martedì, aprile 30, 2019

AVENGERS: ENDGAME




Regia di Joe Russo, Anthony Russo
con Robert Downey Jr., Chris Evans, Mark Ruffalo, Chris Hemsworth, Scarlett Johansson
USA, 2019
genere azione, fantastico 
durata, 182’



You are the one who can make us all laugh
But doing that you break out in tears
Please don't be sad if it was a straight mind you had
We wouldn't have known you all these years
- Traffic, Dear Mr.Fantasy -



Ciò che attende lo spettatore lo si intuisce prestando attenzione alle note della canzone che al termine del prologo e per la durata dei titoli di testa accompagna  l’inizio del  film. Il brano appartiene a uno dei gruppi cult del rock americano degli anni 70, e cioè ai Traffic di Steve Winwood, Jim Capaldi e Chris Wood, che nel pezzo in questione si riferiscono al Mr Fantasy del titolo come colui al quale spetta il compito di non precludere al mondo la felicità che gli spetta. Brano epocale, proprio in virtù della sua progressione al tempo armonica e inquieta, Dear Mr. Fantasy pare già alludere all’incipiente disincanto che avrebbe avvolto un’intera generazione, introducendo con una tono quasi implorante, i tempi del rigetto e del richiamo all’ordine. Detto che il testo non fa sconti neanche al suo “Messia”, lasciando intendere che la salvezza degli altri passerà inevitabilmente attraverso il sacrificio del loro salvatore, la scelta musicale è rivelatrice non solo dell’excursus narrativo che di lì a poco vedrà ancora una volta gli Avengers impegnati a combattere contro il più formidabile e crudele dei nemici, quel Thanos che allo schioccare delle dita è capace (nel precedente appuntamento) di decimare la terra e i suoi abitanti, dissolvendo come polvere uomini, donne e pure super eroi.

Di Dear Mr. Fantasy infatti “Avengers: Endgame” prende in prestito intimismo e introspezione, per raccontare una storia che rischia di smentire chi considera la Marvel a corto di idee e soprattutto di coraggio, imputando la mancanza alla spasmodica attenzione con cui  La casa delle idee si preoccupa di rilanciare la sfida al botteghino, nella speranza di stabilire nuovi primati. Non che questa volta non sia così, perché costi di produzione (si parla di quattrocento milioni di dollari), battage pubblicitario e aspettative dei fan hanno i numeri per sbancare qualsiasi record. A differenza di altre occasioni, però, quello che il pubblico si troverà davanti non sarà la solita  esibizione di potenza, effetti speciali e scontri all’arma bianca. Provare per credere la sequenza ambientata a bordo dell’astronave in disarmo in cui un Downey Jr./Tony Stark, ridotto a pelle e ossa, imita Amleto discettando sul senso della vita (che se ne va) con quello che una volta era l’elmetto della sua armatura e ora è semplicemente un teschio di metallo. E, ancora, tutta la parte di storia (e non è poco, vista la durata complessiva di circa 182 minuti) che precede l’iniziò della nuova missione, in cui i registi Anthony e Joe Russo non si limitano a mettere in scena il cordoglio dei sopravvissuti nella maniera più ovvia, e cioè facendo del cordoglio stesso il mezzo per giustificare (moralmente) la sete di vendetta dei protagonisti e dello spettatore. Un meccanismo drammaturgico vecchio quanto il cinema di cui i fratelli Russo fanno a meno sentenziandone la morte (metaforica) nella mancata catarsi prodotta dall’azione soppressiva messa a segno da Thor per liberare l’universo dalla sua nemesi. Al contrario, mettendo il dito nella piaga e lasciando al vuoto della perdita e al dolore che ne deriva l’incarico di raccontare quale sia il prezzo di sopravvivergli, “Avengers: Endgame” dà il meglio di sé e dei film che lo hanno preceduto proponendosi come una versione popolare e supereroistica della Recherche proustiana, laddove la ricerca del tempo perduto, nella drammatica consapevolezza che nulla sarà più come prima, non è solo lo stato dell’anima attraverso il quale far rivivere i ricordi delle persone amate, ma diventa, letteralmente, il principio che inferisce l’azione di Iron Man e soci, pronti a viaggiare nel tempo e nello spazio per recuperare la vita rubatagli da Thanos.


A questo proposito ci sarebbe molto da dire e questo spazio, da solo, non basterebbe per esaurire le considerazioni sulla capacità dei fratelli Russo di dirigere gli attori, facendoli recitare su livelli di drammaticità - e, - nel caso di Thor -  di ridicolo, come ai vari Chris Hemsworth e Scarlett Johansson non era capitato nemmeno nei film dove erano stati chiamati a farlo. Quello che invece va detto, a commento di un film che si propone anche di essere consuntivo e, assieme, punto (nuovo?) di partenza della filmografia Marvel (non a caso il funerale di uno degli eroi è preso come spunto per “salutare” tutti i partecipanti - vecchi e giovani della saga), riguarda soprattutto contenuti e forma. A partire dal trattamento di un tema di capitale importanza come quello relativo alla morte dei supereroi, vero e proprio tabù, negli anni della fondazione (si pensi a quanto ha pesato la morte di Bucky sull’esistenza di Steve Rogers, nei primi cento numeri della testata di Capitan America), ora, sfatato in virtù di una serializzazone del prodotto capace di influenzare la preminenza di trame, che, non per niente, prevedono sempre di meno scenari metropolitani e sempre di più dimensioni alternative popolate da maghi e divinità per i quali nulla è impossibile, soprattutto quando si tratta di “resuscitare i vivi dai morti”. Da qui una forma sempre più catastrofica e apocalittica, come peraltro si conviene alla Nazione che ha vissuto sulla propria pelle lo shock dell’11 settembre, e sempre più simile alle visioni di quel Michael Bay (vogliamo parlare della coreografia degli scontri e della lunghezza della loro durata?) che a oggi rimane uno dei pochi ad aver inciso su un immaginario come quello avventuroso e fantascientifico cui fa riferimento la mitologia Marvel. Non parliamo di capolavoro, per carità, ma di cinema spettacolo, una volta tanto,  corredato di anima. E, soprattutto, di un film che rende difficile stabilire a chi piaccia di più: se ai bambini che riempiono le sale o ai genitori che, accompagnandoli, hanno la scusa per diventare come loro.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)


