domenica, maggio 25, 2025

PATERNAL LEAVE

Paternal Leave

di Alissa Jung

con Luca Marinelli, Juli Grabenhenrich, Arturo Gabbriellini

Germania, Italia, 2025

genere: drammatico

durata: 113’

Sembra quasi che il cinema ultimamente sia particolarmente interessato al rapporto padre – figlia, a come esso nasce e come si sviluppa ed evolve, soprattutto in situazioni quasi estreme che, però, fungono da metafora di una quotidianità forse, a tratti, distante.

L’ennesimo esempio di ciò lo si trova in Paternal Leave, esordio alla regia di una promettente Alissa Jung, che, lasciando da parte qualsiasi orpello o distrazione, pone l’attenzione solo e soltanto su un padre e una figlia che si incontrano (per volontà di quest’ultima) per la prima volta e hanno la possibilità di conoscersi (forse) trascorrendo del tempo insieme. Non si sa nulla di loro, né all’inizio né alla fine, si scopre chi sono attraverso il loro conoscersi che va oltre le domande di rito che si possono fare a un primo fondamentale incontro. Perché tutto nasce dalla voglia di Leona, chiamata da tutti Leo (l’esordiente Juli Grabenhenrich, eccellente nel rendere veri e vivi i sentimenti di una quindicenne che non ha mai conosciuto il genitore), di andare a cercare un padre (Luca Marinelli, sempre credibilissimo) del quale si ipotizza sia venuta a sapere dalla madre, probabilmente all’inizio o in seguito a un litigio. La giovane scappa, quindi, dalla Germania, dove vive con la madre (che non vediamo mai) per arrivare in Italia, seguendo un video online del padre che insegna surf. Partita con un unico scopo in mente e senza dire nulla alla madre sembra quasi assurdo che si imbatta con estrema facilità in Paolo, il padre appunto. Ma è forse questo l’elemento vincente di una storia che non fa mai dubitare e che non si sofferma su veridicità o possibilità, ma invita a riflettere solo e soltanto su due persone e sul loro rapporto.

Non è un caso infatti che la telecamera indugi, per esempio, molto sui dialoghi tra i due senza mai riempirli di elementi che potrebbero distrarre. C’è sempre silenzio con loro in campo, contornato da un luogo quasi anonimo e disabitato.

Credo tutti abbiano bisogno di una famiglia.

Può essere considerato una sorta di mantra in un film come Paternal Leave nel quale anche tutte le altre relazioni presentate riportano comunque a quella tra padre e figlia/figlio. Basti pensare al legame che si crea tra Leo ed Edoardo (gli Sherlock e Watson del luogo) che fondano la loro amicizia sul rapporto conflittuale che entrambi hanno con il padre, seppure per ragioni diverse. Questo potrebbe servire alla Jung per introdurre altre tematiche che, però, lascia in superficie per concentrarsi solo sul legame Leo-Paolo. Un legame che è specchio di quello tra Paolo e la piccola Emilia, sorellastra di Leo, con la quale la ragazzina sembra trovarsi subito in sintonia, influenzata anche dal comportamento del padre ben lontano da quello di un genitore modello.

In un continuo rincorrersi che fa dei personaggi di Paternal Leave dei girovaghi senza meta, nessuno escluso, non ci sono riferimenti o richiami a un tempo e uno spazio. C’è solo la grande volontà di mettere al centro un sentimento che, se non sviluppato in una certa direzione, può prendere il sopravvento sulla vita di chiunque, non solo dei diretti interessati.

E sono tanti gli spunti di riflessione di questo dramma a metà strada col romanzo di formazione (quasi più per il padre che per la giovanissima, già ben determinata e sicura di sé). Ostacoli continui sembrano frapporsi tra Leo e tutte le persone con le quali vuole provare a far nascere un legame che non sia solo di semplice amicizia. Se con Edoardo non ci sono problematiche di nessun tipo, è ben diverso ciò che accede con Paolo o con Emilia, nonostante due situazioni all’opposto. Con Paolo c’è sempre un imprevisto, un incidente, un problema. Con Emilia c’è sempre un muro, fisico o metaforico, che si frappone fra le due.

Con un Luca Marinelli più dimesso del solito a causa del personaggio, ma all’altezza di un’incredibile esordiente come Juli Grabenhenrich che non si risparmia mai e dà vita a un’interpretazione ricca di emozione e carica di pathos, Paternal Leave sale un gradino in più rispetto ai numerosi titoli che, anche nel cinema più recente, hanno trattato il medesimo argomento.


Veronica Ranocchi

lunedì, maggio 05, 2025

'UNA FIGLIA' CONVERSAZIONE CON IVANO DE MATTEO

Al cinema con 01 Distribution Una figlia è la nuova fatica di Ivano De Matteo. Del film Una figlia ne abbiamo parlato con il regista Ivano De Matteo in occasione dell’uscita nelle sale dal 24 aprile.

Mia e Una Figlia potrebbero essere una sorta di dittico sul tema della genitorialità. Rispetto al primo Una figlia ripropone il rapporto tra un padre e una figlia, ma lo fa scegliendo un punto di vista diverso che però non impedisce alla storia di concludersi come spesso avviene nel tuo cinema ovvero con lo sgretolamento del nucleo famigliare.

Mia è stato un film molto sentito perché all’epoca anche noi avevamo una figlia di quindici anni. In quel caso siamo partiti da una storia vera che ci avevano raccontato i nostri amici. Insomma girare quel film è stato come entrare in un mondo parallelo. Per Una figlia invece abbiamo deciso di proseguire sulla scia di quanto avevamo raccontato ne I nostri ragazzi chiedendoci come avremmo reagito se un figlio da vittima diventa carnefice. A ispirarci era stata la vicenda del delitto di Novi Ligure e in particolare le parole del padre di Erica disposto a restare accanto alla figlia perché era l’unico famigliare rimasto ancora in vita. Un ulteriore spunto c’è stato fornito dal libro Qualunque cosa accada di Ciro Noja che abbiamo adattato al discorso che avevamo in mente.

Nel libro la dimensione thriller è stata molto spuntata a favore di uno sguardo prevalentemente sociale.

Proprio così. La protagonista del libro è una ragazza molto violenta e per questo indifendibile. La scommessa mia e di Valentina Ferzan che ha firmato insieme a me la sceneggiatura era quella di far dimenticare il crimine di cui si era macchiata spingendo il pubblico a empatizzare con lei. Volevamo che lo spettatore l’accompagnasse nelle sue vicende giudiziarie e in particolare nelle tappe del suo viaggio carcerario per ricostruire il quale ci siamo affidati a esperti del settore considerato che si tratta di un iter differente da quello degli adulti. In questo senso Una Figlia potrebbe risultare molto utile anche ai più giovani perché mostra cosa può accadere a una ragazza come tante che da un momento all’altro si trova catapultata in una condizione che azzera la sua vita precedente.

Mentre l’empatia nei confronti di Sofia è destinata a crescere nel corso del film così non accade al padre la cui ostilità verso la figlia sconfessa i presupposti caratteriali del personaggio. Dal punto di vista emotivo la condizione psicologica di padre e figlia non coincidono mai. È come se tra loro due ci fosse una sfasatura temporale che li porta a sentire sempre in modo diverso l’uno dall’altra.

