sabato, dicembre 31, 2022

THE FABELMANS

The Fabelmans

di Steven Spielberg

con Michelle Williams, Gabriel LaBelle, Seth Rogen

USA, 2022

genere: drammatico

durata: 151’

Anche Steven Spielberg prova a dare vita alla sua idea di cinema. E lo fa con lo stile che lo contraddistingue da sempre e che lo ha collocato, con il tempo, nell’olimpo dei grandi. “The Fabelmans” è, come spiega lo stesso regista all’inizio, un atto d’amore alla famiglia, ma soprattutto alla settima arte, quella che ha conferito a Spielberg la notorietà e quella che, più di ogni altra cosa al mondo, gli ha permesso di esprimersi.

Sammy Fabelmans è un giovanissimo alter ego del regista che viene portato al cinema dai genitori per la prima volta e assiste a un film western il cui culmine è rappresentato dallo scontro frontale tra un’auto e una diligenza. Sammy è travolto da ciò che ha visto e, dopo aver ricevuto in regalo dei vagoni ferroviari giocattolo, mette in scena, a casa, un incidente simile per capirne le dinamiche e pensando di poterlo riprendere e “stravolgere” quando e quanto vuole. In questo lo aiuta la madre che, nonostante i timori del padre, sembra voler incoraggiare quello che non è “solo un hobby” per il figlio. Sammy cresce e inizia a frequentare la scuola dove deve fare i conti con i bulli della zona che lo prendono di mira in quanto ebreo. In parallelo vorrebbe continuare il suo interesse per il cinema, ma in parte impaurito dagli “avvertimenti” di uno strampalato zio Boris, in parte distrutto dalla disgregazione del rapporto tra i suoi genitori, comincia ad allontanarsi da ciò da cui è attratto più di ogni altra cosa al mondo. Ma uno come Sammy può davvero stare lontano dalla cinepresa e dal cinema?

Il film più personale di Spielberg, come lui stesso l’ha definito, ma anche quello più personale per qualsiasi cinefilo o appassionato di questa arte. Più volte nel film, le riprese e le cosiddette “immagini in movimento” prendono il posto delle parole e vengono utilizzate per esprimere concetti, per confrontarsi, per dialogare.

Quello che fa Spielberg con questo film non è solo elogiare il cinema in quanto arte che ormai ha fatto sua nel corso degli anni, ma è un omaggio a tutto il cinema, ai grandi autori di questa arte e anche un elogio alla ricerca di un sogno (che può prescindere dal cinema stesso) verso il quale bisogna sempre protendere, senza mai arrendersi. Sammy è la prova lampante di cosa significhi non lasciarsi mai scoraggiare, ma continuare per la propria strada alla ricerca del proprio sogno. Che sia il cinema, che sia l’amore, che sia qualsiasi altra cosa, l’insegnamento della famiglia Fabelmans è proprio questo: mai gettare la spugna, ma supportarsi sempre a vicenda.

In un film che usa il cinema per parlare di cinema, sono tanti i richiami e i riferimenti che il regista inserisce, anche involontariamente, quasi sfidando il lettore, come la scena dell’incidente del treno che il giovanissimo Sammy vede al cinema e che strizza l’occhio alla nascita della splendida invenzione dei fratelli Lumière.

Ma “The Fabelmans” è anche una grandissima Michelle Williams, nel ruolo della madre del protagonista. Una donna che inizialmente si mostra forte e capace di sorreggere l’intera famiglia, tenendo le redini e potendo controllare ogni singolo tassello. Questo finché Sammy, proprio grazie a quelle riprese che lei stessa aveva incentivato, non si accorge di qualcosa che, pur essendo abbastanza alla luce del sole, nessuno aveva mai notato. E anche qui viene sottolineato il potere del cinema e delle sue riprese, in grado di scovare e scavare dentro (e non solo) ognuno di noi. Da quel momento tutto cambia e la forza di Mitzi, la madre, viene meno per far spazio a una “rassegnazione”, a un’accettazione della realtà e al disvelamento di quello che credeva un segreto ben celato in grado di sopravvivere a qualsiasi cosa. Nel rendere questo cambiamento del personaggio la Williams è perfetta. Degno di menzione il momento in cui, accovacciata nell’armadio del figlio vede scorrere davanti a sé quelle immagini che prima ha vissuto in prima persona, inconsapevole che un occhio “esterno” la stava riprendendo. Lo spettatore conosce già il contenuto di quelle immagini e si concentra, quindi, solo ed esclusivamente sullo sguardo di una donna che comprende, poco alla volta, la sua “sconfitta”. Accanto a lei anche un giovanissimo Gabriel LaBelle che, nonostante la giovane età, si destreggia molto bene tra attori più navigati.