venerdì, aprile 26, 2019

AVENGERS: ENDGAME - FENOMENOLOGIA CINEMATOGRAFICA DELLA SERIALITA' DEI SUPEREROI





C’è poco che una comune spettatrice come me possa dire su Endgame senza fare spoiler. 
Mi è piaciuto il film? Sì, specie la prima parte. 
La trama era solida? No: quando mai le trame Avengers sono state solide? 
Fucili di Cechov che non hanno sparato? A volontà, come sempre (quelli di Bucky non fanno testo). 
Porte che si chiudono, altre che si aprono? Non tante quanto possiate credere. 
Quante tra le “Endgame theories” si sono avvicinate a quanto abbiamo visto in sala? Ben poche: i Russo Bro hanno sorpreso anche stavolta creando un forte stacco stilistico con “Infinity War”. 
Dopo una ventina di film di supereroi di ogni taglia, pochi sessi e giusto un colore e mezzo, il mio desiderio più grande era che Brooke si rimettesse con Ridge, che Taylor resuscitasse e si sposasse con l’ex marito di Ava Rescott (ah, no, ho sbagliato soap opera). Perché questo erano diventati gli Avengers, una ripetitiva e noiosa soap “da maschi” (la prima recensione con spoiler che ho trovato in rete è di una donna, #segnatevelo), tanto a chiarire come il fantastico piaccia tutti, maschi e femmine #risegnatevelo. 
Absit iniura, non c’è niente di male in una soap di salsicce canterine: ciò che in undici anni questi personaggi erano stati trasformati da sceneggiature più o meno riuscite, ma infine sempre più chine alle richieste di botteghino e alla stanchezza degli attori. Ma non confondiamo una salsiccia che canta con Frank Sinatra. Diamo alle salsicce la dignità di salsicce e non trasformiamole in ciò che non sono. 

L’incapacità delle poche sale dei paeselli dove vivo nel gestire un evento cinematografico di tale portata è stata esemplare: giovani di età media “groot” con capelli tagliati che neanche lo schema di “Maze Runner”, assembrati come elettroni in un mare di Dirac pronti a entrare nel buco nero della sala. Film in programmazione completamente saltati per far posto a tre spettacoli quotidiani su tre sale stracolme. 
Neanche i gestori dei cinema si attendevano un tale successo, evidente segno che non conoscono ciò che vendono. 
Perché? Perché tutti questi groot erano lì ad aspettare il verdetto? Tony Stark morirà per salvare il mondo? Spiderino resuscita? Che ruolo avrà Capitan Marvel, e soprattutto, come saranno acconciatura e make-up? Si vedranno le cosce, stavolta? 
La risposta in fondo è molto semplice, e l’ho avuta sotto gli occhi il giorno che andai a vedere “Alien: Covenant”. Un signore di età tra i settanta e gli ottanta, magro, ossuto, con un bastone a cui si appoggiava con fatica, una giacca a quadri demodé, un’andatura claudicante e sofferente, usciva con noi dalla sala, spalle curve. Mi sono detta che era un giovane quando per la prima volta, nel 1979, Ripley sparava l’Alieno nello spazio, “attraverso la cabina stagna”. Quel giorno era tornato a vedere “la fine del gioco”. Il gioco con cui lui era cresciuto, che aveva amato da giovane uomo, che l’aveva sorpreso, incantato, che l’aveva fatto sognare. 
Così è per questi groot, groottini e groottoni: sono undici anni che il cinema gli propina Avengers, come altri groot sono cresciuti con “Harry Potter”, la seconda trilogia di “Star Wars”, il film del “Signore degli Anelli”. Perché alla base di tutto questo c’è un fatto relativamente nuovo nella storia del cinema: la serializzazione. 


