venerdì, febbraio 28, 2014

TIR

TIRdi Alberto Fasulo
con Branko Završan, Lucka Pockaj, Marijan Šestak
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 85'







Dopo aver visto i tre film italiani in concorso viene spontaneo chiedersi se la scrittura nel cinema nostrano conti ancora qualcosa o se tutto dipenda solo da una questione di stile e di tecnica. In tal senso il festival di Roma ha offerto molti spunti di riflessione, proponendo gli antipodi di queste possibilità con gli eccessi e il parossismo citazionistico di "Take Five" diretto da Guido Lombardi, messi a confronto con il rigore e l'essenzialità del cosiddetto cinema del reale a cui "I corpi estranei" di Mirko Locatelli e, soprattutto, "Tir" di Alberto Fasulo appartengono di diritto.

Il lavoro di Fasulo rappresenta un esempio paradigmatico perché individua la tendenza delle nuove generazione di registi italiani di inserire pratiche ed estetiche del documentario nel cinema di finzione. "Tir" è infatti il frutto di una lunga e accurata ricerca sul campo, poi confluita in un film in cui la supremazia della parola e della sceneggiatura cedono il passo al tessuto visivo fatto di immagini rubate al quotidiano, a una narrazione e a un montaggio frammentato, a cui è devoluto il compito di produrre il senso dell'opera. "Tir" ci porta a bordo di un autotreno commerciale e, lungo le strade di un paesaggio scarnificato e anonimo, conosciamo le vicissitudini di Branko, camionista slavo spinto in Italia dalla possibilità di guadagnare un salario che gli consenta di non dover vivere alla giornata. Durante i vari trasferimenti conosciamo qualcosa di lui e della sua famiglia attraverso le telefonate con la moglie, ansiosa di riaverlo a casa. Il resto, invece, scandito dalle varie tappe delle consegne a domicilio appartiene alla routine di un lavoro che logora e aliena.
Presentato con l'etichetta di documentario, "Tir" è in realtà un film a soggetto interpretato da un attore professionista (Branko Završan), che racconta una storia che, pur derivata da consapevolezze realmente vissute, è prima di tutto la conseguenza di una messinscena del reale elaborata prima di iniziare a girare. Ma questo poco importa perché sul versante della credibilità "Tir" non fatica a competere con la "vita in diretta" registrata nei documentari. Il punto risiede invece nel constatare in quale misura il film riesca ad imprimersi nella memoria delle nostre coscienze. Girato con l'intento di rifuggire qualsiasi accenno di retorica, l'opera di Fasulo si regge sulla capacità di restituire la dimensione interiore del protagonista partendo dalla condivisione della sua esperienza, e dalla ricognizione dell'habitat naturale in cui essa si manifesta. In questo modo la macchina da presa si annulla per fare posto allo spettatore, trasformato in un compagno di viaggio invisibile e discreto, attraverso piani fissi ravvicinatissimi effettuati all'interno del camion.

 

Il problema di "Tir" risiede in una drammaturgia che, lasciando fuori campo lo strappo e le lacerazioni di una scelta esistenziale difficile (da una telefonata apprendiamo che Branko è un ex insegnante costretto a lasciare un lavoro amato ma scarsamente remunerativo ), sceglie di affidarsi a sottili scarti emozionali e a dettagli apparentemente risibili, eppure forieri di impennnate emotive come la felicità conseguente a una doccia effettuata dopo cinque giorni di abluzioni parziali, o, al contrario, la freddezza derivata da rapporti umani spersonalizzati come quelli di Branko con i propri referenti lavorativi, non a caso restituiti da immagini incapaci di contenerne l'intera figura. Se la dignità di un uomo costretto a sacrificare le proprie ambizioni per un bene superiore è restituita con efficace autenticità, a non tornare è un'urgenza che appare troppo debole rispetto alla qualità dell'impianto formale. E' come se Fasulo per tenere fede alla promessa d'autenticità che sta alla base del suo cinema si dimenticasse di fornirgli un'anima in grado di bilanciarne lo sguardo fenomenologico. Se "Take Five" nella forzatura degli snodi narrativi annullava la forza della sua spettacolarità, "Tir" non è da meno quando ammorbidendo slanci e caratterizzazione si avvicina ad una neutralità che non incide, ribadendo la necessità di ripartire da un cinema scritto prima che filmato.  

(pubblicato su ondacinema.it)


ALBERTO FASULO E LA MALACRITICA: MILLE MODI DI FARSI DEL MALE

 
 
L'uscita nella sale di "Tir", il film di Roberto Fasulo vincitore con polemica dell'ottava edizione del Festival di Roma, ripropone con forza la questione relativa ai rapporti tra autori italiani e critici di settore. Non erano mancati già all'indomani della proclamazione del palmares romano giudizi sferzanti e molto negativi da parte di eminenti specialisti, che per l'occasione, considerando quel verdetto, avevano parlato di abbaglio collettivo di una giuria che aveva confuso l'importanza del tema - la drammatica scelta di un professore che diventa camionista per poter sostenere la propria famiglia - con le qualità drammaturgiche e di fruibilità di un'opera che sembrava non averne. Non certo una novità vista la disparità che solitamente contraddistingue le scelte della giurie dalle aspettative degli addetti ai lavori, e per il precedente accaduto proprio a Roma l'anno precendente, quando la messe di premi assegnati al fischiatissimo "E la chiamano estate" suscitarono una sorta di sollevamento generale, con fischi e lazzi nella sala e sulle pagine dei giornali. In entrambi i casi invece di applaudire i meriti dei due registi, peraltro riconosciuti ai nostri da due colleghi stranieri di fama consolidata come James Gray e Jeff Nichols, presidenti delle giurie rispettivamente nel 2013 e nel 2012,  si era preferito elencare le contraddizioni ed i difetti dei loro lavori. Con risentito sdegno da parte degli aventi causa.


Qui non è il caso di entrare nel merito di quegli apprezzamenti (di quello che pensiamo di "Tir" potete leggere nella recensione appena ripubblicata) soppesandone la giustezza e l'opportunità, ma piuttosto di evidenziare una certa malmostosità che attraversa il panorama cinematografico del nostro paese, e che forse rispecchia la perniciosa attitudine di non cogliere il momento, e riconoscere per esempio che davanti ad un'affermazione come quella di Sorrentino, anche lui oggetto in Italia di apprezzamenti poco lusinghieri per il suo "La grande bellezza", bisognerebbe mettere da parte antipatie e rese dei conti, e riconoscere che il plauso internazionale che il film sta ottendendo potrebbe fare da volano alla tanto auspicata rinascita. 


Questo non significherebbe venire meno alle caratteristiche di obiettività e di analisi che sono alla base del discernimento critico, ma di applicarne l'esercizio evitando di fare da sponda alle giustificazioni dei registi, pronti ad attribuire a rassegne stampa sfavorevoli la causa delle loro disgrazie. Come abbiamo avuto modo di leggere a proposito di Alberto Fasulo che qualche giorno fa collegava la contrazione del numero di sale a disposizione del suo film con la bocciatura ricevuta da un noto opinionista. Una citazione per danni quanto meno azzardata per un'epoca che da anni ha sostituto i numi tutelari con i parvenù della rete, e dove da tempo si affermare l'autonomia del botteghino rispetto alle leggi della logica e del pensiero. Converebbe a tutti fare un passo indietro, e ricordare che il cinema può fare a meno dei singoli contendenti, ma che noi non possiamo fare a meno di lui. Questo, augurando a "Tir" di sovvertire i pronostici delle malelingue. Noi, a dispetto delle apparenze, facciamo il tifo per lui.

giovedì, febbraio 27, 2014

FELICE CHI E' DIVERSO: INTERVISTA A GIANNI AMELIO





Dopo aver visto il nuovo film di Gianni Amelio “Felice chi è diverso” abbiamo avuto con lui un’interessante conversazione riportata qui di seguito:

Le campane sul finale richiamano in qualche modo la rivoluzionaria affermazione di Papa Francesco: “Chi sono io per giudicare”?
Sono sicuramente parole importanti, sono il primo passo verso un progresso in tal senso, equivale alla prima pietra sulla quale si costruì la chiesa.

Perchè ha scelto di intervistare persone anziane?
Perchè volevo riscoprire da un punto di vista storico e culturale com’era realmente vissuta l’omosessualità in Italia. L’Hollywood reporter ha commentato: “sembra un film di trent’anni fa”; trattandosi di un documentario, l’ho preso come un complimento involontario.

Come mai non appaiono i nomi degli intervistati durante il film?
Perchè sono tutti casi differenti, mettere i nomi come in televisione avrebbe appiattito il tutto e ucciso il senso del film. 

Perchè non si fa riferimento a personaggi del mondo dello sport per esempio?
Io non vado per categorie, non è nel mio interesse ragionare così, ed è un atteggiamento melenso che dobbiamo perdere.

La sua speranza?
Spero che non ci sia più bisogno di fare un documentario del genere, spero che il mio sia l’ultimo, anche se so che purtroppo non sarà così.