E, infine, come non poter citare il divertente e geniale cameo di David Lynch nel ruolo di quello che, a detta del film, è, per l’epoca in cui “The Fabelmans” è ambientato, il miglior regista in assoluto, John Ford? Una scena che vale da sola tutto il film, da vedere e rivedere, magari con l’orizzonte spostato, in alto o in basso.

Una dichiarazione d’amore al cinema che è già storia.


Veronica Ranocchi

mercoledì, dicembre 28, 2022

GLASS ONION - KNIVES OUT

Glass Onion – Knives Out

di Rian Johnson

con Daniel Craig, Janelle Monáe, Edward Norton

USA, 2022

genere: giallo, commedia, poliziesco

durata: 140’

Rian Johnson torna a dirigere Daniel Craig nei panni del famigerato detective Benoit Blanc. Stavolta, rispetto al primo titolo “Cena con delitto” ci troviamo catapultati in una splendida, lussuosa e moderna isola sul mar Egeo che deve il suo nome, Glass Onion, alla struttura principale che ricorda proprio una grande cipolla di vetro.

Aspetto interessante è l’idea di svolgere il film nel 2020, in piena pandemia, anche se le caratteristiche di quel preciso periodo sono presenti solo nella primissima parte del film. Tutto ha inizio con un invito da parte dell’egocentrico multimiliardario Miles Bron. Questi ha organizzato una cena con delitto da svolgersi in un fine settimana insieme ai suoi migliori amici, tutti invitati: la politica Claire Debella; Lionel Toussaint, scienziato a capo della sezione ricerca e sviluppo di Alpha Industries; la stilista Birdie Jay; lo youtuber e twitcher Duke Cody. Insieme a loro partecipano anche Cassandra “Andy” Brand, ex-partner in affari di Miles; Peg, l’inseparabile assistente di Birdie, e Whiskey, fidanzata di Duke. Come in tutti i gialli che si rispettano, fin da subito si cominciano a nutrire sospetti nei confronti di ogni personaggio che sembra avere qualcosa da nascondere.

Giunta la sera, Miles, dopo aver introdotto la serata ai presenti e dopo aver mostrato loro la presenza dell’originale Monna Lisa, prestatagli dal Louvre in seguito a un corposo finanziamento, dà il via alla vera e propria cena con delitto che viene, però, risolta in un attimo dal detective Blanc che, grazie alle sue capacità investigative, decide di “rovinare” i piani del magnate di proposito perché teme che qualcuno degli ospiti voglia farlo fuori. Da quel momento tutto cambia poiché i programmi di Miles vanno a rotoli a causa della presenza del detective che comincia a indagare, soprattutto a seguito di una vera morte che avviene alla presenza di tutti gli invitati.

Puntando sia sul sempre riuscito cast corale sia sulla scia del successo del primo film Rian Johnson gioca le migliori carte a sua disposizione e confeziona un validissimo prodotto.

Tra indagini, colpi di scena continui ai quali ci ha abituati il regista, legami segreti tra i personaggi e tanto lusso sfrenato “Glass Onion” risulta un buonissimo secondo capitolo, anche se di fatto si tratta di una storia a sé stante.

Daniel Craig nei panni del detective Benoit Blanc vince e convince, come già aveva fatto con il primo film e richiama, per certi versi, il mitico e iconico Hercule Poirot di Agatha Christie, un po’ per i modi di fare, un po’ per le intuizioni, un po’ per la calma e il carisma che lo contraddistingue.

Ma non ci sono solo riferimenti alla regina del giallo. Commovente, a posteriori, la presenza, seppur minima, della compianta Angela Lansbury. Così come sono interessanti le tante citazioni presenti all’interno della storia e i richiami, né evidenti né invadenti, al primo capitolo.