Se è vero che di secondi episodi ne abbiamo avuti diversi, e molto buoni, anche in tempi non sospetti (Aliens, Terminator, La Famiglia Addams, Toy Story), solitamente erano pessimi o scarsamente considerati. Le saghe o i “volumi” (à la Tarantinò) erano malvisti, una sorta di Anticristo cinematografico. Le serie dell’epoca dovevano avere puntate singole, rarissime volte era consentita una sequenza narrativa di due episodi. Lo spettatore medio doveva poter arrivare a casa, fare la pipì, farsi un caffè, buttarsi sul divano e vedere una qualunque puntata di Star Trek in cui Picard diceva: “Numero Uno, attivare!”, ed essere felice di poter rimuovere l’intero episodio dalla memoria. 
In questo J.J. Abrams ha piazzato una boa cronotonica. “Lost” è in assoluto la serie in cui l’interlacciarsi di puntate e continuum narrativi non ha eguali, dal punto di vista della storia della TV. Da lì in poi non c’è stata serie che non fosse obbligata a essere l’esatto opposto di ciò che furono fino agli anni Novanta. Puntate singole? C’è sopra una croce. E da quando anche i grandi attori hanno fatto carte false per infilarsi in serie come “Friends” o “Due uomini e mezzo”, il cinema si è inchinato al piccolo schermo. 
Video killed cinema star. 
Perciò serializzazione per tutti! Carbonara vegana e sushi con maionese! E quando alle tue spalle hai montagne di fumetti che a metterli uno sopra l’altro ci raggiungi la Luna, serializzare è la cosa più facile del mondo. Hai un buco? Bam, c’è di sicuro un personaggio secondario pronto a colmarlo. Ti serve la quota rosa? Eccoti Capitan Marvel.  C’è bisogno del personaggio nero, perché in USA votano anche gli afroamericani? Zac! Pantera Nera! Valchiria è lesbica? Non lo so, ma nel fandom si sbranano su queste cose. Ragazzini affetti da acne giovanile che pontificano sull’orientamento sessuale di un personaggio inesistente, attribuendolo all’interprete. C’è da chiedersi, ma seriamente, se sappiano cos’è un orientamento sessuale, e se distinguano l’interprete dal personaggio, se riescano a mettere i Lego nei fori giusti, a meno che non sia una app per cellulare. Altri pezzi di fandom che si dichiarano sommamente indignati per le affermazioni di Hemsworth su Loki, minacciando il boicottaggio del film. La maggior parte dei fandomisti è potenzialmente in grado di caricare come un gruppo di Black Bloc chiunque gli dica che in questo genere di film non conta niente se rimangono fili appesi, e che anzi, le trollate dei Russo sono la parte più divertente delle salsicce canterine. 


Sono le loro salsicce, me ne rendo conto, salsicce che gli hanno tenuto compagnia quando erano germogli di groot, piccoli virgulti, salsicce su cui hanno versato lacrime. Ma qui ci troviamo davanti a orde di groot che non capiscono la differenza tra una salsiccia, una patatina fritta e Frank Sinatra. 
Ciò che mi destabilizza non sono neanche i groot, forse crescendo comprenderanno la differenza tra una salsiccia e le patatine fritte, ma quelli della mia età, pronti per la casa di riposo di Odino (e vi assicuro che nei fandom tutti quelli che dicono di avere vent’anni ne hanno almeno il doppio), che non riescono a divertirsi vedendo questo tipo di film perché “ci sono delle regole da rispettare, c’è il canone”.
Il canone in una struttura narrativa che per sua natura ha la facoltà, anzi, il diritto e il dovere di prendere le “regole” e farne carta straccia?
Questi film sono pura ludicità: prenderli seriamente è rovinarsi lo spettacolo, snaturarli. Perché trasformarli in ciò che non sono? In parte è un comportamento a cui siamo indirizzati dallo stesso sistema, c’è quindi una componente “voluta”, predeterminata, uno sfruttare indebito le emozioni dei groot (l’acme è stata l’evaporazione di Spiderino in “Infinity War”), ma anche il groottizzare i maturi, l’infantilizzazione del pubblico. Un qualcosa di inaccettabile e molto pericoloso, dal mio punto di vista. 
Le stesse persone sentenziano sull’assurdità delle “leggi della fisica che cessano di esistere” nei film di fantascienza. 
Mettere la maionese o il ketchup sulle patatine è un questione di palato: le patatine non diventano salsicce. Ma chiunque, specie se superata l’età dell’acne giovanile, dovrebbe essere in grado di distinguere una salsiccia da una patata fritta, ed entrambe da Frank Sinatra, e godersi pienamente e liberamente ognuna di queste cose, consapevole di ciò che sta facendo. 


Lidia Zitara

giovedì, aprile 25, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Storyboard dal progetto di Spiderman 4 

INVISIBILI: MORGENRØDE


Morgenrøde
di, Anders Elsrud Hultgreen
con, Torstein Bjørklund, Ingar Helge Gimle
Islanda, 2014
genere, fantascienza, drammatico 

durata, 70’




Non mi puoi vedere con gli occhi
che hai adesso. Ma io ti darò un 
occhio divino. Guarda, allora, la 
mia forza onnipotente
- Bhagavadgita, 11:8 -


Di pietra in pietra. Di silenzio in silenzio. Pare essere questo l’unico itinerario esperibile - l’originario e il post-catastrofico qui beffardamente coincidono - depurato dalle palinodie tardive della civilizzazione (“L’universo è morto”). Brulli declivi avvolti da una perenne bruma avorio-grigiastra incontrano a valle polle sorgive o specchi immoti velenosi alimentati da stanchi riflussi di marea. A ogni sorgere del sole - l’alba del titolo - l’unica disperazione che si rinnova nella placida indifferenza di un Eterno restaurato è quella della bestia umana superstite impegnata nella preservazione del corpo (la ricerca di acqua potabile è ossessiva quanto sovente frustrata) o in rituali e preghiere sfiniti - Rahab/Bjørklund - a un dio mai stato così sordo (L’unico. L’incomprensibile. Creatore. Sostenitore del mondo. Venero solo Te e solo a Te chiedo aiuto. I miei occhi Ti hanno visto. Conducimi sul giusto sentiero. A Te offro queste pietre). Come pure ritorna distillata in peripli erratici - Set/Helge Gimle - più che altro volti a scongiurare l’incombere di una forza misteriosa e crudele (“A tre giorni da qui c’è uno strano dirupo che emette un suono orribile”) o a favorire il compiersi di improbabili esorcismi (il trafugamento di tre talismani di ossidiana). E l’incontro fatale tra queste due quintessenziali minorità, in una desolazione assoluta e arcigna - spazzata quasi senza tregua da un ominoso vento sonoro (a cura di Ole Petter Sørum), né movimentata né lenita dall’iniziale diffidenza o dalla successiva, apparente, separazione - non si consacrerà a preludio per l’instaurazione di una coscienza nuova; tantomeno si proporrà a fondamento di un più illuminato patto di solidarietà umana, dal momento che lo stesso approssimarsi al divino si ridurrà a un istante di stupore smarrito, di assorta umiliazione, oltre il quale si estende, immensa, una solitudine vacua, oltreché superflua.


