sabato, dicembre 31, 2022

THE FABELMANS

The Fabelmans

di Steven Spielberg

con Michelle Williams, Gabriel LaBelle, Seth Rogen

USA, 2022

genere: drammatico

durata: 151’

Anche Steven Spielberg prova a dare vita alla sua idea di cinema. E lo fa con lo stile che lo contraddistingue da sempre e che lo ha collocato, con il tempo, nell’olimpo dei grandi. “The Fabelmans” è, come spiega lo stesso regista all’inizio, un atto d’amore alla famiglia, ma soprattutto alla settima arte, quella che ha conferito a Spielberg la notorietà e quella che, più di ogni altra cosa al mondo, gli ha permesso di esprimersi.

Sammy Fabelmans è un giovanissimo alter ego del regista che viene portato al cinema dai genitori per la prima volta e assiste a un film western il cui culmine è rappresentato dallo scontro frontale tra un’auto e una diligenza. Sammy è travolto da ciò che ha visto e, dopo aver ricevuto in regalo dei vagoni ferroviari giocattolo, mette in scena, a casa, un incidente simile per capirne le dinamiche e pensando di poterlo riprendere e “stravolgere” quando e quanto vuole. In questo lo aiuta la madre che, nonostante i timori del padre, sembra voler incoraggiare quello che non è “solo un hobby” per il figlio. Sammy cresce e inizia a frequentare la scuola dove deve fare i conti con i bulli della zona che lo prendono di mira in quanto ebreo. In parallelo vorrebbe continuare il suo interesse per il cinema, ma in parte impaurito dagli “avvertimenti” di uno strampalato zio Boris, in parte distrutto dalla disgregazione del rapporto tra i suoi genitori, comincia ad allontanarsi da ciò da cui è attratto più di ogni altra cosa al mondo. Ma uno come Sammy può davvero stare lontano dalla cinepresa e dal cinema?

Il film più personale di Spielberg, come lui stesso l’ha definito, ma anche quello più personale per qualsiasi cinefilo o appassionato di questa arte. Più volte nel film, le riprese e le cosiddette “immagini in movimento” prendono il posto delle parole e vengono utilizzate per esprimere concetti, per confrontarsi, per dialogare.

Quello che fa Spielberg con questo film non è solo elogiare il cinema in quanto arte che ormai ha fatto sua nel corso degli anni, ma è un omaggio a tutto il cinema, ai grandi autori di questa arte e anche un elogio alla ricerca di un sogno (che può prescindere dal cinema stesso) verso il quale bisogna sempre protendere, senza mai arrendersi. Sammy è la prova lampante di cosa significhi non lasciarsi mai scoraggiare, ma continuare per la propria strada alla ricerca del proprio sogno. Che sia il cinema, che sia l’amore, che sia qualsiasi altra cosa, l’insegnamento della famiglia Fabelmans è proprio questo: mai gettare la spugna, ma supportarsi sempre a vicenda.

In un film che usa il cinema per parlare di cinema, sono tanti i richiami e i riferimenti che il regista inserisce, anche involontariamente, quasi sfidando il lettore, come la scena dell’incidente del treno che il giovanissimo Sammy vede al cinema e che strizza l’occhio alla nascita della splendida invenzione dei fratelli Lumière.

Ma “The Fabelmans” è anche una grandissima Michelle Williams, nel ruolo della madre del protagonista. Una donna che inizialmente si mostra forte e capace di sorreggere l’intera famiglia, tenendo le redini e potendo controllare ogni singolo tassello. Questo finché Sammy, proprio grazie a quelle riprese che lei stessa aveva incentivato, non si accorge di qualcosa che, pur essendo abbastanza alla luce del sole, nessuno aveva mai notato. E anche qui viene sottolineato il potere del cinema e delle sue riprese, in grado di scovare e scavare dentro (e non solo) ognuno di noi. Da quel momento tutto cambia e la forza di Mitzi, la madre, viene meno per far spazio a una “rassegnazione”, a un’accettazione della realtà e al disvelamento di quello che credeva un segreto ben celato in grado di sopravvivere a qualsiasi cosa. Nel rendere questo cambiamento del personaggio la Williams è perfetta. Degno di menzione il momento in cui, accovacciata nell’armadio del figlio vede scorrere davanti a sé quelle immagini che prima ha vissuto in prima persona, inconsapevole che un occhio “esterno” la stava riprendendo. Lo spettatore conosce già il contenuto di quelle immagini e si concentra, quindi, solo ed esclusivamente sullo sguardo di una donna che comprende, poco alla volta, la sua “sconfitta”. Accanto a lei anche un giovanissimo Gabriel LaBelle che, nonostante la giovane età, si destreggia molto bene tra attori più navigati.

E, infine, come non poter citare il divertente e geniale cameo di David Lynch nel ruolo di quello che, a detta del film, è, per l’epoca in cui “The Fabelmans” è ambientato, il miglior regista in assoluto, John Ford? Una scena che vale da sola tutto il film, da vedere e rivedere, magari con l’orizzonte spostato, in alto o in basso.

Una dichiarazione d’amore al cinema che è già storia.


Veronica Ranocchi

mercoledì, dicembre 28, 2022

GLASS ONION - KNIVES OUT

Glass Onion – Knives Out

di Rian Johnson

con Daniel Craig, Janelle Monáe, Edward Norton

USA, 2022

genere: giallo, commedia, poliziesco

durata: 140’

Rian Johnson torna a dirigere Daniel Craig nei panni del famigerato detective Benoit Blanc. Stavolta, rispetto al primo titolo “Cena con delitto” ci troviamo catapultati in una splendida, lussuosa e moderna isola sul mar Egeo che deve il suo nome, Glass Onion, alla struttura principale che ricorda proprio una grande cipolla di vetro.

Aspetto interessante è l’idea di svolgere il film nel 2020, in piena pandemia, anche se le caratteristiche di quel preciso periodo sono presenti solo nella primissima parte del film. Tutto ha inizio con un invito da parte dell’egocentrico multimiliardario Miles Bron. Questi ha organizzato una cena con delitto da svolgersi in un fine settimana insieme ai suoi migliori amici, tutti invitati: la politica Claire Debella; Lionel Toussaint, scienziato a capo della sezione ricerca e sviluppo di Alpha Industries; la stilista Birdie Jay; lo youtuber e twitcher Duke Cody. Insieme a loro partecipano anche Cassandra “Andy” Brand, ex-partner in affari di Miles; Peg, l’inseparabile assistente di Birdie, e Whiskey, fidanzata di Duke. Come in tutti i gialli che si rispettano, fin da subito si cominciano a nutrire sospetti nei confronti di ogni personaggio che sembra avere qualcosa da nascondere.