Nuovamente un cast corale appositamente scelto che pesca tra grandi nomi del cinema a nomi più emergenti, ma venuti fuori grazie alla serialità, affiancati ad attori che, invece, hanno alle spalle un importante passato, ma sono rimasti comunque più nell’ombra. Una Janelle Monáe che buca letteralmente lo schermo, e non solo per la sua incredibile e semplice bellezza, ma per la sua capacità di imporsi come figura ambivalente. E poi nessun bisogno di presentazioni per gli altri interpreti capaci, però, di rendere, come probabilmente da direttive, i rispettivi personaggi antipatici al punto giusto, senza alcuna possibilità di redenzione.

E se nel primo capitolo la coprotagonista Ana de Armas era più dimessa, così come imposto dal ruolo, in questo secondo capitolo la Monáe arriva quasi a togliere dal piedistallo di intoccabile un Daniel Craig anche autoironico. Capace di intuizioni geniali e in grado di renderne la spiegazione ancora più magnifica, seduto sul trono, prima di “spade” nel primo capitolo e poi di vetro e di “metalli” nel secondo, Benoit Blanc è il detective con il quale nessun criminale “moderno” vorrebbe avere a che fare.


Veronica Ranocchi

martedì, dicembre 27, 2022

PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO

Pinocchio di Guillermo del Toro

di Guillermo del Toro

con Gregory Mann, Ewan McGregor, David Bradley

USA, Messico, 2022

genere: animazione, fantastico, avventura

durata: 121’

Sono stati tanti gli adattamenti nel corso del tempo del grande classico di Carlo Collodi con protagonista il piccolo bambino di legno creato dalle mani di Geppetto. Ognuno di essi ha provato, ogni volta, ad aggiungere elementi, a modificare alcuni tratti e a inserire la propria personale visione dei fatti, ma nessuno, fino a ora, aveva mai fatto l’operazione compiuta da Guillermo del Toro.

Il regista messicano ha realizzato quello che può essere considerato, al momento, il miglior adattamento del classico di Collodi.

Una visione personale di un classico della letteratura e del cinema che sembrava essere stato sviscerato completamente, ma che, invece, con la sapiente mano dell’autore del film premio Oscar “La forma dell’acqua” si trasforma quasi completamente.

Interamente realizzato con la tecnica della stop-motion, il film, a differenza degli altri adattamenti, è ambientato al tempo del fascismo.

La mano del regista plasma e conferisce una completa e nuova forma all’opera della quale mantiene intatto il nucleo principale. Con il tocco di Guillermo del Toro, Pinocchio diventa, a tutti gli effetti, una sua creatura, più dark e più inquietante, come quelle alle quali ci ha abituato il regista messicano.

Complici le musiche e le fantastiche ambientazioni, il Pinocchio di Guillermo del Toro è destinato, già dopo una prima visione, a diventare un grande classico, da vedere e rivedere per analizzare ogni singola scelta compiuta e ogni saggio e astuto stratagemma messo in atto.

La scelta di ambientare la storia in un’epoca come quella del fascismo dà modo a del Toro di utilizzare quel male per distruggerlo con astuzia e ingegno. Basti pensare, per esempio, alla presenza di Mussolini a uno degli spettacoli di marionette, ai quali prende parte anche Pinocchio, “costretto” a partecipare per salvare Geppetto, e al modo in cui viene “disegnato” il dittatore. Degna di nota anche la scelta di muovere, naturalmente, i vari burattini con dei fili, fatta eccezione per Pinocchio che, come gli altri, avrebbe dovuto avere bisogno di una “guida” per muoversi, ma che riesce autonomamente a emergere, andando anche contro la realtà che lo circonda e arrivando a criticare il fascismo e tutto ciò che ne consegue.

Ciò che emerge dall’opera di del Toro è, quindi, anche una critica sociale, a un momento buio della storia che va di pari passo con i personaggi. Ci sono, infatti, dei cambiamenti, delle variazioni e delle reinterpretazioni dell’opera di Collodi che il regista messicano fa proprie. Abituati alle sue opere nelle quali vita e morte sono costantemente presenti, seppur ogni volta con diverse modalità, anche nel “Pinocchio di Guillermo del Toro” notiamo questa commistione fin dall’inizio con la decisione di aggiungere la figura di Carlo, il vero figlio di Geppetto, purtroppo scomparso da giovanissimo. La sua presenza, seppur solo nei ricordi e nella memoria, è costante in tutta la narrazione.

