domenica, maggio 25, 2025

PATERNAL LEAVE

Paternal Leave

di Alissa Jung

con Luca Marinelli, Juli Grabenhenrich, Arturo Gabbriellini

Germania, Italia, 2025

genere: drammatico

durata: 113’

Sembra quasi che il cinema ultimamente sia particolarmente interessato al rapporto padre – figlia, a come esso nasce e come si sviluppa ed evolve, soprattutto in situazioni quasi estreme che, però, fungono da metafora di una quotidianità forse, a tratti, distante.

L’ennesimo esempio di ciò lo si trova in Paternal Leave, esordio alla regia di una promettente Alissa Jung, che, lasciando da parte qualsiasi orpello o distrazione, pone l’attenzione solo e soltanto su un padre e una figlia che si incontrano (per volontà di quest’ultima) per la prima volta e hanno la possibilità di conoscersi (forse) trascorrendo del tempo insieme. Non si sa nulla di loro, né all’inizio né alla fine, si scopre chi sono attraverso il loro conoscersi che va oltre le domande di rito che si possono fare a un primo fondamentale incontro. Perché tutto nasce dalla voglia di Leona, chiamata da tutti Leo (l’esordiente Juli Grabenhenrich, eccellente nel rendere veri e vivi i sentimenti di una quindicenne che non ha mai conosciuto il genitore), di andare a cercare un padre (Luca Marinelli, sempre credibilissimo) del quale si ipotizza sia venuta a sapere dalla madre, probabilmente all’inizio o in seguito a un litigio. La giovane scappa, quindi, dalla Germania, dove vive con la madre (che non vediamo mai) per arrivare in Italia, seguendo un video online del padre che insegna surf. Partita con un unico scopo in mente e senza dire nulla alla madre sembra quasi assurdo che si imbatta con estrema facilità in Paolo, il padre appunto. Ma è forse questo l’elemento vincente di una storia che non fa mai dubitare e che non si sofferma su veridicità o possibilità, ma invita a riflettere solo e soltanto su due persone e sul loro rapporto.

Non è un caso infatti che la telecamera indugi, per esempio, molto sui dialoghi tra i due senza mai riempirli di elementi che potrebbero distrarre. C’è sempre silenzio con loro in campo, contornato da un luogo quasi anonimo e disabitato.

Credo tutti abbiano bisogno di una famiglia.

Può essere considerato una sorta di mantra in un film come Paternal Leave nel quale anche tutte le altre relazioni presentate riportano comunque a quella tra padre e figlia/figlio. Basti pensare al legame che si crea tra Leo ed Edoardo (gli Sherlock e Watson del luogo) che fondano la loro amicizia sul rapporto conflittuale che entrambi hanno con il padre, seppure per ragioni diverse. Questo potrebbe servire alla Jung per introdurre altre tematiche che, però, lascia in superficie per concentrarsi solo sul legame Leo-Paolo. Un legame che è specchio di quello tra Paolo e la piccola Emilia, sorellastra di Leo, con la quale la ragazzina sembra trovarsi subito in sintonia, influenzata anche dal comportamento del padre ben lontano da quello di un genitore modello.

In un continuo rincorrersi che fa dei personaggi di Paternal Leave dei girovaghi senza meta, nessuno escluso, non ci sono riferimenti o richiami a un tempo e uno spazio. C’è solo la grande volontà di mettere al centro un sentimento che, se non sviluppato in una certa direzione, può prendere il sopravvento sulla vita di chiunque, non solo dei diretti interessati.

E sono tanti gli spunti di riflessione di questo dramma a metà strada col romanzo di formazione (quasi più per il padre che per la giovanissima, già ben determinata e sicura di sé). Ostacoli continui sembrano frapporsi tra Leo e tutte le persone con le quali vuole provare a far nascere un legame che non sia solo di semplice amicizia. Se con Edoardo non ci sono problematiche di nessun tipo, è ben diverso ciò che accede con Paolo o con Emilia, nonostante due situazioni all’opposto. Con Paolo c’è sempre un imprevisto, un incidente, un problema. Con Emilia c’è sempre un muro, fisico o metaforico, che si frappone fra le due.