Però si intravede un messaggio di speranza, da dove viene la speranza che la situazione cambi?
Dalla poesia di Sandro Penna.

Dalla sua filmografia, si evince sempre una sorta di fascino ed incanto per la vita; questo messaggio sembra prevalere su tutto in maniera universale anche qui, è d’accordo?
Si, è quello che cerco di metterci sempre; prima di ogni cosa c’è la persona che vive e ha il diritto di vivere.

Ringraziamo Gianni Amelio e vi consigliamo vivamente di andare a vedere questo bellissimo documentario, nelle sale dal 6 marzo 2014.
Antonio Romagnoli

LA BELLA E LA BESTIA

La bella e la bestia
di Christophe Gans
con Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier, Eduardo Noriega,  
genere, thriller, fantasy, sentimentale 
Francia, 2014
durata, 110'



I grumi depressivi intrinseci ad un’annosa solitudine, figli di una maledizione forse inespiabile, inopinatamente velocizzano il loro flusso in circolo e si rimescolano con le epifanie di un amore, la purezza del cui primo slancio rende percorribili ancora le vie del riscatto ed arma l’animo del coraggio utile a saldare una volta per tutte i conti con il destino. Tali erano i poli attorno a cui ruotava (e ruota) un racconto archetipico come “La Bella e la Bestia” di Mme de Villeneuve, vecchio oramai di due secoli e mezzo abbondanti. Ancor più grandi, invece, si facevano gli estremi delle aspettative riguardo una sua ulteriore riproposizione, se si tien conto dell’approccio scelto da Gans, ossia quello di una rilettura complessiva del testo anche alla luce dell’influenza della tradizione classica (Ovidio, in particolare), di per se’ pregna di echi sia storici che leggendari e con lo spostamento in avanti dell’azione di una settantina d’anni. Come sovente accade, pero’, i fatti s’incaricano poi di smentire le intenzioni. Figurarsi le aspettative.


Ciò soprattutto in ragione del fatto per cui la narrazione (filmica) partita nel solco della ‘fabula’ gotica tradizionale della quale, anzi, anticipa taluni accorgimenti, pian piano scivola – incalzata, tra l’altro, come da una vera e propria “impellenza” degli effetti visivi a snocciolarsi qui e ora – nel torpore tutt’altro che romantico di un tira-e-molla sentimentale, decisivo si’ per gli snodi della vicenda ma mai sorretto da un’autentica tensione sessuale in grado di rendere palpabile la passione di un amore “diverso” e lo sguardo che esso implica. E questo vuoi per la scarsa alchimia degli interpreti – la Seydoux da un lato (l’altra meta’ della “Vita di Adele”, per intendersi) che ancora fatica ad arginare quel certo che di scostante che ne irrigidisce l’atteggiamento e il pur sempre simpatico Cassel, dall’altro, che qui, almeno per il poco che rimane in scena con le sue fattezze, senza troppi patemi, traccheggia nei territori a lui familiari di una spontanea malia briccona – vuoi, pecca forse davvero dirimente, per l’invalsa tendenza di Gans, che risale ai tempi di “Crying Freeman”, attraversa per intero “Il patto dei lupi” per attenuarsi solo in parte in “Silent hill”, a soprassedere o semplicemente a tirare dritto quando ci sarebbe da soffermarsi sulle modificazioni interiori dei personaggi, per privilegiare lo spericolato e ripetuto alternarsi di momenti frenetici riconducibili all”azione’ pura e un anodino ricamare descrittivo che accosta, spesso sovrapponendoli con esiti non sempre felici, suggestioni diverse: da reminiscenze figurative impressioniste a evocazioni di Bocklin, passando per tracce di un certo iper-decorativismo preraffaelita presenti nelle scenografie ingombre di arazzi, mobilio, statue, infiorescenze, così come nei colori, nelle fogge e nelle trame complicate degli abiti (e sorvolando sulla matrice pressoché totalmente computerizzata di tanta mobilitazione).


E’ su queste direttrici che Belle s’innamora della Bestia – o meglio, “dice” di star innamorandosene – mentre il suo sentimento, se esiste, si confonde e si diluisce all’interno di peregrinazioni pensose nei meandri del labirintico castello-eremo della Creatura. Parimenti, la Bestia spia in tralice la giovane donna con l’ovvio imbarazzo aggressivo ingenerato dalla sua mostruosità, e poco più: senza, cioè, quello sconforto e quella mestizia che arricchirebbero i suoi gesti della stanchezza colpevole e dell’amara dolcezza atte a stimolare il sospetto circa il vero cruccio che ne ottenebra l’esistenza: ovvero uno stupido peccato d’orgoglio, l’ennesimo regalo fatto alla Morte che se esiste qualcosa di cui non ha bisogno e’ di godere di soverchi vantaggi.

Tutto nel cinema di Gans, in altre parole e fino ad ora, almeno, si ordisce e si consuma in superficie, la quale, oggi come oggi essendo organizzata secondo la “tirannide” esigente del digitale, tende a comprimere sempre più lo spazio minimo dell’umano, nella persuasione tutta moderna, tutta “veloce”, che la moltiplicazione all’infinito del “visibile” – delle prospettive, dei punti di vista come di quelli di fuga, delle proporzioni, dei riverberi – sia di per se’ sinonimo di empatia. Inquadrature sovraccariche, dettagliatissime, percorrono quindi, al pari di tante opere simili, anche “La Bella e la Bestia” (basterebbero, per tutte, le sorprendenti varietà cromatiche esibite nelle sfumature più minute o la sempre efficace esuberanza ‘tentacolare’ infusa nella rappresentazione del mondo vegetale) spostando ancora di un po’ il limite dell’eterna lotta dei sentimenti contrastanti – ma pure i loro incanti, le loro “lentezze” – verso un braccio di ferro più concreto ma più freddo tra le sacrosante istanze dello spettacolo e lo spauracchio dei “momenti morti”.
(pubblicato su dreamingcinema.it

TFK

film in sala da Giovedì 26 Febbraio 2014


TIR
di Alberto Fasulo
con Branko Zavrsan
2013 ITA - Drammatico - 85 min

UNA DONNA PER AMICA
di Giovanni Veronesi
con Fabio De Luigi, Laetitia Casta, Valentina Lodovini
Geppi Cucciari, Monica Scattini, Valeria Solarino
2014 ITA - Commedia - 88 min

IL VIOLINISTA DEL DIAVOLO
The Devil's Violinist
di Bernard Rose
con David Garrett, Jared Harris, Joely Richardson
2014 GER/ITA - 122 min - Biografico/Drammatico

LA BELLA E LA BESTIA
La Belle et la Bete
di Christophe Gans
con Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier
2014 FRA - Thriller/fantasy - 110 min

LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI...FORSE
di Ciro Villano, Ciro Ceruti
con Ciro Villano, Ciro Ceruti, Floriana De Martino, Lucio Pierri
2014 ITA - Commedia - 100 min

SPIDERS 3D
di Louis Nero
con Christa Campbell, Patrick Muldoon, William Hope
2013 USA - 89 min - Thriller

LA SCUOLA PIU' PAZZA DEL MONDO
Hôkago middonaitâzu
di Hitoshi Takekiyo
2013 GIA - 95 min - Animazione

SNOWPIERCER
di Joon-Ho Bong
con Chris Evans, Jamie Bell, John Hurt,
Tilda Swinton, Kang-ho Song
2013 FRA/USA/Corea del Sud - 126 min - Fantascienza/Thriller

mercoledì, febbraio 26, 2014

12 ANNI SCHIAVO: PRO e CONTRO

12 anni schiavo
di Steve McQueen
con  Chiwetel Ejiofor,Michael Fassbender, Brad Pitt 
Usa, 2013
genere, drammatico, biografico, storico
durata, 134'








La storia di una nazione è composta da passaggi epocali e da momenti fondativi che ne determinano la fisionomia culturale, politica e sociale. Tra questi la questione razziale, seppur formalmente superata da leggi e stili di vita ormai consolidati, rappresenta per gli Stati Uniti d'America un caso ancora aperto nel processo di normalizzazione del paese. Una ferità che continua a sanguinare, e su cui il cinema americano oggi torna ad insistere, mettendo insieme a breve distanza di tempo "12 anni schiavo" di Steve McQueen, appena uscito nelle sale, e "Fruitvale Station" prossimamente sugli schermi. Differenti per possibilità produttive, stili di regia e collocamento temporale, i due film si sovrappongono alla perfezione nel loro epilogo, affermando la volontà di un sistema che sia nel caso di Solomon Northrup, il protagonista del film di McQueen, segregato ingiustamente pur essendo un uomo libero, che in quello di Oscar Grant, ucciso dalla polizia senza apparente motivo, ha lasciato inpuniti gli autori del misfatto. Del film di Ryan Coogler ci sarà tempo per parlare, ma quello che in questo spazio si voleva evidenziare è l'estrema attualità di "12 anni schiavo", lungometraggio che utilizza la Storia (l'azione della vicenda si svolge nell'America schiavista del 1841) per parlare del presente.

