è un film di atmosfere rarefatte e sospese, in cui la maestria del regista emerge come al solito nella capacità di attribuire al divenire del tempo i significati di un intimità altrimenti inesprimibile. Da qui il procedere per elissi e l'ampio uso di rallenti che uniti ad una fotografia dominata dal buio e dall'oscurità riescono a rendere visibili i recessi più nascosti dell'animo umano. Una maestria che però non salva Wong Kar wai dall'empasse artistico delle ultime opere che qui emerge dalla difficoltà di armonizzare la forma del suo cinema con i contenuti della storia di Yip Man, frammentata in una serie di momenti che faticano a stare insieme. Lacunoso in molti passaggi (forse per effetto del montaggio che ha tagliato scene di raccordo) fin troppo estetizzante nel modo di mettere in relazione i personaggi all'ambiente, "The Grandmaster" a fronte dei suoi molti sforzi non riesce però a raggiungere il pathos necessario a spezzare il cuore. E' inevitabile restare delusi così come continuare a rimpiangere il regista che fu.

venerdì, settembre 20, 2013

Rush

Rush
di Ron Howard
con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino.
Usa 2013
genere, drammatico
durata 123'

La velocità di “Rush” non è solo quella supersonica riferita ai bolidi della formula uno ma appartiene anche al divenire della storia che fa sembrare lontano anni luce l’epoca in cui Niki Lauda e James Hunt si sfidavano per conquistare il titolo mondiale. A far la differenza con la versione odierna del circuito automobilistico era l’importanza della guida, non ancora subordinata alla perfezione tecnologica ma soprattutto l’incidenza dell’errore umano, svincolato dalle misure di sicurezza che successivamente avrebbero garantito una drastica diminuzione delle morti in pista. Questo per dire che la scelta di Ron Howard di privilegiare il confronto dei caratteri e l’umanità dei piloti rispetto al mondo che gli stava attorno sia dovuto in larga parte dalla constatazione che il fascino delle gare automobilistiche doveva quasi tutto a chi stringeva il volante e sfidva la morte pur di conquistare l’ambito riconoscimento. E’ con questa consapevolezza, messa sulle labbra di James Hunt ad inizio film, che il regista sulla scia della cronaca e dei fatti cronaca dei fatti che portarono al fatidico gran premio del Giappone del 1976 in cui Lauda ancora convalescente per l’incidente del nurbungring decise di sfidare il rivale nell'ultimo appuntamento della stagione, preferisce soffermarsi sul privato dei duellanti ripercorrendo le tappe che anno dopo anno scandirono le fasi salienti del loro rapporto: dal primo incontro nei campionati di formula Kart all’approdo nella formula maggiore dove riuscirono a conquistarsi un posto al sole alla guida di Ferrari e MacClaren, Howard ne sottolinea la diversità temperamentale – Lauda razionale ed ombroso, Hunt estroverso ed istrionico – ma anche i punti di contatto – entrambi furono sconfessati dalle rispettive famiglie che non capivano la loro passione per le quattro ruote – avendo cura di inserire il materiale autobiografico in un contesto di credibilità cronologica e sportiva. Girato con stile classico e contaminato da pulsioni di cinema blockbuster, evidente nelle sequenze sportive realizzate con immersione sensoriale,  montaggio frenetico ed andamento sincopato, “Rush” può contare su un’ emotività che gli deriva dalla particolarità di una vicenda che non lascia indifferenti. Quello che non convince è però il modo con cui il regista decide di metterla in scena. Costretto per forza di cosa a semplificare, Howard prosciuga le psicologie dei personaggi raggrumandole in una serie di tic e atteggiamenti di segno opposto, enfatizzati dal pathos dello sfondo in cui si muovono ed agiscono i protagonisti. Cristallizzato su questo schema, con brevi schizzi dei rispettivi entourage lavorativi e famigliari a completare il quadro (ad Enzo Ferrari seduto a bordo pista è riservato il tempo di un fotogramma) il film procede sicuro ma scontato, accumulando un overdose di scene madri che Howard appesantisce con tempi dilatati ed eccessi acustici. Prodotto insieme a Brian Blazer (“Il codice Da Vinci”, “Angeli e Demoni”) “Rush” testimonia la definitiva trasformazione di un regista che ha rinunciato al cinema personale ed intimo degli anni 80 (“Splash”, “Cocoon”) per abbracciarne un altro di più facile presa e remunerazione. Opzione legittima per un regista ormai affermato, ma penalizzante in termini di idee ed inventiva. 

giovedì, settembre 19, 2013

A proposito di "300"


di: Z. Snyder
con: G. Butler, L. Heady, D. Wenham


Ci sono film che sembrano fatti apposta per suscitare polemiche al di la' di meriti e demeriti reali: "300" di Zack Snyder (da poco riproposto sul piccolo schermo) e' uno di questi. Prodotto nel solco della più recente tendenza hollywoodiana di sfruttamento intensivo dell'universo supereroistico e dei comics in generale, "300", parossismo digitale applicato stavolta ad un evento storico - il disperato tentativo messo in atto al passo delle Temopili nel 480 a. C. da un manipolo di spartiati guidati da Leonida di bloccare l'avanzata dell'esercito persiano di Dario - già appena arrivato nelle sale, aveva ottenuto il duplice risultato di un buon successo di pubblico e l'alzata di sopracciglia di una consistente fetta della critica.