Giunta la sera, Miles, dopo aver introdotto la serata ai presenti e dopo aver mostrato loro la presenza dell’originale Monna Lisa, prestatagli dal Louvre in seguito a un corposo finanziamento, dà il via alla vera e propria cena con delitto che viene, però, risolta in un attimo dal detective Blanc che, grazie alle sue capacità investigative, decide di “rovinare” i piani del magnate di proposito perché teme che qualcuno degli ospiti voglia farlo fuori. Da quel momento tutto cambia poiché i programmi di Miles vanno a rotoli a causa della presenza del detective che comincia a indagare, soprattutto a seguito di una vera morte che avviene alla presenza di tutti gli invitati.

Puntando sia sul sempre riuscito cast corale sia sulla scia del successo del primo film Rian Johnson gioca le migliori carte a sua disposizione e confeziona un validissimo prodotto.

Tra indagini, colpi di scena continui ai quali ci ha abituati il regista, legami segreti tra i personaggi e tanto lusso sfrenato “Glass Onion” risulta un buonissimo secondo capitolo, anche se di fatto si tratta di una storia a sé stante.

Daniel Craig nei panni del detective Benoit Blanc vince e convince, come già aveva fatto con il primo film e richiama, per certi versi, il mitico e iconico Hercule Poirot di Agatha Christie, un po’ per i modi di fare, un po’ per le intuizioni, un po’ per la calma e il carisma che lo contraddistingue.

Ma non ci sono solo riferimenti alla regina del giallo. Commovente, a posteriori, la presenza, seppur minima, della compianta Angela Lansbury. Così come sono interessanti le tante citazioni presenti all’interno della storia e i richiami, né evidenti né invadenti, al primo capitolo.

Nuovamente un cast corale appositamente scelto che pesca tra grandi nomi del cinema a nomi più emergenti, ma venuti fuori grazie alla serialità, affiancati ad attori che, invece, hanno alle spalle un importante passato, ma sono rimasti comunque più nell’ombra. Una Janelle Monáe che buca letteralmente lo schermo, e non solo per la sua incredibile e semplice bellezza, ma per la sua capacità di imporsi come figura ambivalente. E poi nessun bisogno di presentazioni per gli altri interpreti capaci, però, di rendere, come probabilmente da direttive, i rispettivi personaggi antipatici al punto giusto, senza alcuna possibilità di redenzione.

E se nel primo capitolo la coprotagonista Ana de Armas era più dimessa, così come imposto dal ruolo, in questo secondo capitolo la Monáe arriva quasi a togliere dal piedistallo di intoccabile un Daniel Craig anche autoironico. Capace di intuizioni geniali e in grado di renderne la spiegazione ancora più magnifica, seduto sul trono, prima di “spade” nel primo capitolo e poi di vetro e di “metalli” nel secondo, Benoit Blanc è il detective con il quale nessun criminale “moderno” vorrebbe avere a che fare.


Veronica Ranocchi

martedì, dicembre 27, 2022

PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO

Pinocchio di Guillermo del Toro

di Guillermo del Toro

con Gregory Mann, Ewan McGregor, David Bradley

USA, Messico, 2022

genere: animazione, fantastico, avventura

durata: 121’

Sono stati tanti gli adattamenti nel corso del tempo del grande classico di Carlo Collodi con protagonista il piccolo bambino di legno creato dalle mani di Geppetto. Ognuno di essi ha provato, ogni volta, ad aggiungere elementi, a modificare alcuni tratti e a inserire la propria personale visione dei fatti, ma nessuno, fino a ora, aveva mai fatto l’operazione compiuta da Guillermo del Toro.

Il regista messicano ha realizzato quello che può essere considerato, al momento, il miglior adattamento del classico di Collodi.

Una visione personale di un classico della letteratura e del cinema che sembrava essere stato sviscerato completamente, ma che, invece, con la sapiente mano dell’autore del film premio Oscar “La forma dell’acqua” si trasforma quasi completamente.

Interamente realizzato con la tecnica della stop-motion, il film, a differenza degli altri adattamenti, è ambientato al tempo del fascismo.

La mano del regista plasma e conferisce una completa e nuova forma all’opera della quale mantiene intatto il nucleo principale. Con il tocco di Guillermo del Toro, Pinocchio diventa, a tutti gli effetti, una sua creatura, più dark e più inquietante, come quelle alle quali ci ha abituato il regista messicano.

Complici le musiche e le fantastiche ambientazioni, il Pinocchio di Guillermo del Toro è destinato, già dopo una prima visione, a diventare un grande classico, da vedere e rivedere per analizzare ogni singola scelta compiuta e ogni saggio e astuto stratagemma messo in atto.

La scelta di ambientare la storia in un’epoca come quella del fascismo dà modo a del Toro di utilizzare quel male per distruggerlo con astuzia e ingegno. Basti pensare, per esempio, alla presenza di Mussolini a uno degli spettacoli di marionette, ai quali prende parte anche Pinocchio, “costretto” a partecipare per salvare Geppetto, e al modo in cui viene “disegnato” il dittatore. Degna di nota anche la scelta di muovere, naturalmente, i vari burattini con dei fili, fatta eccezione per Pinocchio che, come gli altri, avrebbe dovuto avere bisogno di una “guida” per muoversi, ma che riesce autonomamente a emergere, andando anche contro la realtà che lo circonda e arrivando a criticare il fascismo e tutto ciò che ne consegue.

Ciò che emerge dall’opera di del Toro è, quindi, anche una critica sociale, a un momento buio della storia che va di pari passo con i personaggi. Ci sono, infatti, dei cambiamenti, delle variazioni e delle reinterpretazioni dell’opera di Collodi che il regista messicano fa proprie. Abituati alle sue opere nelle quali vita e morte sono costantemente presenti, seppur ogni volta con diverse modalità, anche nel “Pinocchio di Guillermo del Toro” notiamo questa commistione fin dall’inizio con la decisione di aggiungere la figura di Carlo, il vero figlio di Geppetto, purtroppo scomparso da giovanissimo. La sua presenza, seppur solo nei ricordi e nella memoria, è costante in tutta la narrazione.

Un film che, fin dal titolo, fa ben capire la direzione e l’intenzione. Non è più solo “Pinocchio” o il “Pinocchio” nato dalla penna di Collodi. Adesso è “Pinocchio di Guillermo del Toro”, una distinzione netta e decisa secondo il regista. E, visto l’apprezzamento generale, anche secondo il pubblico.


Veronica Ranocchi

lunedì, dicembre 12, 2022

MERCOLEDI'

Mercoledì

ideata da: Tim Burton, Alfred Gough, Miles Millar

con Jenna Ortega, Catherine Zeta Jones, Luis Guzman

USA, 2022

genere: commedia, horror, fantasy

durata: 8 episodi da 40-50 minuti

Uno dei personaggi, da sempre, più apprezzati dell’iconica famiglia Addams è sicuramente Mercoledì, la giovane primogenita di Morticia e Gomez che tanto ama il dolore e la sofferenza.

