martedì, aprile 30, 2019

AVENGERS: ENDGAME




Regia di Joe Russo, Anthony Russo
con Robert Downey Jr., Chris Evans, Mark Ruffalo, Chris Hemsworth, Scarlett Johansson
USA, 2019
genere azione, fantastico 
durata, 182’



You are the one who can make us all laugh
But doing that you break out in tears
Please don't be sad if it was a straight mind you had
We wouldn't have known you all these years
- Traffic, Dear Mr.Fantasy -



Ciò che attende lo spettatore lo si intuisce prestando attenzione alle note della canzone che al termine del prologo e per la durata dei titoli di testa accompagna  l’inizio del  film. Il brano appartiene a uno dei gruppi cult del rock americano degli anni 70, e cioè ai Traffic di Steve Winwood, Jim Capaldi e Chris Wood, che nel pezzo in questione si riferiscono al Mr Fantasy del titolo come colui al quale spetta il compito di non precludere al mondo la felicità che gli spetta. Brano epocale, proprio in virtù della sua progressione al tempo armonica e inquieta, Dear Mr. Fantasy pare già alludere all’incipiente disincanto che avrebbe avvolto un’intera generazione, introducendo con una tono quasi implorante, i tempi del rigetto e del richiamo all’ordine. Detto che il testo non fa sconti neanche al suo “Messia”, lasciando intendere che la salvezza degli altri passerà inevitabilmente attraverso il sacrificio del loro salvatore, la scelta musicale è rivelatrice non solo dell’excursus narrativo che di lì a poco vedrà ancora una volta gli Avengers impegnati a combattere contro il più formidabile e crudele dei nemici, quel Thanos che allo schioccare delle dita è capace (nel precedente appuntamento) di decimare la terra e i suoi abitanti, dissolvendo come polvere uomini, donne e pure super eroi.

Di Dear Mr. Fantasy infatti “Avengers: Endgame” prende in prestito intimismo e introspezione, per raccontare una storia che rischia di smentire chi considera la Marvel a corto di idee e soprattutto di coraggio, imputando la mancanza alla spasmodica attenzione con cui  La casa delle idee si preoccupa di rilanciare la sfida al botteghino, nella speranza di stabilire nuovi primati. Non che questa volta non sia così, perché costi di produzione (si parla di quattrocento milioni di dollari), battage pubblicitario e aspettative dei fan hanno i numeri per sbancare qualsiasi record. A differenza di altre occasioni, però, quello che il pubblico si troverà davanti non sarà la solita  esibizione di potenza, effetti speciali e scontri all’arma bianca. Provare per credere la sequenza ambientata a bordo dell’astronave in disarmo in cui un Downey Jr./Tony Stark, ridotto a pelle e ossa, imita Amleto discettando sul senso della vita (che se ne va) con quello che una volta era l’elmetto della sua armatura e ora è semplicemente un teschio di metallo. E, ancora, tutta la parte di storia (e non è poco, vista la durata complessiva di circa 182 minuti) che precede l’iniziò della nuova missione, in cui i registi Anthony e Joe Russo non si limitano a mettere in scena il cordoglio dei sopravvissuti nella maniera più ovvia, e cioè facendo del cordoglio stesso il mezzo per giustificare (moralmente) la sete di vendetta dei protagonisti e dello spettatore. Un meccanismo drammaturgico vecchio quanto il cinema di cui i fratelli Russo fanno a meno sentenziandone la morte (metaforica) nella mancata catarsi prodotta dall’azione soppressiva messa a segno da Thor per liberare l’universo dalla sua nemesi. Al contrario, mettendo il dito nella piaga e lasciando al vuoto della perdita e al dolore che ne deriva l’incarico di raccontare quale sia il prezzo di sopravvivergli, “Avengers: Endgame” dà il meglio di sé e dei film che lo hanno preceduto proponendosi come una versione popolare e supereroistica della Recherche proustiana, laddove la ricerca del tempo perduto, nella drammatica consapevolezza che nulla sarà più come prima, non è solo lo stato dell’anima attraverso il quale far rivivere i ricordi delle persone amate, ma diventa, letteralmente, il principio che inferisce l’azione di Iron Man e soci, pronti a viaggiare nel tempo e nello spazio per recuperare la vita rubatagli da Thanos.


A questo proposito ci sarebbe molto da dire e questo spazio, da solo, non basterebbe per esaurire le considerazioni sulla capacità dei fratelli Russo di dirigere gli attori, facendoli recitare su livelli di drammaticità - e, - nel caso di Thor -  di ridicolo, come ai vari Chris Hemsworth e Scarlett Johansson non era capitato nemmeno nei film dove erano stati chiamati a farlo. Quello che invece va detto, a commento di un film che si propone anche di essere consuntivo e, assieme, punto (nuovo?) di partenza della filmografia Marvel (non a caso il funerale di uno degli eroi è preso come spunto per “salutare” tutti i partecipanti - vecchi e giovani della saga), riguarda soprattutto contenuti e forma. A partire dal trattamento di un tema di capitale importanza come quello relativo alla morte dei supereroi, vero e proprio tabù, negli anni della fondazione (si pensi a quanto ha pesato la morte di Bucky sull’esistenza di Steve Rogers, nei primi cento numeri della testata di Capitan America), ora, sfatato in virtù di una serializzazone del prodotto capace di influenzare la preminenza di trame, che, non per niente, prevedono sempre di meno scenari metropolitani e sempre di più dimensioni alternative popolate da maghi e divinità per i quali nulla è impossibile, soprattutto quando si tratta di “resuscitare i vivi dai morti”. Da qui una forma sempre più catastrofica e apocalittica, come peraltro si conviene alla Nazione che ha vissuto sulla propria pelle lo shock dell’11 settembre, e sempre più simile alle visioni di quel Michael Bay (vogliamo parlare della coreografia degli scontri e della lunghezza della loro durata?) che a oggi rimane uno dei pochi ad aver inciso su un immaginario come quello avventuroso e fantascientifico cui fa riferimento la mitologia Marvel. Non parliamo di capolavoro, per carità, ma di cinema spettacolo, una volta tanto,  corredato di anima. E, soprattutto, di un film che rende difficile stabilire a chi piaccia di più: se ai bambini che riempiono le sale o ai genitori che, accompagnandoli, hanno la scusa per diventare come loro.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)


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