Tratto da una storia vera, raccontata dallo stesso Northrup nell'omonima autobriografia, "12 anni schiavo", questo è bene dirlo, è l'opera di un regista abituato a lavorare in una dimensione artistica lontana dai clichè hollywoodiani. La scommessa in questo caso era quella di vedere in che modo lo sguardo di McQueen si sarebbe adattato agli standard imposti dall'industria americana. In questo senso "12 anni schiavo" nello suo sviluppo narrativo non si discosta dagli altri film del filone. Nei 134 minuti di durata del film, assistiamo perlappunto ad un'odissea coinvolgente e drammatica, che attraverso il calvario di un figura cristologica denuncia le angherie e la crudeltà degli oppressori. Un ortodossia leggittimata dalla pioggia di nomination tributate dai membri dell'Academy, che però non impedisce al regista di lasciare la sua firma tanto nei contenuti quanto nella messinscena. Nel primo caso McQueen toglie al film una buona dose di pietismo, affermando un punto di vista, quello di Northrup, che prescinde dalla coscienza di classe e dalla condivisione di un destino comune a cui solitamente Hollywood si aggrappa per commuovere lo spettatore. Una dimensione che si irradia sul paesaggio, e che la scena dell’impiccagione mancata afferma attraverso l'indifferenza del contesto in cui la stessa si svolge. Un atteggiamento che "12 anni schiavo" in parte si rimangia nella sua parte conclusiva, quella che a partire dall’entrata in scena di Brad Pitt con il suo sermone antirazzista,  riporta il film nell’alveo di una convenzionalità più marcata. Del secondo invece basterebbe la sovrapposizione tra i fotogrammi della messa celebrata dal Padrone, con il sonoro proveniente dalla scena precendente che fa sentire il grido di sofferenza dei suoi sottoposti. Sintesi perfetta della coscienza di una Nazione fondata sul diabolico patto tra religione e capitalismo, già trattato ne “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson, che in questo caso Steve McQueen suggella, splendidamente, in una sequenza esemplare ed unica. La perfezione, o quasi. 
(pubblicata su dreamingcinema.it)


nickoftime






Steve McQueen è ormai uno dei cineasti più acclamati al mondo (lui stesso afferma di essere il miglior artista vivente) e prova a riconfermarsi dopo aver firmato 2 capolavori; infatti prima Hunger (2008) e poi Shame (2011) avevano messo in rilievo l’attenzione del regista per i corpi e la loro dissoluzione, materiale e non, con uno stilema innovativo e particolarissimo. Il suo terzo lungometraggio, tratto da una storia vera, racconta di Solomon, uomo di colore libero che vive a New York con la sua famiglia, reso schiavo per 12 anni con l’inganno da due uomini bianchi che millantavano una collaborazione artistica.
L’espediente estetico di McQueen è assolutamente riconoscibile ed unico già dai primi minuti, dove le inquadrature sembrano accesi dipinti impressionisti in opposizione all’oppressione umana che si consuma, nella quale Solomon prova ad emergere con intelligenza e dignità, restando comunque in un limbo infinito metafora della speranza perduta. Tra le sequenze più belle della pellicola vediamo il protagonista appeso per punizione ad un cappio per un giorno intero, cercando nella fanghiglia  un appiglio più solido dove poggiare i piedi, contorcendosi in un balletto angosciante. La vicenda si avvia ad un finale frettoloso, dove un canadese travestito da Brad Pitt nel ruolo di Deus ex machina deciderà di aiutare e salvare Solomon, non prima di aver avuto col possidente un dialogo verboso e ridondante sulla giustizia in relazione allo schiavismo, cosa che fa scendere il film parecchio di livello.
E’ inoltre recentemente venuta alla luce una piccola perla del cinema indipendente, Fruitvale station, opera d’esordio di Ryan Coogler, con la quale è impossibile far venire meno il parallelismo col film di Mcqueen. Seppur non si ha di fronte un’opera in costume articolata in quella precisa realtà storica, il film fa emergere la problematica “blackness” in un’America si lontana dall’epoca dello schiavismo ma ancora lontana dal lasciarsi alle spalle certe dinamiche mentali e sociali; al contrario dell’acclamato regista inglese, Coogler si muove perfettamente in bilico sulla lama affilata che separa documentario e fiction, costruendo il climax finale (nonostante il finale fosse già svelato all’inizio) facendo sbocciare nello spettatore il ripudio dell’ingiustizia assurda appena consumatasi. Nonostante anche qui si tratti di eventi realmente accaduti, si giunge ad una commozione sincera e rabbiosa, cosa che, come già accennato, nel film del regista inglese risulta programmatica e fasulla.
Le aspettative per 12 years a slave erano alte, ma già la candidatura all’oscar per un film di McQueen risultava evento anomalo. Ed in effetti l’argomento e lo svolgimento si precludono in un prodotto pre-confezionato che non dice niente di nuovo. Qualcuno ha osato dire (per spianare l’aurea strada dell’Accademy) “Se Django ha aperto la porta, 12 years a slave l’ha spalancata”; in realtà siamo lontani anni luce dal capolavoro di Tarantino, che dopo una serie di lavori sull’argomento (ricordiamo i pessimi Lincoln e The Butler) risulta essere l’unico esperimento pienamente riuscito sull’argomento (escludendo il sopra citato e caldamente consigliato “Fruitvale station”, che differisce nell’ambientazione storica). In attesa del probabile Oscar come miglior film, speriamo che il regista inglese abbandoni queste dinamiche e torni presto sul grande schermo per regalarci capolavori come Shame.
Antonio Romagnoli

martedì, febbraio 25, 2014

SOTTO UNA BUONA STELLA

Sotto una buona stella
di Carlo Verdone
con Carlo Verdone, Paola Coltellesi, Tea Falco, Lorenzo Richelmy
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 106'
 
Ci sembra di sentirle le obiezioni a proposito dell'ultimo lavoro di Carlo Verdone, "Sotto una buona stella", accolto nelle sale con un entusiasmo per il momento  non all'altezza degli incassi degli ultimi film del regista romano. Da una parte le attenuanti dovute al fatto che dopo anni di gavetta il cinema del nostro sia finalmente entrato nelle grazie della critica che conta, e possa finalmente vantarsi di essere presente in dibattiti e simposi. Con quello che ne consegue in termini di responsabilità nei confronti di una comicità che oltre a far ridere deve assumersi l'onere di insegnare e far riflettere. Dall'altra le accuse di facile opportunismo nella scelta di una storia che attraverso le vicissitudini della famiglia del protagonista, Federico Picchioni, stimato professionista caduto in disgrazia e costretto ad occuparsi dei figli dopo l'improvvisa scomparsa della moglie, diventa lo specchio dei problemi del paese. Tutto troppo facile, e per giunta non molto divertente.


Non c'è dubbio che "Sotto una buona stella" nasca sotto il peso di una consapevolezza artistica e personale che deve fare i conti con gli umori del paese senza potersi permettere, per differenze anagrafiche e di percorso cinematografico, la leggerezza di Checco Zalone, ma neanche il divertissment di abili confezionatori come Luca Miniero e Paolo Genovesi. Verdone insomma deve fare i conti con se stesso, e forse per questo nel suo ultimo film si ritrae più depresso del solito, messo alla berlina persino dalla governante extracomunitaria a causa di una debolezza caratteriale che prima l'amante (un'ottima Eleonora Sergio), e poi i figli, continuamente gli rinfacciano.

Ecco allora il continuo rifugiarsi in argomenti alti, capaci di nobilitare insieme la storia ed il suo anfitrione, come quello del reading organizzato da Lia, la figlia di Federico, impregnato di atmosfere di Morettiana memoria riprese nello smarrimento generazionale di una gioventù che si ricicla senza successo facendo il verso a Pasolini in un raduno casalingo che mette una pietra tombale su un impegno civile e politico che ormai non può più essere. Oppure i riferimenti ad un recente successo del cinema americano più liberal come "Up the Air" di Ivan Reitman, con Luisa (Paola Coltelessi) tagliatrice di teste a replicare Clooney nel linguaggio utilizzato per comunicare agli impiegati dell’azienda un licenziamento di cui si sente in parte responsabile.

Rimandi e citazioni che insieme agli inserti che vedono protagonisti i personaggi di contorno - la figlia single e madre interpretata da Tea Falco, e il fratello Niccolò, fragile ed irrisolto impersonato da Lorenzo Richelmy - risultano la parte più debole del film, che invece prende quota ogni qualvolta Verdone torna a fare se stesso, da solo, od in compagnia di una contraltare comico come quello della Coltelessi, che sarebbe all'altezza se non fosse che il copione dapprima gli assegna la funzione di riparatrice di disfunzioni famigliari (palesemente suggerito dalla dimestichezza con il bricolage del suo personaggio) e poi la relega ad un ruolo da spalla, comunque portato a termine con professionale simpatia.

