mercoledì, ottobre 31, 2012

Film in sala dal 1° novembre 2012


 

UN'ESTATE DA GIGANTI
(Les Géants)
di Bouli Lanners
Drammatico - FR/BEL/LUX 2011 - Minerva Pictures Group - 85"
Zacharie Chasseriaud, Martin Nissen, Paul Bartel, Karim Leklou
Didier Toupy, Gwen Berrou, Marthe Keller














THE ROCKY HORROR PICTURE SHOW
di Jim Sharman
Musical - GB 1975 - Fox - 95"
Tim Currey, Susan Sarandon
Barry Bostwick, Richard O'Brien













007 SKYFALL
(Skyfall)
di Sam Mendes
Azione - GB/USA 2012 - Warner Bros - 143"
Daniel Craig, Ralph Fiennes, Judi Dench, Javier Bardem
Albert Finney, Helen McCrory, Naomie Harris, Bérénice Marlohe






 






 SILENT HILL: Revelation 3D
di Michael J. Bassett
Horror - FR./USA 2012  - Moviemax -  94"
Sean Bean, Malcolm McDowell, Carrie-Anne Moss
Radha Mitchell, Kit Harington
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

OLTRE LE COLLINE
(Dupa dealuri)
di Cristian Mungiu
Drammatico - FR/BEL/LUX - 2011 - Minerva Pictures Group - 85"
Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga
 









 



E IO NON PAGO - L'Italia dei furbetti
di Alessandro Capone
Commedia - ITALIA - 2012 - Iervolino Entertainment spa - 108"
Maurizio Mattioli, Maurizio Casagrande, Jerry Calà
Enzo Salvi, Valeria Marini, Ninì Salerno



martedì, ottobre 30, 2012

Le belve

"Le belve"/"Savages"
di: O. Stone
- USA 2012 -
con: T. Kitsch, A. Johnson, B. Lively, J. Travolta, B. Del Toro, S. Hayek


Winslow, classe '53, autore e anche sceneggiatore di questo "Le belve/"
Savages" da cui il film di Stone scaturisce, e' uno scrittore avveduto. Forse
persino troppo. Le sue opere sono sovente concertate in vista di un rapido
trasferimento sullo schermo. Cosa, di per se', di scarso interesse o almeno di
interesse limitato rispetto agli eventuali esiti raggiunti, e rimandando ad
altri spazi l'alternanza di ruoli tra chi scrive, chi dirige, chi sceneggia...
Nella struttura di "Le belve" e' chiara l'impostazione e la prevalenza di una
piega enfatica, una sorta di timore di non stupire mai abbastanza che uno come
Stone deve aver visto come la possibilità di servirsi il proprio piatto
preferito senza vincoli dietetici: quindi dialoghi "tough and cool"; porzioni
miste di turpiloquio-sesso-sangue all'interno di una complessiva spinta
all'accelerazione che spesso rischia lo sparecchiamento improvviso. Cosa che
non accade - per rimanere in paraggi visitati di recente - ad un narratore come
Higgins ("Cogan's trade") che giostra il suo più che elaborato fraseggio in
minore, velando cioè il complesso della storia e la gran mole di battute che vi
si recitano entro un'impercettibile quanto solida membrana di understatement
che, sottotraccia, compatta e reindirizza le spinte più centrifughe del
linguaggio, come un buon calafataggio impedisce all'acqua di farsi strada tra
gl'interstizi di una chiglia dai colori vividi.
Ecco: l'impressione vedendo il film di Stone e riflettendo in filigrana sul
passo della scrittura di Winslow, e' quella di trovarsi di fronte ad una bella
carena la cui intelaiatura pero' non e' stata ben registrata e qua e la'
trasudano gocciolii che preludono alla formazione di vere e proprie falle.
L'obiezione e' annosa: Stone e' un regista "eccessivo". Quindi o si prende
tutta la confezione o si passa ad altro scaffale. C'è anche un'altra
possibilità. Stone e' un regista di "grana grossa", abituato a rimarcare, che
ha prodotto - anche se non di recente - numerose indovinate e feroci
intuizioni. Qui si affida alla velocità e all'accumulo di "situazioni",
contando che racconto e personaggi si sviluppino come per una sorta di fatale
inerzia o per un intrinseco potere di fascinazione.
In realtà, il gioco e' orchestrato e si ripete sulla base di dinamiche e
psicologie prevedibili e risapute, movimentate quel tanto (poco) da permettere
ai tipi umani che le incarnano di compiere azioni riconducibili al loro
stereotipo di riferimento. Così, troviamo il poliziotto doppiogiochista,
infingardo e corrotto (un sempre più "espanso" Travolta); il carnefice quasi
ottuso nella sua programmatica malvagità (la maschera cialtrona in perenne
torpore post-anestesia di un comunque godibile Del Toro); la "reina"/erinni del
cartello (l'inflessibile eppur dolente Hayek, ricalcata sulle eroine negative
di tanti noir del passato).
Discorso a parte meritano i tre ragazzi californiani, perno dell'azione,
avventurieri e alchimisti 3.0, in grado, con il loro "prodotto" sopraffino, di
pestare i piedi ad una delle tante multinazionali del narcotraffico. Chon
(Taylor Kitsch), allora, ex soldato introverso e irruente; Ben (Aaron Johnson),
angelo gentile, cervello imprenditoriale e armonia post-post-hippy. E tra i
due, Ophelia (Blake Lively), ricca, annoiata e sola rampolla della South Orange
County, detta O o anche Multi-O e Big-O, per via delle frequenze e sonorità dei
suoi orgasmi. Tre persone, tre spiriti, come coacervo e sintesi di un tentativo
estremo (disperato) di riscatto di una generazione - quella di Stone, di
sicuro; magari quella dei fratelli maggiori, per Winslow - che si era cullata
nell'illusione di rovesciare i rapporti di forza su vasta scala a colpi di
slogan in parte solo orecchiati, inopinatamente invecchiati in fretta, pagati
da molti comunque a caro prezzo (Stone ha partecipato al conflitto in Vietnam),
poi tenuti in vita dalla frustrazione, dalla nostalgia, che ha condotto anche
le spinte più eccentriche - le istanze libertarie e pacifiste, l'uso disinvolto
delle droghe, il pansessualismo, che nella "visione", insieme, avrebbero dovuto
sollevare, come una magica mareggiata affine alle tanto amate onde del
Pacifico, bianchi e neri, poveri e ricchi, cinici e sognatori - ben dentro i
binari di una routine, di una sostanziale e in molti casi accettata
omologazione, ossia all'interno di quei generici confini "conformisti" che
idealmente si volevano abbattere.
Nel film, tutto ciò assume i contorni di un molto vago ribellismo, finalizzato
secondo una logica prettamente capitalistica alla produzione di grandi
profitti, e declamato nelle forme dell'esaltazione di una felicita' privata e
individuale (il rapporto esclusivo a tre) secondo il mito (capitalistico
filantropico, stavolta) dell'accumulazione per nobili intenti umanitari da un
lato, e della ricerca del paradiso perduto in cui fuggire/nascondersi
dall'altro.
Incastrato nella rete di questa smagliante ma insidiosa (per gli echi e i
fantasmi che si trascina dietro) superficie, Stone s'arrabatta e alla fine si
perde. Muove le sue figure avanti e indietro tra pause, doppi e tripli giochi,
scarti brutali, infarcendo la messa in scena di vecchi "trucchi" - immagini
desaturate, primissimi piani sgranati, colori vistosi, sfocature - che tanti
non perdonavano, ad esempio, al compianto Tony Scott (che li aveva sempre
usati, anzi, ne aveva fatto cifra stilistica).
Ed e' proprio tra cambi di ritmo e incertezze negli sviluppi, tra accostamento
e accostamento che si può inquadrare il finale "riletto", propaggine testarda
che, forzando l'utopia e il sogno del passato, ne svuota anche gli ultimi
cascami, costringendo gli eroi antichi/moderni di Winslow a rinunciare anche
alla loro anima segreta di "belli, bellissimi selvaggi".