Infatti è vero. Probabilmente i fatti che accadono nel film li porteranno a non incontrarsi mai più. Poi tutto può succedere, sta di fatto che la scelta di ricominciare a vivere da parte di Sofia non prevede la presenza del padre. In qualche modo è Pietro a uscire sconfitto da questa vicenda.

Per come il tema principale viene declinato Una Figlia correva il rischio di scadere nel voyeurismo e nello psicologismo. Al contrario la narrazione se ne mantiene lontana evitando di ritornare sulle ragioni che hanno spinto la ragazza al delitto. In qualche modo si capiscono, ma voi comunque evitate di spiegarle.

Nel libro c’è una teoria del delitto. Lì si tratta di un omicidio preterintenzionale mentre nel film è la conseguenza di un impeto emotivo derivato dall’odio represso della figlia nei confronti di Chiara, la  nuova compagna del padre. Se avesse avuto in mano un bicchiere d’acqua glielo avrebbe tirato in faccia mentre fatalità vuole che impugni qualcosa capace di cambiare la vita dei personaggi. Nel film c’è un’infarinatura di ciò che può aver causato quella reazione però non si va oltre.

La prima parte del film, quella che precede l’omicidio, è messa in scena con soluzioni formali che in qualche maniera lo preannunciano. Talune volte i presagi si manifestano attraverso particolari apparentemente insignificanti, come succede con la scena di raccordo in cui la voce dell’arrotino offre tra i suoi servigi quella di affilare coltelli da cucina. Più evidente risulta invece la prima sequenza in cui il padre parla con la figlia. Il gioco di specchi che sdoppia la figura di Pietro nascondendo allo vista quella di Sofia ci dice di un universo che si sta sfaldando, ma anche di come Pietro viva in un mondo tutto suo che non gli permette di accorgersi di quello che sta accadendo alla figlia.

A volte mi piace giocare con le immagini come accade nella scena dell’arrotino. E poi in quella in cui decido di sdoppiare il personaggio di Stefano Accorsi per sottolineare le sue due nature.

Lo scollamento esiste per davvero perché Pietro è diviso tra l’amore per la nuova compagna e quello nei confronti della figlia. Mostrarlo sdoppiato nella scena delegata a introdurre il personaggio la dice lunga sull’inconciliabilità delle due posizioni. Sempre in questa prima parte lo vediamo spesso ripreso dietro muri e pareti, osservato dietro reti perimetrali e ancora riflesso allo specchio. A conferma di come Pietro sia prigioniero della sua idea di mondo.

Tutto questo mi serviva per testimoniare come Pietro tenti fino all’ultimo di mantenersi tranquillo, anche se sente che sta per succedere qualcosa. Mi fa piacere che tu abbia colto queste soluzioni formali perché era il mio modo di segnalare la frattura psicologica che cova dentro il personaggio.

Non è un caso che nella seconda parte, quando gli accadimenti si fanno più scoperti e le personalità vengono alla luce, la forma diventa più trasparente e lineare. Ciò nonostante rimane la domanda sul perché il resto del contesto non abbia saputo leggere fino in fondo il disagio di Sofia. È una domanda che ci si fa spesso in casi come questi e che purtroppo è destinata a rimanere senza spiegazione.

In Mia abbiamo messo molto della nostra esperienza di genitori, nella consapevolezza che anche quando riesci a intercettare il dolore di un figlio speri sempre che non sia così radicato. È qualcosa che bisogna provare per poterlo comprendere e spesso questo accade quando è troppo tardi per evitare il danno. Anche le reazioni sono il più delle volte imprevedibili. Su quelle di Pietro abbiamo lavorato molto. Se ci fai caso all’inizio si rifiuta di pensare che la figlia possa essere colpevole. Sulle prime pensa che sia stata rapita da chi gli ha ucciso la moglie. Anche quando viene arrestata continua a pensarla così, salvo poi distaccarsi da lei dopo la sua confessione di colpevolezza.

In effetti si tratta di un processo psicologico molto complesso che Una Figlia esplora nei suoi recessi più profondi. Come quello che riguarda il riavvicinamento di Pietro a Sofia, con il primo spinto a farlo dal bisogno di compensare la perdita del figlio che la moglie aveva in grembo con la bambina che la ragazza mette al mondo nel corso della detenzione. 

La rivelazione a cui ti riferisci non è così netta ma il dubbio c’è. Nel film io e Valentina lo istilliamo nel corso dei cento minuti attraverso piccole inquadrature che hanno il compito di dare al pubblico il numero più alto di informazioni.

La scena del delitto è costruita attraverso campi e controcampi volti ad accentuare la contrapposizione tra Sofia e Chiara e ancora, con inquadrature che si mantengono ad altezza spalle per non far capire cosa ha provocato l’improvviso collasso della donna. Non è un caso che l’unico momento in cui vediamo le due attrici nella stessa inquadratura è quando Thony sta per accasciarsi al suolo. Come a dire che l’unica maniera per risolvere il conflitto è quella di far venire meno uno dei contendenti. 

Sono rimasto su una e sull’altra e poi ho montato tutto insieme evitando di stringere sul coltello. Nelle scene in campo largo, quelle prima del confronto, vediamo Sofia usarne diversi tipi per tagliare il pane e poi il salame per poi dimenticarci che possa averne uno in mano perché la mdp non inquadra più le sue mani.

Girata in quel modo la scena traduce in immagini l’indicibile che si nasconde dietro a storie come quella di Sofia. A questo concorre anche la scelta di un’attrice come Ginevra Francesconi la cui figura piccola e minuta rende ancora più inaspettata l’aggressività della sua reazione. 

Quello di Sofia era un ruolo difficile per il quale non sarebbe stato possibile scegliere un’attrice come Greta Gasbarri, che prima di Mia non aveva fatto nulla. Ginevra Francesconi la conoscevo per fama ma non avevo visto nulla di lei. La prima cosa che gli ho chiesto era di lavorare su emozioni come aggressività e dolore poi durante il provino vero e proprio mi sono accorto della capacità che aveva di spaziare dalla bontà alla cattiveria in maniera naturale. Il corpo minuto e il volto da adulta regala al suo personaggio un’indecifrabilità di fondo che non permette di prevedere le azioni di Sofia.

Peraltro il suo personaggio prevedeva questa ambivalenza perché per diventare donna Sofia deve prima tornare a essere bambina.

Come accadde per Mastandrea ne Gli Equilibristi anche qui non c’è stato bisogno di make up perché al volto di Ginevra basta un filo di trucco per trasformarla in un’altra persona. A un certo punt mi serviva che tornasse bambina per mostrare come il carcere e la maternità la trasformano in una persona adulta.

Il cambiamento di Sofia è segnalato attraverso una serie di scene in cui la nudità di corpo ispezionato dalle forze dell’ordine diventa il simbolo di una spoliazione morale destinato a essere viatico di crescita e trasformazione.

Sono partito dalla realtà per mettere in scena la “riparazione” metaforica di Sofia che parte proprio dall’ispezione di quel corpo nudo da parte degli agenti di polizia. È da lì che lo spettatore deve cominciare a dimenticarsi ciò che ha fatto per concentrarsi sulla sofferenza e sulla sua crescita come donna e poi come madre.

Peraltro il suo personaggio prevedeva questa ambivalenza perché per diventare donna Sofia deve prima tornare a essere bambina.

Come accadde per Mastandrea ne Gli Equilibristi anche qui non c’è stato bisogno di make up perché al volto di Ginevra basta un filo di trucco per trasformarla in un’altra persona. A un certo punt mi serviva che tornasse bambina per mostrare come il carcere e la maternità la trasformano in una persona adulta.

