La bella e la bestia
di Christophe Gans
con Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier, Eduardo Noriega,
I grumi depressivi intrinseci ad un’annosa solitudine, figli di una maledizione forse inespiabile, inopinatamente velocizzano il loro flusso in circolo e si rimescolano con le epifanie di un amore, la purezza del cui primo slancio rende percorribili ancora le vie del riscatto ed arma l’animo del coraggio utile a saldare una volta per tutte i conti con il destino. Tali erano i poli attorno a cui ruotava (e ruota) un racconto archetipico come “La Bella e la Bestia” di Mme de Villeneuve, vecchio oramai di due secoli e mezzo abbondanti. Ancor più grandi, invece, si facevano gli estremi delle aspettative riguardo una sua ulteriore riproposizione, se si tien conto dell’approccio scelto da Gans, ossia quello di una rilettura complessiva del testo anche alla luce dell’influenza della tradizione classica (Ovidio, in particolare), di per se’ pregna di echi sia storici che leggendari e con lo spostamento in avanti dell’azione di una settantina d’anni. Come sovente accade, pero’, i fatti s’incaricano poi di smentire le intenzioni. Figurarsi le aspettative.
Ciò soprattutto in ragione del fatto per cui la narrazione (filmica) partita nel solco della ‘fabula’ gotica tradizionale della quale, anzi, anticipa taluni accorgimenti, pian piano scivola – incalzata, tra l’altro, come da una vera e propria “impellenza” degli effetti visivi a snocciolarsi qui e ora – nel torpore tutt’altro che romantico di un tira-e-molla sentimentale, decisivo si’ per gli snodi della vicenda ma mai sorretto da un’autentica tensione sessuale in grado di rendere palpabile la passione di un amore “diverso” e lo sguardo che esso implica. E questo vuoi per la scarsa alchimia degli interpreti – la Seydoux da un lato (l’altra meta’ della “Vita di Adele”, per intendersi) che ancora fatica ad arginare quel certo che di scostante che ne irrigidisce l’atteggiamento e il pur sempre simpatico Cassel, dall’altro, che qui, almeno per il poco che rimane in scena con le sue fattezze, senza troppi patemi, traccheggia nei territori a lui familiari di una spontanea malia briccona – vuoi, pecca forse davvero dirimente, per l’invalsa tendenza di Gans, che risale ai tempi di “Crying Freeman”, attraversa per intero “Il patto dei lupi” per attenuarsi solo in parte in “Silent hill”, a soprassedere o semplicemente a tirare dritto quando ci sarebbe da soffermarsi sulle modificazioni interiori dei personaggi, per privilegiare lo spericolato e ripetuto alternarsi di momenti frenetici riconducibili all”azione’ pura e un anodino ricamare descrittivo che accosta, spesso sovrapponendoli con esiti non sempre felici, suggestioni diverse: da reminiscenze figurative impressioniste a evocazioni di Bocklin, passando per tracce di un certo iper-decorativismo preraffaelita presenti nelle scenografie ingombre di arazzi, mobilio, statue, infiorescenze, così come nei colori, nelle fogge e nelle trame complicate degli abiti (e sorvolando sulla matrice pressoché totalmente computerizzata di tanta mobilitazione).
E’ su queste direttrici che Belle s’innamora della Bestia – o meglio, “dice” di star innamorandosene – mentre il suo sentimento, se esiste, si confonde e si diluisce all’interno di peregrinazioni pensose nei meandri del labirintico castello-eremo della Creatura. Parimenti, la Bestia spia in tralice la giovane donna con l’ovvio imbarazzo aggressivo ingenerato dalla sua mostruosità, e poco più: senza, cioè, quello sconforto e quella mestizia che arricchirebbero i suoi gesti della stanchezza colpevole e dell’amara dolcezza atte a stimolare il sospetto circa il vero cruccio che ne ottenebra l’esistenza: ovvero uno stupido peccato d’orgoglio, l’ennesimo regalo fatto alla Morte che se esiste qualcosa di cui non ha bisogno e’ di godere di soverchi vantaggi.
Tutto nel cinema di Gans, in altre parole e fino ad ora, almeno, si ordisce e si consuma in superficie, la quale, oggi come oggi essendo organizzata secondo la “tirannide” esigente del digitale, tende a comprimere sempre più lo spazio minimo dell’umano, nella persuasione tutta moderna, tutta “veloce”, che la moltiplicazione all’infinito del “visibile” – delle prospettive, dei punti di vista come di quelli di fuga, delle proporzioni, dei riverberi – sia di per se’ sinonimo di empatia. Inquadrature sovraccariche, dettagliatissime, percorrono quindi, al pari di tante opere simili, anche “La Bella e la Bestia” (basterebbero, per tutte, le sorprendenti varietà cromatiche esibite nelle sfumature più minute o la sempre efficace esuberanza ‘tentacolare’ infusa nella rappresentazione del mondo vegetale) spostando ancora di un po’ il limite dell’eterna lotta dei sentimenti contrastanti – ma pure i loro incanti, le loro “lentezze” – verso un braccio di ferro più concreto ma più freddo tra le sacrosante istanze dello spettacolo e lo spauracchio dei “momenti morti”.