TheFisherKing

lunedì, ottobre 29, 2012

Io e te

Io e te
regia di Bernardo Bertolucci (Italia 2012)


Non tutto il male viene per nuocere. In alcuni casi gli accidenti della vita forzano le cose verso direzioni impensate, non previste. Senza invocare spiegazioni metafisiche ma chiamando in causa allo stesso tempo delusioni politiche e malessere fisico, capita che l’empasse di un’artista si trasformi in nuovi stimoli e, clamorosamente, in una rinascita. E’ quello che è successo ad uno dei massimi esponenti del cinema italiano, sicuramente il più conosciuto ed acclamato a livello internazionale, un cineasta in grado di parlare quel linguaggio universale costantemente invocato dai detrattori del nostro movimento cinematografico. Per questi ed altri motivi Bernardo Bertolucci si è trovato ad un certo punto senza ispirazione, e forse sì è sentito superato quando ebbe modo di esternare la sua impotenza di fronte ad una realtà che non riusciva più a capire, quindi a filmare. Da quel momento, erano i tempi de "L’assedio" (1998), iniziò un progressivo disimpegno a cui corrisposero lavori caratterizzati da una contrazione fisica e spaziale. Storie di reclusioni che si ammantavano di nostalgia cinefila ed ideologica (The Dreamers) e che in qualche modo sarebbero state il presagio della malattia vera, quella che vide Bertolucci ridotto alla stregua dei suoi personaggi, come loro separato dal resto del mondo. Fino a questo “Io e te”, giunto dopo lungo esilio per segnalare il nuovo inizio .


Eppure a prima vista il progetto non sembrava diverso da quelli precedenti, eccezion fatta per il soggetto, tratto dal libro di uno scrittore attuale e di successo come Nicolò Ammaniti. Non sembrava nuova la storia di Lorenzo e Olivia, i due ragazzi che alla stregua dei “sognatori parigini” si incontrano e si riconoscono attraverso una convivenza esclusiva ed iniziatica. E non dissimile da altri lavori era anche l’interesse per una gioventù in via di formazione e di scoperte. Lorenzo ed Olivia sono infatti due fratelli divisi dal nuovo matrimonio del padre, sposato a una donna con la quale Olivia è entrata in competizione ed a cui ha finito per fare del male. Lorenzo invece è un ragazzo che sfugge a qualsiasi contatto, immerso in un mondo di storie fantastiche e nei decibel di un ipod perennemente acceso. Per questa ragione invece di andare in montagna decide di rifugiarsi all'insaputa dei genitori nella cantina della propria abitazione. Sogna di restare solo ma il destino gli mette davanti quella sorella dimenticata ed in difficoltà. Uno presenza ingombrante ma decisiva nell'innescare il confronto che finirà per cambiare le prospettive di entrambi.


A differenza di quanto accaduto nel più recente passato il nuovo film di Bernardo Bertolucci è un'opera sorprendentemente fresca perché in grado di liberare il regista dai fantasmi e dagli orpelli di un cinema che sembrava continuare a frugare nei magazzini della memoria, specchiandosi nella bellezza della loro messinscena. Spogliato di ogni eccesso, a cominciare da una forma divenuta essenziale, con movimenti di macchina ridotti al minimo, e presenti in maniera significativa, come quando si tratta di annunciare il rovesciamento esistenziale che di lì a poco si produrrà nella vita di Lorenzo con una panoramica carpiata, che ritorna su se stessa dopo aver traguardato le vette del condominio familiare, “Io e te” si concentra sui personaggi e sul rapporto che tra loro si instaura, lasciando all’alchimia del set, povero, angusto e scarsamente illuminato, ed alla presenza impalpabile della telecamera, il compito di produrre il miracolo.

Bertolucci si avvicina a Lorenzo ed Olivia con la delicatezza che si confà ad un cristallo pregiato. Si muove assieme a loro ma lo fa con discrezione, dando l’impressione di diventare ora uno, ora l’altro, mentre questi emergono dai recessi di quello scantinato. Dapprima li nasconde, rivestendoli con una maschera di autistico rifiuto, alterandone i lineamenti con vestiti larghi ed ingombranti. Poi in maniera naturale li fa venire a galla con una richiesta d’amore suggellata da un ballo liberatorio, eseguito sulle note di un David Bowie (Space oddity) in versione italiana.

Se Bertolucci è da sempre un infallibile pigmalione, capace di inventare dal nulla le figure umane dei suoi paesaggi, questa volta mette il suo talento a servizio dei soli personaggi, affrancandoli da metafore ed intellettualismi. Un suo è un afflato animato da sguardi furtivi, fatto di contatti ruvidi e sgraziati, tipici di chi teme il confronto con l'altro, e poi sempre più morbidi, come il nodo che si scioglie quando la paura lascia il posto ad una fiducia infinita. Lavorando sui contrasti e sulle affinità tanto dei personaggi quanto degli ambienti - la continuità tra il dentro e fuori è realizzato con inserti brevi ma capaci di imprimere al fuoriscena un' incombenza realistica - Bertolucci riesce a portate sullo schermo l'infinito dell'animo umano con i sogni ed i timori che dentro vi si addensano. Una capacità che amplifica i confini del visibile, annullando di fatto i limiti fisici e spaziali della storia che riesce a far dimenticare il fatto di restare per tutto il tempo in un unico ambiente. Ed ancora evitando la retorica della riconciliazione grazie ad un montaggio secco, che uccide sul nascere qualsiasi tentativo di enfasi e di melò con sequenze concluse mentre il climax è ancora in ascesa oppure lasciando allo spettatore il compito di immaginare quello che succede, come accade nell'atto conclusivo, con i due personaggi che si salutano sullo sfondo di un campo lungo che volutamente ci impedisce di partecipare a quel commiato. Una scelta che ci toglie definitivamente e senza preannunciarlo lo sguardo di Olivia, restituendola alla precarietà della sua esistenza e che rende tangibile, con cio che non vediamo, una fine aperta a mille ipotesi. A rimanere con noi è invece il fermo immagine di Lorenzo, finalmente sorridente e sereno. Jacopo Olmo Antinori come il Jean Pierre Leaud dei "400 colpi" è una cartolina d'auguri per il resto della vita.

venerdì, ottobre 26, 2012

Siegel/Eastwood: due nel mirino (1)

Due come loro.
Il regista dei generi e l'attore dalla faccia di granito.
Dopo anni di oscurantismo dettato più da ragioni ideologiche che da un analisi obiettiva, i nomi di Don Siegel e Clint Eastwood sono diventati da un pò tempo sinonimo di qualità.
Un appellativo meritato, ma non scontato, se è vero che nel corso delle rispettive carriere i due sono stati spesso vittima di stereotipi o preconcetti, derivati soprattutto dalle rappresentazioni di un cinema che prendeva di petto l'esistenza sfidandola con un uso esaltante e spregiudicato del fattore umano.
Giudizi progressivamente rivisti attraverso una rilettura critica meno partigiana, e più disposta ad accettare un cinema diventato, anche grazie all'apporto di altri "maestri"che di Siegel hanno seguito l'esempio, territorio ideale per decodificare i fantasmi della nostra contemporaneità. Tenendo conto di questa revisione, ed evitando di celebrare due tipi più propensi al fare che al dire, icinemaniaci provano a ricognire i vari capitoli di questa alleanza, ripercorrendola attraverso i film che di fatto costituito la prova concreta di un percorso comune complesso ed originale.
Il risultato è un racconto ricco di dati e di notizie, in cui la precisione dell'analisi cinematografica va di pari passo con un umanesimo imbevuto di passione cinefila. Nella speranza che questa iniziativa riesca a trovare il favore dei lettori, e magari a stimolare la visione dei film in questione, vi lasciamo alla lettura ricordando che il primo post è stato pubblicato oggi per rendere omaggio al centenario della nascita di Don Siegel avvenuta il 26 ottobre del 1912, mentre gli altri usciranno settimanalmente e nella giornata del lunedì.


(nickoftime)


"Siegel/Eastwood: due nel mirino (1)"
di TheFisherKing

"Ehi, ma che infanzia hai avuto ?"
"Breve"
- da "Fuga da Alcatraz" -


1971.
Paul Berg per la prima volta ricombina il DNA. Viene messo a punto il
microprocessore. Jean-Francois Borel scopre la ciclosporina (farmaco che agendo
sul sistema immunitario, contrasta il rigetto dopo un trapianto). Per buona
parte dell'anno i Rolling Stones incidono a Villefranche-sur-Mer, "Exile on
Main Street", sessione alcolico-lisergica-iperlibertaria (da poco
ripubblicata). Prendono forma gli Steely Dan. La Allman Brothers Band realizza
il doppio live "At the Fillmore East" (capolavoro quasi d'esordio ma già
epitaffio: Duane Allman, chitarrista e cuore musicale del gruppo, muore in
ottobre; il Fillmore chiude quasi in sincronia i battenti). In Vietnam, anche
in ragione della fallimentare offensiva in Laos delle forze sud vietnamite,
prosegue il disimpegno americano sul terreno del conflitto. Il poeta cileno
Pablo Neruda vince il Premio Nobel per la letteratura. Alla Mostra del Cinema
di Venezia l'appena istituito premio alla carriera viene attribuito - tra gli
altri - a John Ford. Don(ald) Siegel e Clint Eastwood mettono insieme il lavoro
più popolare e controverso del loro sodalizio, "Dirty Harry", da noi noto come
"Ispettore Callaghan: il caso Scorpio e' tuo" (curiosità: la "g" nel cognome
del protagonista e' una chicca nostrana. L'originale e' Callahan).