Il cambiamento di Sofia è segnalato attraverso una serie di scene in cui la nudità di corpo ispezionato dalle forze dell’ordine diventa il simbolo di una spoliazione morale destinato a essere viatico di crescita e trasformazione.

Sono partito dalla realtà per mettere in scena la “riparazione” metaforica di Sofia che parte proprio dall’ispezione di quel corpo nudo da parte degli agenti di polizia. È da lì che lo spettatore deve cominciare a dimenticarsi ciò che ha fatto per concentrarsi sulla sofferenza e sulla sua crescita come donna e poi come madre.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, maggio 01, 2025

'30 NOTTI CON IL MIO EX' CONVERSAZIONE CON GUIDO CHIESA

Distribuito da Piper Film è in sala 30 notti con il mio ex, film diretto da Guido Chiesa con protagonisti Edoardo Leo e Micaela Ramazzotti. Del film abbiamo conversato con il regista Guido Chiesa.

Si è sempre detto di come la commedia francese abbia saputo raccontare la malattia con leggerezza e insieme profondità. 30 notti con il mio ex persegue con successo lo stesso intendimento di titoli come Quasi Amici e La Famiglia Bellier raccontando tra dramma e commedia un tema delicato come quello della malattia mentale.

Prima di tutto ti ringrazio perché comunque fa piacere sentire queste parole. Sì, è vero, in anni recenti la commedia francese, nel passato quella americana con Billy Wilder e la nostra con Risi e Monicelli, hanno avuto la capacità di mescolare i generi. Oggi è diventato difficile perché anche sui media esiste la necessità di catalogare i lungometraggi in generi molto rigidi. Da questo punto di vista siamo tornati un po’ indietro: un film deve essere classificato in modo rigido, non esiste complessità. Devi essere una commedia o un thriller o un horror, e via discorrendo. Tutt’al più un dramma anche se poi come si fa a non dire che un thriller è anche drammatico? Questo inevitabilmente costituisce un limite, specialmente in questa fase in cui, per come è strutturato lo streaming, c’è la necessità di presentare subito i film divisi per categorie. Quando vai sulla pagina principale di Netflix o Amazon o Disney+ te ne accorgi subito. Se il film non ricade in contenitori ben precisi, lo spettatore fatica a identificarlo. Anche se non c’è scritto da nessuna parte che un film possa essere drammatico e allo stesso tempo far ridere.

Così capita nel tuo film. In alcuni momenti infatti 30 notti con il mio ex è attraversato da una ruvidezza assai rara. Penso per esempio al rapporto tra Bruno (Edoardo Leo, ndr) e la figlia. In alcuni momenti la conflittualità verbale della ragazza è scandita da parole anche dure nei confronti del padre.

Sia nel rapporto tra padre e figlia che nei confronti della malattia mentale abbiamo sempre cercato di mantenere un impianto realista, in cui le cose che accadono non sono inventate per necessità di scrittura. Gli episodi che abbiamo messo nel film hanno sempre un legame con la realtà della patologia psichiatrica. Nel caso della figlia, io e Nicoletta Micheli, in quanto marito e moglie, abbiamo attinto anche al rapporto con i nostri figli, con cui ci sono momenti di grande amore e altri in cui ci diciamo le cose in maniera esagerata e pesante, come credo succeda in molte famiglie. Lo stesso abbiamo fatto con la malattia mentale, evitando di rappresentarla in maniera solamente drammatica, come succede troppo spesso in una certa cinematografia, e al contrario di ciò che accadeva nel meraviglioso Qualcuno volò sul nido del cuculo in cui dramma e risate trovavano coerenza nella peculiarità dei personaggi e dove uno straordinario Jack Nicholson riusciva a farti piangere e divertire. Come dicevi tu, credo che oggi, in particolare in Italia, ci sia un pregiudizio verso la commedia, considerata come un genere minore. In generale i grandi autori italiani non hanno mai voluto frequentarla, per questo capita che un regista come Pietro Germi venga considerato meno dei suoi colleghi “duri e puri”.

Nella parte di una donna affetta da disturbi mentali Micaela Ramazzotti correva il rischio di scadere nella retorica della malattia. Al contrario i primi piani dei suoi occhi sono la sintesi di una sofferenza che non manca di aprirsi a uno spiraglio di luce. 

Verissimo. Micaela non avrebbe fatto il film se l’avessi portata a ripercorrere le strade di film che aveva già fatto. Penso non solo a La Pazza Gioia, ma anche a Felicità. Ha scelto di fare 30 notti con il mio ex perché metteva in luce gli aspetti anche più divertenti e leggeri della malattia mentale. In questa prospettiva abbiamo scelto una patologia che ci permettesse anche di poter essere leggeri. Gli uditori di voci come Terry, il nome del personaggio interpretato da Micaela, una volta erano considerati schizofrenici, mentre oggi vengono trattati come affetti da una patologia curabile o perlomeno gestibile da parte del paziente. Di suo Micaela ha aggiunto la capacità di recitare un po’ sopra le righe senza mai eccedere, scivolando con un sorriso attraverso le situazioni anche più dolorose. Nel nostro film l’ha fatto in modo quasi inconsapevole, e quindi ancora più genuino.

In tale contesto il personaggio di Edoardo Leo è chiamato a fare da parafulmine agli estri dell’esuberanza femminile. Nell’interpretarlo l’attore romano conferma di vivere in uno stato di grazia che gli permette di oscillare naturalmente da uno stato d’animo all’altro mantenendo sempre un understatement che rende credibili e amabili i suoi personaggi.

Edoardo ha raggiunto un controllo della sua recitazione davvero notevole. Lui ha sempre avuto una tecnica eccellente, ma ora, un po’ per l’età, un po’ grazie all’esperienza, ha imparato a gestire il suo lavoro in un modo veramente consapevole. Prima aveva meno registri, adesso molti di più. Questo gli permette di oscillare tra profondità e leggerezza in maniera convincente. Da tempo volevo fare un film con lui, per cui adesso mi auguro che questo sia il primo di tanti altri. Purtroppo, in Italia si fa una gran fatica a trovare attori sotto i quaranta in grado di fare ruoli da protagonista. Se proviamo a proporre storie di trentenni la prima domanda che ti senti dire è: ma chi lo fa? Il problema dipende anche da registi e produttori perché delle volte abbiamo paura a prenderne di più giovani. D’altra parte fare il protagonista di un film non è facile. Una volta che la generazione dei vari Leo e Giallini, Rossi Stuart e Germano, Favino o Mastandrea, Gassman e Santamaria, e via dicendo, inizierà a invecchiare, sarà difficile sostituirli, perché Borghi e Marinelli non potranno fare tutti i film. Quando si dice che da noi recitano sempre gli stessi attori non si tiene conto che i film in cui hanno recitato interpreti più giovani sono andati piuttosto male al botteghino. E senza incassi, i film semplicemente non si fanno più. Chi finanzia i film vuole almeno recuperare i propri soldi e purtroppo senza interpreti di grido questo succede raramente. Al contrario Edoardo appartiene a una generazione d’attori che ha dimostrato di poter fare dei film di successo. È un grosso problema che il cinema italiano dovrà affrontare nel prossimo futuro.

Leo e Ramazzotti sono due attori che hanno un immaginario molto preciso. Il merito del tuo film è stato quello di diversificarlo all’interno della storia. La via più facile sarebbe stata quella di metterli in scena e lasciar fare a loro.