A farsi strada allora è il sospetto di un meccanismo leggermente inceppato dalla necessità di adeguarsi ad una dimensione nuova ed in parte inaspettata (ricordiamo anche l'esordio attoriale nel cinema d'autore con la partecipazione a "La grande bellezza") che "Sotto una buona stella" testimonia attraverso una prestazione complessiva solo in parte convincente. Ci sarà tempo per rifarsi, o almeno così auguriamo al Carletto nazionale.

domenica, febbraio 23, 2014

SCORRETE, LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (II)



"Scorrete lacrime, disse il poliziotto" II


In maniera simile ma per certi aspetti ancor più contundente, il detective Lockee interpretato da Jake Gyllenhaal in "Prisoners" di Villeneuve, uomo taciturno ma intuitivo, di fondo conciliante, lo stesso determinato nel disporre in ordine intuizioni e dettagli, vede di continuo messo alla berlina il suo "ruolo" (e quindi la sua "identità") non solo dalla furia - che arriva ad un niente dall'aggressione fisica - di uno dei genitori (il Keller Dover tratteggiato da un forsennato Hugh Jackman) di una bambina rapita in una piccola comunità della Pennsylvania - desolata e quasi sempre battuta dalla pioggia - che lo classifica sic et simpliciter un inetto, insultandolo in pubblico e davanti ai suoi superiori: ma in un certo qual modo proprio dall'apparato stesso, dai colleghi, cioè, i quali, fra un ammonimento ed un invito a prendersela comoda, quasi guardano con compatimento se non con derisione il suo zelo, il suo non arrendersi ad evidenze tutte di segno contrario. Stessa insidia che gli proviene, a ben guardare, anche dalla popolazione locale asserragliata nel silenzio e nel grigiore delle proprie consuetudini senza vie d'uscita - amalgama fisica e grumo simbolico, questa, con acutezza ritratta dal regista -; individui che assistono (e collaborano assai poco) in un misto di omertà e indifferenza. Ciò che tuttavia trattiene ancora Lockee/Gyllenhaal al di qua dell'abisso in cui e' precipitato il Brown/Harrelson di Moverman, e' l'adesione tutta personale alla "detection" che, per quanto misconosciuta, a volte dagli snodi paradossali e non del tutto risolutiva perché sospesa su un interrogativo, certifica l'adesione al "ruolo", riscattandone almeno in parte - e seppur nel completo disinteresse di un "mondo" che semplicemente non vuole saperne - la legittimità..

Lo scarto più sensibile allo schema sin qui proposto e forse stremo e approdo della "condizione" dello sbirro metropolitano contemporaneo, si osserva invero nella prassi quotidiana degli agenti Mike Zavala/Michael Pena e Brian Taylor (nei cui panni troviamo di nuovo Gyllenhaal), protagonisti delle vicende al centro di "End of watch" di Ayer: incoerenze viventi e cortocircuito non arginabile di quel "to protect and to serve" che da ardita campitura impressa sulle fiancate di ogni "patrol car" scivola qui a curioso motto che flirta di continuo con la sospensione dell'incredulità se non apertamente col grottesco triste. Brian e Mike, infatti - "End of watch" restando comunque la prova più modesta fra quelle considerate, sia dal punto di vista stilistico che drammaturgico, incastrata com'è tra ripetitività narrativa per accumulo di situazioni simili e un qual compiacimento equamente irrorato sui campi sempre assetati del turpiloquio e della crudeltà, alla quale, poi, alla lunga, non giova nemmeno l'insistito punto di vista eccentrico rappresentato dalla prospettiva dell'"occhio amatoriale" della videocamera utilizzata da Brian durante i turni per rimpolpare il materiale didattico selezionato per un corso alla facoltà di Legge - girano per le strade di Newton, uno dei sobborghi più pericolosi di Los Angeles, imbattendosi con la più varia umanità, divisa al suo interno da barriere di razza, religione, interessi ma ben solidale nel non riconoscer loro più alcun "ruolo" (meno che meno un'"identità") che non sia quello di momentaneo o più a portata di mano "raddrizzatore di (presunti) torti": funzione che, se potessero, assolverebbero da soli o delegherebbero senza alcuna remora al criminale/capataz di turno. Esemplificativo di tale assunto e in ironico contrasto con le parole di Brian che aprono il film, "Sono il vostro destino col distintivo e la pistola. Sono la conseguenza delle vostre azioni... Noi siamo la sottile linea blu. Proteggiamo le prede dai predatori. I buoni dai cattivi. Noi siamo... la Polizia" - ad essere cinici più un calembour che una seria dichiarazione d'intenti - e' la sequenza che vede Mike spogliarsi degli emblemi della sua autorità (distintivo e pistola, appunto) e affrontare in uno scontro a mani nude un sospettato di aggressione. Il tale, con la più ostentata naturalezza, oltre a non temerlo in quanto "poliziotto" e infischiandosene delle accuse mossegli, non lo considera titolare di alcuna prerogativa che non sia quella che eventualmente gli deriverebbe dal buon esito della lotta. Con Brian che assiste un po' interdetto, un po' divertito, i due si scazzottano senza risparmiarsi e solo quando Mike ha la meglio sul rivale questi e' "disposto" a farsi arrestare, oltreché a riconoscergli una dignità e di conseguenza un minimo di rispetto (cosa che, ad ogni modo, non cancella mai del tutto la sensazione di precarietà dominante per cui i due agenti non paiono difendere o rappresentare alcunché - se non in una dimensione di vaga idealità - ma agiscono con finalità simili ad una delle tante "gang" che si combattono per il controllo del territorio, con le ovvie sanguinose ripercussioni che questo implica). Del resto Ayer, autore dello script come pure regista del film, aveva già provato a riflettere sulla china discesa dalla figura degli "uomini in blu" nell'immaginario del cittadino medio, in "Training day" (2001) di A.Fuqua, del quale aveva curato la sceneggiatura.
Anche allora Jack Hoyt, la recluta testarda e dall'animo nobile a cui prestava il volto Ethan Hawke - venendo trattato sistematicamente da "pivello" non solo e non tanto dal detective scaltro e marpione del di li' a poco premio Oscar Denzel Washington che "almeno" sfrutta, anche se solo a suo favore, l'alibi di doverlo istruire ad un "gioco" di cause ed effetti con ogni probabilità letale ("Il mio negro !" e' l'appellativo più di frequente usato da Harris/Washington per additare Hoyt/Hawke, in un andirivieni di sarcasmo e disprezzo) ma dall'intera compagine umana, criminale e non, con cui viene a contatto, la quale o lo denigra o lo valuta alla stregua ne' più ne' meno di un impiccio - si ritrovava spogliato di ogni peculiarità, di ogni canone d'individuazione, sorta di agnello sacrificale predestinato al cospetto di lupi celati dietro le più diverse maschere sociali, ben al di la' di qualunque analisi possibile inerente il suo "ruolo" istituzionale e d'appresso la sua "identità", a cui il giovane aspirante detective tentava alla disperata di restare ciononostante aggrappato, più per un principio d'integrità individuale, un non-voler-dargliela-vinta, quasi, che per un "senso del dovere" che via via era andato svilendosi sotto i suoi occhi.