Se la vita e' imprevedibile, si può dire che uno dei sigilli di garanzia di
questa imprevedibilità e' il cosiddetto "sodalizio artistico". Breve, lungo,
idilliaco, tormentato, che sia. Eccolo allora fantastico/favolistico
(Burton/Depp); folle/spassoso (Edwards/Sellers); critico/impegnato
(Pollack/Redford), solo per citarne alcuni. Addirittura oltre il cinema stesso,
a volte, in un territorio dai contorni vaghi, intriso di una sua speciale
magia: un po' avventuroso, un po' superomistico (Herzog/Kinski); un po'
onirico, un po' surreale (Fellini/Mastroianni); un po' ribelle, un po'
romantico (Truffaut/Leaud). Uno spazio, in ogni caso - tornando ad un livello
più prosaico - abitabile in teoria da chiunque, a patto pero' che venga
soddisfatta almeno una condizione: lo sforzo di esprimere una comune (o molto
prossima) visione del mondo nel rispetto e soprattutto nell'intento di valersi
delle reciproche peculiarità individuali. Don Siegel e Clint Eastwood, nel
decennio abbondante (1968 - 1979) che li ha visti accomunare gli intenti,
rappresentano una delle versioni meglio riuscite di questo sforzo.

Siegel, classe 1912 (e' scomparso nel '91e di questi tempi ricorre il
centenario della nascita), da Chicago (Illinois) - una delle patrie del
crimine, del cinema sul crimine e di maestri del cinema sul crimine (basta
ricordare che dalla "città del vento" provengono William Friedkin e Michael
Mann, da sempre estimatori di Siegel e pubblici sostenitori dei debiti da loro
contratti nei confronti del suo cinema) - nel 1968 era un autore che oltre a
spaziare con determinazione tra i generi - fantascienza, noir, western - aveva
già incrociato la non affollata strada dei capolavori. Eccone tre: "Rivolta al
blocco 11"/"Riot in cell block 11", 1954, girato "dal vero" nel carcere di
Folsom, in parte interpretato da autentici detenuti, che aveva molto
impressionato un allora ventottenne Sam Peckinpah, reclutato ad un centinaio di
dollari alla settimana per fare da terzo assistente alla regia. Poi il celebre
"L'invasione degli ultracorpi"/"Invasion of the body snatchers", 1956, pietra
di paragone della fantascienza inquietante, apocalittica, senza riscatto, ai
tempi (in piena Guerra Fredda) intollerabile per la lucidità con cui
rivendicava il proprio pessimismo. E infine "Contratto per uccidere"/"The
killers", 1964, dall'omonimo racconto di Hemingway, già portato sullo schermo
da Robert Siodmak nel 1946 con la coppia letale Lancaster/Gardner (tutti e due
esordienti o poco più), in cui spiccano, accanto all'ormai consolidato rigore
della messa in scena - necessario qui a descrivere un mondo vuoto che nemmeno
la bramosia o la brutalità riescono a scuotere - l'atmosfera di futile
gratuita' che avvolge ogni azione e banalizza ogni scopo e le prove superlative
di Lee Marvin e John Cassavetes. Pare quindi quasi fatale - storicizzando, si
capisce - come le strade di un regista affermato seppure in permanente
contraddizione con Hollywood, affezionato al genere ma critico e polemico nei
confronti delle trasformazioni che maturavano in seno alla società del suo
tempo, e quelle di un attore con velleità di autore (Eastwood avrebbe esordito
alla regia di li' a qualche anno, nel 1971) con alle spalle una discreta
gavetta nelle serie televisive ("Maverick", "Rawhide", "Highway patrol"), la
"trilogia del dollaro" di Sergio Leone sul grande schermo e poco altro, fossero
"destinate" a incontrarsi.

A cavallo (e' il caso di dirlo) tra gli anni sessanta e i settanta, il western
si era già incamminato verso quella estrema rilettura che la critica avrebbe
definito "crepuscolare". Lavori come "Mucchio selvaggio" (1969), "La ballata di
Cable Hogue" (1970) di Peckinpah; "Soldato blu" (1970) di Nelson; "Piccolo
grande uomo" (1970) di Penn o "Corvo Rosso..." (1972) di Pollack e "L'uomo dai
sette capestri" (1972) di Huston, avevano concorso a dire con una certa
nettezza che un mondo e un determinato numero di orizzonti erano ormai
tramontati e che una visione che privilegiasse l'occhio critico e un definitivo
realismo s'imponeva alla tentazione eterna della nostalgia e del rimpianto
(nonché della manipolazione). Quale migliore occasione, allora, per alzare la
posta e tentare di trasporre certe tematiche tipiche del western in un contesto
metropolitano ? "L'uomo dalla cravatta di cuoio"/Coogan's bluff" consente a
Siegel - siamo nel 1968 - allo stesso tempo, di tenere in vita certi cardini
narrativi - l'avventura, il desiderio di giustizia, spesso lasciato
all'arbitrio e alla vendetta personale, il ribaltamento dei rapporti di forza
tra chi detiene l'autorità e chi la mette in discussione - e di attualizzarli
rilanciandoli. Innanzitutto, il film sancisce l'inizio di un rapporto non solo
professionale ma umano con Eastwood. Prima conseguenza di ciò, la fiducia
reciproca che spinge Siegel a coinvolgere l'attore ai tempi ancora di "belle
speranze" nella revisione dello script che non lo soddisfaceva e che aveva già
visto una decina di versioni prendere la strada del cestino.

Di rimando,Eastwood si consegna a Siegel,
cominciando ad assumere quella "mimica rigida" venata di sarcasmo che ne
avrebbe caratterizzato quasi tutta la carriera
davanti la macchina da presa e che supportata da un'innegabile prestanza fisica
avrebbe finito per forgiare un vero e proprio stereotipo, di cui il vice
sceriffo Walt Coogan, protagonista del film, e' il primo abbozzo, anche se già
ben centrato nei suoi tratti essenziali. Poliziotto taciturno e un po'
spaccamontagne, testa dura e poco incline al compromesso - stivali, stetson e
cravatta di cuoio (da qui il titolo italiano), Coogan dal cuore dell'Arizona
viene per punizione spedito nella Grande Mela a recuperare un criminale per
estradarlo, missione che porterà a termine come dovesse assaltare una
diligenza: senza guardare in faccia a nessuno e con qualunque mezzo. Se la
contrapposizione tra metropoli/corruttrice e frontiera/incontaminata risulta
spesso schematica, quindi debole, i dialoghi sono il più possibile stringati,
la violenza e' brutale seppure fredda, veloce, mai compiaciuta. Siegel,
comunque, ogni volta che può scarta, puntando tutto sull'ironia e il ritmo, in
definitiva le cose migliori del film. Battibecchi verbali come duelli tra
Coogan e il tenente Mc Elroy interpretato da Lee J. Cobb; l'ironica
incompatibilità che segna le avventure galanti del cowboy-in-città con donne
impossibili da trattare come tipe da saloon; il lungo inseguimento finale tra
il vice sceriffo e Ringermann (il criminale fuggiasco) in sella a delle
motociclette - i cavalli moderni - prima, e terminato a piedi poi - ripreso in
maniera frenetica con numerosi stacchi e inquadrature brevissime - assicurano
all'opera quella piacevolezza minima che deriva da una buona amalgama di azione
e riflessione.


