"Le belve"/"Savages"
di: O. Stone
- USA 2012 -
con: T. Kitsch, A. Johnson, B. Lively, J. Travolta, B. Del Toro, S. Hayek
Winslow, classe '53, autore e anche sceneggiatore di questo "Le belve/"
Savages" da cui il film di Stone scaturisce, e' uno scrittore avveduto. Forse
persino troppo. Le sue opere sono sovente concertate in vista di un rapido
trasferimento sullo schermo. Cosa, di per se', di scarso interesse o almeno di
interesse limitato rispetto agli eventuali esiti raggiunti, e rimandando ad
altri spazi l'alternanza di ruoli tra chi scrive, chi dirige, chi sceneggia...
Nella struttura di "Le belve" e' chiara l'impostazione e la prevalenza di una
piega enfatica, una sorta di timore di non stupire mai abbastanza che uno come
Stone deve aver visto come la possibilità di servirsi il proprio piatto
preferito senza vincoli dietetici: quindi dialoghi "tough and cool"; porzioni
miste di turpiloquio-sesso-sangue all'interno di una complessiva spinta
all'accelerazione che spesso rischia lo sparecchiamento improvviso. Cosa che
non accade - per rimanere in paraggi visitati di recente - ad un narratore come
Higgins ("Cogan's trade") che giostra il suo più che elaborato fraseggio in
minore, velando cioè il complesso della storia e la gran mole di battute che vi
si recitano entro un'impercettibile quanto solida membrana di understatement
che, sottotraccia, compatta e reindirizza le spinte più centrifughe del
linguaggio, come un buon calafataggio impedisce all'acqua di farsi strada tra
gl'interstizi di una chiglia dai colori vividi.
Ecco: l'impressione vedendo il film di Stone e riflettendo in filigrana sul
passo della scrittura di Winslow, e' quella di trovarsi di fronte ad una bella
carena la cui intelaiatura pero' non e' stata ben registrata e qua e la'
trasudano gocciolii che preludono alla formazione di vere e proprie falle.
L'obiezione e' annosa: Stone e' un regista "eccessivo". Quindi o si prende
tutta la confezione o si passa ad altro scaffale. C'è anche un'altra
possibilità. Stone e' un regista di "grana grossa", abituato a rimarcare, che
ha prodotto - anche se non di recente - numerose indovinate e feroci
intuizioni. Qui si affida alla velocità e all'accumulo di "situazioni",
contando che racconto e personaggi si sviluppino come per una sorta di fatale
inerzia o per un intrinseco potere di fascinazione.
In realtà, il gioco e' orchestrato e si ripete sulla base di dinamiche e
psicologie prevedibili e risapute, movimentate quel tanto (poco) da permettere
ai tipi umani che le incarnano di compiere azioni riconducibili al loro
stereotipo di riferimento. Così, troviamo il poliziotto doppiogiochista,
infingardo e corrotto (un sempre più "espanso" Travolta); il carnefice quasi
ottuso nella sua programmatica malvagità (la maschera cialtrona in perenne
torpore post-anestesia di un comunque godibile Del Toro); la "reina"/erinni del
cartello (l'inflessibile eppur dolente Hayek, ricalcata sulle eroine negative
di tanti noir del passato).
Discorso a parte meritano i tre ragazzi californiani, perno dell'azione,
avventurieri e alchimisti 3.0, in grado, con il loro "prodotto" sopraffino, di
pestare i piedi ad una delle tante multinazionali del narcotraffico. Chon
(Taylor Kitsch), allora, ex soldato introverso e irruente; Ben (Aaron Johnson),
angelo gentile, cervello imprenditoriale e armonia post-post-hippy. E tra i
due, Ophelia (Blake Lively), ricca, annoiata e sola rampolla della South Orange
County, detta O o anche Multi-O e Big-O, per via delle frequenze e sonorità dei
suoi orgasmi. Tre persone, tre spiriti, come coacervo e sintesi di un tentativo
estremo (disperato) di riscatto di una generazione - quella di Stone, di
sicuro; magari quella dei fratelli maggiori, per Winslow - che si era cullata
nell'illusione di rovesciare i rapporti di forza su vasta scala a colpi di
slogan in parte solo orecchiati, inopinatamente invecchiati in fretta, pagati
da molti comunque a caro prezzo (Stone ha partecipato al conflitto in Vietnam),
poi tenuti in vita dalla frustrazione, dalla nostalgia, che ha condotto anche
le spinte più eccentriche - le istanze libertarie e pacifiste, l'uso disinvolto
delle droghe, il pansessualismo, che nella "visione", insieme, avrebbero dovuto
sollevare, come una magica mareggiata affine alle tanto amate onde del
Pacifico, bianchi e neri, poveri e ricchi, cinici e sognatori - ben dentro i
binari di una routine, di una sostanziale e in molti casi accettata
omologazione, ossia all'interno di quei generici confini "conformisti" che
idealmente si volevano abbattere.