Con Edoardo era da tempo che volevamo fare un film insieme. Quando gli hanno proposto 30 notti con il mio ex lui ha detto di sì e ragionando su chi fosse stata la persona giusta per dirigerlo tutti hanno fatto il mio nome e così è andata. Edoardo lo conoscevo bene non solo come attore, ma anche come amico. Sapevo che lui avrebbe potuto fare questo personaggio perché è in grado di saper fare qualsiasi personaggio. Con Micaela invece avevamo fatto Ti presento Sofia per cui insieme a Nicoletta l’abbiamo proposta pensando che avesse le caratteristiche giuste per interpretare Terry. Pur non essendo una comica di professione lei ha in sé una leggerezza capace di portarla in maniera naturale su quei registri, un po’ come succedeva a Marilyn Monroe. A Edoardo sono stato io a proporre una certa direzione del personaggio mentre nel caso di Micaela è stata lei a farlo. Quando hai attori così tutto diventa più semplice. A quel punto il tuo compito è diventare un po’ il sistema immunologico del film per evitare di farlo deragliare. In un film così, il mio vero compito diventa quindi quello di immaginare inizialmente il film – con Nicoletta che è quella che poi traduce il brainstorming in idee di scene e scrittura – per poi scegliere le persone giuste per metterlo in scena. Sono poi loro a portarlo avanti. D’altronde io so poco o nulla di fotografia, costumi o scenografie. A me spetta far capire agli attori e al resto della troupe la direzione in cui stiamo andando. E quando questo succede il film difficilmente non funziona. È successo anche quando ho dovuto scegliere gli attori che dovevano impersonare i vari pazienti. Conoscendoli sapevo che avevano la qualità adatta a interpretarli.

Non a caso in questo bilanciamento tra sorriso e pianto, tra dramma e commedia sono proprio i personaggi che ruotano attorno a Terry quelli cui spetta di esorcizzare la malattia con l’eccentricità dei loro comportamenti. In 30 notti con il mio ex riusciamo a sorridere senza per questo ridurre la portata del dramma che vivono queste persone.

Ti ringrazio per averlo detto così bene. Alle tue parole aggiungo solo che noi non volevamo ridere delle disgrazie di queste persone, ma ridere insieme a loro, a cominciare da Terry. Incontrando vari terapeuti e pazienti, Nicoletta ha scoperto che molte persone affette da patologie mentali hanno una sorprendente autoironia, derivata dalla consapevolezza di diventare buffi in certi frangenti, specie ai cosiddetti “normali”. Loro stessi sanno di essere “particolari” e non si vergognano di questo. Ovviamente noi abbiamo scelto un contesto terapeutico in cui si lavora con il dialogo e altre terapie, per fornire ai pazienti gli strumenti per gestire la loro patologia (e non solo dandogli farmaci). La scelta di chi doveva interpretarli è stata decisiva. La decisione è caduta su attori che, pur non essendo comici pure, sapevo essere in grado di capire che cosa significava essere affetti da una malattia mentale. D’altronde che le persone affette da questo tipo di disturbi siano i primi a sdrammatizzare la propria condizione non è una mia scoperta. Succede così anche nel bellissimo documentario di Nicholas Philibert Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile in cui i pazienti di un centro diurno collocato su un battello che naviga sulla Senna scherzano e ridono dimostrando una grande voglia di vivere.

Come altri film anche 30 notti con il mio ex è l’adattamento di un film straniero. Da una parte questo costituisce una fonte di informazioni di cui non si può non tenere conto. Dall’altra è come se avessi a che fare con un’idea originale perché di fatto il pubblico non ha mai visto il modello originale. Che tipo di approccio comporta un progetto del genere?

È una domanda interessante. Questi film nascono dalla volontà della Colorado Film di produrre film a partire da un nucleo narrativo intrigante, che, quando lo racconti, ti fa venire voglia di sapere come va a finire. È il cosiddetto high concept. La maggior parte dei remake che ho diretto proviene da film di origine sudamericana. Da quelle parti, a partire dagli anni 2000, gli americani hanno investito molto, anche perché negli Stati Uniti c’era una larga fetta di popolazione latina. Il problema di questi film è che poi, passando dal concept alla sceneggiatura, perdono di efficacia perché puntano solo sui meccanismi narrativi e poco sui temi e i personaggi. Nel 30 notti argentino, ad esempio, il personaggio di lui non esiste ed è tutto in funzione di lei, che tra l’altro è una straordinaria attrice comica. Questo fa sì che il personaggio maschile, tranne quella di dover ospitare la moglie a casa sua, non abbia una vera motivazione. Di lui non esiste un reale percorso di trasformazione che invece credo sia uno dei punti di forza del nostro approccio. Per noi lo sviluppo dei personaggi in senso realistico è invece fondamentale. In Italia facciamo molta fatica a lavorare sul concept del film, a trovare dei concept forti (a parte Paolo Genovese che invece ne è maestro). Mi è capitato raramente di trovare nelle sceneggiature italiane dei concept originali, forti e popolari come quelli che ho trovato nei film di cui ho fatto il remake.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, aprile 30, 2025

'GUIDA PRATICA PER INSEGNANTI' INTERVISTA CON FRANCOIS CLUZET

François Cluzet è stato l’ospite d’onore della 15esima edizione di France Odeon a Firenze. L’attore francese ha presentato il film nel quale recita, ancora una volta diretto da Thomas Lilti, Guida pratica per gli insegnanti (titolo originale Un métier sérieux). A François Cluzet abbiamo fatto alcune domande sul film, in sala dal 17 aprile grazie a Movies Inspired, sulla sua carriera e sul cinema.

Un métier sérieux è l’ennesima collaborazione con Thomas Lilti. Com’è (stato) lavorare con lui? Soprattutto considerando che ne Il medico di campagna sei il protagonista (o comunque il personaggio più importante), mentre qui sei allo stesso livello degli altri, trattandosi di un film corale.

In questo film ci sono più partner. Ne Il medico di campagna ci siamo io e la coprotagonista, siamo solo due. Qui, invece, siamo sempre 5, 6, 7, 8. Ed è una cosa che io amo molto perché vengo dal teatro dove ci sono tanti partner. Poi penso che sia molto interessante provare a lavorare nel proprio ruolo perché in questo modo i partner ritrovano il ruolo che hanno letto. Si tratta anche di rendere migliore il partner perché così anche il film sarà migliore. Si lavora insieme: se si recita bene è per il bene di tutti. Quindi è anche nell’interesse di ciascuno.

In Un mètier sérieux questo aspetto è ancora più importante perché la scuola è strutturata così.

Esatto. È importante, per esempio, che se ci sono degli attori da sperimentare possono recitare da soli, perché le emozioni nascono nel cuore e arrivano al cuore. Le frasi che si dicono non devono avere un significato, devono semplicemente arrivare al cuore. Se arrivano al cervello, che non è sensibile, non colpiscono allo stesso modo.

Com’è stato il tuo approccio al personaggio di un professore? Considerando anche che hai abbandonato gli studi, ritrovarsi dall’altra parte della classe che effetto ti ha fatto?

Molti attori amano ricorrere al trucco, ai vestiti. Io sono dell’idea che, se la situazione deve far soffrire, non bisogna far finta: è proprio in questo caso che il mestiere dell’attore diventa difficile. Anche perché si può far ridere, parlare, mangiare, ma piangere, senza far finta, è difficile perché non è la verità.