Un personaggio che, nonostante sia già stato protagonista, ha meritato un ulteriore palcoscenico per mostrarsi davvero a 360°. E lo ha fatto grazie a Tim Burton su Netflix.

Interpretata dalla bravissima e davvero talentuosa Jenna Ortega, Mercoledì è la protagonista assoluta degli 8 episodi che hanno tinto di nero la piattaforma di streaming, arrivando a oscurare anche personaggi iconici come quelli degli altri membri della famiglia, una su tutti la Morticia Addams di Catherine Zeta-Jones.

La storia messa in scena da Tim Burton vede Mercoledì costretta a frequentare la Nevermore Academy, stessa scuola dei genitori, a causa del comportamento fin troppo sopra le righe nei precedenti istituti. La scuola, all’interno della cittadina di Jericho, è rivolta soprattutto a coloro che vengono definiti “reietti”, cioè con poteri o facoltà fuori dall’ordinario (lupi mannari, gorgoni, sirene, vampiri e tanti altri). Qui Mercoledì si trova ad affrontare, oltre alle classiche dinamiche adolescenziali, anche dei misteri ben più grandi di lei. Grazie ad alcune visioni riesce a capire di essere coinvolta, direttamente o indirettamente, in un mistero che vuole a tutti i costi risolvere.

Nel corso degli episodi conosciamo alcuni dei protagonisti. Se i genitori di Mercoledì, insieme al fratello Pugsley e Lurch (qui solo in veste di autista), sono già noti, nella serie Netflix fa la sua comparsa, per esempio, l’eccentrico personaggio di Enid, colei che si può considerare a tutti gli effetti la perfetta nemesi di Mercoledì. Colorata, eccentrica, sorridente e costantemente piena di energia, Enid è un lupo mannaro, ma soprattutto l’unica che, nonostante tutto, può provare a scalfire la dura corazza di Mercoledì. Compagne di stanza, le due creeranno un legame particolare reso anche visivamente dalle potenti immagini che mostrano la camera nettamente divisa in due parti, dove colori, oggetti e azioni sono diametralmente contrapposte.

Accanto a Enid ci sono poi Xavier e Tyler, entrambi innamorati della protagonista, ma entrambi con dei segreti da nascondere. E poi ancora la rivale Bianca, l’austera preside e molti altri, tra insegnanti e studenti. All’appello non possono mancare lo zio Fester, presente solo in un episodio e che forse avrebbe meritato più spazio, visto e considerato il profondo legame tra lui e Mercoledì, ma soprattutto Mano, il vero protagonista della serie. Elemento indubbiamente più riuscito, Mano, nonostante possa contare solo su una mano, appunto, riesce a comunicare perfettamente e a esprimere emozioni e concetti non soltanto ai personaggi della serie, ma anche nei confronti del pubblico. Dulcis in fundo non si può non citare l’indovinata presenza di Christina Ricci, la Mercoledì Addams degli anni ’90 che, qui, torna a rapportarsi con il personaggio, ma con un aspetto e un ruolo diversi.

Una serie dove l’impronta di Tim Burton è ben presente, a partire dall’ambientazione fino alle fattezze del mostro. E se qualcuno ha storto il naso per il fatto che, in parte, si discosta dalla famiglia Addams originale, non si può non parlare di prodotto più che riuscito per questa “Mercoledì” rivisitata in chiave moderna.

È vero, probabilmente la vera Mercoledì Addams non sarebbe scesa a compromessi e, in alcune occasioni, non si sarebbe comportata come la ragazzina della serie Netflix, ma è apprezzabile la scelta di Tim Burton e del team di autori di modificare una parte della storia e virare verso una maggiore adesione all’epoca in cui è ambientata adesso. Ci sono comunque riferimenti al passato e all’ “originale” famiglia Addams disseminati ovunque nel corso degli episodi, per non parlare delle sempre affilate parole di Mercoledì. Parole che, pronunciate da Jenna Ortega, sono ancora più “pericolose” vista la serietà e l’attenzione che la giovane ha riservato al personaggio. Memorabile la scena del ballo, diventata già un must.

Insomma, nel complesso, una serie riuscita e convincente, in grado di attirare un gran numero di spettatori, sempre più variegato, e che sta battendo record su record in attesa della prossima, quasi scontata (e obbligatoria) stagione.


Veronica Ranocchi

domenica, dicembre 11, 2022

PANTAFA

Pantafa

di Emanuele Scaringi

con Kasia Smutniak, Mario Sgueglia, Francesco Colella

Italia, 2022

genere: horror

durata: 101’

Il passato come colpa, ma soprattutto l’impossibilità di conciliarsi con ciò che è stato e ora non è più. Pantafa di Emanuele Scaringi ragiona sul nostro tempo procedendo con coerenza sul percorso della propria filmografia delegando ancora una volta al genere – questa volta tocca all’horror -, il compito di tradurre il paesaggio interiore dei personaggi.

Se la trama è presto detta, ruotando attorno alla fuga dal mondo di una madre e della sua bambina, destinate a fronteggiare gli inquietanti sviluppi derivati dalla decisione di soggiornare in un paesino di montagna, quello che più interessa in questo caso è il modo in cui Scaringi riesce a conciliare la componente più personale del suo discorso con la necessità di non venire meno al presupposto principe del genere in questione, ovvero quello di mettere paura allo spettatore.

Così facendo Pantafa si confronta con luoghi e personaggi tra i più classici del cinema horror, a cominciare da una versione femminile del Bogeyman americano, retaggio della tradizione popolare, alla casa infestata da demoniache presenze e per finire con una concezione del male radicata nella storia degli uomini e dunque destinato a reiterarsi nel tempo e nello spazio (quest’ultimo, come insegna la Blumhouse, circoscritto per lo più all’interno di un unico ambiente). Questo per dire come ogni elemento nel film di Scaringi suggerisce (fuoricampo) una serie di titoli putativi al suo.

In questa ottica Scaringi è bravo a sottrarsi dalla sudditanza verso i prodotti americani. Così è, per esempio, la scelta del linguaggio dialettale, peraltro, nella sua asprezza vocale, adatto a rendere il senso di una realtà minacciosa e respingente. Altrettanto lo è il rigore di un’essenzialità che non riguarda solo la messinscena, priva o quasi di CG, ma anche la recitazione, con Kasia Smutniak e la piccola Greta Santi, brave a far trasparire il disagio dei personaggi da interpretazioni scarnificate e prive dei consueti birignao.

Come successo ne La profezia dell’Armadillo ma anche ne L’alligatore anche in Pantafa Emanuele Scaringi mostra di prediligere il racconto intimo di esistenze ribelli e per questo costrette ai margini. Ma non solo, perché come nel film d’esordio, anche in quest’ultimo la crisi di identità dei personaggi si trasforma in un conflitto, tra realtà e immaginazione, tra carne e spirito, capace di raccontare i fantasmi delle nostre paure.