L'itinerario di "disgregazione" che abbiamo provato a tracciare sbirciando nei film di Moverman, di Villeneuve e di Ayer risale - cinematograficamente parlando - assai indietro nel tempo. Senza la pretesa di catalogare tutti i rami, pressoché infiniti, di questo possente albero (per non parlare delle "foglie" e dei possibili "innesti"), 'idea e' adesso quella di isolare un pugno di titoli a mo' di esempio - nonché di stimolo e orientamento della curiosità - cercando sempre di non dimenticare il fondamentale nesso che esiste fra la rappresentazione della realtà fornita dalle singole opere - ogni aspetto della quale appare in costante accelerazione - e i contraccolpi che la stessa realtà riserva in ragione dei suoi innumerevoli e imprevedibili sbalzi, in uno stimolante (e spesso stordente) inseguirsi di descrizioni e preveggenze le cui ricadute partecipano all'ulteriore stratificazione - nello specifico - della figura del poliziotto, in specie del suo modo di reagire alle sollecitazioni provenienti dalle nuove "giungle", più o meno d'asfalto, da lui frequentate. Troviamo così - e giusto per segnare un punto - i contorcimenti interiori dell'ispettore McLeod/K.Douglas in "Pietà per i giusti" (1951) di W.Wyler; l'inasprirsi di una visione disincantata e cupa - sovente accompagnata dal desiderio di vendetta come dalla pratica di una violenza quasi ferina - in opere del calibro di "Neve rossa" (1952) di N.Ray; "Il grande caldo" (1953) di F.Lang; "Senza scampo" (1954) di R.Rowland; "Un bacio e una pistola" (1955) di R.Aldrich: veri e propri referti stilati rovistando nei meandri psicologici e morali degli "uomini col distintivo", il disorientamento dei quali si acuirà per stabilizzarsi in un malessere sordo ma assillante nel cuore degli "anni in movimento", i Sessanta, con le osservazioni prodotte, per dire, da uno scrittore come Ross Macdonald (un occhio ad Hammett e a Chandler, l'altro ai fermenti anche discordi e disordinati di un'epoca agli albori ma già come presaga di non avere molte stagioni davanti a se') e animate sullo schermo dall'atteggiamento "cool" e dall'agire minato dal disinganno del detective Harper/P.Newman in "Detective's story" (1966) di J.Smight. Il decennio successivo, se possibile, radicalizzerà ancor più il disagio stendendo su di esso il sudario della spersonalizzazione e dell'anomia che assumerà, sul versante criminale e in un'ottica di "non ritorno", le fattezze di "variabile dipendente del processo capitalista", ossia i connotati di un'attività regolata in via esclusiva dalle logiche di mercato, senza coinvolgimento emotivo, senza tregua, senza pietà; mentre dalla parte dei "buoni" deformerà ancor più le pieghe vuoi della brutalità ispessita dal ribrezzo del "Dirty Harry"/(Clint Eastwood) - 1971 - di D.Siegel; vuoi del pragmatismo nevrotico del "Popeye" Doyle/G.Hackman de "Il braccio violento della legge"(1971) di W.Friedkin. Vuoi ancora delle solitudini irredimibili e allucinatorie del poco ricordato "I nuovi centurioni" (1972) di R.Fleischer (esordio letterario di un uomo come Joseph Wambaugh, classe 1937, ex Marine, quasi tre lustri passati nel LAPD, scrittore, saggista, sceneggiatore, al pari se non più di Ellroy, osservatore critico ma dal-di-dentro della condizione dello sbirro, poco interessato sia alla lettura ideologica che alla deformazione meramente dissacratoria - celebri a questo proposito i suoi attriti con R.Aldrich e la produzione in relazione ad un altro titolo centrale ai fini del nostro discorso come "I ragazzi del coro" (1977) - ): alterazioni via via confermate da pellicole sempre più realisticamente e iperrealisticamente "crudeli" nel circostanziare il "cedimento" del poliziotto, fino alla vera e propria deflagrazione in uno dei vicoli ciechi più noti, ossia il "bad Lieutenant" (1992) di A.Ferrara, odissea negativa, tra dissipazione, sfinimento e sofferti rimandi cristologici (bissata quasi due decenni più tardi da Herzog in una prospettiva parimenti "folle", visionaria, quanto nell'essenza laica): autopsia di un'inerzia stupefacente e stupefatta, grido angosciato di una condizione in primis umana d'inespiabile perdizione, in rapporto alla quale la funzione, il "ruolo" di "pubblico ufficiale" svela i lineamenti di una colpa supplementare, forse addirittura quella di un peccato a cui non si e' nemmeno più in grado di dare un nome. Un germe, quello ferrariano, i cui prodromi virali erano già in circolo in altri "corpi" cinematografici, pressoché coevi, tipo "Il principe della città" (1981) di S.Lumet; i "due" Petersen di "Vivere e morire a Los Angeles" (1985) di W. Friedkin e "Manhunter" (1986) di M.Mann. E "Indagine ad alto rischio" (1988) di J.B.Harris; "Affari sporchi" (1990) di M.Figgis; "Terzo grado" (1990) ancora di Lumet e tanti altri...

Ciò che conta, comunque e in conclusione, e' notare come il deteriorarsi dell'"uomo d'ordine", del suo "ruolo" di cinghia di trasmissione tra una manciata di ideali astratti - la Legge, l'Ordine, la Giustizia - e lo sforzo di renderla immanente per la salvaguardia della coesione della comunità, scaturisca in fondo (e i film di Villeneuve, di Ayer e di Moverman lo testimoniano) dalla relazione direttamente proporzionale tra la mutazione delle dinamiche sociali proprie della "modernità", l'apparente "ineluttabilità" dell'andamento frenetico di queste dinamiche e la pasta contraddittoria - dai contorni per molti aspetti tanto ancora inediti quanto poco rassicuranti - di cui e' fatta l'esistenza del singolo all'interno di un millennio che da poco ha preso ad accompagnarci: amarognola mistura di chimere, disinganni, ubbie, rancori, automatismi, attrazione e ripulsa per la solitudine, indefinito ma persistente senso d'irrealtà che si distilla in interrogativi senza risposta o dalle risposte inadeguate o scoraggianti, nell'incrollabile sebbene tacita illusione di una risolutiva metanoia. E se intanto i cieli cambiano, il blu che sovrasta tutti non e' meno sbiadito di quello delle divise degli sbirri, di celluloide e non, made in USA o figli di altre terre. Un'attesa, pero', sembra accomunarli: l'ostinazione senza trasporto per un nulla migliore.

(Nota: il titolo e' rubato ad un romanzo di Dick la cui suggestione non distanzia di molto quella di un quasi omonimo brano degli Elettojoyce).

- parte seconda -

- Fine -

TFK

sabato, febbraio 22, 2014

INCONTRO CON ALBERTO FASULO





Dopo la vittoria di Sacro G.R.A al festival di Venezia, il Marc’ Aurelio d’oro è andato a Tir di Alberto Fasulo, film di fiction ma caratterizzato da epidermide documentaria, che ha convinto appieno la giuria del festival di Roma 2014. Qui di seguito riportiamo degli interessanti spunti a proposito del film:

Da quale spunto è nata la necessità di fare un film di finzione e non un documentario?
Penso che il documentario avrebbe limitato l’idea iniziale di regia. Seppur sia un film di finzione è pervaso dalle tematiche estetiche del genere documentario, genere sul quale, per raccontare veramente e senza alcun limite questa storia, bisognava interrogarsi a proposito dei propri confini etici. Il parallelo tra la realtà della solitudine e il rapporto a distanza con la famiglia è molto complesso e archetipico. Branko è un personaggio emblematico della crisi economica, ma sicuramente questo non vuole essere un film d’inchiesta o di denuncia. Sicuramente è un documento sociale, cinque anni fa avrebbe avuto un significato diverso.

A proposito di documentario, dato il successo di Sacro G.R.A, Tir e l’influenza del documentario nei film di fiction, ad esempio La vita di Adele, in che modo il genere documentaristico sta spostando il suo baricentro e verso che direzione sta andando?
Non c’è una risposta precisa, comunque è un genere che già da un po’ di anni sta avendo una forte influenza. Credo che nel fare un certo tipo di film (io ho visto La vita di Adele) si cerchi un po’ il respiro della vita, il documentario aiuta in questa ricerca.

In relazione alla domanda precedente, è sorpreso della vittoria concorrendo contro un grande film come Her di Spike Jonze?
Era già un premio essere nella selezione in concorso, vincere era del tutto inaspettato. Riguardo alla linea di premiazione tenuta sia a Venezia che a Roma bisognerebbe chiedere ai giurati dei festival.

Qual è stato il processo di scrittura del film?
La storia è stata scritta attraverso un lavoro di ricerca. Questo è veramente un mondo difficile, soprattutto sul piano della concorrenza tra camionisti italiani e stranieri, basti pensare che un camionista romeno prende anche il 200% in meno di uno italiano. All’apertura del confine con la Slovenia l’80% delle aziende italiane hanno chiuso, sono numeri che fanno riflettere sul mostro crisi al quale accennavamo prima. Io e Branko abbiamo dormito per 4 mesi nella cabina del tir, è un’esperienza che ti segna, ma dalla quale il film non poteva prescindere.

Ecco, perché il personaggio fa questa scelta?
Il personaggio fa questa scelta fondamentalmente per necessità; da professore guadagnava 450 euro mensili, da camionista circa 1200. Una scelta difficile, una contraddizione da saper tenere in equilibrio, visto la criticità della situazione familiare che si viene a creare.
Il film sta avendo un buon successo. Quanto è costato?
Il film è costato 350.000 euro, escluso il gasolio, che è stato pagato dall’azienda (risata generale). Il film è stato vendutissimo all’estero, in Francia, Australia, Ungheria e Slovenia, ed è stato inoltre acquistato dalla rai.

E’ vero che è stato girato interamente nella cabina del tir?
Si, tutte le inquadrature sono state fatte dall’ interno dell’abitacolo, cabina di regia nel vero senso della parola (ancora risate).

Nuovi progetti?
Da qualche anno sto lavorando ad un nuovo documentario, il titolo provvisorio è “Un giorno ogni 15”. Parla di genitori di disabili che si incontrano ogni 15 giorni per parlare delle problematiche che questo comporta, provando ad aiutarsi a vicenda. Quando nasce un disabile inevitabilmente lo è tutta la famiglia, un tema a cui tengo per la grande umanità di queste persone.