Bisogna prepararsi, non si può fare all’ultimo secondo. Tre mesi prima sai che quel giorno farai quella scena, così ci pensi tutti i giorni e il corpo ti dà quello che gli hai domandato, il cervello obbedisce a quello che gli viene detto. Lo convinci perché deve obbedire, ma devi essere sincero. Bisogna prepararsi come alle olimpiadi.

Non è facile, però, metterlo in pratica e recitare in questo modo.

No, non è facile, ma in realtà noi non recitiamo, diamo vita ai personaggi. Il nostro mestiere non è recitare, ma vivere. C’è una frase che riassume bene il nostro mestiere “gli attori sono quelli che fanno finta di fare finta”.

Infatti il tuo personaggio ha più livelli. Sia come insegnante, sia come collega che come genitore. Sono tre personaggi in uno.

Sì, sono tre situazioni. Ma è così per tutti.

Il mio personaggio dà delle lezioni, incontra i colleghi, e poi torna a casa. Ed è una riflessione sull’insegnamento: i professori sono criticati, dicono che sono sempre in vacanza e non fanno niente, ma in realtà non è vero. Sono poco pagati e fanno un mestiere essenziale (insieme alla sicurezza e alla sanità). In una società moderna dovrebbero essere i più pagati e i più competenti.

Il tuo personaggio è un po’ la vecchia generazione, ma credo che comunque possa essere un aiuto per le nuove generazioni. Anche se sono stanchi di seguire le lezioni in modo tradizionale sono comunque affezionati a quel tipo di insegnamento. Allo stesso modo i colleghi possono trarre consigli dal modo di insegnare. E poi è un personaggio che si rapporta con due diverse tipologie di generazioni: quella degli alunni e quella del figlio. Anche se hanno più o meno la stessa età e le stesse dinamiche, gli alunni devono sempre passare sotto le grinfie del professore, il figlio invece, anche se sbaglia, è comunque il figlio e quindi non si può a prescindere dirgli che ha torto.

Perché è tutto legato alla sua funzione. Il professore ha qualcosa da dare ai suoi alunni: l’istruzione in un confine ben preciso, cerca di trasmettere un sapere millenario che non è il suo, ma della pedagogia e dell’istruzione.

Con il figlio c’è sempre qualcosa da prendere. Il regista insiste sul fatto che delle volte i professori vogliono che i loro figli scelgano un mestiere importante. Per esempio il regista ha veramente un padre medico e quando gli ha chiesto cosa volesse fare da grande lui ha risposto che voleva fare il cinema. La risposta del padre è stata negativa, gli ha detto che doveva fare un mestiere serio e lui ha capito subito che questo voleva dire fare il medico e ha fatto medicina. Ma appena ha preso il diploma ha realizzato il suo primo lungometraggio.

Con il covid è tornato in ospedale per aiutare, ma poi è tornato a fare il regista.

Da qui l’idea del titolo Un métier sérieux.

Parlando, invece, più in generale della tua carriera, sicuramente si può usare la parola versatilità per descriverti. Si possono citare, per esempio, due titoli emblematici: Quasi amici e L’inferno.

Per Quasi amici diciamo che non c’erano grandi cose da fare sul set. Ero praticamente lo spettatore di Omar Sy che incoraggiavo a fare sempre di più perché lui recitava anche per me. Al posto mio doveva esserci Daniel Auteuil che ha rifiutato probabilmente perché pensava che fare questo film avrebbe significato semplicemente dare le battute a Omar Sy che, in effetti, è quello che succede, ma io ero a un punto della mia carriera dove ero abbastanza famoso e mi potevo permettere di essere altruista e fare un film generoso. Mi sono detto “voglio lavorare per Omar. Il mio lavoro era valorizzare Omar”.

Per quanto riguarda L’inferno Chabrol ha reso il film (che inizialmente doveva fare un altro) più lineare e più semplice. Ha fatto valere la frase “Non ci sono grandi attori, ci sono grandi ruoli”.

Un altro aspetto importante è il fatto che nei tuoi film sono sempre stati trattati temi importanti, dalla disabilità all’antisemitismo.

Vorrei citare, a tal proposito, Bergmann che diceva “non dimentichiamo che facciamo un lavoro di divertimento” e in effetti se la storia che raccontiamo e interpretiamo per un’ora e mezzo o quello che è funziona non si pensa a nient’altro. Ma divertire non significa far ridere.

Spesso nel cinema si parte da un soggetto sociale che viene poi sviluppato.

Cosa ti ha avvicinato alla recitazione?

Probabilmente la mancanza di affetto. Mi sono resa conto che a 13 anni quando cantavo le sorelline di alcuni miei amici mi guardavano con una sorta di venerazione e io ho pensato che volevo fare quello nella vita.

Poi a 20 anni avevo un fisico moderno che mi ha aiutato molto, ma è qualcosa che mi hanno dato i miei genitori, non qualcosa che mi sono guadagnato. Mi ha aiutato a diventare quello che sono, ma non è qualcosa che mi sono guadagnato.


Veronica Ranocchi

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, aprile 29, 2025

'LA GAZZA LADRA' CONVERSAZIONE CON ROBERT GUEDIGUIAN

 Al cinema dal 17 aprile con Officine Ubu La gazza ladra, il nuovo film di Robert Guédiguian, presentato alla Festa del cinema di Roma 2024.

In occasione dell’uscita al cinema de La gazza ladra abbiamo conversato con il regista Robert Guédiguian.

Il negozio di strumenti musicali da cui il film prende il titolo è quello dove si svolge il tentativo di furto nella scena d’apertura. È una scena che ha un forte valore simbolico perché nel mostrare il fallimento dell’atto criminale stabilisce un paragone tra l’azione dei ladri e i furti commessi da Maria. Con questo sottolineando una differenza sostanziale perché la donna è spinta dalla necessità e dall’amore e non dalla volontà di arricchirsi.

Proprio così. La Gazza Ladra si apre mostrando un’azione criminosa commessa per ottenere soldi e quindi potere. Lo definirei un furto capitalista. Penso che molti delinquenti oggi, in particolare i nuovi trafficanti di droghe, hanno la stessa ispirazione dei predatori capitalisti del XIX secolo. Non hanno nessuna morale, non hanno nessun rapporto con il concetto di furto che esisteva una volta, e cioè di condividere tra più persone i soldi che la società non è disposta a mettere a disposizione. Un po’ come faceva Robin Hood che come sapete non è mai esistito ma che comunque è un simbolo molto forte del banditismo sociale.

Quando una società non permette a un ragazzino di imparare a suonare il piano così come a Maria di godere dei piccoli piaceri della vita, come può essere ascoltare un po’ di musica di Rubinstein, il furto diventa un’opposizione etica. Maria ruba per amore, per permettere al nipote di suonare quella musica al posto suo. Un po’ come faccio io con il cinema che ho intrapreso per parlare al posto di mio padre. Lui non aveva diritto di parlare ma è grazie a lui che ho imparato a esprimere concetti, quindi adesso parlo per lui.

Ma c’è di più perché quando Maria dice che un giorno suo nipote suonerà la musica che lei ha sempre sognato esprime un piacere di vivere che non deriva dall’acquisizione dei beni, dal potere d’acquisto, dagli aumenti del salario, ma dalla possibilità di ascoltare musica, di leggere libri, di praticare sport, ovvero di godere di attività culturali in un mondo in cui invece le attività culturali sono considerate secondarie non degne di rivendicazione, di lotta e di combattimento.