Con un Luca Marinelli più dimesso del solito a causa del personaggio, ma all’altezza di un’incredibile esordiente come Juli Grabenhenrich che non si risparmia mai e dà vita a un’interpretazione ricca di emozione e carica di pathos, Paternal Leave sale un gradino in più rispetto ai numerosi titoli che, anche nel cinema più recente, hanno trattato il medesimo argomento.


Veronica Ranocchi

lunedì, maggio 05, 2025

'UNA FIGLIA' CONVERSAZIONE CON IVANO DE MATTEO

Al cinema con 01 Distribution Una figlia è la nuova fatica di Ivano De Matteo. Del film Una figlia ne abbiamo parlato con il regista Ivano De Matteo in occasione dell’uscita nelle sale dal 24 aprile.

Mia e Una Figlia potrebbero essere una sorta di dittico sul tema della genitorialità. Rispetto al primo Una figlia ripropone il rapporto tra un padre e una figlia, ma lo fa scegliendo un punto di vista diverso che però non impedisce alla storia di concludersi come spesso avviene nel tuo cinema ovvero con lo sgretolamento del nucleo famigliare.

Mia è stato un film molto sentito perché all’epoca anche noi avevamo una figlia di quindici anni. In quel caso siamo partiti da una storia vera che ci avevano raccontato i nostri amici. Insomma girare quel film è stato come entrare in un mondo parallelo. Per Una figlia invece abbiamo deciso di proseguire sulla scia di quanto avevamo raccontato ne I nostri ragazzi chiedendoci come avremmo reagito se un figlio da vittima diventa carnefice. A ispirarci era stata la vicenda del delitto di Novi Ligure e in particolare le parole del padre di Erica disposto a restare accanto alla figlia perché era l’unico famigliare rimasto ancora in vita. Un ulteriore spunto c’è stato fornito dal libro Qualunque cosa accada di Ciro Noja che abbiamo adattato al discorso che avevamo in mente.

Nel libro la dimensione thriller è stata molto spuntata a favore di uno sguardo prevalentemente sociale.

Proprio così. La protagonista del libro è una ragazza molto violenta e per questo indifendibile. La scommessa mia e di Valentina Ferzan che ha firmato insieme a me la sceneggiatura era quella di far dimenticare il crimine di cui si era macchiata spingendo il pubblico a empatizzare con lei. Volevamo che lo spettatore l’accompagnasse nelle sue vicende giudiziarie e in particolare nelle tappe del suo viaggio carcerario per ricostruire il quale ci siamo affidati a esperti del settore considerato che si tratta di un iter differente da quello degli adulti. In questo senso Una Figlia potrebbe risultare molto utile anche ai più giovani perché mostra cosa può accadere a una ragazza come tante che da un momento all’altro si trova catapultata in una condizione che azzera la sua vita precedente.

Mentre l’empatia nei confronti di Sofia è destinata a crescere nel corso del film così non accade al padre la cui ostilità verso la figlia sconfessa i presupposti caratteriali del personaggio. Dal punto di vista emotivo la condizione psicologica di padre e figlia non coincidono mai. È come se tra loro due ci fosse una sfasatura temporale che li porta a sentire sempre in modo diverso l’uno dall’altra.

Infatti è vero. Probabilmente i fatti che accadono nel film li porteranno a non incontrarsi mai più. Poi tutto può succedere, sta di fatto che la scelta di ricominciare a vivere da parte di Sofia non prevede la presenza del padre. In qualche modo è Pietro a uscire sconfitto da questa vicenda.

Per come il tema principale viene declinato Una Figlia correva il rischio di scadere nel voyeurismo e nello psicologismo. Al contrario la narrazione se ne mantiene lontana evitando di ritornare sulle ragioni che hanno spinto la ragazza al delitto. In qualche modo si capiscono, ma voi comunque evitate di spiegarle.