Un film che, fin dal titolo, fa ben capire la direzione e l’intenzione. Non è più solo “Pinocchio” o il “Pinocchio” nato dalla penna di Collodi. Adesso è “Pinocchio di Guillermo del Toro”, una distinzione netta e decisa secondo il regista. E, visto l’apprezzamento generale, anche secondo il pubblico.


Veronica Ranocchi

lunedì, dicembre 12, 2022

MERCOLEDI'

Mercoledì

ideata da: Tim Burton, Alfred Gough, Miles Millar

con Jenna Ortega, Catherine Zeta Jones, Luis Guzman

USA, 2022

genere: commedia, horror, fantasy

durata: 8 episodi da 40-50 minuti

Uno dei personaggi, da sempre, più apprezzati dell’iconica famiglia Addams è sicuramente Mercoledì, la giovane primogenita di Morticia e Gomez che tanto ama il dolore e la sofferenza.

Un personaggio che, nonostante sia già stato protagonista, ha meritato un ulteriore palcoscenico per mostrarsi davvero a 360°. E lo ha fatto grazie a Tim Burton su Netflix.

Interpretata dalla bravissima e davvero talentuosa Jenna Ortega, Mercoledì è la protagonista assoluta degli 8 episodi che hanno tinto di nero la piattaforma di streaming, arrivando a oscurare anche personaggi iconici come quelli degli altri membri della famiglia, una su tutti la Morticia Addams di Catherine Zeta-Jones.

La storia messa in scena da Tim Burton vede Mercoledì costretta a frequentare la Nevermore Academy, stessa scuola dei genitori, a causa del comportamento fin troppo sopra le righe nei precedenti istituti. La scuola, all’interno della cittadina di Jericho, è rivolta soprattutto a coloro che vengono definiti “reietti”, cioè con poteri o facoltà fuori dall’ordinario (lupi mannari, gorgoni, sirene, vampiri e tanti altri). Qui Mercoledì si trova ad affrontare, oltre alle classiche dinamiche adolescenziali, anche dei misteri ben più grandi di lei. Grazie ad alcune visioni riesce a capire di essere coinvolta, direttamente o indirettamente, in un mistero che vuole a tutti i costi risolvere.

Nel corso degli episodi conosciamo alcuni dei protagonisti. Se i genitori di Mercoledì, insieme al fratello Pugsley e Lurch (qui solo in veste di autista), sono già noti, nella serie Netflix fa la sua comparsa, per esempio, l’eccentrico personaggio di Enid, colei che si può considerare a tutti gli effetti la perfetta nemesi di Mercoledì. Colorata, eccentrica, sorridente e costantemente piena di energia, Enid è un lupo mannaro, ma soprattutto l’unica che, nonostante tutto, può provare a scalfire la dura corazza di Mercoledì. Compagne di stanza, le due creeranno un legame particolare reso anche visivamente dalle potenti immagini che mostrano la camera nettamente divisa in due parti, dove colori, oggetti e azioni sono diametralmente contrapposte.

Accanto a Enid ci sono poi Xavier e Tyler, entrambi innamorati della protagonista, ma entrambi con dei segreti da nascondere. E poi ancora la rivale Bianca, l’austera preside e molti altri, tra insegnanti e studenti. All’appello non possono mancare lo zio Fester, presente solo in un episodio e che forse avrebbe meritato più spazio, visto e considerato il profondo legame tra lui e Mercoledì, ma soprattutto Mano, il vero protagonista della serie. Elemento indubbiamente più riuscito, Mano, nonostante possa contare solo su una mano, appunto, riesce a comunicare perfettamente e a esprimere emozioni e concetti non soltanto ai personaggi della serie, ma anche nei confronti del pubblico. Dulcis in fundo non si può non citare l’indovinata presenza di Christina Ricci, la Mercoledì Addams degli anni ’90 che, qui, torna a rapportarsi con il personaggio, ma con un aspetto e un ruolo diversi.

Una serie dove l’impronta di Tim Burton è ben presente, a partire dall’ambientazione fino alle fattezze del mostro. E se qualcuno ha storto il naso per il fatto che, in parte, si discosta dalla famiglia Addams originale, non si può non parlare di prodotto più che riuscito per questa “Mercoledì” rivisitata in chiave moderna.