Nel farlo Pantafa non si volge mai indietro, immerso com’è in un senso di colpa che impedisce al film di trovare ragione dei propri patimenti. A confermarlo la scelta di collocare le foto d’epoca, quelle con gli antenati dei protagonisti, oltre il termine della storia. Una sorta di commento fuori campo utile a ribadire – come si diceva all’inizio – l’impossibilità di fare pace con il passato. Ultimo atto di una coerenza che in Pantafa non viene mai meno.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, dicembre 09, 2022

SVEGLIAMI A MEZZANOTTE

Svegliami a Mezzanotte

di Francesco Patierno

con Fuani Marino, Eva Padoan

Italia, 2022

genere: documentario

durata: 71’

Ultimo episodio di un’ideale trilogia a cui appartengono “Napoli’44” e “Diva!”, “Svegliami a mezzanotte” di Francesco Patierno è una sorta di “Alice nel paese delle meraviglie” in cui, come nel romanzo di Lewis Carroll, realtà e fantasia, conscio e inconscio si mescolano in una fantasmagoria di suoni, musica e parole. Da non perdere.

Prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, “Svegliami a Mezzanotte” è un documentario italiano presentato alla 40esima edizione del Torino Film Festival.

Incontrare una persona e non un personaggio. Parliamo di Fuani Marino, nata due volte, nel momento in cui, una mattina d’estate, decise di porre fine alla propria vita lanciandosi dal quarto piano, sopravvivendo, suo malgrado, alle lesioni riportate nella caduta.

“Svegliami a Mezzanotte”, questo il titolo del film di Francesco Patierno, altro non è che la storia del prima e dopo che separa la vita di Fuani da quel tragico evento.

Tra le possibilità di mettere in scena l’avventura esistenziale della sua protagonista con i codici del cinema e quella di ripercorrerla dall’interno, lasciando che a raccontarla non sia un alter ego fittizio, ma la protagonista dei fatti, Patierno sceglie la seconda, per realizzare una fantasmagoria di immagini, suoni e parole che, eliminando la distanza tra schermo e spettatore, ha la potenza di catapultare quest’ultimo nel cuore pulsante del racconto, all’interno di quel flusso di coscienza con cui il film e la sua protagonista ripercorrono le fasi di un’esistenza che sembra prendere vita davanti ai nostri occhi. Attraverso le parole di Fuani “Svegliami a Mezzanotte” ci invita a “chiudere gli occhi” per iniziare a guardare con uno sguardo nuovo, non limitato a una fruizione passiva della rappresentazione, ma parte in causa e finanche complice della condivisione in atto.

“Svegliami a mezzanotte” lo mette in pratica con un dispositivo che funziona contemporaneamente su più livelli: da una parte esponendo gli avvenimenti in maniera lineare, come succede nei biopic più classici, con la cronaca dei fatti con cadenza cronologica, dall’inizio alla fine; dall’altra destrutturando il racconto orale attraverso un montaggio “casuale” (che tale non è) delle immagini.

Mescolando materiali diversi con filmini e foto della protagonista alternati a un caleidoscopio di frammenti cinematografici e documentari, “Svegliami a mezzanotte” accosta filmati eterogenei senza la logica stringente del cinema mainstream, lasciando alle assonanze e ai rimandi poetici il compito di cortocircuitare la ragione a favore di una lettura emotiva e sentimentale del percorso salvifico compiuto dalla protagonista.

E se nella prima parte “Svegliami a Mezzanotte” privilegia la discontinuità della narrazione, con una forma, quella appena detta, coerente alla progressiva perdita di senso che spingerà Muni al folle gesto, nella seconda, quella seguente al tentato suicidio, lo stile cinematografico si fa meno estremo e più classico, andando di pari passo con il ritorno di Fuani a una stabilità esistenziale e familiare che, pur non escludendo la possibilità di eventuali ricadute, si apre comunque a una speranza capace di scaldare il cuore dello spettatore.

In questa ottica “Svegliami a mezzanotte” evita la retorica della malattia, tenendosi distante dalla tentazione di dare risposte o regalare una morale a una vicenda chiamata a fare i conti con il mistero della mente umana.

Frutto della collaborazione alla scrittura tra Francesco Patierno e Fuani Marino, autrice dell’omonimo libro a cui il film è liberamente ispirato, “Svegliami a Mezzanotte” è l’ultimo episodio di un’ideale trilogia (“Napoli’44” e “Diva!” sono gli altri due) in cui l’autore napoletano sembra aver trovato nella pratica del documentario creativo il terreno ideale per portare avanti un discorso cinematografico – iniziato con Pater Familias -, in cui poesia e sperimentazione vanno di pari passo. In concorso nella sezione Documentari Italiani al 40° Torino Film Festival Svegliami a mezzanotte è destinato a rimanere nel cuore e negli occhi dello spettatore. Da non perdere.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su taxidrivers.it)

domenica, novembre 27, 2022

DIABOLIK - GINKO ALL'ATTACCO

Diabolik – Ginko all’attacco

di Manetti bros

con Giacomo Giannotti, Miriam Leone, Valerio Mastandrea

Italia, 2022

genere: azione, thriller, poliziesco, giallo

durata: 111’

Secondo capitolo per il film dei fratelli Manetti che portano sullo schermo l’antieroe delle sorelle Gianassi. A differenza del primo capitolo non ritroviamo Luca Marinelli nei panni di Diabolik. Il suo posto è preso da Giacomo Giannotti, noto al grande pubblico per la sua partecipazione alla serie tv “Grey’s Anatomy”. Con una fisicità ben più adatta allo spietato ladro e uno sguardo magnetico che incolla allo schermo lo spettatore, Giannotti migliora sicuramente il personaggio. Ad aiutarlo la sempre bellissima Miriam Leone, seppur messa un po’ in ombra dalla storia. Perché il vero protagonista di questo secondo capitolo è Ginko, interpretato da un eccellente Valerio Mastandrea che ruba, letteralmente, la scena a chiunque altro.

La storia inizia con Diabolik che ruba la preziosissima corona di Armen. Pochi mesi dopo, i restanti gioielli della collezione vengono indossati da delle ballerine che Diabolik riesce a rubare. In realtà si tratta di un piano dell’ispettore Ginko, che ha reso i gioielli radioattivi in modo da riuscire a intercettare gli spostamenti di Diabolik che riesce a sorprendere costringendolo alla fuga insieme a Eva Kant.

Ginko allora si concentra su ciò che ha trovato nel rifugio e inizia a progettare un piano per catturare il ladro, trascurando la donna che ama, in segreto, la duchessa Altea di Vallenberg. La nobildonna, giunta a Clerville per partecipare a un ballo, indosserà la celeberrima Collana del Grifone Nero.