TheFisherKing

giovedì, ottobre 25, 2012

Film in sala dal 26 ottobre 2012



 


IO  E  TE
di Bernardo Bertolucci
Drammatico Italia 2012 - Medusa - 97"
Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco
Pippo Delbono, Veronica Lazar, Tommaso Ragno







 
 
 AMOUR
di Michael Haneke
Drammatico Fr./Au./Ger. 2012  - Teodora Film e Spazio Cinema -  105"
Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, William Shimell,
Emmanuelle Riva, Rita Blanco, Alexandre Tharaud, Ramón Agirre












LE  BELVE
(Savages)
di Oliver Stone
Drammatico/Thriller USA 2012  - Universal Pictures -  131"
Aaron Johnson, Taylor Kitsch, Blake Lively, John Travolta, Salma Hayek
Benicio Del Toro, Uma Thurman, Emile Hirsch








 



VIVA L'ITALIA
di Massimiliano Bruno
Commedia Italia 2012  - 01 Distribution -  111"
Raoul Bova, Rocco Papaleo, Ambra Angiolini, Michele Placido
Alessandro Gassman, Maurizio Mattioli, Sarah Felberbaum, Isa Barzizza, Edoardo Leo











 ALLA RICERCA DI NEMO 3D
(Finding Nemo)
di Andrew Stanton, Lee Unkrich
Animazione USA 2012  - Walt Disney Pictures -  100"
doppiato da Alex Polidori, Carla Signoris, Luca Zingaretti, Stefano Masciarelli











THE POSSESSION
di  Ole Bornedal
Horror/Thriller USA 2012 - M2 Pictures -  92"
Jeffrey Dean Morgan, Kyra Sedgwick, Madison Davenport
Natasha Calis, Agam Darshi, Grant Show









mercoledì, ottobre 24, 2012

On the Road

On the Road
di Walter Salles (Stati Uniti/Francia 2012)


La scrittura è intimamente legata al viaggio. L’atto di prendere una penna e cominciare a scrivere implica di per sé un trasformazione emotiva che doppia in maniera figurata, attraverso il richiamo di un certo stato d’animo, o il ricordo di una particolare esperienza lo spostamento geografico del viaggiatore. D’altronde anche il cinema ha spesso utilizzato l’esplorazione di nuovi territori come metafora di crescita e di nuove consapevolezze. Un binomio che nella percezione di quanti l’anno conosciuto nella pagine del suo libro appare in Jack Kerouac assolutamente indissolubile. E’ con questo carico di aspettative, e sulla scia di un mito capace di arrivare fino a noi dopo essere passato per l’america della guerra fredda e dell’amore libero, che giunge nelle sale la prima versione filmata dell’opera, diretta dal regista brasiliano Walter Salles, un tipo che si era già assunta la responsabilità di portare sullo schermo Che Guevara in versione giovanile (I diari della motocicletta, 2004).


La storia è quella di Sal, scrittore di belle speranze deciso a girare l’America in solitudine oppure accompagnato dall'amicizia di una confraternità in cui si distingue la figura carismatica di Dean Moriarty, cultore della vita e dei suoi piaceri, assaporati in totale libertà, e svincolati da condizionamenti moralistici. Tra notti alcoliche ed amplessi di ogni tipo l’esistenza dei protagonisti assume le forme di una rivoluzione privata ed esistenziale, prefigurando il passaggio di quella linea d’ombra che separa l’età dell’innocenza da quella della consapevolezza e della maturità.

Ambientato negli anni appena successivi al secondo dopoguerra “On the Road” non fa mistero di ambire ad un pubblico giovanile e neofita, affidando il progetto del film al richiamo di una faccia come quella di Kristen Stewart nel ruolo quasi cameo di Marylou, moglie promiscua e vacua di Dean, oltre a quelli meno conosciuti ma efficaci di Sam Riley (Sal) e Garrett Hedlund (Dean). E' molto probabile che sia proprio la voglia di farsi comprendere da una contemporaneità lontana anche dal punto di vista antropologico dal vitalismo con cui i protagonisti cercano di affermare la propria identità, ad appiattire i significati di un opera che è stata il manifesto di un nuovo modo di concepire l'esistenza rispetto al mito del sogno americano.

Con una fotografia che non perde un momento per abbellire l'ambiente con un'iconografia prelevata a piene mani da Edward Hopper, e con la morbidezza di colori (Eric Gautier, già artefice della fotografia di "Into the Wild" diversamente da quest'ultimo un "on the road" perfettamente calato nello spirito del tempo) che appartengono alla nostalgia ed alla memoria, il film di Salles non riesce a storicizzare la vicenda, impedendo ad uno spettatore ormai avvezzo a qualsiasi tipo di trasgressione, di comprendere fino in fondo cosa volesse dire per la borghesia americana dei primi anni 50, condividere gli stessi spazi della gente di colore, ballare la loro musica, parlare di sesso e praticarlo apertamente nella nazione dei Ku Kux Klan e di Doris Day. A questo si aggiungano poi le conseguenze di una regia compassata, fatta di inquadrature in cui tutto appare ordinato e pulito, curato al millimetro per far risaltare la fotogenia degli attori e del paesaggio naturale. Non c'è mai un brivido o un guizzo di vitalità in questo "On the Road" targato Coppola, che produce il film dopo anni di falliti tentativi. Tutto fila a tal punto che anche il broncio assente ed etereo della Stewart, qui alle prese con un topless che non lascia il segno, e la fisicità convenzionale e sfrontata di Garett Hedlund in un ruolo da bello e maledetto, non riescono mai a diventare le fibre di una carne realmente viva.

lunedì, ottobre 22, 2012

Le migliori cose del mondo

Le migliori cose del mondo
di Lais Bodanzky (Brasile 2010)

Il cinema brasiliano negli ultimi anni ha esportato opere che si sono distinte per due caratteristiche: la prima, che è propria di quella cinematografia, è stata quella di una spiccata attenzione al sociale, ed in particolari alla situazione delle classi più deboli, portata avanti con una robusta adesione alla realtà, la seconda invece, va ricercata in una capacità di raccontare che appartiene tanto alla scrittura quanto alle immagini. Ed è stata propria questa seconda componente che ha permesso a registi come Fernando Meirelles (The Constant Gardner, 2005), Walter Salles (On the Road, 2012) e José Padilla assoldato per la nuova versione di "Robocop", di arrivare alla mecca del cinema con operazioni di ben altro impegno economico. Siamo pronti a scommettere che a questa fuga di talenti si unirà presto anche Lais Bodanzky autore appunto di "Le cose migliori del mondo" il film appena giunto nelle sale dopo il passaggio al festival di Roma della scorsa edizione nella sezione "Alice nella città".

La storia del film si concentra sui dolori del giovane Hermano,detto Mano, liceale con il testosterone alle stelle ed una passione per la più bella della scuola di cui è pazzamente innamorato. Tra spensieratezza e presa di coscienza gli fanno da contorno i compagni di classe impegnati nelle prove generali della vita che verrà, ed un privato lacerato dalla scoperta dell'omosessualità del padre, in fuga dalla famiglia per amore di un ragazzo più giovane. Sullo sfondo le vicissitudini del fratello maggiore, sensibile e poetico ma ferito dal disimpegno della sua ragazza decisa a prendersi una pausa da un rapporto troppo soffocante. Un assedio vissuto da Hermano con vergogna e frustrazione, ma fortunatamente supportato dal conforto di Carol, amica di sempre e confidente premurosa.

Se il confronto con analoghi prodotti arrivati nelle nostre sale è inevitabile, bisogna dire che il risultato è decisamente a favore del film brasiliano. Innanzitutto per la scelta di utilizzare un estetica reale e non edulcorata, con adolescenti che sono tali a cominciare dal fisico acerbo, e con i brufoli sparsi a piacimento lungo i lineamenti del viso, nel modo di camminare e di vestire. Segni tipici di un' età che altrove, in certi film italiani ma anche americani, sono barattati con la necessità di una perfezione irreale ma spendibile sul piano degli incassi e del divismo. E poi sul piano narrativo, per la capacità di rappresentare i vari passaggi della storia, e le azioni che Mano pone in essere, in maniera tutt'altro che definitiva, lasciando sempre aperta una possibilità di cambiamento.

In questo modo il film riesce a restituire la percezione di una prospettiva giovanile in continuo divenire, rispondente più all'istinto che alle sovrastrutture. Mano infatti è sì invaghito di Valeria, la ragazza dei sogni, inseguita e corteggiata per cercare di far breccia nel suo cuore glaciale, ma allo stesso tempo reagisce a quell' input in maniera complessa, sfuggendo ai clichè che solitamente imprigionano i caratteri di questi prodotti in situazioni monocordi, anche dal punto di vista morale. A questo proposito è indicativo il processo di accettazione del genitore da parte di Mano, dapprima incapsulato dentro una dimensione di totale rifiuto, e poi gradualmente sdoganato con un avvicinamento che il film mette in scena senza enfasi, ma con un minimalismo ed una delicatezza che riescono a farci sentire vera quella trasformazione. Lais Bodanzky regala ai suoi ragazzini sfumature, incertezze e prese di posizione tipicamente giovanili, evitando di dividere il mondo in buoni e cattivi, o di giudicare i comportamenti di personaggi come Valeria, bella ma incostante, o dell'amico dongiovanni, pronto a tutto pur di allargare la schiera delle sue conquiste, ed anche dei genitori di Mano, in qualche modo responsabili del trauma emotivo che dà il via alla storia.