È vero, probabilmente la vera Mercoledì Addams non sarebbe scesa a compromessi e, in alcune occasioni, non si sarebbe comportata come la ragazzina della serie Netflix, ma è apprezzabile la scelta di Tim Burton e del team di autori di modificare una parte della storia e virare verso una maggiore adesione all’epoca in cui è ambientata adesso. Ci sono comunque riferimenti al passato e all’ “originale” famiglia Addams disseminati ovunque nel corso degli episodi, per non parlare delle sempre affilate parole di Mercoledì. Parole che, pronunciate da Jenna Ortega, sono ancora più “pericolose” vista la serietà e l’attenzione che la giovane ha riservato al personaggio. Memorabile la scena del ballo, diventata già un must.

Insomma, nel complesso, una serie riuscita e convincente, in grado di attirare un gran numero di spettatori, sempre più variegato, e che sta battendo record su record in attesa della prossima, quasi scontata (e obbligatoria) stagione.


Veronica Ranocchi

domenica, dicembre 11, 2022

PANTAFA

Pantafa

di Emanuele Scaringi

con Kasia Smutniak, Mario Sgueglia, Francesco Colella

Italia, 2022

genere: horror

durata: 101’

Il passato come colpa, ma soprattutto l’impossibilità di conciliarsi con ciò che è stato e ora non è più. Pantafa di Emanuele Scaringi ragiona sul nostro tempo procedendo con coerenza sul percorso della propria filmografia delegando ancora una volta al genere – questa volta tocca all’horror -, il compito di tradurre il paesaggio interiore dei personaggi.

Se la trama è presto detta, ruotando attorno alla fuga dal mondo di una madre e della sua bambina, destinate a fronteggiare gli inquietanti sviluppi derivati dalla decisione di soggiornare in un paesino di montagna, quello che più interessa in questo caso è il modo in cui Scaringi riesce a conciliare la componente più personale del suo discorso con la necessità di non venire meno al presupposto principe del genere in questione, ovvero quello di mettere paura allo spettatore.

Così facendo Pantafa si confronta con luoghi e personaggi tra i più classici del cinema horror, a cominciare da una versione femminile del Bogeyman americano, retaggio della tradizione popolare, alla casa infestata da demoniache presenze e per finire con una concezione del male radicata nella storia degli uomini e dunque destinato a reiterarsi nel tempo e nello spazio (quest’ultimo, come insegna la Blumhouse, circoscritto per lo più all’interno di un unico ambiente). Questo per dire come ogni elemento nel film di Scaringi suggerisce (fuoricampo) una serie di titoli putativi al suo.

In questa ottica Scaringi è bravo a sottrarsi dalla sudditanza verso i prodotti americani. Così è, per esempio, la scelta del linguaggio dialettale, peraltro, nella sua asprezza vocale, adatto a rendere il senso di una realtà minacciosa e respingente. Altrettanto lo è il rigore di un’essenzialità che non riguarda solo la messinscena, priva o quasi di CG, ma anche la recitazione, con Kasia Smutniak e la piccola Greta Santi, brave a far trasparire il disagio dei personaggi da interpretazioni scarnificate e prive dei consueti birignao.

Come successo ne La profezia dell’Armadillo ma anche ne L’alligatore anche in Pantafa Emanuele Scaringi mostra di prediligere il racconto intimo di esistenze ribelli e per questo costrette ai margini. Ma non solo, perché come nel film d’esordio, anche in quest’ultimo la crisi di identità dei personaggi si trasforma in un conflitto, tra realtà e immaginazione, tra carne e spirito, capace di raccontare i fantasmi delle nostre paure.

Nel farlo Pantafa non si volge mai indietro, immerso com’è in un senso di colpa che impedisce al film di trovare ragione dei propri patimenti. A confermarlo la scelta di collocare le foto d’epoca, quelle con gli antenati dei protagonisti, oltre il termine della storia. Una sorta di commento fuori campo utile a ribadire – come si diceva all’inizio – l’impossibilità di fare pace con il passato. Ultimo atto di una coerenza che in Pantafa non viene mai meno.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, dicembre 09, 2022

SVEGLIAMI A MEZZANOTTE

Svegliami a Mezzanotte

di Francesco Patierno

con Fuani Marino, Eva Padoan

Italia, 2022

genere: documentario

durata: 71’

Ultimo episodio di un’ideale trilogia a cui appartengono “Napoli’44” e “Diva!”, “Svegliami a mezzanotte” di Francesco Patierno è una sorta di “Alice nel paese delle meraviglie” in cui, come nel romanzo di Lewis Carroll, realtà e fantasia, conscio e inconscio si mescolano in una fantasmagoria di suoni, musica e parole. Da non perdere.

Prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, “Svegliami a Mezzanotte” è un documentario italiano presentato alla 40esima edizione del Torino Film Festival.

Incontrare una persona e non un personaggio. Parliamo di Fuani Marino, nata due volte, nel momento in cui, una mattina d’estate, decise di porre fine alla propria vita lanciandosi dal quarto piano, sopravvivendo, suo malgrado, alle lesioni riportate nella caduta.

“Svegliami a Mezzanotte”, questo il titolo del film di Francesco Patierno, altro non è che la storia del prima e dopo che separa la vita di Fuani da quel tragico evento.

Tra le possibilità di mettere in scena l’avventura esistenziale della sua protagonista con i codici del cinema e quella di ripercorrerla dall’interno, lasciando che a raccontarla non sia un alter ego fittizio, ma la protagonista dei fatti, Patierno sceglie la seconda, per realizzare una fantasmagoria di immagini, suoni e parole che, eliminando la distanza tra schermo e spettatore, ha la potenza di catapultare quest’ultimo nel cuore pulsante del racconto, all’interno di quel flusso di coscienza con cui il film e la sua protagonista ripercorrono le fasi di un’esistenza che sembra prendere vita davanti ai nostri occhi. Attraverso le parole di Fuani “Svegliami a Mezzanotte” ci invita a “chiudere gli occhi” per iniziare a guardare con uno sguardo nuovo, non limitato a una fruizione passiva della rappresentazione, ma parte in causa e finanche complice della condivisione in atto.

“Svegliami a mezzanotte” lo mette in pratica con un dispositivo che funziona contemporaneamente su più livelli: da una parte esponendo gli avvenimenti in maniera lineare, come succede nei biopic più classici, con la cronaca dei fatti con cadenza cronologica, dall’inizio alla fine; dall’altra destrutturando il racconto orale attraverso un montaggio “casuale” (che tale non è) delle immagini.

Mescolando materiali diversi con filmini e foto della protagonista alternati a un caleidoscopio di frammenti cinematografici e documentari, “Svegliami a mezzanotte” accosta filmati eterogenei senza la logica stringente del cinema mainstream, lasciando alle assonanze e ai rimandi poetici il compito di cortocircuitare la ragione a favore di una lettura emotiva e sentimentale del percorso salvifico compiuto dalla protagonista.

E se nella prima parte “Svegliami a Mezzanotte” privilegia la discontinuità della narrazione, con una forma, quella appena detta, coerente alla progressiva perdita di senso che spingerà Muni al folle gesto, nella seconda, quella seguente al tentato suicidio, lo stile cinematografico si fa meno estremo e più classico, andando di pari passo con il ritorno di Fuani a una stabilità esistenziale e familiare che, pur non escludendo la possibilità di eventuali ricadute, si apre comunque a una speranza capace di scaldare il cuore dello spettatore.

In questa ottica “Svegliami a mezzanotte” evita la retorica della malattia, tenendosi distante dalla tentazione di dare risposte o regalare una morale a una vicenda chiamata a fare i conti con il mistero della mente umana.

Frutto della collaborazione alla scrittura tra Francesco Patierno e Fuani Marino, autrice dell’omonimo libro a cui il film è liberamente ispirato, “Svegliami a Mezzanotte” è l’ultimo episodio di un’ideale trilogia (“Napoli’44” e “Diva!” sono gli altri due) in cui l’autore napoletano sembra aver trovato nella pratica del documentario creativo il terreno ideale per portare avanti un discorso cinematografico – iniziato con Pater Familias -, in cui poesia e sperimentazione vanno di pari passo. In concorso nella sezione Documentari Italiani al 40° Torino Film Festival Svegliami a mezzanotte è destinato a rimanere nel cuore e negli occhi dello spettatore. Da non perdere.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su taxidrivers.it)