Ma non tutto andrà, naturalmente, come previsto.

A non convincere nella narrazione dei Manetti sono la stessa “staticità” del primo capitolo. Troppo impostata la recitazione e il modo di parlare degli attori che, se da una parte vuole richiamare l’idea di passato, dall’altra ha l’effetto contrario e risulta troppo sopra le righe.

Un altro elemento che fa storcere il naso è, poi, lo sviluppo della storia, fin troppo scontata dall’inizio. Dopo i primi minuti, dal momento in cui viene rivelata la prima intenzione di Ginko, per lo spettatore attento (ma anche per quello un po’ più distratto) diventa semplice capire la direzione verso la quale virerà la storia. E a poco servono i tentativi di sviare l’attenzione e gli escamotage adottati dai registi per cercare di depistare.

Indubbiamente, come detto, la stella indiscussa di questo secondo capitolo è Ginko. Come suggerito dal titolo scelto, è l’ispettore interpretato da Valerio Mastandrea a tenere le redini e le fila di un “Diabolik” dove il ladro appare davvero poco e sembra il classico antagonista di turno che appare poco e che viene sconfitto.

Una maggiore interazione tra i due protagonisti (e antagonisti) sarebbe stata sicuramente apprezzata e avrebbe, con molta probabilità, conferito maggiore dinamicità a una pellicola che, pur avvalendosi di effetti speciali adatti all’epoca nella quale è ambientata la storia, risulta “agée”. Ed è un peccato perché uno dei ladri più famosi al mondo avrebbe meritato una rappresentazione diversa e, perché no, anche adattata a quella che è la realtà di oggi.

Dobbiamo aspettare il prossimo capitolo per capire la reale direzione che Diabolik e la sua amata Eva Kant prenderanno.


Veronica Ranocchi

giovedì, novembre 24, 2022

THE MENU

The Menu

di Mark Mylod

con Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy, Nicholas Hoult

USA, 2022

genere: horror, commedia, drammatico

durata: 107’

Disturbante e destabilizzante al punto giusto il “The Menu” servito da Mark Mylod nasconde una simbologia e dei richiami davvero ben fatti.

Un film che si snoda, come un menù, su più portate e che, con il procedere della narrazione, si trasforma davvero in una cena. Come al ristorante, dopo l’inizio, spesso cauto, degli antipasti, si rompe il ghiaccio, si sblocca la conversazione e si anima la tavola, anche in questo caso, dopo un inizio fin troppo lento si entra nel vivo di una vicenda tanto assurda quanto complessa.

Tutto inizia con la decisione da parte del giovane e altezzoso Tyler di portare la nuova fidanzata Margot in un ristorante di altissimo livello situato su un’isola senza copertura di rete. Qui, ad accoglierli, oltre a personale e camerieri in grado di conoscere tutti i segreti, anche quelli più nascosti, di ognuno dei presenti (fatta eccezione per Margot, “sostituita” nella prenotazione da Tyler dopo essere stato lasciato dalla precedente fidanzata), c’è lo chef Julian Slowik, specializzato in gastronomia molecolare, e intenzionato a cercare la perfezione nei suoi piatti. Una perfezione che prova a mettere in pratica arrivando davvero al limite dell’umano e che porterà la cena a trasformarsi in qualcosa di molto più terrificante…

Classificato come un horror commedia, “The Menu” è, in realtà, una satira sociale che prende e si prende in giro continuamente, anche nei momenti più drammatici, macabri e violenti.

L’intento dello chef (un più che convincente e “terrificante” Ralph Fiennes) si trasforma in una sorta di purificazione nei confronti dei presenti. I commensali, infatti, non sono scelti a caso. Alla cena partecipano, oltre a Tyler e Margot (un’Anya Taylor-Joy assoluta protagonista al fianco di Fiennes), molti altri: una coppia con un marito infedele, un’altra formata da un attore in declino e ancora giovani informatici e critici gastronomici che non hanno idea di ciò che affermano e scrivono.

Ognuno di loro, nella logica dello chef, deve in qualche modo essere punito, sia fisicamente che psicologicamente, anche attraverso le portate servite a tavola. Tutti hanno una colpa che pensano di poter tenere nascosta agli altri o al resto del mondo, ma che verrà inevitabilmente a galla con il passare del tempo. L’unica a non rientrare nella tela tessuta dal temibile chef Slowik è proprio Margot che prova con tutta sé stessa a uscire da una realtà che non le appartiene. Già con il rifiuto di assecondare le portate proposte, inizia a tenere in pugno la situazione, anche inconsapevolmente e, in una spasmodica ricerca, trova il famigerato “pelo nell’uovo” per smontare tutta la complessa costruzione del locale stesso.

Un film che si presta a una chiave di lettura non così semplice come può sembrare. Anche perché il sottotesto è vasto, dalla denuncia sociale alla punizione nei confronti di quella nobiltà, solo in senso lato, spocchiosa e arrivista. Ma si arriva anche a una riflessione sulla vita stessa e sugli obiettivi da porsi per condurre un’esistenza serena e tranquilla.

A qualche momento destabilizzante e, per certi versi, più traumatico, si contrappongono i pochi, ma intensi momenti di dialogo tra i personaggi di Fiennes e Taylor-Joy.

Tanti anche i richiami e i riferimenti a molti titoli che hanno posto al centro cibo e cucina.

Un finale che può apparentemente spiazzare, ma che racconta molto più di tanti giri di parole la realtà del film e quella che ci circonda. A chiusura l’ennesima didascalia, insieme a tutte quelle che accompagnano le portate e la divisione in capitoli del film, che si prende gioco anche dello spettatore stesso.


Veronica Ranocchi

lunedì, novembre 14, 2022

THE GOOD NURSE

The Good Nurse

di Tobias lindholm

con Jessica Chastain, Eddie Redmayne

USA, 2022

genere: giallo, drammatico

durata: 121’

Sulla scia del clamoroso successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, il film The Good Nurse di Tobias Lindholm torna sul “luogo del delitto” per restituire la figura del serial killer a una complessità spesso negata da un eccesso di commercializzazione. Con gli ottimi Jessica Chastain ed Eddie Redmayne protagonisti assoluti del film.

Nella piattaforma ammiraglia delle serie tv (Netflix) quello che pensavamo è già accaduto, con la filiera produttiva aperta alla possibilità che la progettualità cinematografica non sia più una questione relegata al suo universo d’elezione, quello in cui a dettare legge nelle scelte dei produttori è il responso della sala, ma che vi sia un meccanismo di influenza reciproca per cui la decisione di girare un determinato lungometraggio possa dipendere (anche) dal gusto di un pubblico abituato a confrontarsi in primis con una fruizione di tipo seriale. Tutto questo a testimonianza di un’osmosi, quella tra fiction televisiva e settima arte sempre più paritaria, non solo in termini estetici, ma anche di gusto. Ad alimentare questa ipotesi contribuisce la presenza su Netflix di un film come The Good Nurse, di Tobias Lindholm, messo in cartellone sulla scia del clamoroso successo di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, miniserie capace di rilanciare l’interesse verso un filone, quello dedicato ai serial killer, banalizzato, come altri, dall’eccesso di commercializzazione.