Nel mio film la musica rivendica il proprio piacere, perché vivere non vuol dire sopravvivere, ma godere di quello che ci ha dato la terra. In tal senso La gazza ladra è un film sui desideri.

Rispetto ai concetti appena espressi i versi della poesia di Victor Hugo, Povera Gente, recitati dal personaggio di Jean Pierre Darroussin rappresentano la chiusura del cerchio.

Sì, sì, ovviamente.

Attraverso le parole di Hugo il film ci dice che non c’è bisogno di processi né di polizia, ma solo di solidarietà. Una predisposizione che siamo invitati a fare nostra nei rapporti con il prossimo.

Questo è molto vero. Sulla questione mi ha influenzato molto il discorso di Pier Paolo Pasolini sul genocidio culturale in cui parlava di come quella parte di società dimenticata dalle istituzioni trovasse comunque la maniera per vivere in maniera felice. Mi pare che oggi succeda la stessa cosa e cioè che la vita vera sia lontana dalle istituzioni e invece presente laddove le persone regolano tra di loro la spartizione dei beni. Maria fa attenzione che le persone derubate non siano danneggiate dalla sua azione consapevole che qualche euro in meno non li rende meno felici. Vorrei dire che lei è una ladra molto onesta. Lavora giorno e notte anche senza essere pagata ed è per questo che le persone di cui si occupa la amano a spada tratta.

Poi è vero che il film si ricollega a Victor Hugo. Ne I Miserabili c’è una scena molto simile a quella in cui Jean Pierre Daroussin si reca al commissariato per scagionare Maria da ogni colpa. Mi riferisco a quando Jean Valjean ruba dei candelieri al prete che lo ha ospitato. Quando arriva la polizia quest’ultimo invece di denunciarlo dice: “lui non mi ha rubato nulla. Sono stato io a regalargli tutto e anzi, mi sono dimenticato di dargli altro”. A proposito di questo sempre Hugo ha scritto un testo sulla lotta di classe in cui metteva in guardia le persone povere a non avere fiducia dei borghesi, ma di trovare sempre il modo di cavarsela da soli. Hugo diceva che i borghesi non avrebbero mai condiviso niente e in effetti è così perché non esiste un capitalismo filantropico. La ricchezza crede solo in se stessa.

La solidarietà tra gli uomini sta alla base della spiritualità che pervade i tuoi film. La tua è una religione senza preti né chiese perché il bene come concetto metafisico è sostituito dalla predisposizione morale delle persone ad agire concretamente a favore degli altri.

Sì, questo è un aspetto che c’è da sempre e che cerco di esprimere in maniera sobria da almeno venticinque anni. Penso che il cinema non debba mostrare sole le cose che non vanno. Far vedere a qualcuno che soffre quanto sia triste la sua condizione mi annoia profondamente. Al contrario mi interessa mostrare l’aspetto più eroico della povera gente. Per me è una vera e propria missione e un segno di rispetto verso i miei pari che erano e sono persone straordinarie, uomini e donne di grande nobiltà d’animo.

Sullo schermo nero mentre scorrono i titoli di testa si sentono i rumori della città. Questa soluzione sembra quasi il manifesto del film perché in effetti La Gazza Ladra è girato quasi tutto all’aperto: per le strade e nei giardini delle case del quartiere Eustache in cui hai ambientato la maggior parte dei tuoi lungometraggi.

Sì, perché credo che nel quartiere dove sono nato e cresciuto le persone povere dalle loro case hanno sempre potuto godere di viste magnifiche. Nel sud della Francia fa caldo per cui si sta molto all’aperto. Ogni abitazione ha un balcone o delle piccole terrazze con piante e fiori. E in fondo c’è il mare che in maniera metaforica rappresenta lo schermo in cui proiettare tutti i sogni del mondo. Abitare in un luogo dove la bellezza esiste per davvero è una grande opportunità. Lo dico da persona che da tempo abita a Parigi, città dove alla pari delle altre grandi metropoli l’architettura ha smesso di organizzare gli spazi avendo in mente armonia e bellezza. Il sole e le vedute presenti nel mio cinema rendono la vita povera molto più bella.

Per i tuoi personaggi la strada e la vita di quartiere per come la riprendi, sempre colorata e vivace, costituisce una sorta di rivincita rispetto alla precarietà della condizione umana. La vitalità che emana permette loro di superare le difficoltà della vita.

Sì, sì, la ritengo una cosa possibile. D’altronde penso che la più grande miseria nel mondo occidentale sia quella di rifarsi ai desideri degli altri. Di perseguire un modello di vita borghese che non ci appartiene. Se restiamo sui nostri valori le cose vanno molto meglio.

In questo senso per i tuoi personaggi, e forse anche per te, Marsiglia è come l’Algeria per Albert Camus. Il mare, il sole, la vita di quei luoghi sono quelli che vi fanno sentire ancora vivi. Nonostante tutto.

Sì, questa è una cosa in cui credo nel profondo. C’è una bellissima frase in cui Camus dice che dentro di lui c’è un sole implacabile. Che qualsiasi cosa succeda il sole, inteso metaforicamente come luce, sarà sempre presente e questa è una consapevolezza capace di dare grande conforto.

Se la condizione sociale è anche qui come negli altri film la premessa da cui parte la storia a fare da discriminante ne La gazza ladra sono i sentimenti dei personaggi più che il loro posizionamento rispetto a una determinata causa.

È così perché anche qui credo che bisogna parlare della possibilità dell’amore e del desiderio. Nei giovani questi sentimenti agiscono in maniera più immediata come accade alla figlia di Maria che si innamora del figlio della persona derubata dalla madre. In questo senso il desiderio diventa un elemento di resistenza rivoluzionaria. Penso che nella nostra vita a contare non sia solo il sociale, ma anche aspetti più intimi come amore e desiderio.

Sei d’accordo nel definire La Gazza Ladra un film d’amore? Nel film questo sentimento è declinato in tutte le sue accezioni: da quello sensuale a quello platonico, da quello letterario a quello famigliare. Ne fai il vero elemento di uguaglianza tra le persone.

Sì, è vero. È molto vero. Questo è quello che ho detto prima. Penso che uno dei desideri più grandi sia quello di raccontare le storie più potenti possibile. E per questo bisogna abbracciare tutte le linee della nostra vita. Di queste fanno parte il conflitto, l’adesione, l’amore, la lotta di classe, ma anche l’amore materno, la passione, l’incontro con l’altro. Tutto questo fa parte della nostra vita. Per raccontare le storie più forti bisogna cercare quelle più ricche di emozioni e di possibilità.

Il film traduce la tua poetica con una prosa filmica semplice ed essenziale, capace di portare a galla la vita senza alcuna manipolazione o artificio. L’adesione artistica al soggetto che racconti mi pare una sorta di manifesto politico della tua arte. È così?

Sì, sono d’accordo con te. Faccio un cinema di adesione che spero possa far sentire a casa lo spettatore. Questo succede quando le persone pensano che i personaggi sono come loro, quando si accorgono che le persone sullo schermo sono uguali a quelle che incontrano per strada. Per fare questo non c’è bisogno di alcun effetto artificiale. Basta rimanere a una certa distanza e poi amare i personaggi che si filmano. Se ci pensi nel mio cinema di rado ci sono personaggi cattivi. Il male è sempre in campo, ma nei miei film i personaggi sono più o meno amabili ma mai davvero negativi.