Ringraziamo Alberto Fasulo per il tempo che ci ha dedicato.
Qualcuno diceva: “Il lavoro nobilita l’uomo”; in questo periodo di crisi Fasulo mette in discussione questo paradigma facendo emergere, dalla sua intrinseca contraddizione, L’UOMO.
Antonio Romagnoli

(pubblicata su dreamingcinema.it)

giovedì, febbraio 20, 2014

LONE SURVIVOR


Lone Survivor
di Peter Berg
con Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsch, Ben Foster
Usa, 2013
genere, azione, drammatico, guerra
durata, 121'


Due film di guerra, due modi diversi di raccontare il riscatto dalle umane aberrazioni. In "Monuments Men" di George Clooney è l'arte di quadri e sculture ad ispirare ideali di una civiltà perduta attraverso la missione del gruppo di esperti incaricato di recuperare le opere trasfugate dai nazisti durante il periodo dell'occupazione. In "Lone Survivor" di Peter Berg invece, sono valori come l'amor di patria e lo spirito di fratellanza a sublimare l'inferno in cui viene a trovarsi la pattuglia di Navy Seals abbandonata a se stessa, ed alle prese con il fuoco di fila delle milizie talebane.
Ignorando per un momento le implicazioni morali conseguenti alle scelte dei due registi, e prima di entrare nei dettagli del lungometraggio che in questa sede ci interessa, a saltare all'occhio è un paradosso tutto cinematografico, scaturito dalla visione di due film che arrivano, più o meno consapevolmente aggiungiamo noi, ad invertite il principio estetico in base al quale sono state informate. Così se "Monument Men" parte con l'intento di ricostruire il dato storico attraverso i codici di quell'intrattenimento spettacolare e poco verosimile delle grandi produzione hollywoodiana, e finisce per assorbire all'interno di una riflessione etica i voli della sua fantasia, "Lone Survivor" fa esattamente l'opposto, filmando un combact film destinato a trasformarsi con il passare dei minuti in un cruento action movie. E se nel primo caso l'inconveniente finisce per dare peso ad un film che rischia l'inconsistenza, l'incongruenza di "Lone Survivor" innesca una serie di osservazioni che riguardano la materia cinematografica, ma non solo. Ci riferiamo innanzitutto alla struttura del film, che appare blindata da un prologo ed un epilogo più significativi di quello che sembra, non soltanto perchè si tratta di inserti che seppur collegati al resto della storia appaiono a se stanti per la natura documentaria, ma soprattutto per le conseguenze di senso che riversano sul resto del film. L'apertura infatti fa da preambolo alla vetrina di virtù e codici guerreschi che seguiranno, con la selezione della tribù guerriera sintetizzata dalle immagini che certificano la cosiddetta "settimana d'inferno" in cui i candidati devono superare prove ai limiti dell'umano, e dove persino la sconfitta - enfatizzata dal rito di posare a terra l'elmetto e suonare la campana-diventa un segno di potenza e virilità. La fine invece, una sorta di album fotografico dedicato ai veri protagonisti della vicenda, riporta la storia che abbiamo appena visto ad una dimensione umana e famigliare dopo gli orrori del combattimento, con il viso felice dei soldati insieme ai propri famigliari, a ricordarci il valore del loro sacrificio.



Rispetto al generoso minutaggio, il film paradossalmente si gioca le sue carte attraverso queste due brevi appendici; dapprima fabbricando, attraverso lo spot che ci mostra le doti di resistenza al dolore ed allo sforzo fisico dei futuri soldati, una giustificazione all'incredibile, e diciamo noi, inverosimile tenacia che permette alla pattuglia di rimanere attiva nonostante le menomazioni fisiche provocate dagli attacchi nemici. Successivamente, prima dei titoli di coda, arriva a condensare il significato dell'intera vicenda nella perdita di vite umane (americane), enfatizzata dal contenuto delle fotografie, e nel valore positivo di un esempio che in quel contesto di commozione chiude la porta ad eventuali critiche e riflessioni sui motivi che l'hanno provocato.


Il risultato è ambivalente perchè se è vero che il meccanismo di genere funziona alla perfezione, assicurando al film di essere seguito con il cuore in gola e senza un attimo di tregua, dall'altra il presupposto di credibilità messo in piedi prima e sostenuto poi dallo stile realistico delle riprese, finisce per aumentare la discrepanza con lo svolgersi della vicenda, e qui ci riferiamo alla parte centrale del film in cui la rocambolesca e drammatica esfiltrazione della pattuglia sotto il fuoco del nemico e' resa con una serie di capitomboli mortali lungo una pietraia da cui però i quattro uomini pur feriti ogni volta si rialzano pronti a ripartire. Mentre sul piano ideologico, senza addentrarsi sulla questione morale che un film del genere comunque pone, non si può non notare una serie di imprecisioni che favoriscono la spettacolarizzazione del contenuto, come quella che non mette in conto la rottura di armi ed ottiche di mira al primo impatto con il terreno accidentato, e che invece continuano a funzionare con invariata efficenza anche dopo una serie di urti violentissimi; oppure la parziale mancanza del silenziatore che nel caso di una pattuglia di ricognizione combinata è previsto per fucili e pistole. Per non dire di una certa estetica della violenza che ad un certo punto prende il sopravvento con un rallentì che insiste sul corpo martoriato dai colpi di un esecuzione a sangue freddo. Particolari trascurabili in un film comunque tutt'altro che tirato via, però rilevanti ai fini della nostra analisi. Speculare nella progressione dei fatti a "Pattuglia Bravo 2.0" di Tom Clegg (1999), in cui analogamente al film di Berg il fallimento della missione dipende dalla decisione di lasciar andare i testimoni oculari incontrati per caso dalle forze speciali durante il percorso di avvicinamento all'obiettivo, "Lone Survivor" sconcerta e provoca disagio. 
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, febbraio 19, 2014

POMPEI

Pompei
di  Paul W. S. Anderson
con Kit Harigton, Emily Browning, Kiefer Sutherland
Usa, Germania, 2014
genere, avventuroso, romantico, storico
durata, 104'



Abituata a far di conto l’industria cinematografica è da sempre consapevole che il segreto del successo ha soprattutto due ingredienti: quello di sapere cogliere lo spirito del tempo, e la capacità di intercettare gli umori della gente. Per questo motivo non bisogna meravigliarsi di ritrovare tra le uscite settimanali un film come “Pompei”, che sullo sfondo di un evento epocale come quello dell’eruzione del vulcano che nel 79 DC distrusse la colonia romana, ipotizza l’amore tra Cassia, figlia di un ricco mercante, e Milo (il Kit Harington de “Il trono di spade”), diventato schiavo dopo essere sopravvisuto alla carneficina del suo popolo, sterminato dall’esercito romano a seguito di una fallita ribellione. Mettendo in scena un amore interraziale (Milo infatti proviene da una tribù della Gallia) ed unendo a filo unico le sorti di ricchi e poveri in quello che sarà il triste epilogo previsto dalla Storia ufficiale,”Pompei” soddisfa due esigenze. In primo luogo quella di rispecchiare il melting pot e la globalizzazione prodotti dai modelli comunitari della nostra contemporaneità, nell’affinità che si instaura tra i due protagonisti; secondariamente, attraverso la palingenesi collettiva provocata dal cataclima naturale, di trasporre sul piano ideale i principi di uguaglianza e di giustizia sociale acuiti dalla crisi economica, e giustificati dalla visione di una classe dirigente inetta e corrotta.

Affidato alle cure di Paul W. S. Anderson, il regista del film noto non solo per aver diretto la tetralogia di “Resident Evil” ma anche per aver sposato Milla Jovovich che di quella fu protagonista, “Pompei” diventa una via di mezzo tra un disaster movie, alla maniera che era di moda negli anni 70 , ed un peplum, sottogenere del filone storico ambientato nell’antichità antichità greco romana, tornato in auge grazie ai vantaggi economici offerti dagli effetti speciali, ed anche per l’affermazione di un film seminale come è stato “Il gladiatore”. Ed è proprio nella pellicola interpretata da Russel Crowe che il film si trasforma, dopo un rapido preludio necessario a definire ambiente e personaggi, con Milo diventato nel frattempo gladiatore e per questo costretto a battersi nell’arena per salvare se stesso e la propria amata. Costruttore di “mondi alternativi”, Anderson si dimostra a suo agio con quello reale ma defunto della Roma Imperiale. Di quel periodo “Pompei” ha sicuramente la grandezza e l’ambizione, derivata per la maggior parte da un’allestimento scenico che non si fa mancare nulla in termini di suggestione e possibilità tecnologiche. Certo la trama è prevedibile ed un po’ ripetitiva nella sistematica proposizione di battaglie all’ultimo sangue, e non mancano ingenuità come quella di presentare i cattivi di turno eternamente giovani a dispetto del passar delle stagioni, ma nonostante questo “Pompei” è un prodotto dignitoso ed onesto perché riesce a mantenere quello che promette. Intrattenimento e romanticismo sono quindi assicurati.
(pubblicata su dreamingcinema.it)

IL RICATTO

Il ricatto (Gran Piano)
di Eugenio Mira
con   John Cusak, Eliah Wood
Spagna, 2013
genere, thriller
durata,




Il film narra di Tom Selznick, genio del pianoforte che aveva abbandonato le scene per cinque anni a causa di un errore di esecuzione. Il suo ritorno sul palco sarà manipolato maniacalmente da un cecchino che minaccia di ucciderlo.

Tutta la struttura filmica si basa su un’esplicita dichiarazione d’amore al cinema di Alfred Hitchcock, i piani sequenza perfettamente congegnati con ingressi e uscite al millimetro degli attori-marionette, la funzionalità drammaturgica dei riflessi sui vetri, il richiamo palese a “Paura in palcoscenico” ,  la citazione de “La finestra sul cortile” attraverso la soggettiva del mirino del fucile. Questa densità di ritorni al cinema dell’illustre regista inglese non fa altro che rendere goffo il tentativo di nascondere il nulla protratto per l’intera durata del film; un tentativo thriller che va avanti a stento tra soluzioni improbabili e infrazioni ritmiche da capo-giro, il tutto coronato dalla poco credibile prestazione di Elijah Wood.