The Good Nurse conferma la persistenza di un processo inverso in atto molto prima della messa in rete della storia sull’assassinio di Milwaukee. Pur avendo avuto dei prodromi sulla fine degli ottanta con il film di William Friedkin, Assassino senza colpa (diretto da William Friedkin), affossato dalle disavventure produttive, ma esemplare nello spostare l’attenzione su logiche sempre più attinenti alla sfera psicologica e a una dimensione del male slegata dalla messa in scena del delitto, il recupero della complessità connessa con la figura del killer seriale deve molto al lavoro di un esperto in materia del calibro di David Fincher. Parliamo di un regista capace di confezionare un “finto” blockbuster qual è Seven, in cui suspense e orrore sono il frutto di una serie di omissioni – quelle legate alla vista del modus operandi dell’assassino – (lezione di cui The Good Nurse fa tesoro) che operano in un contesto nel quale l’odore del male fuoriusciva dalla mancata spettacolarizzazione delle sue tragiche iniziative.

Una modalità ribadita da Fincher con ancora più forza in Mindhunter (altra serie targata Netflix) in cui il progressivo allontanamento dalla scena del crimine (in termini di fuori campo, ma anche di punto macchina) andava di pari passo con un racconto più psicologico che fattuale.

A quel tipo di atmosfere e soprattutto di cinema (perché anche Mindhunter lo è) si rifà The Good Nurse nella trasposizione per immagini del libro scritto dal giornalista Charles Graber, sulla base di circa sei anni di interviste relative alla vicenda di Charles Cullen (Eddie Redmayne), infermiere che nel corso dei sedici anni di lavoro ospedaliero si sarebbe macchiato della morte di circa quattrocento pazienti (le stime sono provvisorie e tutt’ora indimostrabili) inserendo sostanze tossiche all’interno delle sacche utilizzate per le flebo.

Rispettando i modelli di cui sopra e inserendo nella storia un contraltare femminile con le sembianze e il talento di Jessica Chastain, la “brava infermiera”, chiamata dalla polizia a collaborare con la giustizia per incastrare il collega, Lindholm trasforma il thriller in una sorta di racconto a due voci in cui il confronto tra bene e male diventa quello tra due umanità speculari, e soprattutto tra una coppia di attori da Oscar, capaci di andare contro se stessi e dunque in direzione contraria al tipo di recitazione mimetica e manierata che è valsa loro il plauso dell’Academy, facendosi parte integrante di un più ampio lavoro di sottrazione che interessa innanzitutto la messinscena dei personaggi, sottratti al dinamismo e alla sensibilità emozionale che appartiene alla rappresentazione del conflitto tra segni opposti.

Lindholm lavora nell’ombra (come di fatto avviene nella scelta di non illuminare la scena, lasciando spazio a recessi e assenza di luce) anche per quanto riguarda il racconto per immagini. Si pensi alle sequenze speculari che introducono i protagonisti, in cui la diversa empatia di Charles e Amy trova corrispondenza in inquadrature rivelatrici delle opposte psicologie. Quella con Redmayne in cui il paziente pur presente nella stanza rimane visivamente fuori campo, come a testimoniare il mancato legame tra medico e degente, e l’altra, di egual tenore ma di segno contrario, nella quale è impossibile inquadrare Amy senza fare la stessa cosa con le persone di cui si occupa nell’istituto ospedaliero in cui lavora.

Ed è proprio il progressivo uscire allo scoperto della storia e del suo oscuro protagonista che racconta il rapporto tra personaggi e inquadrature. Così accade quando lo spettatore e la protagonista disconoscono la vera natura di Charles, con una serie di campi e controcampi in cui i primi piani ravvicinati sono tutti ad appannaggio di Amy perché di lei conosciamo con esattezza le vicissitudini, mentre quelli del collega rimangono più distanti, spesso frutto di campi medi che, nell’allontanare il volto dell’assassino, e, dunque, nel complicare la possibilità di leggerne le emozioni che l’attraversano, affermano la mancata trasparenza e il carattere sfuggente del personaggio. Al contrario di quanto accade nella seconda parte, quando la maggiore conoscenza di fatti e identità si traduce in piani e primi piani (dei protagonisti) pressoché identici.

Jessica Chastain ed Eddie Redmayne ci mettono del loro per trasformare il glamour divistico in un anonimato gestuale e fisico che fa ancora di più risaltare l’eccezionalità del quotidiano in cui sono coinvolti i loro personaggi. A metà strada tra biopic e crime story, The Good Nurse rispetta la cosiddetta insondabilità del delitto (nella realtà Cullen non rivelò mai i motivi del suo operato), accusa il sistema sanitario (reo di tacere sul sospettato per evitare scandali) e si proclama fan di Hannah Arendt e della sua teoria sulla banalità del male.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

IL PIACERE E' TUTTO MIO

Il piacere è tutto mio

di Sophie Hyde

con Emma Thompson, Daryl McCormack

UK, 2022

genere: commedia

durata: 97’

Un divertente gioco di parole che ben descrive la commedia di Sophie Hyde con una splendida Emma Thompson nei panni di un’insegnante in pensione rimasta vedova che cerca sé stessa in un’avventura con un giovane escort.

Nancy Stokes e Leo Grande si incontrano in una camera di un hotel di lusso dopo che la donna ha prenotato la presenza del giovane e avvenente escort che, in realtà, diventa quasi una sorta di voce della coscienza. La donna, oltre a cercare (e trovare) piacere carnale, si lascerà andare a rivelazioni e confessioni sulla vita, sul passato e sul futuro, sulle aspettative e sul mondo in generale, cercando non tanto l’approvazione quanto semplicemente l’ascolto da parte del ragazzo che, dal canto suo, cercherà di mantenere una certa distanza, fantasticando e immaginando uno scenario, non solo temporaneo per i due e per la durata di quella che lui definisce “sessione”, ma anche per sé stesso, sfuggendo così alla realtà e agli obblighi che essa si porta dietro. Ne viene fuori un quadro dolce e amaro al tempo stesso che è anche una delicata riflessione sul tempo che scorre e sull’approccio di ognuno di noi ai minuti che passano.

Diviso in capitoli, il film è completamente incentrato sui due protagonisti tanto che, fatta eccezione per una breve scena, Emma Thompson e Daryl McCormack sono gli unici due interpreti. Una storia che potrebbe apparire statica, considerando che è ambientata solo ed esclusivamente in una camera di hotel. Nonostante ciò “Il piacere è tutto mio” si rivela essere un film molto più dinamico di quanto si possa immaginare.

