Ispirato alla realtà “C’era una volta in Bhutan” trasfigura in maniera poetica e favolistica l’avvento della democrazia nel piccolo stato himalayano. Del film abbiamo parlato con il regista Pawo Choyning Dorji.
Pawo Choyning Dorji è il
regista del film “C’era una volta in Bhutan”, in sala dal 30 aprile grazie a
Officine Ubu.
“C’era una volta in
Bhutan”, il titolo italiano del tuo film, ne coglie la caratteristica
principale, quella di essere una sorta di fiaba contemporanea. A legittimarlo è
innanzitutto la premessa, e cioè la decisione del Re di concedere al suo popolo
la possibilità di eleggere il proprio leader. La scelta di questa struttura
formale è dovuta all’intelligibilità di comunicazione oppure al fatto di
adattarsi meglio di altre alle tematiche del racconto?
Una delle storie più
interessanti del Bhutan è quella relativa al passaggio del paese alla
modernità. Nel corso del 900 è stato una delle nazioni più isolate al mondo,
una politica autoimposta attuata per salvaguardare la nostra cultura, le nostre
tradizioni e la nostra sovranità, dopo aver visto paesi simili al nostro, come
lo sono il Tibet e lo Sikkim, perdere la loro indipendenza a favore di Cina e
India. Probabilmente siamo l’unico paese al mondo che lavora per raggiungere la
“felicità nazionale lorda” invece che il prodotto interno lordo. Siamo stati
gli ultimi a consentire la televisione e la connessione a Internet e
probabilmente l’unico paese al mondo a introdurre la democrazia senza guerra e
rivoluzioni.
Come cerco di mostrare
nel film per i buthanesi la qualità dell’innocenza è un aspetto molto
importante di ciò che siamo. Sentivo che mentre ci aprivamo al mondo esterno
nel tentativo di modernizzarci e diventare una democrazia questa bella qualità
è stata erroneamente scambiata per “ignoranza”.
Attraverso “C’era una
volta in Bhutan” ho cercato di evidenziare l’importanza dell’innocenza in
questo periodo di cambiamento. Ho cercato di rimanere fedele a quel periodo. La
storia attraversa generi diversi poiché è fedele alla realtà.
La rappresentazione del
Bhutan è caratterizzata dalla dolcezza e dalla fantasia tipiche delle fiabe.
Elementi che, allo stesso tempo, sembrano appartenere in maniera realistica
alle persone e al territorio in cui si svolge la storia. Volevo chiederti del
rapporto tra realtà e finzione e di come lo hai introdotto nel film.
Come regista, sono una
persona che trae sempre ispirazione da eventi reali. Sia questo film che il
precedente – Lunana: A Yak in the Classroom – derivano dalle mie esperienze nel
vedere un paese come il mio, radicato nella cultura, nella tradizione e nella
spiritualità, cercare di trasformarsi in una nazione moderna.
Ho cercato di rimanere
fedele alla mia esperienza personale, quella avuta nel corso della
trasformazione modernista e democratica a cui ci siamo preparati con una “finta
elezione” poi vinta dal partito giallo! Anche la costruzione dello Stupa –
monumento buddista in cui si contengono reliquie -, è reale, avendola vissuta
durante la pandemia: il simbolismo di tutto ciò che era collocato al suo
interno mi ha colpito così tanto che ho sentito il bisogno di adattarlo in un
film da condividere con il resto dei presenti e del mondo.
Puoi parlarci della
difficoltà della popolazione rurale nell’affrontare il processo di
trasformazione e le regole della democrazia? Peraltro l’esemplarità della
storia raccontata in “C’era una volta in Bhutan” permette di allargare al resto
del mondo il discorso riguardo alla cosiddetta esportazione della democrazia.
Nonostante la bontà delle premesse, la tradizione e le abitudini di alcuni
paesi rendono complesso l’incontro con il sistema democratico. Una riflessione
che attraversa il film con risultati a volte divertenti, a volte più seri.
Come ti dicevo prima ho
cercato di restare fedele a ciò che è realmente accaduto in Bhutan quando siamo
passati dalla monarchia alla democrazia. Per me personalmente questa è stata
un’esperienza ancora più avvincente perché durante la fase di democratizzazione
studiavo scienze politiche negli Stati Uniti e ho potuto constatare i contenuti
della narrazione democratica, quella che considera i paesi governati da un solo
individuo bisognosi di essere liberati.
Essere immerso nella
cultura degli Stati Uniti, nazione che vede la democrazia come la più grande
evoluzione del pensiero politico, un vero e proprio dono per il resto del
mondo, e per contro sapere che il mio paese era così riluttante ad accettarlo,
mi ha regalato un tipo di narrazione molto particolare da testimoniare. Oltre
alla serietà del cambiamento penso che quel processo fosse intriso di umorismo
nella maniera che ho cercato di far vedere nel film.
Il Buddismo dice che
l’unica costante è il cambiamento. Partendo dall’importanza di questo concetto
il film sembra riflettere sulla difficoltà di cambiare anche quando si tratta
di andare incontro al bene.