Ora: con quel certo sorridente candore - a meta' tra faccia tosta e sana incoscienza - che spesso contraddistingue i cineasti americani (ma non solo loro), Snyder dichiaro' più volte di aver voluto costruire uno spettacolo il più possibile aderente all'impostazione e alla struttura delle tavole dell'omonima opera di Frank Miller. Un po' la stessa (furba) motivazione addotta da Robert Rodriguez ai tempi di "Sin city", sempre su soggetto di Miller. E' di una trasposizione, pertanto, che ci accingiamo a parlare, non di un'opera cinematografica autonoma. E come sovente accade quando ci sono di mezzo le trasposizioni, crescono le diffidenze, se non le ostilità aperte, non foss'altro per l'imbarazzo che si prova al momento di stabilire fino a che punto pregi e difetti appartengono alla forma di espressione primaria o alla sua filiazione, e tralasciando l'eterna diatriba su quanto il cinema dovrebbe "dire" e non limitarsi a "trasporre". Tradizionalmente era il linguaggio a dirimere (in parte) la controversia. Si diceva: la pagina scritta/disegnata e' una cosa; il film un'altra. In realtà, l'affermazione oggi come oggi vale quasi solo in teoria, almeno se si conviene che buona parte del linguaggio cinematografico, quello d'avventura di sicuro, risulta strettamente connesso - molti dicono ormai ostaggio - all'innovazione tecnologica. Il nodo ai giorni nostri, ed e' un paradosso, e' la capacita' di "mostrare tutto", di rendere filmabile l'impossibile, al punto da spingere spesso il resto - la storia, i personaggi, le inquadrature, le scelte stilistiche - ai margini. Ed in effetti, quando si dispone di mezzi tali da rendere verosimile a colpi di software l'avanzata di un esercito sterminato, la riproduzione dettagliata (non importa quanto "falsa") di un'antica città o lo schiantarsi di una flotta da battaglia sulla costa causa un terribile mare in burrasca, la "messinscena" diventa una scommessa vinta in partenza, così come si fa secondario se non superfluo lo stare troppo a sottilizzare sull'artificio di far recitare gli attori di fronte a quinte virtuali o il ricorrere a trucchetti - questi si' triti - tipo scene in ralenti esasperato al limite del fermo immagine. Insomma: il verme e' già nella mela. Di più. Per assurdo - ma nemmeno tanto - in un contesto del genere si arriva a sospettare addirittura inutile il ruolo della trama; accadimenti, a voler essere cinici, ignorati (o malamente maneggiati, se non proprio fraintesi) dalla stragrande maggioranza di coloro che formano il bacino naturale di un film come questo (pensiamo alle "competenze storiche" dell'adolescente medio, non necessariamente americano). Ciò che conta, allora, in questa sede, il perno critico attorno a cui far ruotare le valutazioni - valutazioni in molti casi plausibili, in certi persino condivisibili me sempre, comunque, per quello che si e' detto, fuori tempo massimo, e che vanno dall'ambiguità ideologica all'enfasi guerresca sempre in bilico sul crinale di un'ottusa esaltazione della "bella morte"; da una sostanziale piattezza narrativa alla pressoché totale mancanza di spessore psicologico dei personaggi - non può che essere la "resa" visiva. E questa resa c'è, seppure a tratti, seppure condizionata dalla freddezza della "macchina". "300" dura poco più di due ore e per buona parte di esse gli occhi rimbalzano su lance e spade; incontrano i corpi seminudi e prestanti dei soldati aggrovigliati nella lotta - lordi di sangue o sporchi di terra - che hanno un loro indubbio fascino plastico, virile e animalesco, per quanto esagerato e tutto di superficie: e' la parte più "viva" del film. Qui la computer grafica pare ancora al servizio (o forse, semplicemente, e' ancora un po' in ritardo) di una serie di gesti non del tutto sequenziati, gesti "umani", cioè.

Le trame politiche in seno a Sparta, invece, i momenti di rifiato tra un'offensiva e l'altra, il paesaggismo ipercromatico sospeso tra idealizzazione di un tempo arcaico, brutale ma puro e un cupo incombere di destini ineluttabili, ma così pure la gran parte degli stessi dialoghi, operano come meri riempitivi - accidenti, difetti di programmazione, verrebbe da dire - per cui la tecnica digitale la fa veramente da padrona e acuisce il timore che il modello classico di "narrazione avventurosa" sia sul serio morto e sepolto o, quanto meno, sotto tenda ad ossigeno... Si e' parlato a proposito di "300" di "colonizzazione dell'immaginario". Ebbene, se colonizzazione esiste, essa appartiene alla Modernità nel suo complesso. Ha iniziato la sua marcia diversi decenni fa e ha trovato nel Cinema un alleato potente, magari, ma tutto sommato accessorio. La fabbrica dell'intrattenimento non e' che una delle tante facce di un mondo che ha scelto (?) di affidarsi alla tecnologia, con tutto ciò che di promettente e di oscuro questo comporta.



TFK

mercoledì, settembre 18, 2013

L'arbitro

L'arbitro
di Paolo Zucca
con Stefano Accorsi, Gepy Cucciari, Benito Orgu
Italia 2013
genere, commedia
durata, 96'


Il titolo del film con i rimandi alla commedia boccaccesca dei vari Lando Buzzanca e Renzo Montagnani contribuisce non poco a confondere le acque. Eppure "L'arbitro" di Paolo Zucca pur rientrando nel contenitore assai vasto della commedia dirada fin da subito ogni dubbio sulla sua paternità, andandosi a cercare i propri modelli nell'opera degli autori nobili del genere, quelli che hanno reso grande il nostro cinema, e poi per tornare ai nostri tempi a quella dei Cipri e Maresco di "cinico tv". Di fronte a noi infatti abbiamo non solo un ritratto di costume della nostra società ma anche l'idea di un italianità spogliata degli antichi fasti e sepolta da un cumulo di conflitti e di macerie. Per rappresentarla l'esordiente Paolo Zucca sceglie la Sardegna, e la rivalità tra due squadre di calcio dilettantistiche, il Pabarile ed il Montecrastu, destinate ad affrontarsi in una partita di calcio che dovrà decidere le sorti del campionato e soprattutto la leadership di una delle due confraternite. Come in una valigia a doppio fondo Zucca si concentra sulle dinamiche relazionali che porteranno allo "scontro" decisivo alternandole con le vicissitudini di Cruciani, arbitro di livello internazionale impegnato a garantirsi con ogni mezzo la finale di una grande competizione europea. Apparentemente lontane per ambizioni e luogo geografico le due vicende sono destinate ad incontrarsi in un finale tragicomico dopo aver sciorinato da ambo le parti la propria dose di miserie e nobiltà ed aver esibito una galleria di "brutti sporchi e cattivi" da museo lombrosiano.