Nel libro c’è una teoria del delitto. Lì si tratta di un omicidio preterintenzionale mentre nel film è la conseguenza di un impeto emotivo derivato dall’odio represso della figlia nei confronti di Chiara, la  nuova compagna del padre. Se avesse avuto in mano un bicchiere d’acqua glielo avrebbe tirato in faccia mentre fatalità vuole che impugni qualcosa capace di cambiare la vita dei personaggi. Nel film c’è un’infarinatura di ciò che può aver causato quella reazione però non si va oltre.

La prima parte del film, quella che precede l’omicidio, è messa in scena con soluzioni formali che in qualche maniera lo preannunciano. Talune volte i presagi si manifestano attraverso particolari apparentemente insignificanti, come succede con la scena di raccordo in cui la voce dell’arrotino offre tra i suoi servigi quella di affilare coltelli da cucina. Più evidente risulta invece la prima sequenza in cui il padre parla con la figlia. Il gioco di specchi che sdoppia la figura di Pietro nascondendo allo vista quella di Sofia ci dice di un universo che si sta sfaldando, ma anche di come Pietro viva in un mondo tutto suo che non gli permette di accorgersi di quello che sta accadendo alla figlia.

A volte mi piace giocare con le immagini come accade nella scena dell’arrotino. E poi in quella in cui decido di sdoppiare il personaggio di Stefano Accorsi per sottolineare le sue due nature.

Lo scollamento esiste per davvero perché Pietro è diviso tra l’amore per la nuova compagna e quello nei confronti della figlia. Mostrarlo sdoppiato nella scena delegata a introdurre il personaggio la dice lunga sull’inconciliabilità delle due posizioni. Sempre in questa prima parte lo vediamo spesso ripreso dietro muri e pareti, osservato dietro reti perimetrali e ancora riflesso allo specchio. A conferma di come Pietro sia prigioniero della sua idea di mondo.

Tutto questo mi serviva per testimoniare come Pietro tenti fino all’ultimo di mantenersi tranquillo, anche se sente che sta per succedere qualcosa. Mi fa piacere che tu abbia colto queste soluzioni formali perché era il mio modo di segnalare la frattura psicologica che cova dentro il personaggio.

Non è un caso che nella seconda parte, quando gli accadimenti si fanno più scoperti e le personalità vengono alla luce, la forma diventa più trasparente e lineare. Ciò nonostante rimane la domanda sul perché il resto del contesto non abbia saputo leggere fino in fondo il disagio di Sofia. È una domanda che ci si fa spesso in casi come questi e che purtroppo è destinata a rimanere senza spiegazione.

In Mia abbiamo messo molto della nostra esperienza di genitori, nella consapevolezza che anche quando riesci a intercettare il dolore di un figlio speri sempre che non sia così radicato. È qualcosa che bisogna provare per poterlo comprendere e spesso questo accade quando è troppo tardi per evitare il danno. Anche le reazioni sono il più delle volte imprevedibili. Su quelle di Pietro abbiamo lavorato molto. Se ci fai caso all’inizio si rifiuta di pensare che la figlia possa essere colpevole. Sulle prime pensa che sia stata rapita da chi gli ha ucciso la moglie. Anche quando viene arrestata continua a pensarla così, salvo poi distaccarsi da lei dopo la sua confessione di colpevolezza.

In effetti si tratta di un processo psicologico molto complesso che Una Figlia esplora nei suoi recessi più profondi. Come quello che riguarda il riavvicinamento di Pietro a Sofia, con il primo spinto a farlo dal bisogno di compensare la perdita del figlio che la moglie aveva in grembo con la bambina che la ragazza mette al mondo nel corso della detenzione. 

La rivelazione a cui ti riferisci non è così netta ma il dubbio c’è. Nel film io e Valentina lo istilliamo nel corso dei cento minuti attraverso piccole inquadrature che hanno il compito di dare al pubblico il numero più alto di informazioni.