Mai volgare, mai sopra le righe, la commedia intrattiene e diverte al punto giusto, ma, cosa più importante, scava nel profondo dei personaggi e dell’animo umano. Attraverso la sceneggiatura, molto attenta e precisa, e una cura particolare nei dialoghi, perfettamente interpretati da due attori che si mescolano con successo, la storia convince e coinvolge.

Mettersi a nudo, per Nancy, è un ostacolo, ma è anche, al tempo stesso, un obiettivo. E riuscire nell’intento diventa funzionale alla sua crescita, come donna e come persona.

Quello di Sophie Hyde è un film che parla a un pubblico molto eterogeneo. Non si deve pensare solo a una determinata fetta di popolazione. Gli scambi, audaci e arguti, di battute tra Nancy e Leo sono quelli tra due generazioni, tra due modi di vedere la stessa cosa. Lui prova a vedere il lato positivo, cerca di mettere Nancy a proprio agio, cerca di disegnare un contesto che non è del tutto fittizio. Lei, dal canto suo, è restia a provare qualsiasi cosa, qualsiasi novità o cambiamento in quella che è stata la sua (monotona) vita, ma alla quale è ormai abituata (e soggiogata). Ed ecco, quindi, che non riesce mai a vedere il lato positivo, non è mai davvero tranquilla e si trova “costretta” a rispettare qualsiasi regola. Mai una distrazione, mai un qualcosa fuori dal comune, sempre ligia al dovere.

Una commedia con la quale ridere, mai in maniera completamente superficiale, ma nella quale provare anche a rispecchiarsi, come la stessa Thompson fa, mettendosi letteralmente a nudo.


Veronica Ranocchi

domenica, novembre 13, 2022

RAPINIAMO IL DUCE

Rapiniamo il duce

di Renato De Maria

con Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Tommaso Ragno

Italia, 2022

genere: drammatico

durata: 90’

Le sequenze iniziali ci dicono che cosa sarà del resto del film. “Rapiniamo il duce” gioca con la Storia rinunciando fin da subito ad analizzarla nei suoi risvolti più drammatici. La Seconda guerra mondiale e il regime fascista nella Milano del 1943, per quanto di lugubre memoria, sono da subito sgombrati degli aspetti più scabrosi per diventare materia da spettacolo. A dircelo è innanzitutto il movimento ad ampio respiro con cui la macchina da presa atterra sulla città in guerra dopo averla perlustrata dall’alto in basso con velocità sufficiente per farci apprezzare la grandeur scenografica cui Renato De Maria si affida per introdurre lo spettatore alla ricostruzione di quei terribili anni. Appena in tempo a presentarci il personaggio interpretato da Pietro Castellitto e a prendere il sopravvento è, manco a farlo apposta, il cinema, rappresentato dalla sala cinematografica nella quale poco dopo ritroviamo Isola e Yvonne, amanti e complici a capo dell’impresa impossibile con cui insieme a una squadra di simpatici lestofanti cercheranno di farla pagare al Duce e ai suoi accoliti derubandoli del tesoro frutto delle numerose confische belliche.

Mentre i due si confrontano sul da farsi, discutendo sulle possibilità di vivere felici facendo il colpo della vita che permetterà loro di sistemarsi lontano dall’Italia, sul grande schermo scorrono le immagini documentaristiche sul tipo di quelle prodotte dall’Istituto Luce in cui la minacciosa propaganda di Benito Mussolini si staglia su tutto e tutti con assoli e primi piani destinati però a restare confinati all’interno dello schermo. Il corpo del Duce non spaventa, messo com’è in secondo piano da questioni sentimentali e interessi mercantili e, al massimo, preso come prototipo per la messinscena farsesca con cui di lì a poco De Maria darà vita alla schiera di cattivi contro cui Isola e la sua squadra si dovranno confrontare per riuscire ad espugnare la cittadella in cui è depositata l’enorme ricchezza.

Insomma, in “Rapiniamo il duce” guerra e fascismo sono ingredienti da cinema, buoni per imbastire un'avventura sul tipo di quelle che in Italia si giravano negli anni 70, tempi in cui il cinema di genere americano veniva clonato con forme di cinema più consone all’umore nostrano. Così, accanto ai divi di turno, non solo Castellitto, che qui aspira ad esserlo nel suo primo ruolo da protagonista, ma anche Matilda De Angelis che in qualche modo già lo è, avendo recitato accanto a star come Nicole Kidman e Hugh Grant (“The Undoing - Le verità non dette”), troviamo un campione della risata come Maccio Capotonda - nella parte di uno sciroccato asso del volante -, chiamato a fare da contraltare con la sua verve comica e la sua simpatia alla maschera tragica del gerarca Filippo Timi cui il regista affida il compito di incarnare il ruolo del villain destinato, come nei blockbuster americani, a sostenere il peso drammaturgico dell’intero film. Affiancato dalla minacciosa dark lady interpretata da un'ottima Isabella Ferrari, per l’occasione impegnata in un personaggio a metà strada fra Crudelia De Mon e la Norma Desmond di “Viale del tramonto”.

Chiamato a scegliere tra heist movie e commedia d’azione, “Rapiniamo il duce” decide di stare nel mezzo moltiplicando le citazioni cinematografiche e soffermandosi più sulle caratterizzazioni dei personaggi che sui meccanismi narrativi relativi alla realizzazione del colpo su cui il film sembra quasi voler sorvolare.

Rispetto a un'operazione come “Freaks Out”, cui “Rapiniamo il duce” è accomunato per il rapporto con la Storia e per l'idea di sfidare sul piano della spettacolarità e della confezione i prodotti mainstream provenienti d’Oltreoceano (oltre che per la presenza in entrambi i film di Castellitto), il film di De Maria si accontenta di essere quello che è, un lungometraggio di puro intrattenimento sul modello frivolo e leggero imposto da Netflix, da sempre attento a normalizzare gli aspetti più complessi della sua offerta per non precludersi la possibilità di essere spendibile a una platea sempre più larga di spettatori.

Come autore De Maria non commette l’errore di sentirsi in colpa per non aver preso di petto gli orrori della guerra e dunque non fa lo sbaglio di appesantire lo spettacolo con richiami alla retorica antimilitarista. Il regista tira dritto per la sua strada e anzi, a scanso di equivoci, si premura di non essere frainteso facendo morire l’unico tra i personaggi coinvolto nella vicenda per ragioni di militanza e non per soldi. Destinato a saltare l’uscita in sala per presentarsi direttamente in piattaforma a partire dal 26 ottobre, “Rapiniamo il duce” è un film senza infamia e senza lode, adatto a soddisfare il suo pubblico di riferimento.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

TORI E LOKITA

Tori e Lokita

dei fratelli Dardenne

con Pablo Schils, Joely Mbundu, Alban Ukaj

Belgio, Francia, 2022

genere: drammatico

durata: 88’

Dopo essere stato tra i film in concorso al Festival di Cannes, “Tori e Lokita” dei fratelli Dardenne arriva, in prima nazionale, al Festival dei popoli e colpisce, senza mezzi termini, lo spettatore che si ritrova inerme al cospetto di un’opera brutale nella sua semplicità.