Fotografando la sua storia con un elegante bianco e nero Paolo Zucca raggiunge fin da subito due obiettivi: il primo, di ordine estetico, gli permette di stabilire un equilibrio formale che influenza non solo la composizione delle singole inquadrature, caratterizzate da un controllo e da una ricercatezza veramente sui generis per un prodotto del genere, ma anche le psicologie dei personaggi, tutte quante, anche quelle più estreme (da Brai, mefistofelico possidente terriero a Prospero, allenatore non vedente) tratteggiate con un sorta di fiero pudore che fa da contraltare al climax parossistico di alcune situazioni: basterebbe pensare  alla sequenza d'apertura giocata sul filo del rasoio e della sfida con un confronto di sguardi da cinema western, oppure alle reazioni di Cruciani rispetto al rovescio che rischia di mettere fine alla sua carriera. Il secondo invece, più legato ai contenuti è utilizzato per collocare la vicenda in uno spazio temporale indefinito, particolare ed insieme universale, in cui Zucca fa confluire una serie di suggestioni che rappresentano la parte più interessante del film. Puntando i riflettori sulle gesta atletiche di Matzutzi, il figliol prodigo tornato a casa per esibire il proprio talento calcistico nelle file dell'atletico Pabarile, Zucca si costruisce il movente per giustificare una serie d’intermezzi che si rifanno ad un repertorio raffinato e stravagante di cui il calcio è solo un pretesto: dalle atmosfere del ventennio ricordate dalle musiche dell'epoca ("Vivere", di Cesare Andrea Bixio) e parodiate con sequenze che alla maniera dei filmati dell'istituto luce trasformano un allenamento arbitrale in un esibizione della gioventù fascista, a squarci che sembrano omaggiare l’epoca del muto con Accorsi trasformato in un Rodolfo Valentino dei campi di calcio, e poi ancora tormentoni da cinema non sense che fanno il verso alla laconicità del popolo sardo ed al suo essere "mondo a parte" nella cadenzata propodizione del botta e risposta tra due ignoti pastori.

 
Sulla falsa riga dell’affermazione messa in bocca al sanguigno allenatore del Parabarile “Il pallone è aria rivestita di cuoio”  poi ribadita da una sequenza finale (il goal realizzato con un pallone inesistente) che sembra dirci come l’esistenza sia soprattutto un fatto mentale, Zucca parte da elementi reali - il paesaggio sardo e la sua wilderness, l’umanità ferina e tracotante scolpita nelle espressione di volti che sembrano rispecchiare la bellezza senza compromessi di quella terra, le partita di calcio con i suoi risultati -  e poi li trascende con una narrazione che diventa a tratti grottesca, altre volte surreale, e che nel personaggio di Cruciani, titolare di una religiosità utilizzata come doping motivazionale intercetta quella commistione tra sacro e profano, farsa e tragedia che da sempre costituisce uno dei cardini della commedia all'italiana ed insieme l'anima più vera del nostro paese. In questo senso l'esordio di Zucca dimostra un ambizione corroborata solo in parte dai risultati. Se infatti originalità e talento visivo riescono a condensare in maniera equilibrata la varietà degli ingredienti impiegati così non succede sul piano della scrittura che forza le psicologie dei protagonisti per far convergere i due filoni della storia, se ne dimentica qualcuno per strada ( la Miranda di Gepy Cucciari per esempio) e che non riesce a fornire una drammaturgia capace di arginare la preponderanza dell'impianto formale. A risentirne è la temperatura emotiva del film attraversato da passioni e sentimenti che non riescono mai a raggiungere il cuore dello spettatore.


domenica, settembre 15, 2013

Come ti spaccio la famiglia

Come ti spaccio la famiglia (We're the Millers)
di Rawson Marshall Thurber
con Jennifer Aniston, Jason Sudeikis, Emma Roberts,
Usa 2013
genere, commedia
durata, 110'



"We're the Miller" potrebbe essere il tormentone destinato a diventare il marchio di fabbrica di una serie dedicata alla sgangherata "famiglia" inventata da Rawson Marshall Thurber nell'omonimo film. Uno squillo di tromba che preannuncia la cagnara, sul tipo di quello introduceva le avventure di serie come i Flistones, la famiglia Addams e gli stessi Simpson. A pronunciarlo è David Clark, spacciatore caduto in disgrazia che tenta di risalire la china offrendosi come corriere di un grosso quantitativo di droga che gli sarà consegnato da un potente cartello messicano, e che dovrà far passare attraverso la dogana che separa gli Stati Uniti da quel paese. Una missione quasi impossibile che però David affronta insieme al suo surrogato familiare messo in piedi in fretta e furia allineando nei ruoli di moglie e figli una stripper in cerca di soldi (Jennifer Aniston in un ruolo che riprende quello da lei interpretato ne "Come ammazzare il capo e...vivere felici!", 2011) e due ragazzini bordeline. Nelle intenzioni dell'uomo, la famiglia dovrebbe aiutarlo a depistare i sospetti dei poliziotti, assicurando a lui ed i suoi accompagnatori una lauta ricompensa. Trattandosi di una commedia costruita per sbancare il botteghino ne succederanno di tutti i colori e il paradiso perduto non sarà facile da riconquistare.
Rawson prende di mira la famiglia americana e lo fa disegnando un modello esattamente opposto a quello sbandierato dalla propaganda prezzolata. Se infatti la morale dominante è monopolizzata dall'uso ad oltranza di un galateo delle buone maniere falso e stucchevole, quello di "We're the Miller" è fatto apposta per metterne il risalto l'ipocrisia, con mamme sboccate che baciano i figli per iniziarli ai preliminari amorosi e ragazzine che potrebbero insegnare la stessa cosa ai propri genitori. Insomma una vera e propria rivoluzione, ammicante e divertente, che mette insieme quanto basta per organizzare una commedia degli equivoci sviluppata su un impianto da road movie che metterà a dura prova l'equilibrio di un contraltare conservatore e puritano rappresentato dalla famiglia Fitzgerald, incontrata dai Miller durante il loro viaggio. Reso divertente da situazioni esilaranti tanto nelle parti più dinamiche, quelle in cui David ed il resto del gruppo si dovranno sottrarre alle cattive intenzioni del boss e dei suoi scagnozzi, quanto nelle schermaglie che permetteranno al neo-nucle familiare di liberarsi dallo stress della forzata convivenza, "We're the Miller" oltre ad avere in dote una "mostruosità" storicamente necessaria per sperare di passare ai posteri, si avvale di un cast eterogeneo che esalta l'empatia di Jason Sudeikis, conferma la versatilità di Jennifer Aniston e ribadisce la forza dei casting americani, anche in questo caso capaci di allineare tra le sue fila un attore come Nick Offerman nei panni di Don Fitzgerald, azzeccatissimo nel proporre una versione rinnovata e corretta del redneck americano, pronto a sparare quando ce n'è bisogno ma convinto di doversi adeguare al proprio tempo e ai suoi cambiamento culturali, con risultati che il film di Thurber ci farà scoprire con più di una sorpresa. Presentato a Locarno come proiezione fuori concorso, nella cornice della Piazza Grande, e in concomitanza con l'uscita americana, "Come ti spaccio la famiglia" - traduzione italiana del titolo originale all'insegna del cinepanettone - potrebbe rappresentare la sorpresa dell'estate americana risollevando le sorti di un'annata in cui le artiglierie degli studios hanno sparato parecchi colpi a salve. Staremo a vedere. Nel frattempo nella cittadina svizzera la pellicola ha fatto ridere cinefili e spettatori occasionali: il tempo ci dirà se abbiamo avuto ragione.