La scena del delitto è costruita attraverso campi e controcampi volti ad accentuare la contrapposizione tra Sofia e Chiara e ancora, con inquadrature che si mantengono ad altezza spalle per non far capire cosa ha provocato l’improvviso collasso della donna. Non è un caso che l’unico momento in cui vediamo le due attrici nella stessa inquadratura è quando Thony sta per accasciarsi al suolo. Come a dire che l’unica maniera per risolvere il conflitto è quella di far venire meno uno dei contendenti. 

Sono rimasto su una e sull’altra e poi ho montato tutto insieme evitando di stringere sul coltello. Nelle scene in campo largo, quelle prima del confronto, vediamo Sofia usarne diversi tipi per tagliare il pane e poi il salame per poi dimenticarci che possa averne uno in mano perché la mdp non inquadra più le sue mani.

Girata in quel modo la scena traduce in immagini l’indicibile che si nasconde dietro a storie come quella di Sofia. A questo concorre anche la scelta di un’attrice come Ginevra Francesconi la cui figura piccola e minuta rende ancora più inaspettata l’aggressività della sua reazione. 

Quello di Sofia era un ruolo difficile per il quale non sarebbe stato possibile scegliere un’attrice come Greta Gasbarri, che prima di Mia non aveva fatto nulla. Ginevra Francesconi la conoscevo per fama ma non avevo visto nulla di lei. La prima cosa che gli ho chiesto era di lavorare su emozioni come aggressività e dolore poi durante il provino vero e proprio mi sono accorto della capacità che aveva di spaziare dalla bontà alla cattiveria in maniera naturale. Il corpo minuto e il volto da adulta regala al suo personaggio un’indecifrabilità di fondo che non permette di prevedere le azioni di Sofia.

Peraltro il suo personaggio prevedeva questa ambivalenza perché per diventare donna Sofia deve prima tornare a essere bambina.

Come accadde per Mastandrea ne Gli Equilibristi anche qui non c’è stato bisogno di make up perché al volto di Ginevra basta un filo di trucco per trasformarla in un’altra persona. A un certo punt mi serviva che tornasse bambina per mostrare come il carcere e la maternità la trasformano in una persona adulta.

Il cambiamento di Sofia è segnalato attraverso una serie di scene in cui la nudità di corpo ispezionato dalle forze dell’ordine diventa il simbolo di una spoliazione morale destinato a essere viatico di crescita e trasformazione.

Sono partito dalla realtà per mettere in scena la “riparazione” metaforica di Sofia che parte proprio dall’ispezione di quel corpo nudo da parte degli agenti di polizia. È da lì che lo spettatore deve cominciare a dimenticarsi ciò che ha fatto per concentrarsi sulla sofferenza e sulla sua crescita come donna e poi come madre.

Peraltro il suo personaggio prevedeva questa ambivalenza perché per diventare donna Sofia deve prima tornare a essere bambina.

Come accadde per Mastandrea ne Gli Equilibristi anche qui non c’è stato bisogno di make up perché al volto di Ginevra basta un filo di trucco per trasformarla in un’altra persona. A un certo punt mi serviva che tornasse bambina per mostrare come il carcere e la maternità la trasformano in una persona adulta.

Il cambiamento di Sofia è segnalato attraverso una serie di scene in cui la nudità di corpo ispezionato dalle forze dell’ordine diventa il simbolo di una spoliazione morale destinato a essere viatico di crescita e trasformazione.

Sono partito dalla realtà per mettere in scena la “riparazione” metaforica di Sofia che parte proprio dall’ispezione di quel corpo nudo da parte degli agenti di polizia. È da lì che lo spettatore deve cominciare a dimenticarsi ciò che ha fatto per concentrarsi sulla sofferenza e sulla sua crescita come donna e poi come madre.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, maggio 01, 2025

'30 NOTTI CON IL MIO EX' CONVERSAZIONE CON GUIDO CHIESA

Distribuito da Piper Film è in sala 30 notti con il mio ex, film diretto da Guido Chiesa con protagonisti Edoardo Leo e Micaela Ramazzotti. Del film abbiamo conversato con il regista Guido Chiesa.