(pubblicato su dreamingcinema.it)
TFK
di Christophe Gans
con Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier, Eduardo Noriega,
genere, thriller, fantasy, sentimentale
Francia, 2014
durata, 110'
I grumi depressivi intrinseci ad un’annosa solitudine, figli di una maledizione forse inespiabile, inopinatamente velocizzano il loro flusso in circolo e si rimescolano con le epifanie di un amore, la purezza del cui primo slancio rende percorribili ancora le vie del riscatto ed arma l’animo del coraggio utile a saldare una volta per tutte i conti con il destino. Tali erano i poli attorno a cui ruotava (e ruota) un racconto archetipico come “La Bella e la Bestia” di Mme de Villeneuve, vecchio oramai di due secoli e mezzo abbondanti. Ancor più grandi, invece, si facevano gli estremi delle aspettative riguardo una sua ulteriore riproposizione, se si tien conto dell’approccio scelto da Gans, ossia quello di una rilettura complessiva del testo anche alla luce dell’influenza della tradizione classica (Ovidio, in particolare), di per se’ pregna di echi sia storici che leggendari e con lo spostamento in avanti dell’azione di una settantina d’anni. Come sovente accade, pero’, i fatti s’incaricano poi di smentire le intenzioni. Figurarsi le aspettative.
Ciò soprattutto in ragione del fatto per cui la narrazione (filmica) partita nel solco della ‘fabula’ gotica tradizionale della quale, anzi, anticipa taluni accorgimenti, pian piano scivola – incalzata, tra l’altro, come da una vera e propria “impellenza” degli effetti visivi a snocciolarsi qui e ora – nel torpore tutt’altro che romantico di un tira-e-molla sentimentale, decisivo si’ per gli snodi della vicenda ma mai sorretto da un’autentica tensione sessuale in grado di rendere palpabile la passione di un amore “diverso” e lo sguardo che esso implica. E questo vuoi per la scarsa alchimia degli interpreti – la Seydoux da un lato (l’altra meta’ della “Vita di Adele”, per intendersi) che ancora fatica ad arginare quel certo che di scostante che ne irrigidisce l’atteggiamento e il pur sempre simpatico Cassel, dall’altro, che qui, almeno per il poco che rimane in scena con le sue fattezze, senza troppi patemi, traccheggia nei territori a lui familiari di una spontanea malia briccona – vuoi, pecca forse davvero dirimente, per l’invalsa tendenza di Gans, che risale ai tempi di “Crying Freeman”, attraversa per intero “Il patto dei lupi” per attenuarsi solo in parte in “Silent hill”, a soprassedere o semplicemente a tirare dritto quando ci sarebbe da soffermarsi sulle modificazioni interiori dei personaggi, per privilegiare lo spericolato e ripetuto alternarsi di momenti frenetici riconducibili all”azione’ pura e un anodino ricamare descrittivo che accosta, spesso sovrapponendoli con esiti non sempre felici, suggestioni diverse: da reminiscenze figurative impressioniste a evocazioni di Bocklin, passando per tracce di un certo iper-decorativismo preraffaelita presenti nelle scenografie ingombre di arazzi, mobilio, statue, infiorescenze, così come nei colori, nelle fogge e nelle trame complicate degli abiti (e sorvolando sulla matrice pressoché totalmente computerizzata di tanta mobilitazione).
E’ su queste direttrici che Belle s’innamora della Bestia – o meglio, “dice” di star innamorandosene – mentre il suo sentimento, se esiste, si confonde e si diluisce all’interno di peregrinazioni pensose nei meandri del labirintico castello-eremo della Creatura. Parimenti, la Bestia spia in tralice la giovane donna con l’ovvio imbarazzo aggressivo ingenerato dalla sua mostruosità, e poco più: senza, cioè, quello sconforto e quella mestizia che arricchirebbero i suoi gesti della stanchezza colpevole e dell’amara dolcezza atte a stimolare il sospetto circa il vero cruccio che ne ottenebra l’esistenza: ovvero uno stupido peccato d’orgoglio, l’ennesimo regalo fatto alla Morte che se esiste qualcosa di cui non ha bisogno e’ di godere di soverchi vantaggi.
Tutto nel cinema di Gans, in altre parole e fino ad ora, almeno, si ordisce e si consuma in superficie, la quale, oggi come oggi essendo organizzata secondo la “tirannide” esigente del digitale, tende a comprimere sempre più lo spazio minimo dell’umano, nella persuasione tutta moderna, tutta “veloce”, che la moltiplicazione all’infinito del “visibile” – delle prospettive, dei punti di vista come di quelli di fuga, delle proporzioni, dei riverberi – sia di per se’ sinonimo di empatia. Inquadrature sovraccariche, dettagliatissime, percorrono quindi, al pari di tante opere simili, anche “La Bella e la Bestia” (basterebbero, per tutte, le sorprendenti varietà cromatiche esibite nelle sfumature più minute o la sempre efficace esuberanza ‘tentacolare’ infusa nella rappresentazione del mondo vegetale) spostando ancora di un po’ il limite dell’eterna lotta dei sentimenti contrastanti – ma pure i loro incanti, le loro “lentezze” – verso un braccio di ferro più concreto ma più freddo tra le sacrosante istanze dello spettacolo e lo spauracchio dei “momenti morti”.
(pubblicato su dreamingcinema.it)
TFK
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