Insomma il gioco voyeuristico non regge in nessun momento della pellicola, il tutto potrebbe essere riassumibile col titolo: “Grand piano-sequenza".


Antonio Romagnoli

SAVING MR BANKS

Saving Mr Banks
di John Lee Hancok
con Emma Thompson, Tom Hanks, Paul Giamatti
Usa, 2013
genere, commedia, drammatico
durata, 126' 


La forza del cinema hollywoodiano nella sua forma più classica è quella di sottrarsi al caos del reale, per restituirlo attraverso immagini di sublime compostezza ed accettabilità. Una sorta di catarsi a priori che ha attraversato tempo e pellicola, arrivando ai nostri giorni con la prerogativa di rassicurare lo spettatore  con uno spettacolo comprensibile a qualsiasi latitudine.

"Saving Mr Banks" di John Lee Hancok appartiene di diritto a questa categoria, un pò perchè narrando le vicissitudini e le tribolazioni che precedettero la realizzazione di un film come “Mary Poppin” si predispone a raccontare una gamma di sentimenti destinati a fermarsi sulla soglia del dicibile, e per restare al cinema, del rappresentabile; un po' perché la filmografia del suo autore (The Blind Side, ) Lee Hancok, si e' sempre spesa a  favore di una visione domestica e familiare, in grado di spiegare e di ricomporre conflitti.


Un processo di revisione qui utilizzato per raccontare di un incontro speciale, quello avvenuto tra Pamela Lyndon Travers, creatrice di Mary Poppins la fantastica tata chiamata a prendersi cura della famiglia Banks, e del suo primo ammiratore, Walt Disney, il padre di Topolino e dei famosi cartoons, ostinatamente alle prese con il tentativo di convincere la riottosa scrittrice a cederle i diritti dell'omonimo romanzo. Un’impresa durata vent'anni, destinata ad un'emozionante resa dei conti nelle pagine di un film che mentre si occupa di rispettare la progressione dei fatti, rivela anche una natura più intima e nascosta che farà luce sui risvolti più segreti della vita dei due personaggi, entrambi condizionati in un modo o nell'altro da una figura paterna ingombrante ed in qualche modo contraddittoria. Un biopic autoreferenziale che Hancok conduce su due diversi piani temporali: quello del presente della storia, scandito dallo scontro di mentalità tra la scrittrice intenzionata a difendere la sua opera dalla mercificazione hollywoodiana, ed il sognatore pragmatico e ambizioso, abituato a raggiungere i suoi obiettivi; e quello del ricordo, focalizzato sull'infanzia di Pamela e della sua famiglia, in cui la genesi del futuro romanzo trova magicamente risposta nelle vicissitudini che accompagnarono la vita della scrittrice, costretta ad assistere impotente alla parabola esistenziale dell'amatissimo padre.

Ed è proprio nell'equilibrio con cui i due livelli si intersecano e si sovrappongono che il film riesce a librarsi sulle vette della fantasia fanciullesca che ispira la materia del film. Un risultato determinato in larga parte dall'interpretazione empatica di una grande Emma Thompson, e da quella misurata ma altrettanto efficace di Tom Hanks, allo stesso modo naturalmente calati nei rispettivi ruoli da una regia che si prende cura di farne sentire l'intemperenza emotiva sottolineandola a secondo dell'età attraverso piccoli accorgimenti formali, con i dolly e le panoramiche a delineare la sconfinata fantasia dell'infanzia, alternati ai piani americani ed alla staticità della macchina da presa che sottolinea le chiusure dell'età adulta. Certo "Saving Mr Banks" lascia fuori dallo schermo i luoghi oscuri di una personalità controversa ed a dir poco discussa come quella di Walt Disney, come pure le idiosincrasie di una natura femminile complessa a travagliata che nel ritratto di Hancok appare invece cristallizzata in quella di una burbera zitella. Ma tenendo fuori l'intelletto ed affidandosi alla magia del cinema, il film diventa un invito a riscoprire il cuore delle persone. Al di là di ogni comprensibile ragione, è questo il messaggio che "Saving Mr Banks" ci invita a seguire.

"SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO" (I)



"Scorrete lacrime, disse il poliziotto" I


Volessimo desumere una valutazione circa lo stato attuale di alcune tensioni interne alle moderne società occidentali, statisticamente benestanti, iper-tecnologiche, come si suol dire "post-tutto", riferendoci solo alle linee guida tracciate da alcune pellicole recenti riconducibili al "noir" - a dire, "Rampart" (2011) di O.Moverman; "End of watch" (2012) di D.Ayer e "Prisoners" (2013) di D.Villeneuve - ci sarebbe da stare sul serio poco allegri. Pur tenendo, infatti, nella giusta considerazione l'assunto per cui un "genere" come il "noir", almeno quello di più robusta tempra narrativa ed estetica (lasciando di proposito da parte le serie televisive, alcune delle quali in grado di rimodellarne i canoni; restando al Cinema, cioè, e precisando che sarebbe più corretto parlare di "sfumatura", in generale di "stile", essendo "noir" un modo di vedere la realtà che attraversa trasversalmente tutti i generi, più che un genere in se') e' per sua stessa costituzione tutt'altro che conciliante con la materia che maneggia - ossia, il più feroce "qui e ora"; la struttura sempre più sfuggente dei meccanismi sociali che influenzano l'uomo contemporaneo al punto, spesso, da non concedergli scampo; i percorsi ambigui ma comunque disperati della violenza; l'insidioso senso di estraneità nel cuore della presunta familiarità del "paesaggio fisico" (di preferenza metropolitano) in perenne trasformazione - il panorama materiale ed emotivo descritto anche nelle tre opere prese in considerazione, con tutte le differenze espressive e le modulazioni di tono del caso, non sfugge alla mesta categoria del "desolante".

Un dato in particolare s'impone, poi, in ognuno dei tre episodi di questa immaginaria trilogia, e con la forza della più spiccia evidenza: ed e' che la "Polizia" ("LAPD !", come esclama un esterrefatto Pacino in "Heat" al momento di accorgersi di essere - lui, il segugio per "statuto" - oggetto dei tampinamenti della "preda" De Niro: ecco già una torsione di prospettiva) tende ogni giorno di più a confondersi con una specie di "esperimento sociologico (dagli esiti dubbi) sulla simulazione del controllo" anziché reiterare i tratti di una vera e propria forza d'interdizione nei confronti - latamente, dell'impetigine criminale - in senso stretto, di tutte quelle spinte ed interessi auto-referenziali che la percezione di massa, grossolana quanto si vuole ma incidente appunto perché corposa nei numeri, vuole ormai pressoché ingestibili. Pur essendo i film in questione oggetti capaci di rivelare singolarmente pieghe rituali del (non) genere "noir" - quella "procedurale" per "Prisoners"; quella "esistenziale" per "Rampart"; quella, diciamo così, schiettamente "suburbana" per "End of watch" - resta vero che nella trama complessiva delle loro storie emerge e si dipana (o s'ingarbuglia ancora di più, chissà) quel filo rosso al quale si e' accennato nella affine rappresentazione "terminale" dello sporco-lavoro-dello-sbirro e, in controluce, dell'idea di Giustizia che ad esso sottende o, a questo punto, "dovrebbe"/" avrebbe dovuto" sottendere.

E ciò per tante e varie ragioni che possono essere con una certa approssimazione circoscritte entro i limiti di due, tre punti ineludibili. Innanzitutto, l'aumento esponenziale della pressione del crimine dentro l'organismo delle società cosiddette affluenti, ingenerata e alimentata - molto sbrigativamente parlando - dalla diffusione di modelli e stili di vita fondati sul parossismo dei binomi interscambiabili denaro/potere, successo/fallimento, senza tregua riformulati dall'innovazione tecnologica che, rendendone sempre più sofisticate le combinazioni satura, al momento di forzare il "gioco" nell'illegalità, la già evidente sproporzione di mezzi tra la "convenienza a delinquere" e i sempre più arrancanti "tutori dell'ordine". In secondo luogo ma in stretta correlazione, il montare silenzioso eppure inesorabile di un sentimento di sfiducia nei confronti delle "procedure" e dei "sistemi" adottati per disinnescare le conseguenze di quella "pressione" (e tralasciando l'atteggiamento tenuto dai "media" circa l'operato speso sul sentimento di cui sopra che meriterebbe una trattazione a parte), nel migliore dei casi giudicati insufficienti; nella gran parte degli altri, discriminatori (non di rado a seconda del lignaggio sociale dei coinvolti), o, addiruttura, repressivi, ciecamente vessatori, in relazione alle circostanze in cui - e non sono poche - viene travalicato il sempre dibattuto "uso legale della forza", oppure ci si arrabatta in manovre dilatorie per rimuovere con astuzia dalla memoria collettiva (o illico et immediate insabbiare) episodi di corruzione. Ed infine - ma non di poca importanza - il diffondersi subdolo ma pervicace di una sorta di "zeitgeist" - post-moderno ?, post-ideologico ? - in base al quale una certa scaltrezza, la volontà (ma le si possono riconoscere le sembianze della "affermazione di se' come maledizione") di esserci, di stare-al-mondo come e più di prima, adattandosi senza indugio e senza scrupoli ai suoi cambiamenti - tipo un super istinto di auto-conservazione che fa strame delle residue restrizioni imposte dalla presenza di un "patto sociale" - e che solo ieri o ieri l'altro avrebbe isolato fattispecie di comportamento in bilico sulla costola o ben dentro il Codice Penale, adesso viene vissuta se arginata dalla Legge quasi nella dimensione di una intollerabile prevaricazione sulla "libertà di espressione personale" (per inciso, nessuno sa quanto di diretta o spuria emanazione del dettato pubblicitario/propagandistico che da decenni batte sull'esasperazione del desiderio nella formula buona per tutte le stagioni, "non ci sono limiti"), nei confronti della quale la mera presenza di un "Corpo di Polizia" appare non tanto inutile quanto insensata, e mentre s'assottiglia un giorno via l'altro la distanza tra quello che un tempo si soleva definire un "corpo separato" e ciò che viene sempre più vissuto come "corpo estraneo".