Si è sempre detto di come la commedia francese abbia saputo raccontare la malattia con leggerezza e insieme profondità. 30 notti con il mio ex persegue con successo lo stesso intendimento di titoli come Quasi Amici e La Famiglia Bellier raccontando tra dramma e commedia un tema delicato come quello della malattia mentale.

Prima di tutto ti ringrazio perché comunque fa piacere sentire queste parole. Sì, è vero, in anni recenti la commedia francese, nel passato quella americana con Billy Wilder e la nostra con Risi e Monicelli, hanno avuto la capacità di mescolare i generi. Oggi è diventato difficile perché anche sui media esiste la necessità di catalogare i lungometraggi in generi molto rigidi. Da questo punto di vista siamo tornati un po’ indietro: un film deve essere classificato in modo rigido, non esiste complessità. Devi essere una commedia o un thriller o un horror, e via discorrendo. Tutt’al più un dramma anche se poi come si fa a non dire che un thriller è anche drammatico? Questo inevitabilmente costituisce un limite, specialmente in questa fase in cui, per come è strutturato lo streaming, c’è la necessità di presentare subito i film divisi per categorie. Quando vai sulla pagina principale di Netflix o Amazon o Disney+ te ne accorgi subito. Se il film non ricade in contenitori ben precisi, lo spettatore fatica a identificarlo. Anche se non c’è scritto da nessuna parte che un film possa essere drammatico e allo stesso tempo far ridere.

Così capita nel tuo film. In alcuni momenti infatti 30 notti con il mio ex è attraversato da una ruvidezza assai rara. Penso per esempio al rapporto tra Bruno (Edoardo Leo, ndr) e la figlia. In alcuni momenti la conflittualità verbale della ragazza è scandita da parole anche dure nei confronti del padre.

Sia nel rapporto tra padre e figlia che nei confronti della malattia mentale abbiamo sempre cercato di mantenere un impianto realista, in cui le cose che accadono non sono inventate per necessità di scrittura. Gli episodi che abbiamo messo nel film hanno sempre un legame con la realtà della patologia psichiatrica. Nel caso della figlia, io e Nicoletta Micheli, in quanto marito e moglie, abbiamo attinto anche al rapporto con i nostri figli, con cui ci sono momenti di grande amore e altri in cui ci diciamo le cose in maniera esagerata e pesante, come credo succeda in molte famiglie. Lo stesso abbiamo fatto con la malattia mentale, evitando di rappresentarla in maniera solamente drammatica, come succede troppo spesso in una certa cinematografia, e al contrario di ciò che accadeva nel meraviglioso Qualcuno volò sul nido del cuculo in cui dramma e risate trovavano coerenza nella peculiarità dei personaggi e dove uno straordinario Jack Nicholson riusciva a farti piangere e divertire. Come dicevi tu, credo che oggi, in particolare in Italia, ci sia un pregiudizio verso la commedia, considerata come un genere minore. In generale i grandi autori italiani non hanno mai voluto frequentarla, per questo capita che un regista come Pietro Germi venga considerato meno dei suoi colleghi “duri e puri”.

Nella parte di una donna affetta da disturbi mentali Micaela Ramazzotti correva il rischio di scadere nella retorica della malattia. Al contrario i primi piani dei suoi occhi sono la sintesi di una sofferenza che non manca di aprirsi a uno spiraglio di luce. 