(pubblicata su ondacinema.it/speciale 66° Festival di Locarno)

venerdì, settembre 13, 2013

Film Telecomandati: MIAMI VICE


"Miami vice"/id.
di: M. Mann
con: C. Farrell, J. Foxx, G. Li

- Ger/USA 2006 -
135 min.


Se il noir e' stato spesso chiamato in causa per illustrare i mutamenti di orizzonte, gli scarti e i lati più oscuri della società occidentale contemporanea, Michael Mann - nel caso con "Miami vice", anche e soprattutto per il consolidarsi nel tempo delle sue insolite vie di fuga - ha conquistato "sul campo" lo status di testimone fra i più attendibili. Se il Male ha vinto, infatti, Mann lo sa. E lo sa a tal punto che non deve nemmeno fingere di voler rinnovare le regole di uno dei generi americani per eccellenza: il poliziesco. Gli e' sufficiente depurare una sua intuizione datata anni '80 della crosta "glam" e far prevalere sulla narrazione classica una fluida successione di eventi, ovvero abbandonare la Storia e lasciare che la Modernità faccia il suo corso fino in fondo. Che la Storia come concatenazione di episodi che si succedono in vista di un fine fosse una trama quasi del tutto logora era noto a Mann sia dai tempi di "Heat" (1995) - tentativo liminale di affresco orchestrato da due individui ossessionati dalla precisione, dal lavoro-ben-fatto - e aveva mostrato la profondità delle sue crepe nel cupo e sottovalutato "Collateral" (2004), prova generale (nonostante il ruolo ancora "attivo" del killer Tom Cruise impegnato, sullo sfondo di una città gelida e ostile, in una "missione da compiere") della definitiva messa in scena di un mondo le cui logiche e i cui equilibri non sembrano dipendere più dalla volontà umana. In "Miami vice" tutto questo viene dato per scontato, come e' ovvio che lo scopo ultimo delle azioni e' la perpetuazione del meccanismo che le rende possibili, nel caso il gioco del gatto col topo tra i detectives Farrell/Foxx della narcotici di Miami e l'onnipotente/onnipresente cartello del narcotraffico, così inafferrabile ma al tempo così integrato in ogni piega della società da sembrarvi connaturato. In definitiva il Male e' proprio questo: la constatazione di un arretramento di ciò che e' umano di fronte all'ingranaggio accumulazione/distruzione che controlla tutto, prevede tutto, dall'alto di una razionalità infallibile in rapporto alla quale l'uomo si riduce ad esecutore o viene schiacciato...

Dall'una come dall'altra parte di barricate in fondo fittizie (chi può dire - dire davvero - dove finisce il Potere Economico, quello Politico, quello dei Media e comincia il Crimine ?) si agisce non in forza di valori astratti - la legalità, la giustizia o il potere, il successo - o per slanci individuali - l'onesta, la lealtà, la convinzione di operare in difesa di principi condivisi; così come la mera avidità, il desiderio d'imporsi purchessia, il gusto del rischio - ma per un'inerzia affine alle oscillazioni del pendolo per cui a dei protocolli, a delle procedure, a degli schemi (le indagini sotto copertura, la necessita' di stratificare i livelli di segretezza, il coordinamento delle forze, per i "Buoni"), se ne oppongono degli altri (l'estrema sofisticazione tecnologica, la spietatezza dei rapporti interni ai clan, la capacita' di penetrare qualunque mercato, per i "Cattivi") e la differenza e' data non dalle montagne di dollari o dai morti lasciati sul terreno ma dalla certezza che a questo sistema, giunto ad una quadratura pressoché assoluta, non c'è più alternativa. Se "Buoni" e "Cattivi" sono forse sempre state definizioni di comodo, qui diventano addirittura notazioni accessorie: l'"umano" e' stato scalzato da anni ormai; quantomeno non sta più al centro delle questioni che contano. Ora il ritmo delle cose e' scandito da un cuore artificiale assemblato con gl'intrecci infiniti delle quotazioni di Borsa, con la precisione asettica dei computer, con le informazioni a copertura globale: cuore che più batte, più si espande, più esclude il resto. Non e' un caso, allora, che si parli poco in "Miami vice", e per frasi in genere brevi e stereotipate. A guardar bene, si spara anche poco, il che e' singolare in un film americano di "poliziotti e banditi". La violenza e' strettamente necessaria, puro mezzo di eliminazione degl'intoppi, ago della bilancia. Scarseggia la spettacolarizzazione, quindi. Del tutto assente e' il compiacimento. Più di ogni altra cosa, ci si adatta alla prassi e quando arriva il momento, si reagisce. Durante le attese, gli uomini si muovono in ambienti sempre o troppo rumorosi o troppo spogli. Si guardano di rado, dialogano ancor meno. Digitano sui terminali, maneggiano cellulari, riempiono sacche in fetta, controllano armi. Vestiti di tutto punto in abiti costosi, sono a disagio: e' l'implacabilità del pendolo. Le sue ragioni non lasciano spazio per altro.

Film dentro ai tempi al punto da essere inattuale, "Miami vice" supera il nichilismo di tanto cinema finto polemico e guarda al reale come automatismo "perfetto" e inesorabile in cui non ci sono più valori da negare ma in cui si può solo funzionare, e chi non funziona o non fa testo o viene travolto. Cosa resta, allora ? L'attrazione, dice Mann, il grado zero della sensibilità: il corpo. Quegli istanti - lucrati ad un apparato a suo modo completo e autosufficiente - in cui i corpi si cercano, si toccano, si ostinano a dire che non tutto e' vano. E di odori e di pelle, di fatto, si nutre la liaison Farrell/Li, brutale e autentica, per quanto nata già con la data di scadenza incisa sopra: estenuazione di una fine che, pur eternamente al lavoro, ha risacche di sapore dolce, prima che il gelo "razionale" del mondo si richiuda per sempre e anche l'inatteso di un incontro finisca tra le varianti prevedibili di un gioco senza scampo.

("Miami vice", venerdì 13/09, IRIS, ore 21 ca.)