Nel passo ieratico ma lucidamente incerto del film di Hultgreen - riprese spesso sbieche; contrasti di luce sia fievoli che brutali; evanescenze insondabili quanto non rassicuranti; la mdp pronta a tallonare l’inerzia spossata e le fissità indurite dei protagonisti - pulsano echi della frigida agonia che impietosa corrode una intera concezione del mondo (del suo discutibile progresso, dell’altrettanto sua insidiosa promessa di futuro, del rapporto con l’ambiente, della rimozione o del tradimento delle esperienze passate, di quell’istanza soteriologica quasi senza colpo ferire  barattata con una sorta di iper-materialismo irriflesso, et.) già latente, magari sotto più sgargianti spoglie, nel “Valhalla rising” di Refn (di cui “Morgenrøde” potrebbe essere un cugino più ritroso e, se possibile, ancor più pesantemente affranto), come della rassegnata, seppure non quieta, familiarità con un orizzonte (interiore, emotivo) da tempo indirizzato a sovrapporsi a uno scenario in cui il fattore umano, nell’infinita concatenazione degli eventi possibili, coincide con una marginalità allo stesso tempo non necessaria e residuale (Rahab, quasi al termine del suo vagabondaggio sulla scorta di una visione-della-fine che lo pungola e lo tormenta, s’imbatte nella carcassa della carlinga di un aereo che, nel rispetto dei contesti e con le dovute precauzioni, è quasi rassicurante associare a quella simile visitata dai due amanti-senza-domani in un abbandono altrettanto stranito, per quanto circoscritto alla sua confortevole epifania, di “Bokeh” - vd. -), gemella deforme e carico di ineluttabilità della sproporzione prometeica vista al lavoro in tanti referti più o meno contemporanei, dal, per fare qualche esempio, “Workingman’s death” di Glawogger, passando per il “Dead slow ahead” di Herce, fino a giungere al recentissimo “Beautiful things” dei nostri Ferrero e Biasin.

Non c’è consolazione, quindi, in “Morgenrøde”. Non c’è speranza. I giorni che si succedono su un pianeta grigio ingentilito (o reso ancor più tetro ?) da improvvisi fulgori opalini, informano e assecondano solo il ritmo ancestrale di una totalità organica che trova nel proprio schivo e incessante divenire la misura di un senso ultimo elementare e universale, inaccessibile e significativamente muto di fronte alle futili agitazioni di un essere sempre pronto a invocare un dio che, quando non lo disprezza, lo ignora.
TFK

domenica, aprile 21, 2019

MA COSA CI DICE IL CERVELLO

Cosa ci dice il cervello
di Riccardo Milani
con Paola Cortellesi, Vinicio Marchioni, Claudia Pandolfi, Lucia Mascino, Paola Minaccioni
Italia, 2019
genere, commedia
durata,100'


L’avanzata del cinema di genere procede inesorabile, facendo proseliti laddove uno meno se lo aspetterebbe. Succede, infatti, che dopo il successo di “Lo chiamavano Jeeg Robot” i tycoon nostrani abbiano iniziato a ragionare sulla possibilità di replicarne il formato all’interno di una tipologia di cinema votato alla leggerezza e alla risata come quello della commedia. Una scelta lungimirante, tenuto conto dei vantaggi economici derivati dalla messa in scena di un contesto avventuroso e fantascientifico “difettoso”, in considerazione del carattere volutamente ingenuo dei personaggi e delle loro storie. “Cosa ci dice il cervello” di Riccardo Milani ne è la riprova, trattandosi di un progetto ad alto tasso di popolarità, costruito su un’attrice trasversale come Paola Cortellesi, mai come oggi protesa verso modelli femminili rassicuranti e sghembi come quelli dei cartoons per bambini. Da cui la conseguenza relativa al tipo di allestimento deciso da Milani, il quale, immaginando la Cortellesi nel duplice ruolo di anonima impiegata del ministero e di spregiudicata Nikita al soldo dei servizi segreti, si dimostra coerente all’assunto del  personaggio, mettendo in campo una serie di ingredienti tipici degli spy movie interpretati dalle varie Jolie, Johansson e Lawrence (solo per dire di quelle viste in tempi più recenti), variati quel tanto che basta per rappresentare il contraltare estetico, drammaturgico e anche produttivo, alla costosa verosimiglianza dei colleghi hollywoodiani. In questa maniera, pur presenti, la struttura “globe-trotter”, capace di portare la nostra in ogni angolo di mondo, gli inseguimenti perdifiato nelle suburre medio orientali e, ancora, i travestimenti degni della più brillante delle Mata Hari, diventano la decostruzione simpatica e burlesca di film quali “Mission Impossible” e “Red Sparrow”.