Tutto suona vero nel film del regista brasiliano alle prese con una storia di formazione in cui entrano in gioco non solo l'amore e l'amicizia, ma anche il rispetto e la tolleranza, questi ultimi contenuti nella lezione di civiltà che Mano ed alcuni compagni di scuola mettono in atto quando, decidendo di reagire all'ostracismo ed al monopolio dei compagni più bigotti, organizzano un comitato studentesco il cui nome "Mondo libero" diventa il manifesto di una vocazione progressista di cui il film, seppur in maniera sobria, è intriso. Con una voce over che accompagna le immagini senza sostituirle, "Le cose migliori del mondo" è un film solido, girato con stile corposo e lineare, che alterna momenti di riflessione ad improvvise accelerazioni, con sfondi sfocati o fuori sincrono fatti apposta per sottolineare lo sfasamento di Mano rispetto al resto del paesaggio, o di sequenze come quella più volte ripetuta in cui il ragazzo ripreso di spalle si carica la bicicletta sulle schiena ed inizia a salire i gradini che lo conducono alla casa del professore di musica da cui prende lezione. In quella salita c'è la fatica di vivere il momento, ma anche la bravura di un regista che riesce a comunicare in maniera semplice ma profonda. Da consigliare anche a chi la scuola l'ha finita da tempo.

(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, ottobre 20, 2012

Cogan - Killing them softly


Cogan - Killing them softly
regia di: A. Dominik


"We're only in it for the money", sghignazzava Zappa ai tempi.
Più o meno la conclusione intimata da Jackie Cogan/Brad Pitt al termine di questo "Cogan/Killing them softly", terza fatica del neozelandese Andrew Dominik, dopo l'esordio di "Chopper" (2000) e le  estenuazioni liriche de "L'assassinio di Jesse James..." (2007). Tratto, ma e' un termine impegnativo, dal "Cogan's trade" (1974) del poliedrico Charles V. Higgins, già giornalista di nera, ex procuratore distrettuale ammaliato dalla letteratura il cui "Gli amici di Eddie Coyle" era stato ben portato sullo schermo nel 1973 da Peter Yates con Robert Mitchum e Peter Boyle come protagonisti, il film compie preliminarmente due operazioni: sposta l'azione in avanti nel tempo - diciamo a ridosso delle elezioni che portano Obama alla Casa Bianca nel mentre che la morsa della crisi economica comincia a far sentire la sua stretta, come rimandano, tipo basso continuo, i teleschermi che punteggiano con i loro notiziari tutta la pellicola - elateralmente nello spazio, dalle atmosfere umide e ovattate del Mideast letterario a quelle fatiscenti e colorate di una fantasmatica New Orleans restituita per accenni e indizi. Se la storia - la rapina a mano armata di due balordi ad una bisca "supervisionata" dalla mala, la quale per non perdere la faccia e nuocere agli affari creando un precedente mette in moto il Cogan del titolo, killer a libro paga in giaccone di pelle, pizzetto e capello lisciato all'indietro - e' piuttosto semplice, le cose si complicano quando andiamo a vedere la resa della stessa sulla pagina e sullo schermo.

Per quanto siano inutili i confronti, stante la diversità dei linguaggi, la sensibilità autonoma di chi scrive e chi dirige e tentando di superare il logoro binomio "letteratura filmata"/"film tratto da un libro", alcune cose
possono comunque essere sottolineate: la scrittura intenzionalmente sarcastica, cinica, gaglioffa, contraddittoria e spesso paradossale fin quasi alla demenza di Higgins, innanzitutto. Scrittura che ha la capacita', quasi solo a forza di dialoghi, di costruire la vicenda e di condurla avanti tratteggiando
indirettamente ma compiutamente un intero microcosmo costituito perlopiù da mezze tacche, rubagalline, sfigati, padrieterni di se stessi, inetti, avviliti e intronati a vari stadi, che più sbattono la faccia contro la realtà del proprio fallimento, più s'ingegnano (si confondono) ad escogitare piani sgangherati per svoltare o il cui rischio non vale la candela. Tanto da risultare più patetici che tragici, più infantilmente naïf che malignamente
consapevoli, più affini, per dire, a "Una banda di idioti" di John K. Toole che alla conventicola di buzzurri schizzati del "Killer Joe" di Friedkin. Quindi più capaci, non tanto di forzare, quanto di dilatare i limiti del genere di riferimento - il noir - aprendolo alla parodia, al nonsense, alla commedia dell'assurdo.
All'opposto Dominik sembra percorrere un sentiero parallelo ma in senso contrario: orchestra la messa in scena secondo uno svolgimento orizzontale sempre indeciso tra l'accelerazione sul versante del grottesco e l'adesione fedele allo spirito "sconclusionato" del testo originario, finendo per appiattire entrambe le opzioni in una narrazione priva di basi di immedesimazione, di solidi agganci - linguistici, estetici, emotivi - per chi
guarda.

Inoltre, quanto la logorrea dei personaggi di carta e' "vitalistica", imprevedibile, zeppa di cortocircuiti per i suoi rimandi interni, le ripetizioni, la tendenza a divagare, a-non-dire-niente, in grado cioè di scartare di continuo, di cadenzare un ritmo e tenerlo e  variarlo sino alla fine, non la medesima cosa riesce  alle figure  di Dominik, bloccate, come costrette a glissare, a "stilizzare" uno stile, di fatto  depauperandolo della sua forza maggiore, a dire l'accumulo giostrato da Higgins a generare una risacca che tutto travolge come un unico gigantesco sberleffo insensato e condannandosi, di  conseguenza, a girare a vuoto, ad agire secondo un'inerzia che non si trasforma mai davvero in azione. Il timore ventilato e ribadito da molti circa la prosopopea, l'incontinenza verbale di certi prototipi tarantiniani, e' in "Cogan" scongiurata in partenza. L'esperimento di Dominik, infatti, non e' prolisso o verboso. Piuttosto e'
monco: da un lato dell'esplosivita' controllata del linguaggio del romanzo; dall'altro dalla mancanza di soluzioni espressive che non siano risapute (il ralenti dell'eliminazione del personaggio di Ray Liotta); ribadite (numerose inquadrature e primi piani "tenuti" oltre misura); manieristiche (l'accuratezza della ricostruzione scenografica e l'impianto della scelta cromatica debitore di riferimenti stilistici cari al cinema USA anni '70).
Resta un Brad Pitt centrato ma col freno a mano tirato, nella parte oramai fin troppo familiare per lui del "guascone letale"; James Gandolfini altrettanto a suo agio nei panni del sicario "afficato" e ubriacone con un paio di validi assolo e l'insinuazione, questa si' maliziosa, che in tempi grami pure il crimine organizzato si fa due calcoli e cerca di risparmiare tirando sul prezzo.

"Li conosco quelli che vincono" disse Cogan. "C'è chi da qualcosa al cavallo e vince. C'è chi da qualcosa a tutti gli altri cavalli, e vince. E poi ci sono quelli che magari drogano i cavalli da una vita e uno o due di loro, forse tre, vincono. Tranne quando i cavalli li droga qualcun altro prima di loro, e vince.
A quel punto perdono. Accettano la sfortuna. Non ci pensano più". Appunto.
We're only in it for the money. Take it or leave it.

TheFisherKing

venerdì, ottobre 19, 2012

Tutti i santi giorni

Tutti i santi giorni
di Paolo Virzì


Né troppo vecchi né troppo giovani. In quella terra di mezzo in cui di solito l’età è obbligata a fare i conti con le scadenze della vita, Guido ed Antonia si muovono avvolti da una nuvola d’amore. Il loro problema non è la convivenza, ancora piena di esuberanza e di dolcezza, ne il lavoro, poco esaltante ma stabile. A complicare le cose è un figlio che non arriva, e la conseguente frustrazione della ragazza, costretta a sottoporsi alle cure di un medico azzeccagarbugli ed all’invadenza dei conoscenti curiosi di sapere le ragioni della mancata prole. Innamorato ad oltranza, Guido, lettore colto ed instancabile, si fa in quattro per consolarla ma confrontarsi con l’orologio biologico e l’stinto di maternità è difficile anche per una persona positiva come lui.