TFK

Il potere dei soldi

Il potere dei soldi
di Robert Luketic
con Liam Hemsworth, Amber Heard, Gary Oldman, Harrison Ford
Usa 2013
durata, 115'

I sogni, almeno al cinema, hanno sempre un prezzo da pagare. Se poi si tratta di quelli made in Usa allora la posta in palio di alza a dismisura così come il dispendio di energie fisiche e psicologiche necessarie a tenerli in vita. Sarà forse questo il motivo che ha spinto Robert Luketic ad affidarsi a Liam Hensworth, attore in ascesa ma soprattutto emblema di una mascolinità all'insegna del benessere e della forma fisica. Qualità che il film prende in prestito senza preoccuparsi di inserirle in un contesto di credibilità rispetto alla routine esistenziale di un personaggio, Adam Cassidy, totalmente avulso da qualsiasi preoccupazione riguardante fitness ed esercizio fisico. Una tendenza che caratterizza anche la controparte femminile nella persona di Emma Jennings, intepretata da un affascinante Amber Heard, smagliante e sempre in tiro a qualsiasi ora del giorno e della notte. Particolari secondari ma indicativi per affermare che un film come "Il potere dei soldi" non nasce all'insegno dell'attendibilità e della verosimiglianza. Elementi su  cui Luketic preferisce sorvolare per concentrarsi invece sulla struttura del film, elaborata per corrispondere ad una versione moderna della parabola del figliol prodigo, declinata sulla falsa riga di un capodopera come "Wall Street" (1987),  ripreso non solo nell'ambientazione finanziaria e sociale ma soprattutto nella dialettica tra bene e male rappresentata dal rapporto tra allievo e pigmalione. Adam Cassidy come Bud Fox e la coppia di mogul Wyatt e Goddard a fare il verso in termini di perfidia e di cinismo al mitico Gordon Gekko sono infatti i protagonisti di questo thriller ambientato nel modo dell'industria tecnologica che prede spunto da uno dei temi più caldi di questa stagione americana, quello del diritto alla privacy, per orchestrare un feuiletton di tradimenti e sensi di colpa che rimandano ad un antico torno subito da Wayatt, sedotto ed abbandonato da Goddard, e per questo intenzionato a vendicarsi dell'antico mentore sfruttando l'empatia di Cassidy costretto a stare al gioco a causa di uno sporco ricatto. Tratto da un romanzo (Paranoia di J. Finder) di un certo successo, "Il potere dei soldi" riduce la componente tecno, con passaggi che suggeriscono più che mostrare l'invadenza del potere tecnologico ed i suoi riflessi sulle esistenze dei protagonisti. A prevalere più che altro è il confronto di caratteri e di recitazione di personaggi ed attori, con Luketic reattivo nel mettere in mostra l'eccezionalità del suo cast, in cui spiccano monumenti attoriali come Richard Dreyfuss, Harrison Ford e Gary Oldman ma anche new entry, seppure un pò sacrificate, come Amber Heard nel ruolo dell'affascinante Emma Jennings di cui Adam non tarderà ad innamorarsi, e poi di Josh Holloway il Sawyer di "Lost" in quello dell'agente Gamble. A differenza di altri lavori Luketic ridimensiona le sue pretese di regia accontentandosi di offrire primi piani alle sue star e riducendo al massimo il virtuosismo della macchina da presa. Il film scorre senza eccessivi intoppi ma con poco coinvolgimento. A finire sul banco degli imputati è soprattutto una sceneggiatura scritta con il bilancino, attenta a confermare le aspettative dello spettatore nei confronti dei diversi ruoli e per questo incapace di uscire fuori dai binari di un'ordinata routine. Se contiamo poi che la love story tra Adam ed Emma più che riscaldare gli animi è il sotterfugio puritano per aprirsi ad un finale di bontà e di ravvedimento allora il dado e tratto, ed a noi non resta altro che goderci il mestierie degli attori in cartellone. Per il resto è meglio aspettare il passaggio televisivo oppure passare ad altro.

giovedì, settembre 12, 2013

Missing Persons (1) : MAXINE BAHNS

Missing Persons, persone scomparse. Il titolo a cui abbiamo pensato per la nuova rubrica evoca un turbine di emozioni, quasi tutte connesse con sensazioni di perdita e di mancanza. Perchè se è chiaro che gli attrici e gli attori di cui parleremo sono ancora alive and kicking, è anche vero che per le strane disfunzioni che il cinema produce qualsiasi commediante lontano dagli schermi smette di esistere nel mondo reale per entrare in una dimensione di desiderio ed ossessione alimentata dalla volontà del cinefilo di tenere in vita le immagini più belle del loro passaggio. Una tendenza, o meglio una malia che ci appartiene di diritto, e di cui abbiamo voluto documentare il grado di assuefazione proponendo al lettore una galleria di volti e di corpi dimenticati ed indimenticabili, almeno per noi. In questo senso Maxine Bahns, attrice per Edward Burns in "She's the One" è un inizio da far sgranare gli occhi e lasciare senza fiato.

nickoftime

MAXINE BAHNS

"The world is a wild baby", si dice ma al punto, a volte, che sembra quasi lasciarsi andare. Per dire: il 1995 e' stato un anno niente male. Oltreché per il fatto, ovvio, che eravamo tutti più giovani, più forti e più svegli, anche per un altro, meno banale, grazie al quale e' saltata fuori dal ventre magico del grande schermo Maxine Bahns. Quando infatti e' sortita nei panni casual/sportivi millimetricamente trasandati di Audry ne "I fratelli McMullen" di E. Burns (era pure un periodo, quello, di buoni inizi con pochi soldi e un certo numero di idee: "Clerks" di K. Smith, ad esempio - stesse ristrettezze produttive, stesso occhio poco incline alla complicità sulla giovinezza, sebbene li' aperto alla schermaglia sentimentale, qui quasi totalmente dissacratorio - e' dell'anno prima), alcuni di noi hanno abbassato le braccia, cominciato a gustare il sapore raro della Grecia-che-torna-sulla-terra stavolta per restarci e innalzato qualcos'altro (la fiducia nel genere umano, in specie quello con la lettera "F" sui documenti: che avevate capito ?).