Ma non basta, perché nell’accentuare la cornice parodistica entro cui si muove la trama, “Ma cosa ci dice il cervello” trova il mondo di impiegare i talenti della protagonista in un’impresa parallela che riguarda alcuni dei suoi ex compagni di scuola (“I magnifici 5”, tanto per fare allusioni ai super eroi americani), i quali, vessati nei rispettivi lavori da clienti fastidiosi e violenti, trovano in Giovanna l’angelo custode in grado di rendere pan per focaccia ai loro antagonisti. Nel giocare con i miti del cinema il film, però, non si dimentica della sua natura mainstream, dimostrandosi abile nel trasformare in tormentoni alcuni dei temi cari al sentimento comune: valga per tutti quello collegato al lavoro di Giovanna presso il ministero, la cui iattura, identificata nell’incomprensibile vocabolario che ne caratterizza le procedure, rimanda a quello altrettanto ostile utilizzato da politici ed economisti per parlare di PIL e deflazione. Esilarante, in questo senso, la sequenza all’interno dell’aula scolastica in cui il senso della frustrazione di Giovanna - costretta a proteggere il proprio segreto nella parvenza di mediocrità con cui si mostra agli occhi di amici e famigliari - è reso dal crescendo di non sense legato alla vistosa eccezionalità degli altri genitori, tanto speciali quanto può esserlo la divisa da astronauta con la quale si presenta l’ultimo di essi, vero e proprio de profundis alle speranze di fare breccia nell’immaginario della figlioletta, anch’essa scorata dall’anonimato della madre.

Reduce dal successo personale e di botteghino registrato da “La befana vien di notte”, la Cortellesi catalizza l’attenzione a suon di primi piani, producendosi in un ruolo da mattatrice che ne esalta il camaleontismo attoriale e la varierà della mimica. Certo, “Ma cosa ci dice il cervello” è uno di quei film i cui esiti dipendono molto dal punto di vista di chi lo guarda. Così, se i fan dell’attrice non potrebbero chiedere di meglio per l’ubiquità scenica della loro beniamina, ad altri potrebbe certo dispiacere lo scarso utilizzo dei suoi colleghi, alcuni dei quali, parliamo per esempio del “Top Gun" Giampaolo Morelli, e degli “amici” Vinicio Marchioni e Lucia Mascino, penalizzati da un copione che lascia loro solo le briciole. La stessa cosa potrebbe dirsi per ciò che riguarda la consistenza dello spettacolo: innocente e fanciullesco quando si tratta di rivolgersi al pubblico più giovane, omaggiato dalla scelta di un plot che strizza l’occhio ai prodotti più popolari della cinematografia americana, il film è altresì impalpabile e buonista nel momento in cui, rientrando nei ranghi di ciò che gli è più consono, passa a  descrivere senza troppo mordente egoismo e miserie del nostro quotidiano. Una disputa interna destinata (secondo noi) a ricomporsi nell’ottica di un box-office pasquale che per “Ma cosa ci dice il cervello” si annuncia comunque più favorevole che mai.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, aprile 17, 2019

L'UOMO FEDELE

L’uomo fedele
di Louis Garrel
con Louis Garrel, Laetitia Casta, Joseph Engel, Lily-Rose Depp
Francia, 2019
genere, drammatico, commedia
durata, 75


Abel è un giovane che vive tranquillamente e serenamente la propria vita a fianco di Marianne, quella che pensa sia la donna della sua vita e che rimarrà al suo fianco per sempre. Peccato, però, che il sogno del giovane sia destinato a svanire nel momento in cui la fidanzata gli rivela di essere in dolce attesa, ma che il padre non è lui, bensì Paul, migliore amico di Abel. Questi non la prende (fortunatamente o sfortunatamente?) troppo male, anzi sembra quasi accettare in maniera passiva la cosa. Dopo nove anni, però, il protagonista torna ad interessarsi alla sua vecchia fiamma e a guardarla nuovamente con gli stessi occhi con i quali l’aveva guardata durante tutto il periodo della loro relazione. Questo perché Paul, a seguito di un arresto cardiaco, non sopravvive e, al funerale, i due si rincontrano, insieme a Joseph, figlio nato dalla coppia, e a Eve, sorella di Paul, da sempre perdutamente innamorata di Abel.
“L’uomo fedele” è un insieme di intrecci che vanno a incastrarsi perfettamente all’interno delle relazioni e delle scelte dei personaggi, i quali provano costantemente ad evadere dalle proprie vite, ma spesso senza successo.
Louis Garrel mette in piedi un film ben congegnato e ben costruito, mai troppo scontato dove le relazioni tra i vari personaggi si susseguono insieme all’andare avanti della storia, quasi come in un thriller. Apparentemente un film “calmo”, ma che, in realtà, nasconde molta più suspense di quanto possa sembrare.
Il regista e attore protagonista della sua stessa opera riesce a condensare in poco più di un’ora una storia ben costruita dove accadono molti più eventi di quanti non accadano effettivamente in film ben più lunghi.

Alla complessa relazione tra i due protagonisti Abel e Marianne (Garrel e Laetitia Casta) si somma la bravura e l’intensità del giovanissimo Joseph Engel, la mosca bianca dell’intera vicenda, che agisce in maniera tutt’altro che consona rispetto a quella tipica di un bambino della sua età (e che ha, per di più, subito un lutto del genere). Il suo scopo sembra essere esclusivamente quello di instillare dubbi nel povero Abel (e indirettamente anche nello spettatore che comincia a porsi numerosi interrogativi), ma, in realtà, il suo modo di agire nasconde ben altro.
Se oltre alla trama ci si sofferma sulla struttura narrativa si può dire che il film di Garrel non è solo ben congegnato, ma anche studiato nei minimi particolari. Una delle caratteristiche principali, infatti, che fanno apprezzare ancora di più il lavoro del giovanissimo regista e attore, è quella di fornire al pubblico diversi punti di vista: la storia non ha un solo narratore, ma più di uno. Tutti sono narratori, tutti sono protagonisti, tutti possono immedesimarsi, per un motivo o per un altro, in tutti. Dal tradito e ferito Abel, alla bella Marianne alla giovane e innamorata Eve.
Veronica Ranocchi


martedì, aprile 16, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

La moglie del poliziotto di Philip Gröning (Germania, 2013)

domenica, aprile 14, 2019

SHAZAM!