A proposito dei personaggi, penso che la magia del cinema nei tuoi film sta anche nel vedere gli stessi attori interpretare personaggi diversi. Quello che in altri film rischia di essere una ripetizione per te diventa un valore aggiunto.

In realtà è un effetto che non avevo calcolato. Non l’ho deciso in maniera teorica. È venuto da solo. Inizialmente è stata una forma di resistenza: visto che nessuno voleva fare i miei film, ci siamo dati da fare per realizzarli per conto nostro, dunque abbiamo iniziato a lavorare insieme perché non avevamo i soldi. Ci impegnavamo durante le vacanze senza essere pagati, realizzando film fuori dal sistema. A un certo punto i nostri lavori hanno cominciato a funzionare per cui abbiamo avuto maggiori finanziamenti e supporti internazionali. Con il tempo questo modo di lavorare è diventato una sorta di metodo.

Quando mi chiedono che tipo di film faccio dico sempre che sono quelli di Jean Pierre Daroussin, Gerard Meylan e Ariane Ascaride. Se vedete questi tre attori tutti insieme vuol dire che si tratta di un lungometraggio diretto da me. La nostra collaborazione dipende anche dall’aspetto generazionale che è molto importante perché oltre ad avere la stessa età siamo tutti figli di lavoratori, siamo comunisti e nel corso degli anni non abbiamo mai cambiato il nostro credo. Siamo così uniti che tutto quello che ti ho detto durante l’intervista lo avrebbero potuto dire anche loro usando le stesse parole.

Hai fatto di Ariane Ascaride, Jean Pierre Darroussin e Gerard Meylan le icone del tuo cinema. Si può dire che per te siano degli autori aggiunti e cioè che in qualche modo contribuiscano a costruire le tue storie con la loro vita e non solo con la loro arte?

Esattamente, soprattutto con la loro vita, perché dal punto di vista dell’arte, cioè della maniera in cui si lavora, lo facciamo in modo molto classico con me che scrivo, loro che recitano e così via. È vero poi che stando sempre insieme ogni cosa che succede nella vita personale diventa materia da cinema. Siamo una compagnia di cui io sono una sorta di capo comico nella maniera in cui lo era Molière che nonostante fosse sposato ha continuato a frequentare i suoi amici mettendo le loro esperienze dentro le sue storie. In questo senso più che un autore sono il coautore dei miei film perché io rappresento il portavoce del gruppo.

C’è un momento in cui dal dettaglio del pesce che sta friggendo sulla padella si passa al primo piano del personaggio di Darroussin che si volta verso quello accennando un sorriso. In quel breve passaggio siamo quasi in grado di sentire l’odore del cibo. Questo per dire di come la verità delle interpretazioni sia capace di farci sentire il profumo della vita.

Ciò che succede quando scrivo per loro succede anche quando gli attori stanno con me o tra di loro. Sono attori che lavorano ovunque, nel cinema come nel teatro, ma è vero che quando stiamo insieme non è la stessa cosa. Non voglio dire che sono più o meno bravi però succede qualcosa di diverso. In generale sono attori molto buoni, ma quando lavoriamo insieme sono presi dalla voglia di raccontare le loro storie, quelle dei loro padri o delle persone che hanno conosciuto. Lo fanno con una spontaneità e una giustezza che li rende diversi. Non migliori ma diversi. Io stesso quando li dirigo sono più veloce e più partecipe perché sembra che il testo non esista più. Loro recitano senza prepararsi e senza ripetersi mai. Arianne per esempio dice una frase presente nel testo senza però sapere come reagiranno gli altri. Funziona così da sempre perché ci troviamo bene così.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, febbraio 27, 2025

IL SEME DEL FICO SACRO

Il seme del fico sacro

di Mohammad Rasoulof

con Misagh Zare, Soheila Golestani, Mahsa Rostami, Setareh Maleki

Iran, Germania, Francia, 2024

genere: drammatico

durata: 168’

Indubbiamente attuale nella sua potenza e potente nella sua attualità. Il seme del fico sacro, ultima fatica del regista Mohammad Rasoulof, realizzato senza il benestare del governo iraniano, arriva nelle sale per cercare di insidiare gli altri candidati alla corsa al miglior film internazionale agli imminenti Oscar.

Fin da subito carico di tensione, il lungometraggio, seguendo una famiglia composta da padre, madre e due figlie adolescenti, ha fin da subito il compito non semplice di far comprendere allo spettatore la situazione attuale nella quale versa l’Iran.

Subito dopo la definizione necessaria a comprendere la potenza del film, che spiega cosa sia il fico sacro e come cresca stritolando chi lo circonda, la prima immagine è quella di sette proiettili che vengono posti su un tavolo, a indicare la ferocia e la crudeltà alla quale assisteremo in quanto spettatori inermi. Anche la mano subito a seguire, appartenente al protagonista a noi ancora sconosciuto, che, non fidandosi, utilizza una propria penna per firmare, sembra essere il presagio di quello che si svilupperà nel corso della vicenda.

            La famiglia deve sempre rimanere la vostra priorità.

Sottolinea, quasi ossessivamente, la madre alle figlie che sembrano voler uscire dai binari ben delimitati dello Stato e della dottrina di quest’ultimo.

Perché al centro della storia c’è Iman e la sua famiglia. Lui, apparentemente un uomo comune, ha da poco ottenuto un’importante promozione a lavoro: adesso è un giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran nel momento in cui questa istituzione si trova costretta a respingere una pesante ondata di proteste popolari, soprattutto a seguito della morte di Mahsa Amini (ed è qui che realtà e finzione vanno a congiungersi). Ad aspettare Iman a casa ci sono le due figlie, Rezvan e Sana, entrambe studentesse e sostenitrici delle proteste, e la moglie Najmeh, che, invece, cerca di fungere da trait d’union tra le due fazioni. L’apparente equilibrio casalingo viene, però, irrimediabilmente distrutto nel momento in cui la pistola d’ordinanza di Iman, concessagli, così come a tutti gli altri giudici istruttori, per difendersi in caso di problemi, scompare.

Un percorso lineare quello che porta Iman a trasformarsi completamente da vittima a carnefice di un sistema che sta troppo stretto a tutti. Percorso che lo porta a omologarsi a una società rotta dall’interno trasformandolo nell’ennesima marionetta esemplificata dai cartonati che occupano il corridoio del tribunale nel quale si reca tutti i giorni. Inizialmente delle piccole ombre che si intravedono nel buio di un percorso a ostacoli che lo porterà a compiere scelte tutt’altro che semplici, poi le stesse si trasformano in statue imponenti, quasi con sembianze umane, che lo catturano all’interno di una realtà nella quale si ribaltano tutte le certezze.

            Tu non lo saprai mai. Ci sei dentro, ci credi troppo.