Se “La prima cosa bella” era stato un tuffo nel passato con “Tutti i santi giorni” Virzi ritorna all’attualità, ma questa volta a differenza di altre lo fa interiorizzando quella cornice umana, ambientale  e darwiniana che solitamente rappresenta il fiore all’occhiello di un cinema sempre attento a segnalare le contraddizioni del proprio tempo,  proponendola nell’essenza stessa dei due protagonisti. Intendiamoci non si sta parlando di un cinema astratto oppure svincolato dal proprio tempo perché uno sguardo sul mondo esiste ed è evidente quando Guido ed Antonia si aprono a quello che li circonda, abbandonando temporaneamente l’idillio di un rapporto solipsistico ed autosufficiente. In questo modo il film soddisfa la propria funzione sociale ed antropologica costruendo una galleria di nuovi mostri coatta e periferica, riprodotta attraverso il dettaglio fisiognomico  e di costume -  i volti dei vicini di casa alterati dalla chirurgia plastica  ed il loro modo di fare, ispirato a canoni televisi e da rotocalco - ma  il puzzle di varia umanità sembra più un pretesto per rimarcare la diversità dei due protagonisti che il tentativo di costruire un quadro generale.

È come se il regista ed i suoi collaboratori (Bruni alla sceneggiatura ma anche l’autore del libro a cui il film è ispirato)  avessero deciso di rappresentare il proprio tempo attraverso un’ eccezionalità, quella di Guido ed Antonia, che dovrebbe essere naturale e condivisa  e che invece, nel suo non incompresa ed anzi scansata – indicative a questo proposito sono le reazioni di disappunto delle persone che scambiano il disagio di Antonia per maleducazione o la bontà di Guido  per debolezza – riesce a darci le coordinate esatte di chi siamo diventati.

Un progetto che Virzì sostiene con una scelta atipica  come quella di presentarci una coppia già  rodata, rinunciando alla poetica del primo incontro, in cui solitamente parole ed immagini si guadagnano l'empatia del pubblico mostrando le schermaglie dell'innamoramento. Lontano da queste trappole grazie ad un talento che ogni volta permette allo spettatore di dare del tu ai personaggi, Virzì si dedica alla costruzione di un romanzo popolare in cui il gusto per la vita si interseca con la capacità di saperla mediare attraverso il dinamismo narrativo. Il risultato è accattivante per la freschezza degli attori, naturali e fotogenici, e per uno stile di regia che esalta l’improvvisazione, i gesti minimali, gli scarti del cuore alla maniera di certo cinema targato Sundance, di cui "Tutti i santi giorni" sembra ricalcare anche il look, informale e cromaticamente slavato.



Un meccanismo perfettamente oliato ed adatto alla liquidità della nostra contemporaneità, e però a rischio di inconsistenza quando si preoccupa di contenere la durata delle singole sequenze con stacchi e frammentazioni che le riducono in qualche caso a semplice aneddoto, e qui ci riferiamo per esempio all'addescamento tutto tic e non sense subito da Guido da parte del cliente cinese, oppure alla filosofia macchiettistica del ginecoloco alla quale i due si rivolgono per cercare di avere un figlio. E se Luca Marinelli nella parte di un "idiota Dostowjeskiano" è semplicemente perfetto, a sorprendere è Thony,cantautrice su You Tube ed ora approdata sul grande schermo con una disinvoltura pari solo alla sua sensualità scanzonata e diretta. Sono loro che permettono al film di rimanere nella mente dello spettatore a proiezione ultimata. Al nostro cinema la responsabiità di coltivarne la bravura.

giovedì, ottobre 18, 2012

Film in sala dal 19 ottobre 2012




Locandina: Led Zeppelin Celebration Day

Led Zeppelin Celebration Day

(Led Zeppelin Celebration Day) 
GENERE: Musicale
ANNO: 2012 
NAZIONALITA': Gran Bretagna
REGIA: Dick Carruthers





Locandina: C'era una volta in America

C'era una volta in America

(Once Upon a Time in America)
 GENERE: Drammatico
ANNO: 1984
NAZIONALITA': Italia, USA
REGIA: Sergio Leone
CAST: Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGovern, Joe Pesci, Tuesday Weld, Danny Aiello






Locandina: Cogan - Killing Them Softly

 Cogan - Killing Them Softly

(Killing Them Softly)
 GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITA': USA
REGIA: Andrew Dominik
CAST: Brad Pitt, Ray Liotta, Richard Jenkins, James Gandolfini, Scoot McNairy, Bella Heathcote







Locandina: Gladiatori di Roma

 Gladiatori di Roma

(Gladiatori di Roma) 
GENERE: Animazione
ANNO: 2012 
NAZIONALITA': Italia
REGIA: Iginio Straffi
CAST: Luca Argentero, Laura Chiatti, Belen Rodriguez






Locandina: Il comandante e la cicogna

Il comandante e la cicogna

(Il comandante e la cicogna) 
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITA': Svizzera, Italia
REGIA: Silvio Soldini
CAST: Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Claudia Gerini, Maria Paiato, Luca Zingaretti



Locandina: Il matrimonio che vorrei

Il matrimonio che vorrei

(Hope Springs)
 GENERE: Commedia
ANNO: 2012 
NAZIONALITA': USA
REGIA: David Frankel
CAST: Meryl Streep, Tommy Lee Jones, Steve Carell, Jean Smart, Marin Ireland, Susan Misner






Locandina: Le migliori cose del mondo

Le migliori cose del mondo

(As melhores coisas do mundo)
 GENERE: Commedia
ANNO: 2010 
NAZIONALITA': Brasile
REGIA: Laís Bodanzky
CAST: Francisco Miguez, Filipe Galvao, Denise Fraga, Zé Carlos Machado, Gabriela Rocha, Gabriel Illanes






Locandina: The Wedding Party

The Wedding Party

(Bachelorette)
 ENERE: Commedia
ANNO: 2012 
NAZIONALITA': USA
REGIA: Leslye Headland
CAST: Kirsten Dunst, Isla Fisher, Rebel Wilson, James Marsden, Lizzy Caplan, Adam Scott

mercoledì, ottobre 17, 2012

Ritratti: Jennifer Connelly (5)

Ritratti: Jennifer Connelly (5)



Si può parlare con cognizione di causa di "paradosso" perché "Hulk" e' un film anomalo nella ormai copiosa produzione dedicata ai supereroi del fumetto.

Grazie soprattutto ad un regista alterno ma acuto come Ang Lee, in tutta la prima ora assistiamo alla messa in scena di personaggi controversi (su tutti, uno strepitoso Nick Nolte), in lotta innanzitutto con se stessi, e, in generale, con un mondo sordo e ostile, incapace, non si dice di accoglierli, ma persino di tollerarli se non all'interno di uno schema che preveda la loro resa senza condizioni all'omologazione dei codici del potere e dell'autorita' costituita.


La Connelly, quindi, nei panni (daccapo asciugati dalla magrezza) di Betty Ross, ex fidanzata del fisico Bruce Banner (Eric Bana) che un esperimento sballato trasformerà in Hulk, si presenta da subito nelle vesti della donna di scienza (anche lei e' ricercatrice e nello stesso laboratorio di Banner) che deve conciliare le esigenze di carriera, il rapporto, ambivalente col padre - generale dell'esercito, gran capo del progetto militare che foraggia anche la sua attività - e il mai sopito interesse per l'incauto e indifeso Banner.

Ciò che in "A beautiful mind" era lo stoicismo della sopportazione alimentato da un sentimento leale verso l'altro e in "La casa di sabbia e nebbia" era il grido soffocato di una persona colpita dalla vita e abbandonata a se stessa, in "Hulk" diventa il triste incontro di due solitudini, con punte addirittura struggenti nella rievocazione del dramma infantile di Banner sollecitato proprio da Betty/Connelly, a sua volta riverbero deformato dell'eternamente abortita sua riconciliazione con un padre in fondo indifferente a ragioni che non siano quelle di stato.

Decisiva, in questo senso, la lunga sequenza ambientata nel deserto - reso ancora più sinistro dall'eco di remoti test nucleari - in cui entrambi i protagonisti svelano l'amarezza della propria diversità e pongono le basi per un amore fatto soprattutto di vicinanza e ascolto. Non a caso, infatti, sarà proprio Betty/Connelly l'unica a stabilire un contatto col Banner mutato in creatura possente ma primitiva. E lo farà, via via, con
sfumature quasi materne, ai limiti del patetico, prima che gli effetti speciali prendano il sopravvento e appiattiscano un po' tutto.

Gli anni più vicini a noi si caratterizzano per l'attenzione riservata a personaggi conflittuali, feriti, in bilico tra un presente confortevole ma arido ("Little children"/id., 2006; "Reservation road"/id., 2008) e un futuro incerto ma promettente ("Virginia"/id., 2010); incursioni con esiti altalenanti - se non poco convincenti - nella commedia ("La verità e' che non gli piaci abbastanza", 2009; "Il dilemma", 2011; "Salvation boulevard", 2012); ritorni ad ambiti più familiari, come il soprannaturale ai imiti dell'horror ("Dark water"/id., 2005) e la fantascienza pura ( il superfluo remake di "Ultimatum alla Terra", 2008) o come riproposizione di ruoli già sperimentati tipo quello della donna portatrice di un'integrità morale o professionale a dispetto di  un mondo che tende a negarla o ignorarla ("Blood diamond"' 2006; "Creation", 2009).