Classico esempio di "american girl" nel senso più cosmopolita del termine, ovvero come incrocio (fortunato) di corredi genetici - genitori portatori sani di caratteri ereditati qua e la' per il mondo - Maxine sembrava essere partita col piede giusto, azzardando già l'anno successivo, il '96, un altro passo, sempre con Burns (occhio lungo l'irlandese: ai tempi con lei ci aveva stretto una relazione), ancora in un ruolo di fidanzata "difficile da gestire" - un misto interessante d'indipendenza di giudizio e capacita' di comprensione - in "She's the one"/Il senso dell'amore". Poi... ... quasi più nulla. O, almeno, poco, di ciò che mise insieme - e giunse dalle nostre parti - in un lungo interludio durante il quale si esercito' più come modella che come attrice: un episodio di CSI NY; alcune apparizioni "al passato" in "The mentalist"; certi horror di medio-basso cabotaggio; qualche film d'azione di simil tenore.

Nata nel febbraio del '71 - e a 'sto punto viene da crederci che quell'anno gli astri di Hollywood girarono a verso: Ryder, Connelly, Richards, la britannica Weisz, univano concordi il loro vagito a quello di miss Maxine Lee Bahns, detta Max (e chissà se qualcuno si accorse che il casino neonatale era più armonico del solito) - fisico asciutto ma tornito (m 1,75 per kg 54, nel triathlon da tempo), occhi scuri, capelli castani in genere fluenti, piglio gentile ma come avvertito, quindi in non comune equilibrio tra vulnerabilità e fermezza (siamo dalle parti del "fascino intercostale", quindi), la ragazza del Vermont latita da tanto, troppo. Lo dice pure Donald Fagen che non e' Littre' ma sbaglia poco: "While the world is sleeping/We meet al Lincoln Mall/Talk about life, the meaning of it all/Try to make sense of the suburban sprawl/Try to hang on, Maxine".



TFK


mercoledì, settembre 11, 2013

L'intrepido

L'intrepido
di Gianni Amelio
con Antonio Albanese
Italia 2013
genere, commedia
durata,104'

Il cambiamento è caratterizzato da sentimenti contrastanti. All'incertezza del nuovo si accompagna quasi sempre il senso di liberazione da una condizione che ha smesso di rappresentarci. Questa dimensione credo che appartenga da qualche tempo a Gianni Amelio tornato al cinema con due film piuttosto complicati: "Il primo uomo", cineracconto ricavato dall'omonimo romanzo di Albert Camus, condizionato dall'improvvisa mancanza di finanziamenti e dal conseguente abbandono dell'attore protagonista, ed oggi, dopo la direzione del TFF, "L'intrepido", debutto nella commedia del regista calabrese, subito confortato dall'entusiasmo dei selezionatori del festival di Venezia che lo hanno appena presentato nel concorso ufficiale della '70 edizione. Certamente la storia di Antonio Pane e dei suoi mille mestieri costituiva una bella scommessa. Intanto perchè Amelio era chiamato a misurarsi con la fisicità sghemba e l'umorismo surreale di un anfitrione dell'arte comica, e poi perchè si trattava di ritornare ad affondare i denti nelle piaghe di un paese in crisi, dopo anni in cui Amelio aveva guardato all'Italia attraverso le vicende di altre nazioni: L'Albania degli immigrati post rivoluzionari cosi come la Cina dello sviluppo industriale, e persino l'Algeria martoriata dal terrorismo indipendentista garantivano la giusta distanza per ritrovare il senso di ciò che avevamo perduto, o più semplicemente di quello che non riuscivamo più a vedere. 


Per farlo Amelio sceglie di raccontare una storia in controluce, in cui la mancanza di misericordia e di comprensione umana emerge dall'estraneità del protagonista rispetto al mondo che lo circonda.
 Antonio Pane è infatti lo straniero per eccellenza: abbandonato dalla moglie, con un figlio al quale è costretto saltuariamente a chiedere i soldi e per di più senza un posto fisso, Antonio non si perde d'animo moltiplicando sforzi e gentilezze distribuite a piene mani a buoni e cattivi, senza classifiche di merito. Ma soprattutto non smette mai di lavorare, adattandosi ad ogni incarico e mansione sempre sull'onda del buon umore, e con sguardo attento a chi come Lucia (l'esordiente Livia Rossi), fatica ad andare avanti. Affidandosi al talento di Albanese ed ambientando la storia in una Milano più vicina ad uno stato dell'anima che ad un luogo geografico (la città pur riconoscibile è resa con una toponomastica priva di punti forti) Amelio sospende il film in un' indeterminatezza di toni che alternano momenti di rara drammaticità - soprattutto quelli in cui Antonio si confronta con le generazioni più giovani e che costituiscono la parte migliore del lungometraggio - ad altri in cui a prevalere è la buffezza del personaggio ripreso in situazioni surreali come quella del passaggio di consegne con un gigantesco ferroviere in cui la precarietà di quel lavoro risalta dalla differenze fisiologiche (i due sono ritratti di profilo, uno di fronte all'altro per evidenziare le rispettive figure ) e da particolari secondari come quello dall'uniforme extra large che Antonio indossa con la disinvoltura di chi non potrebbe avere abito migliore. 


A prevalere in generale è il contrasto tra la dimensione tragicomica dell'immaginario che Albanese porta con se e la disfunzionalità di paesaggio popolato di uomini e donne chiuse all'interno del proprio dolore o della propria grettezza. Uno schema che pure funziona quando si tratta di introdurre i personaggi ed il loro mondo, ma che risulta inadeguato nel momento in cui, e siamo circa a metà del guado, si tratta di raccontare qualcosa di più, entrando all'interno di di situazioni appena sfiorate e d rapporti umani accennati in superficie. E' in quel preciso frangente che "L'intrepido" non riesce a cambiare marcia, restando sempre sull'apparenza delle cose e degli uomini per poi naufragare in un finale davvero imbarazzante per la vaghezza che Amelio sceglie per chiudere il cerchio con le sventure che nel frattempo si erano accumulate nel corso della vicenda. Commedia sotto mentite spoglie "L'intrepido" ripropone temi cari al suo autore (il rapporto padre figlio e la dialettica generazionale, il viaggio come strumento di conoscenza e di catarsi, l'umanesimo degli umiliati ed offesi) e pure non manca di ribadire uno sguardo interessato ai problemi del reale che Amelio ritrae anche con cinica crudezza (la filosofia del venditore di protesi fa il paio con quella del personaggio di Michele Placido ne "L'america") ma a differenza di altre volte a mancare è quella densità emotiva ed appassionata a cui aveva abituato e che permetteva di vivere in prima persona le esistenze di cui ci parlava. Il lavoro di sottrazione operato da Amelio avrebbe avuto bisogno di una sostanza che la performance del pur bravo Albanese non riesce a compensare, ed anche i riferimenti alla disoccupazione ed al precariato pur presenti sono affrontati con una prospettiva da titoli di giornale, come accade nella sequenza d'apertura con le contumelie dell'operaio nei confronti degli extracomunitari simili ad un abbecedario del giovane razzista. Diventa allora inevitabile sottolineare la mancanza d'identità di un opera che conferma il momento di scarsa vena dell'autore calabrese.