Shazam!
di David F. Sandberg
con Zachary Levi, Asher  Angel, Mark Strong, Grace Fulton
genere, azione, fantasy, avventura
durata, 132'





A dispetto degli incassi, che continuano ad andare a gonfie vele, una cosa sembrano averla capita anche a Hollywood, e cioè che gli effetti speciali per quanto incredibili e meravigliosi a lungo andare non possono più essere la ragione principale che spinge lo spettatore a comprare il biglietto e a sedersi in sala per godersi lo spettacolo. Convinti che ci voglia qualcosa di più, alla DC si è deciso di tentare la carta della nostalgia, rispolverando un immaginario da anni Ottanta per celebrare la nascita di un nuovo gruppo di supereroi guidato da un leader – Shazam – che, alla pari degli altri, ha la caratteristica di far convivere, a comando, spirito e mente adolescenziali  all’interno di un corpo corpo da Superman!

Così, se dal punto di vista narrativo lo schema è sempre quello, cioè trasformare l’acquisizione del super potere in altruismo e nella responsabilità di salvare i propri simili dalle diverse manifestazioni del male, e se anche la mescolanza di generi e toni – in questo caso dramma e commedia, teen movie è fantascienza – non è certo una novità, la differenza di Shazam! risiede altrove, per esempio nell’atteggiamento scanzonato per cui tutto si prende con leggerezza, persino le situazioni più drammatiche, portandosi dietro, a mo’ di piacevole complemento, quella irriverente stabilità psicologica, in bilico tra l’eterna leggerezza della gioventù e i supposti rigori dell’età adulta, ascrivibile a precedenti specifici, tipo gli intrecci simpaticamente gaglioffi di opere come Tutto quella notte di Chris Columbus, Quel pazzo venerdì di Mark Waters e Big (con Tom Hanks) di Penny Marshall.

Ma non basta, perché il film di David F. Sandberg tira fuori dal cilindro una faccia e un corpo tutti da ridere – entrambi di Zachary Levi – che per ingenuità e movenze sembrano uscite da un film di Buster Keaton. Se ci mettete che anche gli altri personaggi non sono da meno, a cominciare dai ragazzini facenti parte della famiglia acquisita a inizio film da Billy Batson – alter-ego di Shazam -, anche lui monello di chapliniana memoria, non si può fare a meno di ricordare qua e là titoli quali i Goonies di Donner, Gremlins di Dante e persino Superman 2 sempre di Donner, ai quali almeno in termini di suggestione attinge la produzione della Warner Bros. Senza dilungarsi in interminabili battaglie, si punta forte sulla caratterizzazione dei personaggi e sull’empatia del fattore umano per far breccia negli occhi e, soprattutto, nel  cuore dello spettatore, facendo centro al primo colpo. Da vedere.
Carlo Cerofolini
pubblicata su taxidrivers.it

INVISIBILI: OSLO


Oslo
di, Joachim Trier
con, Anders Danielsen Lie, Hans Olav Brenner, Malin Crépin, Ingrid Olava, Emil Lund
Norvegia, 2011
genere, drammatico
durata, 95’




On s'en va comme des poltrons,
Vivant mal leur écartèlement,
Entre émotion et indifférence,
Entre révolte et dérision,

On a le désir, on se dit il faut agir,
Mais cette lâcheté inavouable,
Nous rend bien trop gouvernables,
- Stereolab -


Chiaro: che Oslo (il titolo del film) dissimuli in sé l’anagramma di solo è e resta un più o meno curioso calembour. E’ pur vero, però, che talvolta le circostanze - in questo caso, linguistiche - si dispongono in modo da favorire una trama di associazioni e ipotesi in grado di adattarsi con insospettabile disinvoltura al contenuto e al tono di una vicenda (qui, un parto dell’ingegno). E’ il  caso del presente lavoro di Trier centrato sulla figura di Anders/Danielsen Lie, giovane di buona estrazione e di indubbio spessore psicologico e intellettuale caduto, per il tipico coacervo di motivazioni contraddittorie a cui, alle nostre latitudini, non è quasi mai estranea quella impalpabile ma abrasiva angoscia propria dell’uomo assediato dalla modernità, nella spirale della tossicodipendenza (quindi in una particolare e penosa variante della marginalità, dell’isolamento), con annessa complicata lunga fase di recupero. Intenzionato a mettere alla prova sé stesso e le proprie debolezze (il film si apre su un abortito suicidio per annegamento) Anders, pulito da quasi un anno di riabilitazione, pianifica di utilizzare un permesso di uscita concessogli dal centro in cui risiede per un colloquio di lavoro (ha una passato nel giornalismo e, a detta di chi ne ha valutato gli articoli, notevoli capacità di scrittura), allo scopo di ricomporre la trama lisa degli affetti - alcuni amici, la sorella, una ex - nel tentativo di integrare con scampoli di vita autentica la necessaria ma arida disciplina indotta dall’allontanamento forzato. La sorte che lo attende e di cui sarà tanto artefice che oggetto si compirà durante un’erratica giornata di fine agosto tra le vie e i giardini di una capitale norrena silenziosa ed enigmatica.