Le parole delle giovani, eppure ben più consapevoli, Rezvan e Sana, suonano come rimproveri agli occhi dei genitori, ma sono la fotografia reale e perfetta di un paese (e un uomo) in balia di se stesso. Completamente assuefatto dal nuovo incarico, Iman non riesce più a distinguere la realtà dalla finzione, il giusto dallo sbagliato. Se all’inizio prova a interrogarsi e mettersi nei panni di persone che, con una sua semplice firma, sono condannati a morte, col passare del tempo tutto diventa normale, un meccanismo automatico e automatizzato che non gli permette più di aprire gli occhi e vedere realmente quello che lo circonda (situazione che verrà messa in pratica concretamente a discapito delle reali vittime del sistema). Convincendosi di vivere nel giusto e che le proteste siano nate da episodi assurdi, cerca di ricreare ciò che gli viene imposto a lavoro all’interno della propria casa e della propria famiglia, mettendo a dura prova sia le figlie che, col tempo, anche la moglie. Diventano, infatti, inutili i tentativi di quest’ultima di arginare le sue manie e di cercare sempre un compromesso tra il marito e le figlie. Comportandosi, apparentemente, allo stesso modo con entrambe le parti, Najmeh cerca di mantenere un equilibrio, reso cinematograficamente in maniera efficace da due scene diametralmente opposte, ma raffigurate come se fossero identiche perché la sua volontà in quei momenti sembra essere la medesima: quando si prende cura della giovane amica di Rezvan, colpita e ferita gravemente al volto durante delle proteste in università, e quando taglia i capelli e fa la barba al marito. Entrambi sfocati, entrambi senza parole, ma con la musica come accompagnamento ed entrambi con la figura della madre di famiglia come unica possibilità di trovare un compromesso tra il bene e il male.

Allo stesso modo ci sono tanti altri parallelismi, dalla cecità metaforica del padre a quella reale di alcuni personaggi (l’amica sfregiata, ma anche le altre protagoniste costrette a un interrogatorio crudele e violento nel suo silenzio e nella sua modalità), dalla pistola, simbolo di costrizione e motivo scatenante di dissapori e disaccordi, che fa da contraltare a una libertà tanto agognata e bramata da poter essere solo sfiorata, come lo smalto sulle unghie o il sogno dei capelli azzurri.

Con un’ultima parte molto più concitata e a tinte quasi da thriller, Il seme del fico sacro si trasforma completamente e diventa esso stesso un mezzo per lottare. Perché è vero che la vittima si trasforma in carnefice e ci mostra il lato negativo di un’esistenza votata a una certa causa, ma lo stesso carnefice si ritrova ingabbiato in qualcosa di più grande di lui. Non è un caso che Rasoulof inquadri quasi sempre Iman attraverso degli ostacoli posti tra lui e il pubblico, siano essi sbarre, vetri, finestrini o altro ancora, a differenza delle figlie che, seppur circoscritte all’interno delle mura di casa, private dei contatti con l’esterno, ridotti a delle comunicazioni telegrafiche tramite social media, sono molto più libere e centrali, tanto da riuscire a sostenere a distanza le proteste del paese.

Una grande matrioska destinata, forse, a rimpicciolirsi (e stringersi) sempre di più.


Veronica Ranocchi 

domenica, gennaio 19, 2025

OH, CANADA - I TRADIMENTI

Oh, Canada - I tradimenti

di Paul Schrader

con Richard Gere, Uma Thurman, Jacob Elordi

USA, 2024

genere: drammatico

durata: 91’

Una storia che raccoglie più storie al suo interno. Il nuovo film di Paul Schrader, Oh Canada, sembra dirci proprio questo grazie anche a due protagonisti che si alternano per dar vita allo stesso personaggio.

Come da sempre ci ha abituati, lo sceneggiatore, tra i tanti, di Taxi Driver, impregna la sua opera di dialoghi che iniziano fin dalla prima scena nella quale vediamo già la fine della storia, spiegata e anticipata da una voce fuoricampo che continua poi ad accompagnarci per tutto il tempo del film.

La storia è apparentemente molto semplice: Leonard Fife (interpretato da un Richard Gere a tratti invecchiatissimo, sul letto di morte, a tratti molto più giovane, ma anche da Jacob Elordi per la sua versione da adolescente e giovane adulto) è un ex documentarista che viene invitato a raccontare la propria vita e le proprie esperienze lavorative e non davanti a una troupe di giovani che vogliono documentare il modus operandi di quello che loro definiscono un modello da seguire. L’unico obbligo che l’uomo impone è quello di avere sempre accanto la moglie Emma (Uma Thurman) come se si trattasse di una confessione.

    Ne ho fatto una carriera tirando fuori la libertà agli altri.

Con questa frase Leonard tenta di dare un senso ai suoi ricordi confusi, offuscati, talvolta falsi o errati. Perché molto spesso quello che vediamo noi spettatori, insieme alla moglie e agli intervistatori, è qualcosa di non ben definito. L’intento di Schrader è quello di raccontare un passato vissuto, ma anche un passato sperato e bramato, provando a plasmare ciò che è stato. Arrivato a un’età tale da non consentire voli iperbolici nel futuro, quello che resta, al regista e al suo personaggio, è ancorarsi a un passato denso di accadimenti e trasformarlo in qualcosa di diverso. Quello che ci troviamo di fronte, quindi, è una ricostruzione non del tutto autentica, che mescola realtà e finzione e che, quindi, porta a confondere non solo il pubblico, ma anche lo stesso Leonard che non riesce nemmeno a confutare la tesi della moglie o degli altri.

    Quando non hai più un futuro ti resta solo il passato.

In realtà la confusione che aleggia durante tutta la narrazione, sia quella del presente, sia la ricostruzione del passato, è una confusione dettata dal fatto che tutto quello che vediamo, sentiamo o ascoltiamo non è quello che sembra. Perché Leonard sceglie di fuggire oltre il confine canadese per evitare la leva negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam? C’è forse qualcosa che non ha mai raccontato, né alla moglie, né a nessun altro e che, in qualche modo, ha voluto tenere nascosto anche a sé?

Al di là della (ri)costruzione della sua vita passata, a essere assente in Oh, Canada è anche un legame diretto tra i due interpreti di Leonard Fife. Da una parte abbiamo Richard Gere e dall’altra Jacob Elordi. Se il primo è l’uomo che cerca di tenere le redini dei suoi ricordi e delle sue avventure, il secondo è quello che li interpreta, giusti o sbagliati che siano. E si tratta di due fisicità e di due approcci alla vita e al mondo molto diversi e anche distanti. Probabilmente scelti proprio per differenziare la visione che lo stesso Leonard ha della vita, o almeno della visione che vuole avere di tutto ciò che lo circonda (non a caso, infatti, in alcune sequenze Schrader opta per una versione cinquantenne di Richard Gere senza chiamare in causa il giovane Elordi).

Schrader fa un’operazione che ha, quasi, il sapore di un saluto con un film dentro il film e tutto ciò che ne deriva. Anche perché tutto inizia proprio con la preparazione della location e della videocamera che andrà a immortalare l’ultima intervista del regista. Tutto in maniera pulita, con ogni gesto accompagnato dalla musica e dai titoli di testa fino al primo potente primo piano del protagonista, come a volerlo incorniciare al centro della scena, a prescindere da tutto e da tutti. È di lui che si parlerà, è lui che parlerà, è lui che sarà il filo conduttore della narrazione, sia essa a colori o in bianco e nero. È lui che dovrà mettersi a nudo davanti allo schermo, raccontando e raccontandosi.

Se anche Leonard, come tanti personaggi del regista sceneggiatore, nasconde malessere e contraddizioni, il suo corrispettivo diventa il film stesso, Oh, Canada, che gli permette di dimostrare, ancora una volta, come il cinema sia in realtà uno strumento ambiguo, soggettivo e spesso privo di una verità assoluta e universale.


Veronica Ranocchi