martedì, settembre 10, 2013

Riddick

Riddick
di David Towhy
con Vin Diesel, Jordi Molla, Karl Urban
Usa 2013
genere, fantascienza
durata 119'

A volte ritornano. È il caso di dirlo ad alta voce per un personaggio come quello di Riddick, assassino intergalattico apparso per la prima volta sullo schermo nel mitico "Pitch Black" (2000), produzione a basso costo ma ad alto tasso di spettacolarità diretta da David Twohy, bissata qualche anno più tardi da un sequel extra lusso- "The Chronicle of Riddick" (2004) - incapace di dare seguito alle qualità del prototipo, per il desiderio da parte degli studios di monetizzare il culto seguito all'uscita del lungometraggio. L'insuccesso dell'operazione e la saturazione del mercato nel frattempo monopolizzato dagli eroi della marvel sembravano aver fatto passare di moda le avventure del silente criminale, che invece torna più agguerrito che mai in questo nuovo capitolo della saga firmato ancora una volta da Twohy. La premessa degli eventi contenuti in "Riddick" ancora prima che sullo schermo trovano una spiegazione nel capitolo precedente, ed in particolare nella decisione di trasformare l'antieroe di "Pitch Black" in una specie di messia universale, normalizzato dall' attribuzioni di funzioni salvifiche e da una collocazione in un contesto strutturato e civilizzato (il regno dei Necromonger di cui è destinato a diventare il nuovo re) che l'avevano privato di quella wilderness derivata per la maggior parte dalla sua identificazione con la primordialità ancestrale del pianeta in cui Riddick era giunto dopo un atterraggio di fortuna. Conscio di questa debolezza Twohy decide di cambiare rotta allestendo un ritorno alle origini che riporta il personaggio al punto di partenza, ancora una volta esiliato e solo al cospetto di un mondo estraneo ed ostile. Non è quindi un caso che proprio la prima parte del film, quella in cui Riddick prende coscienza dell'ambiente circostante sfidandolo in una lotta per la sopravvivenza sia la parte più interessante, quella in cui la "rifondazione" della cosmogonia si accompagna al mistero ed alla scoperta. Una volontà teorizzata dalla presenza della voce off dello stesso Riddick, utilizzata ad hoc (e solo in questa fase) per imprimere nella memoria del film la necessità di un ascesi difficile e sofferta, in grado di liberare il protagonista, e l'opera che lo contiene dai mali della civilizzazione individuati rispettivamente dall'affievolirsi dell'istinto omicida indispensabile per mantenere Riddick al vertice della catena alimentare, ma anche dallo strapotere del Dio denaro, concetto assimilato dal regista ai tempi delle "Cronache". Ovviamente il desiderio di libertà di Riddick contrasta con le azioni dei mercenari che lo vorrebbero assicurare alla giustizia, ed è proprio nello scontro di volontà contrapposte e di personalità debordanti (quella di Santana, antagonista costantemente sopra le righe) che la storia prende piede e si sviluppa, dando vita ad una caccia all'uomo all'insegna di un continuo ribaltamento dei ruoli, con Riddick impegnato a ritrovare la strada di casa cercando di sfuggire al fuoco incrociato di chi lo vuole morto.

 
Twohy autore capace di dare il meglio di sè lavorando in operazioni a budget ridotto (ricordiamo anche "The Arrival" del 1996 altro film "alieno" dalle atmosfere simili ad X- Files) concepisce il suo film come una specie di remake. Dopo una prima parte esplorativa, necessaria ad introdurre contesto e personaggi Towhy fa in modo di incanalare la narrazione all'interno di meccanismi e situazioni risapute, simili a quelle che avevano caratterizzato il modello originale: dal destino comune che ad un certo punto unisce Riddick ed i suoi nemici, all'escamotage dell'elemento atmosferico (l'eclissi del primo film qui sostituita da una pioggia torrenziale) legato all'insorgere della minaccia aliena, per non dire della progressione narrativa costruita su un percorso ad ostacoli che scandisce la distanza tra il protagonista ed il suo obiettivo. In controtendenza rispetto ad una fantascienza sempre più orientata ad uno stile realistico - ricordiamo l'effetto documentario dell'ultimo superman girato per buona parte con telecamera a mano ma anche agli ultimi lavori di Nolan- "Riddick" evidenzia la sua artificiosità con ampio uso di effetti digitali, soprattutto nella realizzazione dei fondali, ed in alcune scene - quelle degli inseguimenti motoristici - in cui l'effetto finzione sembra volutamente ricercato nella mancanza di profondità degli oggetti in primo piano. Quella che potrebbe essere una scelta artistica diventa però una deriva a causa della pochezza dei contenuti, e per sequenze come quella conclusiva, con il salvataggio finale che si candida al premio di miglior scult dell'anno. Privo di sfumature e ridotto ad una laconicità che rimanda ad un fuori campo azzerato dal troppo pieno con cui Twohy costruisce le inquadratura, il film diventa il collettore di una mitologia spompata, e Riddick l'interprete di un "Kurtz" tamarro a cui lui stesso sembra non credere più. 
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, settembre 08, 2013

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: I vincitori






Leone d'Oro per il miglior film
Sacro GRA di Gianfranco Rosi

Leone d'Argento per la migliore regia
Miss Violence di Alexandros Avranas

Gran Premio della Giuria (nuovo riconoscimento)
Stray Dogs - Jiaoyou
di Tsai Ming-liang

Premio Speciale della Giuria
La moglie del poliziotto
di Philip Gröning

Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile
Themis Panou per Miss Violence di Alexandros Avranas

Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile
Elena Cotta per Via Castellana Bandiera di Emma Dante

Premio Marcello Mastroianni
Tye Sheridan
per Joe di David Gordon Green

Premio per la migliore sceneggiatura
Philomena
di Stephen Frears (sceneggiatori Steve Coogan, Jeff Pope)

Premio Venezia Opera Prima "Luigi De Laurentiis"
White Shadow
di Noaz Deshe (Settimana della Critica)