Verissimo. Micaela non avrebbe fatto il film se l’avessi portata a ripercorrere le strade di film che aveva già fatto. Penso non solo a La Pazza Gioia, ma anche a Felicità. Ha scelto di fare 30 notti con il mio ex perché metteva in luce gli aspetti anche più divertenti e leggeri della malattia mentale. In questa prospettiva abbiamo scelto una patologia che ci permettesse anche di poter essere leggeri. Gli uditori di voci come Terry, il nome del personaggio interpretato da Micaela, una volta erano considerati schizofrenici, mentre oggi vengono trattati come affetti da una patologia curabile o perlomeno gestibile da parte del paziente. Di suo Micaela ha aggiunto la capacità di recitare un po’ sopra le righe senza mai eccedere, scivolando con un sorriso attraverso le situazioni anche più dolorose. Nel nostro film l’ha fatto in modo quasi inconsapevole, e quindi ancora più genuino.

In tale contesto il personaggio di Edoardo Leo è chiamato a fare da parafulmine agli estri dell’esuberanza femminile. Nell’interpretarlo l’attore romano conferma di vivere in uno stato di grazia che gli permette di oscillare naturalmente da uno stato d’animo all’altro mantenendo sempre un understatement che rende credibili e amabili i suoi personaggi.

Edoardo ha raggiunto un controllo della sua recitazione davvero notevole. Lui ha sempre avuto una tecnica eccellente, ma ora, un po’ per l’età, un po’ grazie all’esperienza, ha imparato a gestire il suo lavoro in un modo veramente consapevole. Prima aveva meno registri, adesso molti di più. Questo gli permette di oscillare tra profondità e leggerezza in maniera convincente. Da tempo volevo fare un film con lui, per cui adesso mi auguro che questo sia il primo di tanti altri. Purtroppo, in Italia si fa una gran fatica a trovare attori sotto i quaranta in grado di fare ruoli da protagonista. Se proviamo a proporre storie di trentenni la prima domanda che ti senti dire è: ma chi lo fa? Il problema dipende anche da registi e produttori perché delle volte abbiamo paura a prenderne di più giovani. D’altra parte fare il protagonista di un film non è facile. Una volta che la generazione dei vari Leo e Giallini, Rossi Stuart e Germano, Favino o Mastandrea, Gassman e Santamaria, e via dicendo, inizierà a invecchiare, sarà difficile sostituirli, perché Borghi e Marinelli non potranno fare tutti i film. Quando si dice che da noi recitano sempre gli stessi attori non si tiene conto che i film in cui hanno recitato interpreti più giovani sono andati piuttosto male al botteghino. E senza incassi, i film semplicemente non si fanno più. Chi finanzia i film vuole almeno recuperare i propri soldi e purtroppo senza interpreti di grido questo succede raramente. Al contrario Edoardo appartiene a una generazione d’attori che ha dimostrato di poter fare dei film di successo. È un grosso problema che il cinema italiano dovrà affrontare nel prossimo futuro.

Leo e Ramazzotti sono due attori che hanno un immaginario molto preciso. Il merito del tuo film è stato quello di diversificarlo all’interno della storia. La via più facile sarebbe stata quella di metterli in scena e lasciar fare a loro.

Con Edoardo era da tempo che volevamo fare un film insieme. Quando gli hanno proposto 30 notti con il mio ex lui ha detto di sì e ragionando su chi fosse stata la persona giusta per dirigerlo tutti hanno fatto il mio nome e così è andata. Edoardo lo conoscevo bene non solo come attore, ma anche come amico. Sapevo che lui avrebbe potuto fare questo personaggio perché è in grado di saper fare qualsiasi personaggio. Con Micaela invece avevamo fatto Ti presento Sofia per cui insieme a Nicoletta l’abbiamo proposta pensando che avesse le caratteristiche giuste per interpretare Terry. Pur non essendo una comica di professione lei ha in sé una leggerezza capace di portarla in maniera naturale su quei registri, un po’ come succedeva a Marilyn Monroe. A Edoardo sono stato io a proporre una certa direzione del personaggio mentre nel caso di Micaela è stata lei a farlo. Quando hai attori così tutto diventa più semplice. A quel punto il tuo compito è diventare un po’ il sistema immunologico del film per evitare di farlo deragliare. In un film così, il mio vero compito diventa quindi quello di immaginare inizialmente il film – con Nicoletta che è quella che poi traduce il brainstorming in idee di scene e scrittura – per poi scegliere le persone giuste per metterlo in scena. Sono poi loro a portarlo avanti. D’altronde io so poco o nulla di fotografia, costumi o scenografie. A me spetta far capire agli attori e al resto della troupe la direzione in cui stiamo andando. E quando questo succede il film difficilmente non funziona. È successo anche quando ho dovuto scegliere gli attori che dovevano impersonare i vari pazienti. Conoscendoli sapevo che avevano la qualità adatta a interpretarli.