Motivo distintivo dello sforzo dell’autore di origine danese è, in primis, l’accostamento (riuscito) della rappresentazione (discreta e misurata, eppure intrisa di una qual dimessa violenza grafica di preferenza giocata sull’ambivalenza tra l’opaca pienezza dei corpi e degli oggetti e la luce radente, spesso diafana, quasi avara, che li fa emergere alla sensibilità) degli scarti psicologici conseguente alla prassi messa in atto dal protagonista per avvicinare di nuovo il mondo materiale e quello degli uomini i quali, di volta in volta, lo attirano (illudendolo) e lo respingono (frustrandolo), impregnando il substrato emotivo del film di un umore instabile, oscillante tra gli incoraggiamenti di una speranza con fatica e di continuo messa alla prova e le limitazioni concrete imposte da una prostrazione magari quieta e contegnosa nelle insorgenze ma senza tregua. Ne scaturisce la descrizione di un percorso interiore più affine a una rassegnata ma lucida resa all’evidenza (“Se qualcuno vuole distruggersi, la società glielo lascia fare”) che ai consueti - e più remunerativi, cinematograficamente parlando - rosari vittimistici e/o autoassolutori conditi con, in genere, compiaciute discese-agli-inferi. E ciò in buona sostanza perché per Anders (e, in trasparenza, per Trier, come torneremo a constatare nel recente “Thelma”) l’inferno si declina nella più anonima ma affatto indolore e attualissima incapacità (oramai impossibilità ?) di entrare in autentica sintonia con l’Altro - difficoltà, ovvi imbarazzi e fragilità incluse - se non entro schemi comportamentali dal punto di vista razionale forse pure ineccepibili ma drammaticamente inerti sul piano umano (l’editore che dovrebbe ingaggiare Anders insiste in maniera ambigua, anche dopo averne appreso i sommi capi, sui trascorsi che ne hanno interrotto la carriera); formalmente giustificabili ma privi della minima traccia di compassione (la sorella evita di incontrare il fratello e al suo posto invia una amica comune latrice della vecchia frase grimaldello: “Ho bisogno di tempo”); o del tutto assenti (la ex, che Anders ribadisce di amare, semplicemente non risponde alle sue chiamate): implicazioni dirette e pressoché in modo unanime introiettate da un modo di vivere - il nostro, nei gorghi della  palude occidentale - deterministico e feroce, funzionale e indifferente, che tra tante allergie di cui è portatore non tollera al suo interno le componenti difettose, pur continuando ad ambire a ogni brandello della vita materiale e ben disposto a mentire per ottenerlo o, persino e al contrario - grottesco paradosso - a dissolversi di fronte a una promessa evanescente presentata però come nuova e, figurarsi, a portata di mano (le sfuggenti nuvole bianche prodotte da un estintore rubato durante una corsa in bicicletta prima che sorga il nuovo giorno, l’ultimo).

D’altra parte - e a integrazione di quanto accennato - vanno sottolineate talune scelte espressive che il regista orchestra secondo un abile e spesso coinvolgente gioco d’incastro a sottrarre. Ecco, allora, brevi scene di raccordo in campo medio o lungo in pertinente progressione metonimica (prive di dialogo e di sonoro, con Anders in giro per Oslo o alla volta di una delle sue prefissate tappe, precedute e talvolta seguite da frammenti di filmini amatoriali, istantanee e inserti documentaristici commentati da voci diverse che argomentano impressionisticamente circa aspetti complementari del quotidiano - la vita professionale, quella comunitaria mescolata, a volte, a considerazioni di carattere più intimo o a mere aspettative personali - a testimoniare l’universalità in apparenza pacificata ma di fondo coatta di una condizione, quella moderna, alla cui inesorabilità non è prevista alternativa), lasciare qua e là spazio a sequenze più dilatate, costruite su piani ravvicinati in cui il gioco degli sguardi (o la latitanza degli stessi), il ritmo dei dialoghi (la lingua norvegese ha una cadenza per la quale, non di rado, le esitazioni e le sospensioni prevalgono sull’assertività e l’intercalare diretto, senza pause), la sensazione opprimente di un tempo che sembra essere stato concesso solo per venir stupidamente dilapidato (indicativa, a questo riguardo, l’espressione smarrita di Anders proveniente da un insondabile luogo sospeso tra perplessità e sfinimento, che registra e subisce l’assortimento di lepidezze e di placidi orrori di cui il senso comune, qui incarnato da due ragazze sedute a qualche tavolo da lui in un bar con i computer accesi, presume, a mo’ di gioco di società da rotocalco estivo, debba sostanziarsi l’esistenza dell’individuo medio per raggiungere la pienezza: Fare vacanze romantiche; Mangiare un gelato al giorno; Raggiungere e mantenere il peso forma; Nuotare fra i ghiacci con i delfini; Mettere un messaggio nella bottiglia e ricevere una bella risposta; Vincere alla lotteria, et.), finiscono per avere buon gioco anche sulla complessiva prevedibilità ascrivibile a una vicenda che mette da subito le carte in tavola, configurando senza indugi il perimetro in cui si compirà una parabola esemplare, non così distante, dopotutto e in definitiva, vista anche l’ispirazione comune, dal fuoco fatuo per un tanto alimentato dall'Alain/Ronet nell’omonima opera di Malle da Drieu la Rochelle.
TFK

venerdì, aprile 12, 2019

CAMPO LUNGO - JANE CAMPION/ LEZIONI DI PIANO



Campo lungo – Lezioni di piano (The piano, Jane Campion, 1993)