Tracce sparse di tali indizi si ritrovano in ognuno dei lavori citati, raccolte intorno ad un preciso denominatore comune: ossia la pervasività - nel concreto tante volte tragica, visti gli esiti più comuni - di una delle tendenze tipiche della "modernità", per cui alla definizione dell'identità personale concorre quasi esclusivamente il "ruolo" sociale che si ricopre, il tasso d'idoneità di un individuo all'esecuzione di una mansione. E quando si mostra scarsa aderenza a siffatto "ruolo" (incapacita', lassismo, infrazione) o ne viene messa in dubbio la legittimità (e quindi il "prestigio" e il "rispetto" consustanziali a questa legittimità), l'identità entra in crisi e s'avvia un processo magari lento ma inesorabile di distacco dalla realtà e da se stessi che nella fattispecie dello "sbirro", va da se', si arricchisce di un sovrappiù di spaesamento e frustrazione, vista anche, tra l'altro, la mai del tutto risolta contraddizione - troppo sbrigativamente data per archiviata - tra inclinazioni personali (mentalità, sensibilità, pregiudizi, debolezze) e la speciale possibilità di avvalersi del "monopolio legale della forza". Caso più eclatante e' di certo quello del Dave Brown/Woody Harrelson (perfetto) in "Rampart" di Moverman. Figlio della penna di un autore come J.Ellroy da anni interessato non solo ad evidenziare il marcio all'interno di un'Istituzione decisiva per il mantenimento del "patto sociale" ma pure, se non soprattutto, a scandagliare le profondità tormentate delle psicologie dei suoi rappresentanti, Brown e' un veterano di guerra e della strada: incline all'alcool, alle droghe, non insensibile al fascino femminile così come agli "arrotondamenti" facili e alla composizione spiccia e brutale dei problemi. Misantropo al midollo, e' un uomo solo: nessun amico vero, puntate solitarie ai bar, colleghi che lo temono per quanto tacitamente lo ammirano (tra le ossessioni di Brown c'è quella di non sprecare il cibo, cosa che non manca di rimproverare ad un agente al momento di consumare una pausa e che riscuote unanime plauso). Brown, in poche parole, e' una persona instabile, di certo non un "eroe del nostro tempo" ma neppure "un individuo senza importanza collettiva", che sta li', tutti i giorni, pattuglia il suo settore, si barcamena sull'ambiguo crinale che separa il poliziotto pluridecorato dalla "mina vagante del Dipartimento".

Ciò che colpisce, pero', nella sua vicenda, accanto ai caratteri accennati che, volendo, riconducono a cliché abbastanza consolidati, e' lo strappo decisivo che si apre nella sua vita allorquando le lacerazioni che già lo separano dal nucleo familiare e dalle poche persone che frequenta esterne al "Corpo", si allargano fino a diventare non "rammendabili". E' qui che Brown cede una volta per tutte ai suoi demoni. Quando le due ex mogli - tra l'altro sorelle (!) - passano nei suoi confronti dalla blanda degnazione al disprezzo aperto. Quando le figlie - una poco più che bambina - prendono a compatirlo o, alternativamente, a sbeffeggiarlo, al punto di chiudersi nell'atropia emotiva, nella muta perplessità che si riserva ai "fenomeni". O quando un vecchio ex commilitone del di lui padre nonché una nuova donna, illusione estrema di "normalità", orizzonte di un nuovo inizio, finiscono per abbandonarlo a se stesso. In sintesi quando, distruggendo la dignità, l'autorevolezza, la liceità teorica stessa del "ruolo", si arriva a corrodere l'"identità" della persona. Esattamente ciò che non succede, invece, se si analizza il rapporto di Brown coi superiori, i quali, cercando solo di espellere con lui (in fin dei conti per scopi auto-assolutori), l'"irregolare", la "testa calda", qualcuno, cioè, che magari getta discredito sul "ruolo" ma di fatto non lo nega o non lo nega del tutto, ne preservano l'"identità". Brown, infatti, alle accuse ufficiali risponde sempre colpo su colpo: gioca col Sistema al gatto col topo. Nei faccia a faccia si dimostra tenace e ferrato in materia disciplinare, almeno quanto l'interocutore che vorrebbe disfarsi di lui "legalmente". Oltrepassato il punto di non ritorno per Brown non c'è che la strada, il volante, ancora e daccapo, come in passato per il Travis Bickle scorsesiano. Deja-vu stravolto per una chiara allusione: il destino si compirà chissà dove e come, tra non molto. Ma non alla sbarra.

- parte prima -

TFK

MOMUMENTS MEN

Monuments Men
di George Clooney
con Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Bob Balaban
Usa, 2014
genere, drammatico, commedia
durata, 110'

Quando Hollywood va in guerra fa sempre le cose in grande. La riscoperta del passato bellico, soprattutto quando si tratta di tornare nella vecchia Europa ha richiamato in epoche successive registi ed interpreti di massimo carisma. Da John Wayne a Robert Mitchum, da Stanley Kubrick a Robert Aldrich, ilpalmares è ricco di volti e nomi indimenticabili. Una tradizione di cui sicuramente George Clooney deve aver tenuto conto nel momento in cui ha deciso di realizzare ” Monument Men”, quinto film di una fortunata carriera, ispirato al libro di Robert Ersden che racconta la imprese realmente accadute di un manipolo di soldati americani incaricati di recuperare le opere d’arte depredate dai nazisti nel periodo dell’occupazione. Metà soldati, metà esperti d’arte, i componenti del plotone comandato da Frank Stokes (Clooney) si ritrovano da un giorno all’altro catapultati in una realtà più grande di loro, ed in una guerra che, dopo lo sbarco in Normandia, sta volgendo al termine. A guidarli l’amore per l’arte, lo spirito di corpo, ed un senso del dovere che non mancherà di presentargli il conto anche in termini di vite umane.


Partendo dalla realtà George Clooney si avvicina al film con rispetto, ma tenendo presente la prima regola della fabbrica dei sogni, ovvero quella di realizzare un film pensato per il pubblico. Per riuscirci il regista mette in piedi una rappresentazione dei fatti debitamente edulcorata degli aspetti più cruenti , ed inserisce ad arte una miscela di registri che dal drammatico alla commedia esplorano la guerra con una rappresentazione riconoscibile e mai problematica. In questo modo “Monuments Men” riesce a mettere insieme con disinvolta naturalezza episodi divertenti, come quello di un imboscata nemica respinta con una fumata di sigaretta (ci riferiamo all’episodio che vede coinvolti i personaggi interpretati da Bill Murray e Bob Balaban sorpresi dal nemico) ad altri che riportano in mente le conseguenze della Shoah, presente quando tra le opere d’arte di un caveu segreto i nostri ritrovano i denti (d’oro) strappati ai deportatati prima della partenza per i campi di sterminio.

 
Proponendo un cast stellare che nei termini di una prerogativa quasi tutta al maschile ( con la sola eccezione di Cate Blanchett che in questo caso prende il posto di Julia Roberts) e nella coolness comunque ricercata, ricorda non poco la formula già adottata da Steven Soderbergh in “Ocean's Eleven”, “Monument Men” soffre di una scrittura un po’ troppo meccanica nell’organizzare per ogni personaggio il rispettivo momento di gloria. La trama infatti immaginando i nostri eroi insieme ma divisi dalle rispettive missioni, si consegna ad una narrazione frammentaria ed episodica. A risentirne e’ la drammaturgia di una storia che non diventa mai realmente coinvolgente, nonostante l’impegno degli attori, tra cui, oltre a Matt Damon ed Jean Dujardin, segnaliamo appunto Bill Murray, etereo e stralunato quanto basta per rimanere nella memoria dello spettatore.
(pubblicato su dreamingcinema.it)