In definitiva e in conclusione possiamo dire, come spesso accade ad un certo "tipo" di attrice americana, che la Connelly sembra quasi sempre una spanna più in alto rispetto alle parti che le assegnano. Si pensi, solo per citarne alcune male o poco ripagate da Hollywood ma come minimo di solido professionismo - quindi di talento magari non eccelso ma indiscutibile - a Laura Linney, a Rachel Weisz - americana di adozione - a Katherine Keener: o anche a Diane Lane, spesso e volentieri sacrificate sull'altare più confertovole di - per dire - un sex appeal prepotente (es. Halle Berry) o un glamour mediatico planetario (es. Nicole Kidman) e accennando solo di sfuggita - senza andare troppo indietro nel tempo - a ciò che si sarebbe potuto tirare fuori (e diamo l'ennesimo onore al merito al vecchio testa dura Sam Peckimpah che, unico, l'aveva intuito) da una come Ali Mac Graw, che nella sua capricciosa e discontinua carriera, a parte il felice interludio con lo zio Sam ("The getaway"/"Getaway !", 1972) non si e' adoperata quasi per nulla al di fuori del cliché della tipa da college, della "girl next door", un po' miele, un po' sorrisi, un po' lagna.

Jennifer Connelly, alla boa dei quarant'anni, ha già scongiurato un'eclissi di questo genere. Essendo, come abbiamo cercato di dimostrare, un "tipo affidabile", non le serve che una giusta occasione. 

Magari con Eastwood.
Magari con Malick.

Vedremo.

di TheFisherKing

martedì, ottobre 16, 2012

Killer Joe

Killer Joe
di William Friedkin

Negli anni '70, all’epoca di quella fucina di talenti e di grandi film che fu la New Hollywood ci fu un cineasta che più di altri si conquistò la nomea di regista scandaloso.
A fargli guadagnare l’appellativo contribuirono tre film: il primo fu Il braccio violento della legge (1971), onesto e lucido nel fotografare con verità neorealista pregi e difetti dei difensori della legalità, non facendo sconti a nessuno quando si trattò  di mostrare uno dei protagonisti coinvolto in un rapporto sessuale con una minorenne. Seguirono poi L’esorcista (1973), capace di far vedere in maniera "scientifica" quello che succede ad un corpo posseduto dal demonio, e Crusing(1980) in cui Al Pacino fu utilizzato come sonda di un mondo omosessuale che veniva svelato e messo in discussione, generando il malcontento della parte in causa.
Opere vietate, censurate contestate, messe al bando, sforbiciate dagli stessi produttori. Decontestualizzata dal proprio tempo questa fama potrebbe sembrare esagerata ed anche immeritata eppure all’epoca dei fatti  vedere Friedkin significava aderire e farsi partecipi di una visione spregiudicata ed immorale dell’esistenza.

Rispetto a quei tempi Killer Joe, la sua ultima fatica, non ha la stessa forza perché nel frattempo siamo stati abituati a convivere con la visione dell’orrore. Ed è forse per questo che il regista di Chicago ha pensato di correre ai ripari adottando uno stile che mischia il serio al faceto, dramma e commedia, con angoscia e iperrealismo chiamati ad alternarsi  sulla scena di  un’esistenza di quotidiana follia. Al centro della storia una famiglia di rednecks avvilita da ignoranza e mancanza di denaro.
L’altra faccia di un sogno americano richiamato dall’opzione di un benessere improvviso, regalato alla famiglia Smith attraverso la possibilità di riscuotere i soldi dell’assicurazione sulla vita intestata alla madre, separata e convivente.  Per forzare gli eventi in quella direzione l’improvvisato sodalizio decide di ingaggiare un poliziotto che arrotonda il suo stipendio uccidendo le persone su commissione e dietro lauto pagamento.
E’ lui Killer Joe, un angelo della morte freddo e sistematico fino a quando si invaghisce di Dotti, sorella un po’ tarda di Chris, il figlio che ha ideato il piano allo scopo di recuperare in tempo utile i soldi di un debito che potrebbe costargli  la vita. Da quel momento tutto si complica e si distorce spingendo la storia verso una conclusione tanto drammatica quanto grottesca.

Friedkin ha un solo scopo: distruggere i  pilastri della società americana. Per farlo azzera qualsiasi differenza all’interno del nucleo familiare attorno a cui ruota il film. E lo fa in maniera diretta e senza alcun rispetto per la forma, a cominciare dalla prima scena con il full frontal della matrigna di Chris (una Gina Gershon invecchiata di colpo) sbattuto in faccia al ragazzo e allo spettatore.
E poi continua senza distinzioni tra genitori (biologici o acquisiti) e figli, pronti a scannarsi per il più misero tornaconto. Incesto, matricidio, tradimento, pedofilia, tutto è  possibile in questo inferno a cielo aperto. Senza stato ne famiglia, con la giustizia ridotta ad utopia l’America di Friedkin si misura nella  quantità di sangue versato. Per non farsi mancare niente e ricordandosi della lezione del collega Romero che attraverso i suoi Zombie criticava il sistema consumistico americano, anche Friedkin organizza il suo de profundis capitalistico con una delle sequenze più agghiaccianti ed allo stesso ridicole, quella in cui il personaggio di Gina Ghershon, in un crescendo di violenza e parossismo è costretta ad inginocchiarsi di fronte al killer ed a fargli una fellatio prendendo in bocca la coscia di pollo fritto, simbolo della tradizione americana ed allo stesso tempo oggetto da consumo, maneggiato come come fosse un vero fallo.
Quel pollo fritto, usato e poi gettato con disprezzo è il crollo di ogni parvenza di efficienza e prosperità perchè tutto è destinato ad essere travolto dalla furia di un’umanità disperata. L’america non esiste più, inghiottita dentro l’oscurità della dissolvenza che chiude il film con il primo piano della pistola sul punto di far partire il proiettile che mette fine al gioco.

Alle prese con una storia di disfunzioni e di paura Friedkin non esita a cospargere il suo film con un apoteosi della carne  rappresentata dall’esposizione in bella vista di corpi attoriali in disfacimento per cause naturali, date un’occhiata al corpo  voluttuosamente imperfetto di Juno Temple ed a quello rifatto e sovrappeso di Gina  Gershon per farvene un' idea, oppure come conseguenza delle sevizie e della violenza subite, come accade a Emili Hirsh (Chris)  malmenato e tumefatto, e cartina di  tornasole  di una corruzione che distrugge  l'individuo in senso fisico. In alternativa spaccia con un sorriso ghignante momenti di  romantica sublimazione nella relazione tra Joe e Dotti, in cui lo slancio sentimentale e  rarefatto ha quasi sempre risvolti pragmatici, basti pensare al primo incontro dove la cena a lume di candela diventa il preliminare di peepshow terminato con un voluttuoso amplesso.
Una scelta rafforzata dalla presenza costante di elementi naturali come l'acqua (nella prima parte del film la pioggia fa da sfondo alle azioni dei personaggi),  e il fuoco, oppure ancestrali come il sogno e la pulsione - incestuosa quella di Chris nei confronti della sorella, amorale quella di Joe nei confronti  della ragazzina - a ricordarci tutti insieme che "Killer Joe" è un esplosione irrazionale di istinti primordiali. Se la parte cen rale è quella meno efficace, con uno sviluppo della vicenda ordinario e qualche passaggio affrettato - la sottotrama relativa all'ultimatum dei creditori nei confronti di Chris viene abbandonata senza nessuna conseguenza - a rimanere in mente è quello che succede prima e dopo, in cui Friedkin sembra rendere merito ad un cinema che mette insieme Lynch, nella prima parte, quella dedicata alla presentazione dei personaggi e della storia, e Tarantino, nella parte conclusiva, quella della resa dei conti. Presentato in concorso nell’edizione 2011 del festival veneziano Killer Joe segna il ritorno di un regista che non conosce normalità.

lunedì, ottobre 15, 2012

Total Recall - Atto di forza

Total Recall - Atto di forza
di Les Wisemam


Nel film di Michael Gondry, "Se mi lasci ti cancello"(2004),il personaggio interpretato da Jim Carrey si faceva cancellare dalla testa il ricordo di un amore finito male. Ridley Scott nel suo "Blade Runner" (1982) istilla il dubbio che anche il passato dell' agente Deckard come quello degli androidi a cui dà la caccia sia stato ricostruito attraverso un innesto di ingegneria genetica. Al contrario in "Total Recall - Atto di forza" di Les Wiseman la memoria fittizia ed artificiale è una scelta consapevole, una palliativo adottato da Douglas Quaid per sconfiggere la monotonia della vita. E'sottile ma efficace l'insistenza con cui il cinema torna ad un tema di stretta attualità come quello della manipolazione della mente presentandolo non più come il risultato di una stregoneria o di una qualche metafisica ma piuttosto come un processo scientifico ormai consolidato. In questo senso il contributo di Philip K. Dick è stato determinante non solo per la quantità di riletture allestite da Hollywood a proposito dei suoi libri ma anche e soprattutto per la verosimiglianza con cui ogni dettaglio di questo "nuovo mondo" ha trovato nella scrittura del romanziere americano la sua versione più potente in termini di comunicazione ed empatia.