Non a caso in questo bilanciamento tra sorriso e pianto, tra dramma e commedia sono proprio i personaggi che ruotano attorno a Terry quelli cui spetta di esorcizzare la malattia con l’eccentricità dei loro comportamenti. In 30 notti con il mio ex riusciamo a sorridere senza per questo ridurre la portata del dramma che vivono queste persone.

Ti ringrazio per averlo detto così bene. Alle tue parole aggiungo solo che noi non volevamo ridere delle disgrazie di queste persone, ma ridere insieme a loro, a cominciare da Terry. Incontrando vari terapeuti e pazienti, Nicoletta ha scoperto che molte persone affette da patologie mentali hanno una sorprendente autoironia, derivata dalla consapevolezza di diventare buffi in certi frangenti, specie ai cosiddetti “normali”. Loro stessi sanno di essere “particolari” e non si vergognano di questo. Ovviamente noi abbiamo scelto un contesto terapeutico in cui si lavora con il dialogo e altre terapie, per fornire ai pazienti gli strumenti per gestire la loro patologia (e non solo dandogli farmaci). La scelta di chi doveva interpretarli è stata decisiva. La decisione è caduta su attori che, pur non essendo comici pure, sapevo essere in grado di capire che cosa significava essere affetti da una malattia mentale. D’altronde che le persone affette da questo tipo di disturbi siano i primi a sdrammatizzare la propria condizione non è una mia scoperta. Succede così anche nel bellissimo documentario di Nicholas Philibert Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile in cui i pazienti di un centro diurno collocato su un battello che naviga sulla Senna scherzano e ridono dimostrando una grande voglia di vivere.

Come altri film anche 30 notti con il mio ex è l’adattamento di un film straniero. Da una parte questo costituisce una fonte di informazioni di cui non si può non tenere conto. Dall’altra è come se avessi a che fare con un’idea originale perché di fatto il pubblico non ha mai visto il modello originale. Che tipo di approccio comporta un progetto del genere?

È una domanda interessante. Questi film nascono dalla volontà della Colorado Film di produrre film a partire da un nucleo narrativo intrigante, che, quando lo racconti, ti fa venire voglia di sapere come va a finire. È il cosiddetto high concept. La maggior parte dei remake che ho diretto proviene da film di origine sudamericana. Da quelle parti, a partire dagli anni 2000, gli americani hanno investito molto, anche perché negli Stati Uniti c’era una larga fetta di popolazione latina. Il problema di questi film è che poi, passando dal concept alla sceneggiatura, perdono di efficacia perché puntano solo sui meccanismi narrativi e poco sui temi e i personaggi. Nel 30 notti argentino, ad esempio, il personaggio di lui non esiste ed è tutto in funzione di lei, che tra l’altro è una straordinaria attrice comica. Questo fa sì che il personaggio maschile, tranne quella di dover ospitare la moglie a casa sua, non abbia una vera motivazione. Di lui non esiste un reale percorso di trasformazione che invece credo sia uno dei punti di forza del nostro approccio. Per noi lo sviluppo dei personaggi in senso realistico è invece fondamentale. In Italia facciamo molta fatica a lavorare sul concept del film, a trovare dei concept forti (a parte Paolo Genovese che invece ne è maestro). Mi è capitato raramente di trovare nelle sceneggiature italiane dei concept originali, forti e popolari come quelli che ho trovato nei film di cui ho fatto il remake.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)