Nel film, tutto ciò assume i contorni di un molto vago ribellismo, finalizzato
secondo una logica prettamente capitalistica alla produzione di grandi
profitti, e declamato nelle forme dell'esaltazione di una felicita' privata e
individuale (il rapporto esclusivo a tre) secondo il mito (capitalistico
filantropico, stavolta) dell'accumulazione per nobili intenti umanitari da un
lato, e della ricerca del paradiso perduto in cui fuggire/nascondersi
dall'altro.
Incastrato nella rete di questa smagliante ma insidiosa (per gli echi e i
fantasmi che si trascina dietro) superficie, Stone s'arrabatta e alla fine si
perde. Muove le sue figure avanti e indietro tra pause, doppi e tripli giochi,
scarti brutali, infarcendo la messa in scena di vecchi "trucchi" - immagini
desaturate, primissimi piani sgranati, colori vistosi, sfocature - che tanti
non perdonavano, ad esempio, al compianto Tony Scott (che li aveva sempre
usati, anzi, ne aveva fatto cifra stilistica).
Ed e' proprio tra cambi di ritmo e incertezze negli sviluppi, tra accostamento
e accostamento che si può inquadrare il finale "riletto", propaggine testarda
che, forzando l'utopia e il sogno del passato, ne svuota anche gli ultimi
cascami, costringendo gli eroi antichi/moderni di Winslow a rinunciare anche
alla loro anima segreta di "belli, bellissimi selvaggi".
TheFisherKing
di: O. Stone
- USA 2012 -
con: T. Kitsch, A. Johnson, B. Lively, J. Travolta, B. Del Toro, S. Hayek
Winslow, classe '53, autore e anche sceneggiatore di questo "Le belve/"
Savages" da cui il film di Stone scaturisce, e' uno scrittore avveduto. Forse
persino troppo. Le sue opere sono sovente concertate in vista di un rapido
trasferimento sullo schermo. Cosa, di per se', di scarso interesse o almeno di
interesse limitato rispetto agli eventuali esiti raggiunti, e rimandando ad
altri spazi l'alternanza di ruoli tra chi scrive, chi dirige, chi sceneggia...
Nella struttura di "Le belve" e' chiara l'impostazione e la prevalenza di una
piega enfatica, una sorta di timore di non stupire mai abbastanza che uno come
Stone deve aver visto come la possibilità di servirsi il proprio piatto
preferito senza vincoli dietetici: quindi dialoghi "tough and cool"; porzioni
miste di turpiloquio-sesso-sangue all'interno di una complessiva spinta
all'accelerazione che spesso rischia lo sparecchiamento improvviso. Cosa che
non accade - per rimanere in paraggi visitati di recente - ad un narratore come
Higgins ("Cogan's trade") che giostra il suo più che elaborato fraseggio in
minore, velando cioè il complesso della storia e la gran mole di battute che vi
si recitano entro un'impercettibile quanto solida membrana di understatement
che, sottotraccia, compatta e reindirizza le spinte più centrifughe del
linguaggio, come un buon calafataggio impedisce all'acqua di farsi strada tra
gl'interstizi di una chiglia dai colori vividi.
Ecco: l'impressione vedendo il film di Stone e riflettendo in filigrana sul
passo della scrittura di Winslow, e' quella di trovarsi di fronte ad una bella
carena la cui intelaiatura pero' non e' stata ben registrata e qua e la'
trasudano gocciolii che preludono alla formazione di vere e proprie falle.
L'obiezione e' annosa: Stone e' un regista "eccessivo". Quindi o si prende
tutta la confezione o si passa ad altro scaffale. C'è anche un'altra
possibilità. Stone e' un regista di "grana grossa", abituato a rimarcare, che
ha prodotto - anche se non di recente - numerose indovinate e feroci
intuizioni. Qui si affida alla velocità e all'accumulo di "situazioni",
contando che racconto e personaggi si sviluppino come per una sorta di fatale
inerzia o per un intrinseco potere di fascinazione.
