François Cluzet è stato l’ospite d’onore della 15esima edizione di France Odeon a Firenze. L’attore francese ha presentato il film nel quale recita, ancora una volta diretto da Thomas Lilti, Guida pratica per gli insegnanti (titolo originale Un métier sérieux). A François Cluzet abbiamo fatto alcune domande sul film, in sala dal 17 aprile grazie a Movies Inspired, sulla sua carriera e sul cinema.
Un métier sérieux
è l’ennesima collaborazione con Thomas Lilti. Com’è (stato) lavorare con lui?
Soprattutto considerando che ne Il medico di campagna sei il protagonista (o
comunque il personaggio più importante), mentre qui sei allo stesso livello
degli altri, trattandosi di un film corale.
In questo film ci sono più partner. Ne Il medico di
campagna ci siamo io e la coprotagonista, siamo solo due. Qui, invece,
siamo sempre 5, 6, 7, 8. Ed è una cosa che io amo molto perché vengo dal teatro
dove ci sono tanti partner. Poi penso che sia molto interessante provare a
lavorare nel proprio ruolo perché in questo modo i partner ritrovano il ruolo
che hanno letto. Si tratta anche di rendere migliore il partner perché così
anche il film sarà migliore. Si lavora insieme: se si recita bene è per il bene
di tutti. Quindi è anche nell’interesse di ciascuno.
In Un mètier sérieux questo aspetto
è ancora più importante perché la scuola è strutturata così.
Esatto. È importante, per esempio, che se ci sono
degli attori da sperimentare possono recitare da soli, perché le emozioni
nascono nel cuore e arrivano al cuore. Le frasi che si dicono non devono avere
un significato, devono semplicemente arrivare al cuore. Se arrivano al
cervello, che non è sensibile, non colpiscono allo stesso modo.
Com’è stato il tuo approccio al
personaggio di un professore? Considerando anche che hai abbandonato gli studi,
ritrovarsi dall’altra parte della classe che effetto ti ha fatto?
Molti attori amano ricorrere al trucco, ai vestiti. Io
sono dell’idea che, se la situazione deve far soffrire, non bisogna far finta:
è proprio in questo caso che il mestiere dell’attore diventa difficile. Anche
perché si può far ridere, parlare, mangiare, ma piangere, senza far finta, è
difficile perché non è la verità.
Bisogna prepararsi, non si può fare all’ultimo
secondo. Tre mesi prima sai che quel giorno farai quella scena, così ci pensi
tutti i giorni e il corpo ti dà quello che gli hai domandato, il cervello
obbedisce a quello che gli viene detto. Lo convinci perché deve obbedire, ma
devi essere sincero. Bisogna prepararsi come alle olimpiadi.
Non è facile, però, metterlo in pratica e
recitare in questo modo.
No, non è facile, ma in realtà noi non recitiamo,
diamo vita ai personaggi. Il nostro mestiere non è recitare, ma vivere. C’è una
frase che riassume bene il nostro mestiere “gli attori sono quelli che fanno
finta di fare finta”.
Infatti il tuo personaggio ha più livelli.
Sia come insegnante, sia come collega che come genitore. Sono tre personaggi in
uno.
Sì, sono tre situazioni. Ma è così per tutti.
Il mio personaggio dà delle lezioni, incontra i
colleghi, e poi torna a casa. Ed è una riflessione sull’insegnamento: i
professori sono criticati, dicono che sono sempre in vacanza e non fanno
niente, ma in realtà non è vero. Sono poco pagati e fanno un mestiere
essenziale (insieme alla sicurezza e alla sanità). In una società moderna
dovrebbero essere i più pagati e i più competenti.
Il tuo personaggio è un po’ la vecchia
generazione, ma credo che comunque possa essere un aiuto per le nuove
generazioni. Anche se sono stanchi di seguire le lezioni in modo tradizionale
sono comunque affezionati a quel tipo di insegnamento. Allo stesso modo i
colleghi possono trarre consigli dal modo di insegnare. E poi è un personaggio
che si rapporta con due diverse tipologie di generazioni: quella degli alunni e
quella del figlio. Anche se hanno più o meno la stessa età e le stesse
dinamiche, gli alunni devono sempre passare sotto le grinfie del professore, il
figlio invece, anche se sbaglia, è comunque il figlio e quindi non si può a
prescindere dirgli che ha torto.
Perché è tutto legato alla sua funzione. Il professore
ha qualcosa da dare ai suoi alunni: l’istruzione in un confine ben preciso,
cerca di trasmettere un sapere millenario che non è il suo, ma della pedagogia
e dell’istruzione.
Con il figlio c’è sempre qualcosa da prendere. Il
regista insiste sul fatto che delle volte i professori vogliono che i loro
figli scelgano un mestiere importante. Per esempio il regista ha veramente un
padre medico e quando gli ha chiesto cosa volesse fare da grande lui ha
risposto che voleva fare il cinema. La risposta del padre è stata negativa, gli
ha detto che doveva fare un mestiere serio e lui ha capito subito che questo
voleva dire fare il medico e ha fatto medicina. Ma appena ha preso il diploma
ha realizzato il suo primo lungometraggio.
Con il covid è tornato in ospedale per aiutare, ma poi
è tornato a fare il regista.
Da qui l’idea del titolo Un métier sérieux.
Parlando, invece, più in generale della
tua carriera, sicuramente si può usare la parola versatilità per descriverti.
Si possono citare, per esempio, due titoli emblematici: Quasi amici e L’inferno.
Per Quasi amici diciamo che non c’erano grandi
cose da fare sul set. Ero praticamente lo spettatore di Omar Sy
che incoraggiavo a fare sempre di più perché lui recitava anche per me. Al
posto mio doveva esserci Daniel Auteuil che ha rifiutato
probabilmente perché pensava che fare questo film avrebbe significato
semplicemente dare le battute a Omar Sy che, in effetti, è quello
che succede, ma io ero a un punto della mia carriera dove ero abbastanza famoso
e mi potevo permettere di essere altruista e fare un film generoso. Mi sono
detto “voglio lavorare per Omar. Il mio lavoro era valorizzare Omar”.
Per quanto riguarda L’inferno Chabrol ha
reso il film (che inizialmente doveva fare un altro) più lineare e più
semplice. Ha fatto valere la frase “Non ci sono grandi attori, ci sono
grandi ruoli”.
Un altro aspetto importante è il fatto che
nei tuoi film sono sempre stati trattati temi importanti, dalla disabilità
all’antisemitismo.
Vorrei citare, a tal proposito, Bergmann che
diceva “non dimentichiamo che facciamo un lavoro di divertimento” e in
effetti se la storia che raccontiamo e interpretiamo per un’ora e mezzo o
quello che è funziona non si pensa a nient’altro. Ma divertire non significa
far ridere.
Spesso nel cinema si parte da un soggetto sociale che
viene poi sviluppato.
Cosa ti ha avvicinato alla recitazione?
Probabilmente la mancanza di affetto. Mi sono resa
conto che a 13 anni quando cantavo le sorelline di alcuni miei amici mi
guardavano con una sorta di venerazione e io ho pensato che volevo fare quello
nella vita.
Poi a 20 anni avevo un fisico moderno che mi ha
aiutato molto, ma è qualcosa che mi hanno dato i miei genitori, non qualcosa
che mi sono guadagnato. Mi ha aiutato a diventare quello che sono, ma non è
qualcosa che mi sono guadagnato.
Veronica Ranocchi
(intervista pubblicata su taxidrivers.it)