Premio Orizzonti per il miglior film
Eastern Boys di Robin Campillo

Premio Orizzonti per la migliore regia (nuovo riconoscimento)
Still Life di Uberto Pasolini

Premio Speciale della Giuria Orizzonti
Ruin di Michael Cody, Amiel Courtin-Wilson

Premio Speciale Orizzonti per
 il contenuto innovativo (nuovo riconoscimento)
Fish& Cat di Mahi va gorbeh

Premio Orizzonti per il migliore cortometraggio
Kush di Shubhashish Bhutiani

venerdì, settembre 06, 2013

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Tsi mi Liang,
regista
(Stray Dogs)




















"Stray Dogs" potrebbe essere il suo ultimo film. A Venezia le reazioni si sono divise tra capolavoro e bluff. Di certo c'è che il cinema del regista taiwanese è sempre più radicale con storie che sono il pretesto per un cinema di suggestioni e di silenzi. Piani sequenza interminabili, immagini come regressioni ipnotiche. Si fugge dalla sala o si rimane incollati alla poltrona. Tsi mi Liang non prevede altra possibilità.

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Kim KiDuk,
regista
(Moebius)









Per il regista coerano gioia e dolore sono parti dello stesso amore. E' impossibile rinunciarvi anche a costo di subire pesanti mutilazioni come accade puntualmente al protagonista del suo ultimo film. 

giovedì, settembre 05, 2013

Infanzia Clandestina

Infanzia clandestina
di Benjamin Avila
con Ernesto Alterio, Natalia Orerio, Benjamin Avila
Argentina, 2012
genere drammatico
durata, 112





Ogni paese ha la sua Storia. Quella dell’Argentina si concentra quasi esclusivamente  sugli avvenimenti che negli anni settanta  scandirono la scontro tra il regime militare ed i suoi oppositori. Un buco nero in cui s’infilano i fantasmi di un paese in cerca di riscatto attraverso il ricordo e la metabolizzazione degli aspetti più bui di quel periodo. Un percorso salvifico a cui il cinema si presta in maniera spontanea grazie alle possibilità divulgative ed  alla forza catartica delle sue trasposizioni. Ed è  forse questo motivo ad aver convinto il regista Benjamin Avola a ripercorre gli anni della prima giovinezza, scandita dalle vicissitudini dei genitori, militanti anti regime costretti a vivere sotto copertura per sfuggire alle conseguenze del proprio attivismo politico. “Infanzia clandestina” c'è li fa incontrare all’indomani del campionato del mondo di calcio del 1978 vinto dalla nazionale bianca azzurra, catapultandoci nella quotidianità di Juan, altergo dell'autore, e della sua famiglia allargata, animata dall'entusiasmo di uno zio sognatore ed ingolosita dalla scoperta del primo amore nato sui banchi della scuola che il ragazzo ha iniziato a frequentare dopo l'ennesimo trasferimento. Se le vicissitudini sono tipiche di un ragazzino della sua età, nei fatti Juan deve convivere con un mondo di adulti condizionati dalla difficoltà di rimanere coerenti agli ideali di una vita, e, in senso molto più grammatico, dalla paura di venire scoperti dalla polizia. 


Un doppio binario, pubblico e privato, storico ed esistenziale,  amalgamati con un equilibrio ed una sobrietà derivati dalla scelta di raccontare la vicenda attraverso un unico punto di vista, quello del piccolo protagonista, e secondo i toni di un intimismo che va di pari passo con la decisione di lasciare fuori campo la violenza dello scontro armato. Ad essere privilegiate sono quindi le caratteristiche di autosufficienza e autoreferenzialità che contraddistinguono le rappresentazioni di un età in cui la realtà viene interpretata secondo un ottica deformante e fantasiosa. In questo modo il quartiere e la casa diventano i simboli di un’isola felice, nonostante tutto, in cui anche la morte deve fare un passo indietro, cancellata dai sogni che riportano in vita le persone amate, oppure trasfigurata nei disegni animati che aprono e chiudono il film, scelti da Avila per raccontare i momenti più drammatici della vicenda, quelli dominati dalla violenza e dalla perdita, che forse, proprio per essere esibita con uno stacco così eloquente, sembra esistere solo su un piano artistico e spettacolare. 


Ecco allora che i difetti da cui certamente “Infanzia clandestina” non è esente finiscono per perdere la loro specificità, assumendo contorni meno definiti e più smussati: così accade per lo schematismo dei rapporti familiari, caratterizzati da figure edulcorate dalle sfaccettature che nel bene e nel male appartengono alla natura umana. Come pure le contraddizioni di una lotta armata che non lascia strascichi, e che il film fa sentire solo quando la coscienza è sollecitata dal mondo esterno, rappresentato a turno dalla rimostranze della nonna che vorrebbe assicurare ad Juan ed alla sorellina un futuro migliore, oppure in maniera più drammatica nella decisione di abbandonare l'ultimo scampolo di normalità per sfuggire alle grinfie del potere. A coinvolgere è allora lo sguardo del piccolo protagonista, smarrito ed impotente di fronte all’imponderabilità della vita, e poi tutto l’inserto dedicato all'innamoramento di Ernesto, che Avila racconta con una tenerezza per nulla ammiccante. Quasi un risarcimento alla durezza degli sviluppi che concludo il film, consegnando Juan ad un destino ancora tutto da decidere.

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Antonio Albanese,
attore
(L'intrepido)







Per  Gianni Amelio Antonio Pane è la risposta poetica e garbata alla crisi dei nostri tempi, per Antonio Albanese che lo interpreta l'occasione per rilanciare il suo talento d'attore. Da Venezia dove "L'intrepido" è passato in concorso pareri discordanti tra la critica ed applausi del pubblico.

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Lance Armstrong
ciclista
(The Armstrong Lie)











Per molti era il simbolo vincente della lotta contro il cancro, per gli appassionati di ciclismo invece il feticcio di un ciclismo d'altri tempi, capace di rinverdire le imprese dei più grandi. "The Armstrong Lie" il doc del premio Oscar Alex Gibney è l'ammissione di una bugia che ha il sapore del tradimento. Fuori concorso a Venezia e prossimamente nelle sale italiane


martedì, settembre 03, 2013

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Cristoph Waltz, 
attore
(The Zero Theorem)

 





Più che un attore, un alieno. Sbucato da una galassia sconosciuta Christoph Waltz ha sbancato l'immaginario del cinema d'autore grazie ad un camaleontismo d'altri tempi. Uno, nessuno, centomila