In questa nuova versione di "Total Recall - Atto di forza" che assembla nel titolo italiano anche il prototipo diretto da Paul Verhoven nel 1990 ed interpretato da Arnold Schwarzenegger, Douglas Quaid è l'ago della bilancia di una lotta di potere e di sopravvivenza tra i superstiti di una guerra (chimica) che ha ridotto la terra in una landa desolata: da una parte la nazione di Britannia, conservatrice ed imperialista, dall'altra quella di La colonia, libera e rivoluzionaria. Quaid scopre infatti di non essere un cittadino qualunque,felicemente sposato e con una vita sempre uguale,bensì un famigerato agente segreto, temporaneamente neutralizzato nella sua azione da un lavaggio del cervello che ha cambiato i suoi ricordi. Sconvolto dall'inquietante rivelazione e braccato da chi lo vorrebbe nelle sua fila, l'uomo viene aiutato nella fuga da una rappresentante delle forze rivoluzionarie che promette di rivelargli la verità sulle vicende del suo oscuro passato.

Il compito di Les Wiseman presentava diverse difficoltà, a cominciare da quelle derivanti dalla difficoltà di rendere cinematografica una storia pensata per la pagina scritta. Una trasposizione che solo per restare al cinema tratto dalle opere di Philip K. Dick non era stata quasi mai all'altezza delle aspettative, ma che nel caso del film diretto da Verhoven aveva creato un vero e proprio culto. Ed è proprio il film diretto dal regista olandese, per il suo essere non solo un termine di paragone ingombrante a causa del carisma e della personalità di chi lo ha realizzato, ma anche per la vicinanza in senso cronologico con l'opera di Wiseman, a condizionare lo sguardo di questa ennesima rivisitazione.
Se lo scheletro della storia rimane sempre uguale "Total Recall - Atto di forza" apporta delle modifiche sia dal punto di vista narrativo, escludendo qualsiasi riferimento a Marte ed alle implicazioni sulla vicenda che prima il libro e poi il film di Verhoven invece avevano, sia da quello formale, eliminando le venature ironiche e la vivacità coloratissima un po' camp presente nella fauna bizzarra e grottesca dell'originale.

Il risultato è un cupo action thriller metropolitano in cui la fantascienza nella sua componente visionaria ed innovativa viene azzerata da una messa in scena ricalcata con poca inventiva su modelli precedenti quando si tratta di rendere l'antagonismo tra le due nazioni, definito in maniera schematica dall'opposizione tra male (Britannia) e bene (La colonia), simboleggiati dalla prevalenza di luce o di ombra che caratterizza le immagini riferite ad una o all'altra.
E poi realizzato prelevando a piene mani soprattutto da un film seminale come "Blade Runner", di cui Wiseman riprende architetture, atmosfera ed estetiche - poca luce, una pioggia incessante e sovraffollamento sono le caratteristiche evidenti di questa similitudine - ma anche di Star Wars (1997) e de "Il quinto elemento" (1997) sparpagliati qua e là nei dettagli di un oggettistica che va dalle automobili gravitazionali alle autostrade sospese nell'aria e sviluppate ad altezza grattacielo. Ma quello che lascia veramente a desiderare è la mancanza di tensione che dovrebbe scaturire dall'ambiguità di una storia sospesa tra reale e virtuale, e dall'incertezza di un identità, quella del personaggio principale, in continua fluttuazione tra le diverse ipotesi che gli vengono messe di fronte nel tentativo di farlo propendere da una parte all'altra della lotta.

Wiseman non conosce altra variante al di fuori della cruenta caccia all'uomo condita di inseguimenti, sparatorie e presunti colpi di scena ripetuti all'infinito. Dopo venti minuti si è capito quasi tutto, ed allo spettatore non rimane altro che sorbirsi il cosiddetto bagno di sensazioni fracassone ed invadente che in molte produzioni mainstream non è più spettacolo ma puro riempitivo. Colin Farell mono espressivo nel suo broncio perennemente accigliato ma anche le due belle statuine che gli fanno compagnia - Kate Beckinsale prelevata direttamente dalla saga di Underworld e Jessica Biel atletica e sottoimpiegata - sono il biglietto da visita di una produzione di cui non si sentiva assolutamente il bisogno.

(pubblicata su ondacinema.it)

http://www.ondacinema.it/film/recensione/total_recall_atto_forza.html

sabato, ottobre 13, 2012

Apocalypto

Apocalypto
regia di Mel Gibson

Più vicino agli estri dinamici dell'"Ultimo dei Mohicani" di Mann che al furore mistico del suo precedente "The passion", Gibson confeziona con "Apocalypto" un solido film di avventura, veloce e ferino, che supera di puro muscolo le
solite polemiche sulla violenza, nonché lo snobismo e la pedanteria di buona parte dell'intellighenzia europea per l'ennesima volta impastoiata nella stesura degli elenchi delle cantonate storiche, antropologiche e linguistiche (tutto il film e' parlato nel dialetto originale dei luoghi), anziché attenta a valutare ciò che ogni film innanzitutto e': spettacolo di finzione.

E lo spettacolo orchestrato dall'attore/regista australiano/americano funziona. Il passo dell'azione e' rapido, nella seconda parte quasi frenetico ma sempre preciso.

Nell'insieme, la durata, due ore abbondanti, non pesa mai. Jaguar Paw - Zampa di Giaguaro - guerriero e cacciatore Maya, viene fatto prigioniero da una tribù rivale e trasferito in ceppi attraverso la giungla insieme ad altri superstiti del massacro e della distruzione del villaggio natio per essere offerto come carne da sacrificio agli dei. Miracolosamente scampato al rito dell'asportazione del cuore, si da alla fuga lottando da un lato contro gli inseguitori decisi a finirlo e dall'altro contro il tempo che insidia la moglie incinta e il figlioletto (sottratti d'astuzia alla strage iniziale grazie ad una cavità del terreno dalla quale pero' non possono uscire e che alla
lunga diventerebbe la loro tomba).

Se il tema dominante del film, sottolineato dalla necessita ribadita più volte di "trovare un nuovo inizio", e' la sopravvivenza ad ogni costo, la volontà, proprio perché la fine incombe, di riaffermare la vita e con essa la possibilità di rimettere in moto la Storia, ecco che la sorte specifica del
popolo Maya diventa sfondo - a tratti brutale, a tratti intimistico, talvolta enfatico, sempre coloratissimo, comunque la parte più debole del film - di un meccanismo molto più grande e inesorabile di fronte al quale anche le beghe nozionistiche svelano la propria inconsistenza e retrocedono a pretesti, se non
a veri e propri atti di ridicolo involontario o, chissà, interessato. Ciò che
conta - sembra dire Gibson - e' l'affermazione per cui ogni società - nel caso una
società "arcaica" ma lo stesso varrebbe per qualunque avventura umana in un
altro tempo e in un altro luogo - e' un corpo vivo che cresce, invecchia e
muore (non necessariamente di morte tranquilla) e che non e' detto che quando
due civiltà vengono a contatto (il film si chiude sull'approdo dei galeoni spagnoli verso cui Zampa di Giaguaro manifesta un atteggiamento più che guardingo) hanno voglia di conoscersi, si integrano e si migliorano.

Concetti semplici all'apparenza, eppure oggi come oggi rimossi o dimenticati se e' vero, come e' vero, che la "moderna" comunità in cui viviamo si considera l'apice
perfettibile della civilizzazione solo a partire da se stessa.
Concetti che cineasti come nel caso Gibson - a modo loro - sentono il bisogno di riproporre alla nostra attenzione, privilegiando qui la semplicità della narrazione e
sollecitando quel tanto di senso del meraviglioso che ancora abita gli occhi
dello spettatore.