Su quella spiaggia c’è un pianoforte in una cassa, battuto dalle onde di marea. Infinite onde, come le onde sono. Sfumature viola, grigie, piene di soffi argentati. 
Si è fatto scuro, i contrasti si spengono e gli azzurri del crepuscolo invadono il paesaggio. 
Il grande ippocampo di sassi e conchiglie arrotola lo sguardo nella scena mentre la linea di passi di Ada la taglia in due come una scimitarra. Una linea dritta, solo sfrangiata dal passaggio della gonna sulla sabbia. Ada attraversa l’inquadratura, e segna la strada: subito ad essa si raccorda la traccia di piccole orme di Flora, che dal grande ippocampo di sassi curvano fino ad affiancarsi a quelle della madre: piccole, tonde, distanziate come i balzi di un sasso sull’acqua.
Nei pochi secondi prima che George si muova, paiono frangersi lunghe e innumerevoli onde, in un tempo sospeso, in una scelta solo apparente. Con una breve sezione di arco dall’ampio angolo, George ricalca la scia della gonna di Ada. Piano. 
Non subito ho capito che in quella scena era racchiuso tutto il film, ma mentre lo intuivo, anche se non ero in grado di tradurlo a me stessa. Solo dopo anni ho raccolto le idee, conciliate, affiancate, legate ad altre, e le ho proiettate oltre. Ogni spettatore nella sua vita ha quella manciata di scene –pochi secondi- in cui racchiude interi film ai quali annoda ricordi, sentimenti, libri, emozioni non vissute in prima persona, memorie da replicante, unicorni di carta piegata. Sono strane ninnenanne, nostre, solo nostre, nel silenzio dei nostri pensieri fluttuanti.  
Il campo lungo di Jane Campion è una di queste.
Ada attraversa il film e la sua vita stessa, solcando quella della figlia e di George, in modo profondo, tagliente, definitivo. Come un magnete attira i corpi degli altri, che non possono far altro che seguirla come satelliti docili, presi nell’orbita di una massa più grande. Il passaggio di Ada li annoda, le loro vite si interlacciano su una spiaggia pulita, in linee sottili, tre curve che si fondono in complesse equazioni matematiche che chiedono la felicità del cuore, per prima cosa. 

In quel vaso c’è un garofano rosso.  Un fiore solo mentre eravamo in attesa, ma ora un fiore con infiniti lati, molti petali, rosso, marrone, con sfumature viola, pieno di foglie argentate -un fiore unico a cui ogni occhio dà il suo contributo. 
(Virginia Woolf, Le onde) 
Lidia Zitara

lunedì, aprile 08, 2019

IL VIAGGIO DI YAO


Il viaggio di Yao
con Omar Sy, Lionel Louis Basse, Fatoumata Diawara
Francia, 2019
genere, commedia
durata, 103’




“Il viaggio di Yao” è il road movie, con protagonista Omar Sy, che ha conquistato la Francia.
Seydou Tall, nato in Francia da genitori senegalesi, è un attore molto popolare in Francia che decide di andare in Senegal per promuovere la sua autobiografia. Ed è proprio in Senegal che vivrà un’avventura del tutto nuova e indimenticabile grazie al tredicenne Yao. Questi, infatti, tra mille avventure, riesce, scappando di casa, a raggiungere il suo idolo per chiedergli semplicemente un autografo. Seydou, colpito dall’energia, dalla curiosità e dal modo di fare di Yao, decide di lasciare da parte il tour promozionale del libro per riportare il giovanissimo a casa, dal momento che si è allontanato centinaia di chilometri dalla sua famiglia senza nemmeno avvisare.
Ovviamente, come spesso accade in questi frangenti, il viaggio che i due affronteranno non sarà solo un viaggio fisico attraverso il Senegal (che permetterà allo spettatore di conoscere una realtà diversa da quella che solitamente ci circonda), ma anche e soprattutto un viaggio metaforico che farà riflettere i due protagonisti grazie al sostegno e ai consigli dell’altro.
Se Seydou, grazie a Yao, riuscirà a scoprire qualcosa in più su se stesso e su ciò che lo lega alla sua famiglia e a suo figlio Nathan (che sarebbe dovuto partire con lui in questo viaggio, ma che, a causa di una malattia improvvisa, rimane a casa con la madre, dalla quale l’attore si sta separando), il tredicenne, dal canto suo, vedrà, invece, come funziona il mondo, cosa lo aspetta fuori da casa e cosa significa essere adulto.

Una storia di formazione, non soltanto per i due personaggi, ma anche per il pubblico che segue le vicende sorridendo e commuovendosi con Seyodu e Yao.
L’intreccio, per quanto possa essere, per certi versi, prevedibile riesce a progredire grazie al lavoro di Omar Sy, ma anche grazie alla spontaneità del giovanissimo Lionel Louis Basse che ci mostra la realtà attraverso il suo sguardo ed ha la capacità di farci innamorare di qualsiasi cosa (la descrizione del mare è, forse, l’esempio più emblematico).
In tutto questo l’elemento che colpisce di più è il legame tra il film e i personaggi, soprattutto nel caso di Seydou Tall e, quindi, di Omar Sy. L’attore francese, conosciuto ai più per “Quasi amici” e “Una famiglia all’improvviso”, ricopre un ruolo che, in parte, aveva già ricoperto con “Mister Chocolat”, ma che, qui, approfondisce, avvicinandosi ancor di più a ciò che è lui realmente. Per questo, quindi, la spontaneità che trapela dai volti dei due attori non è solamente dovuta alla loro bravura, ma alla loro vera sincerità nel mostrarsi al pubblico.
Veronica Ranocchi