Non esiste Bhutan senza
Buddismo. In realtà cambiamento e impermanenza sono gli elementi più importante
di questa storia. Penso sia rilevante ricordare che il Bhutan ha deciso di
isolarsi e tagliarsi fuori dal resto del mondo per preservare il suo stile di
vita. Tuttavia, a metà degli anni 2000, ci siamo di colpo trovati come l’unica
entità non moderna in un mondo che lo era in tutto e per tutto. Per rimanere
rilevanti siamo stati obbligati a cambiare. Non volevamo farlo, ma ci siamo
dovuti adattare al contesto per poter sopravvivere. Il cambiamento è stato
inevitabile.
Lo scarto tra la scena
iniziale e quella finale oltre a sottolineare il cambiamento esistenziale dei
personaggi attraverso la differenza delle stagioni sembra anche alludere al
fatto che la modernità del Bhutan dovrà ancora tenere conto dell’importanza del
fattore umano e della spiritualità così come nelle tradizioni del paese. Il
monaco che attraversa i campi con la bombola del gas sulle spalle afferma la
necessità di non perdere il contatto con le proprie radici. Sei d’accordo con
questo?
Del tutto d’accordo! La
storia inizia con il monaco che attraversa il campo con la bombola e così è
anche la fine. Con ciò volevo mostrare che anche attraverso il cambiamento ci
sono alcune cose che rimangono costanti. All’inizio, con il riso essiccato, ho
cercato di rappresentare il cambiamento imminente; alla fine, con il mare di
fiori di grano saraceno, l’incertezza e la speranza per il futuro.
Nella semplicità delle
inquadrature, effettuate senza movimenti di macchina particolari e con un tipo
di regia invisibile, sembra che tu voglia preservare la centralità della storia
e dei personaggi, la loro franchezza e sincerità. Sei d’accordo con questa
visione della messa in scena?
La motivazione principale
per cui faccio film è preservare le storie del Bhutan attraverso il cinema e
condividerle con il resto del mondo. Per fare ciò ho permesso al pubblico di
sperimentare veramente cosa significa essere immersi nella cultura bhutanese.
Come accennato in precedenza, la qualità dell’innocenza è un aspetto
fondamentale di ciò che significa essere bhutanesi. Inoltre, i temi del
buddismo sono aspetti essenziali nel raccontare una storia delle mie parti.
Penso che queste qualità confluiscano anche nel modo in cui si svolge il film,
nel ritmo, nella direzione e, ovviamente, nei movimenti della mdp. Come
regista, voglio che il pubblico senta il Bhutan in ogni scena dei film che
realizzo.
Nella cultura bhutanese
raccontare una storia è così importante che non ha nemmeno una parola. In
italiano e in inglese forse si dice “raccontami una storia” ma in Bhutanese se
vogliamo che qualcuno lo faccia diciamo: “per favore sciogli un nodo”. Si suppone
che il racconto di una storia abbia lo scopo di sciogliere, di liberare.
Patria della democrazia,
gli Stati Uniti portano all’interno della storia la contraddizione più
evidente, quella di assicurare la democrazia ricorrendo alle armi. La presenza
del fucile all’interno del rito religioso era un modo per dire che la prima regola
della democrazia sarebbe quella di rinunciare a ogni violenza e aggressività?
In realtà, in tutta la
storia, ho voluto fare affidamento sul potere del simbolismo. Il fucile
ovviamente è necessario alla fine della storia, ma volevo anche che
rappresentasse e simboleggiasse l’avvento della modernità, poiché è un’arma non
originaria del Bhutan, ma fabbricata fuori. Come la modernità anche il fucile
può essere benefico, ma anche diventare distruttiva.
Agli attori avevo detto
di interagire con l’arma in modo innocente, proprio come i bhutanesi locali
interagivano con la modernità. Quindi, nel film vedrai la gente del posto
tenere il fucile sottosopra, guardare dentro una canna, a volte usandola anche
come bastone da passeggio. Poiché l’arma simboleggia l’avvento della
modernizzazione, avevo bisogno di qualcos’altro per simboleggiare il contrasto
con la cultura bhutanese. Così alla pistola, simbolo di modernizzazione, ho
contrapposto il fallo che raffigura la cultura e le tradizioni del Bhutan.
Per concludere volevo
chiederti del cinema che preferisci.
Avendo studiato in Europa
e negli Stati Uniti ho ricevuto un’educazione occidentale. Tuttavia, maggiore è
stata l’influenza straniera che ho avuto, più sono stato propenso a restare in
contatto con la mia cultura e con le tradizioni orientali. Per questo nutro
molta ammirazione per il cinema asiatico. I primi lavori di Zhang Yimou e Hou
Jianqi sono tra i miei preferiti. Lungometraggi di Zhang Yimou come Not One
Less e The Road Home hanno avuto un ruolo enorme nell’ispirarmi a realizzare
Lunana: A Yak in the Classroom. Anche il regista giapponese Hirokazu Koreeda è
uno di quelli i cui film non mancano mai di ispirarmi.
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