Morgenrøde
di, Anders Elsrud Hultgreen
con, Torstein Bjørklund, Ingar Helge Gimle
Islanda, 2014
genere, fantascienza, drammatico
durata, 70’
Non mi puoi vedere con gli occhi
che hai adesso. Ma io ti darò un
occhio divino. Guarda, allora, la
mia forza onnipotente
- Bhagavadgita, 11:8 -
Di pietra in pietra. Di silenzio in silenzio. Pare essere questo l’unico itinerario esperibile - l’originario e il post-catastrofico qui beffardamente coincidono - depurato dalle palinodie tardive della civilizzazione (“L’universo è morto”). Brulli declivi avvolti da una perenne bruma avorio-grigiastra incontrano a valle polle sorgive o specchi immoti velenosi alimentati da stanchi riflussi di marea. A ogni sorgere del sole - l’alba del titolo - l’unica disperazione che si rinnova nella placida indifferenza di un Eterno restaurato è quella della bestia umana superstite impegnata nella preservazione del corpo (la ricerca di acqua potabile è ossessiva quanto sovente frustrata) o in rituali e preghiere sfiniti - Rahab/Bjørklund - a un dio mai stato così sordo (L’unico. L’incomprensibile. Creatore. Sostenitore del mondo. Venero solo Te e solo a Te chiedo aiuto. I miei occhi Ti hanno visto. Conducimi sul giusto sentiero. A Te offro queste pietre). Come pure ritorna distillata in peripli erratici - Set/Helge Gimle - più che altro volti a scongiurare l’incombere di una forza misteriosa e crudele (“A tre giorni da qui c’è uno strano dirupo che emette un suono orribile”) o a favorire il compiersi di improbabili esorcismi (il trafugamento di tre talismani di ossidiana). E l’incontro fatale tra queste due quintessenziali minorità, in una desolazione assoluta e arcigna - spazzata quasi senza tregua da un ominoso vento sonoro (a cura di Ole Petter Sørum), né movimentata né lenita dall’iniziale diffidenza o dalla successiva, apparente, separazione - non si consacrerà a preludio per l’instaurazione di una coscienza nuova; tantomeno si proporrà a fondamento di un più illuminato patto di solidarietà umana, dal momento che lo stesso approssimarsi al divino si ridurrà a un istante di stupore smarrito, di assorta umiliazione, oltre il quale si estende, immensa, una solitudine vacua, oltreché superflua.
Nel passo ieratico ma lucidamente incerto del film di Hultgreen - riprese spesso sbieche; contrasti di luce sia fievoli che brutali; evanescenze insondabili quanto non rassicuranti; la mdp pronta a tallonare l’inerzia spossata e le fissità indurite dei protagonisti - pulsano echi della frigida agonia che impietosa corrode una intera concezione del mondo (del suo discutibile progresso, dell’altrettanto sua insidiosa promessa di futuro, del rapporto con l’ambiente, della rimozione o del tradimento delle esperienze passate, di quell’istanza soteriologica quasi senza colpo ferire barattata con una sorta di iper-materialismo irriflesso, et.) già latente, magari sotto più sgargianti spoglie, nel “Valhalla rising” di Refn (di cui “Morgenrøde” potrebbe essere un cugino più ritroso e, se possibile, ancor più pesantemente affranto), come della rassegnata, seppure non quieta, familiarità con un orizzonte (interiore, emotivo) da tempo indirizzato a sovrapporsi a uno scenario in cui il fattore umano, nell’infinita concatenazione degli eventi possibili, coincide con una marginalità allo stesso tempo non necessaria e residuale (Rahab, quasi al termine del suo vagabondaggio sulla scorta di una visione-della-fine che lo pungola e lo tormenta, s’imbatte nella carcassa della carlinga di un aereo che, nel rispetto dei contesti e con le dovute precauzioni, è quasi rassicurante associare a quella simile visitata dai due amanti-senza-domani in un abbandono altrettanto stranito, per quanto circoscritto alla sua confortevole epifania, di “Bokeh” - vd. -), gemella deforme e carico di ineluttabilità della sproporzione prometeica vista al lavoro in tanti referti più o meno contemporanei, dal, per fare qualche esempio, “Workingman’s death” di Glawogger, passando per il “Dead slow ahead” di Herce, fino a giungere al recentissimo “Beautiful things” dei nostri Ferrero e Biasin.
Non c’è consolazione, quindi, in “Morgenrøde”. Non c’è speranza. I giorni che si succedono su un pianeta grigio ingentilito (o reso ancor più tetro ?) da improvvisi fulgori opalini, informano e assecondano solo il ritmo ancestrale di una totalità organica che trova nel proprio schivo e incessante divenire la misura di un senso ultimo elementare e universale, inaccessibile e significativamente muto di fronte alle futili agitazioni di un essere sempre pronto a invocare un dio che, quando non lo disprezza, lo ignora.
TFK
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