In realtà, il gioco e' orchestrato e si ripete sulla base di dinamiche e
psicologie prevedibili e risapute, movimentate quel tanto (poco) da permettere
ai tipi umani che le incarnano di compiere azioni riconducibili al loro
stereotipo di riferimento. Così, troviamo il poliziotto doppiogiochista,
infingardo e corrotto (un sempre più "espanso" Travolta); il carnefice quasi
ottuso nella sua programmatica malvagità (la maschera cialtrona in perenne
torpore post-anestesia di un comunque godibile Del Toro); la "reina"/erinni del
cartello (l'inflessibile eppur dolente Hayek, ricalcata sulle eroine negative
di tanti noir del passato).
Discorso a parte meritano i tre ragazzi californiani, perno dell'azione,
avventurieri e alchimisti 3.0, in grado, con il loro "prodotto" sopraffino, di
pestare i piedi ad una delle tante multinazionali del narcotraffico. Chon
(Taylor Kitsch), allora, ex soldato introverso e irruente; Ben (Aaron Johnson),
angelo gentile, cervello imprenditoriale e armonia post-post-hippy. E tra i
due, Ophelia (Blake Lively), ricca, annoiata e sola rampolla della South Orange
County, detta O o anche Multi-O e Big-O, per via delle frequenze e sonorità dei
suoi orgasmi. Tre persone, tre spiriti, come coacervo e sintesi di un tentativo
estremo (disperato) di riscatto di una generazione - quella di Stone, di
sicuro; magari quella dei fratelli maggiori, per Winslow - che si era cullata
nell'illusione di rovesciare i rapporti di forza su vasta scala a colpi di
slogan in parte solo orecchiati, inopinatamente invecchiati in fretta, pagati
da molti comunque a caro prezzo (Stone ha partecipato al conflitto in Vietnam),
poi tenuti in vita dalla frustrazione, dalla nostalgia, che ha condotto anche
le spinte più eccentriche - le istanze libertarie e pacifiste, l'uso disinvolto
delle droghe, il pansessualismo, che nella "visione", insieme, avrebbero dovuto
sollevare, come una magica mareggiata affine alle tanto amate onde del
Pacifico, bianchi e neri, poveri e ricchi, cinici e sognatori - ben dentro i
binari di una routine, di una sostanziale e in molti casi accettata
omologazione, ossia all'interno di quei generici confini "conformisti" che
idealmente si volevano abbattere.
Nel film, tutto ciò assume i contorni di un molto vago ribellismo, finalizzato
secondo una logica prettamente capitalistica alla produzione di grandi
profitti, e declamato nelle forme dell'esaltazione di una felicita' privata e
individuale (il rapporto esclusivo a tre) secondo il mito (capitalistico
filantropico, stavolta) dell'accumulazione per nobili intenti umanitari da un
lato, e della ricerca del paradiso perduto in cui fuggire/nascondersi
dall'altro.
Incastrato nella rete di questa smagliante ma insidiosa (per gli echi e i
fantasmi che si trascina dietro) superficie, Stone s'arrabatta e alla fine si
perde. Muove le sue figure avanti e indietro tra pause, doppi e tripli giochi,
scarti brutali, infarcendo la messa in scena di vecchi "trucchi" - immagini
desaturate, primissimi piani sgranati, colori vistosi, sfocature - che tanti
non perdonavano, ad esempio, al compianto Tony Scott (che li aveva sempre
usati, anzi, ne aveva fatto cifra stilistica).
Ed e' proprio tra cambi di ritmo e incertezze negli sviluppi, tra accostamento
e accostamento che si può inquadrare il finale "riletto", propaggine testarda
che, forzando l'utopia e il sogno del passato, ne svuota anche gli ultimi
cascami, costringendo gli eroi antichi/moderni di Winslow a rinunciare anche
alla loro anima segreta di "belli, bellissimi selvaggi".
TheFisherKing
1 commento:
Non vale il prezzo del biglietto.
Il film è sporco come piace a stone ma è confezionato in maniera troppo patinata con una fotografia che ricorda troppo le serie tv americane e i film di M. Mann
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