Non un documentario, ma un film che si “limita” a raccontare una storia. La storia è quella di Tori e Lokita, due giovanissimi immigrati africani arrivati in Belgio per sfuggire alle condizioni di vita dei rispettivi paesi. Pur provenendo da paesi diversi i due si sentono fin da subito legati, come fratello e sorella, ma devono dimostrare che questo legame ci sia davvero. Non potendolo fare, si trovano costretti a sottostare a delle vere e proprie imposizioni da coloro che promettono di poter offrire loro delle condizioni di vita migliori. Nel frattempo, però, i pericoli, gli ostacoli e la vita in generale diventano sempre più duri e inaccettabili.

Un vero e proprio pugno nello stomaco quello di “Tori e Lokita”. Quello che fanno i fratelli Dardenne è portare sullo schermo una vicenda reale, soltanto “mascherata” da finzione.

La vita di Tori e Lokita è, seppure lontano dal nostro immaginario, quanto di più vero (purtroppo) possa esistere.

Con una disarmante (e cruda) verità i fratelli Dardenne tentano di raccontare cosa significa vivere dalla parte opposta per tutti coloro che, ogni giorno, attraversano non solo il mare, ma anche molto altro, lasciando indietro famiglia e affetti. Sicuramente un modo diverso di vedere il mondo, ma un modo che a molti è precluso o comunque limitato, per mille motivi. Ed ecco che, come nel caso di Tori e Lokita, diventa indispensabile riuscire ad aggrapparsi a qualcosa per sopravvivere in quella che, alla fine dei conti, è una vera e propria giungla.

Da lavori inaccettabili a situazioni degradanti per la persona stessa, per la società, per la morale e per molto altro.

Lokita, più grande e quindi più soggetta a determinati “obblighi”, è anche quella che subisce maggiormente il potere di una parte della società che pensa di poterla usare, sotto tutti i punti di vista, per il proprio tornaconto. Tori, invece, più piccolo, ma anche più scaltro, cerca di sovrastare questo ingiusto “sistema” e tenta di fare il possibile per allietare la “sorella” e cercare di non far portare solo ed esclusivamente a lei tutto il peso della responsabilità.

Con una narrazione lineare e pulita, i due registi tratteggiano una situazione insostenibile, arrivando fino all’osso della questione e mostrandola, quasi del tutto senza filtri, a uno spettatore che non può non essere colpito dalle atrocità perpetrate.

I due “fratelli” riescono a esserlo e diventarlo quasi per davvero, aiutati dal supporto reciproco. Un supporto che addirittura arriva a invertirli trasformando, a tratti, Tori nel fratello maggiore che indirizza, consiglia e supporta la sorella.

Menzione speciale, oltre ai due intensi protagonisti, alla canzone scelta dai due fratelli. “Alla fiera dell’est”, che torna costantemente nella narrazione, diventa quasi metafora della situazione di ripercussioni che i due devono subire.


Veronica Ranocchi

giovedì, novembre 03, 2022

LA STRANEZZA

La stranezza

di Roberto Andò

con Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone

Italia, 2022

genere: commedia, drammatico, storico

durata: 104’

Un alternativo Pirandello. O meglio un alternativo modo di dipingere e mostrare sullo schermo il genio e il talento di Luigi Pirandello.

Roberto Andò riesce a convincere lo spettatore a rimanere incollato allo schermo per tutta la durata del film realizzando un’opera che è un mix tra biografia, dramma e commedia. Ogni genere è presente in maniera calibrata e precisa, senza mai prevaricare sugli altri.

La storia ruota apparentemente intorno alla figura di Luigi Pirandello che, di ritorno in Sicilia, nel 1920 per il compleanno dell’amico Giovanni Verga, viene a sapere che la sua anziana balia è morta. L’uomo decide di organizzarle un ricco funerale e, per farlo, assume due becchini, Sebastiano Vella e Onofrio Principato. I due non riconoscono l’autore e gli rivelano di star scrivendo e mettendo in scena il loro primo dramma teatrale al quale Pirandello sembra fin da subito incuriosito e affascinato. Nonostante alcune peripezie e la sgangherata compagnia del paese i due riescono a mettere in scena lo spettacolo al quale assiste, di nascosto, anche lo stesso Pirandello che, così facendo, riesce, secondo lui, a trovare risposte alle proprie domande.

A differenza di tante opere del genere, quella di Andò non è un’opera che vuole mostrare o insegnare qualcosa. Non si limita infatti a raccontare la vita di Pirandello o a focalizzarsi su un momento in particolare. Ma rielabora a suo modo un dato elemento (quello che ha portato il grande autore a realizzare uno dei suoi capolavori, “Sei personaggi in cerca d’autore”). Ed è qui che risiede la grandezza del regista. Come anche altri prima di lui, e neanche troppo lontano nel tempo, Andò porta il teatro al cinema, prima con lo spettacolo dei due becchini, poi con quello di Pirandello. Ma non si ha mai la sensazione di staticità o di star vedendo teatro su uno schermo. Quello che si percepisce è qualcosa che va oltre e che fonde perfettamente le due arti.

Ben calibrato anche dal punto di vista della scrittura dei personaggi che sono tutt’altro che macchiette (e il rischio di inciampare in questo era alto). Due su tutti sono indubbiamente Ficarra e Picone che riescono quasi a mettere in ombra il Luigi Pirandello di Toni Servillo. Nonostante la somiglianza e l’autenticità, sono i due becchini il vero focus intorno alla storia. Sono loro che, inconsapevolmente, accendono la miccia della vicenda. Oltre a essere anche l’elemento comico, ma mai sopra le righe, di una storia che pur prendendosi sul serio preferisce scherzare e far divertire lo spettatore.

Sono apprezzabili e godibili i riferimenti storici e letterari, ma quello che convince davvero è, come suggerisce il titolo, la stranezza con la quale viene ideata e messa in scena la storia. Pensare di andare al cinema per vedere un film sulla vita di Luigi Pirandello o sulla genesi e la successiva messa in scena di “Sei personaggi in cerca d’autore” sarebbe sbagliato. Ma, in qualche modo, “La stranezza” è anche questo, come nella migliore delle tradizioni pirandelliane, dove finzione e realtà si mescolano fino a diventare una cosa sola. Solo che, a differenza del capolavoro del premio Nobel per la letteratura nel 1934, il film di Andò può essere apprezzato fin da subito e non soltanto in un secondo momento.


Veronica Ranocchi