Al cinema dal 17 aprile
con Officine Ubu La gazza ladra, il nuovo film di Robert Guédiguian,
presentato alla Festa del cinema di Roma 2024.
In occasione dell’uscita
al cinema de La gazza ladra abbiamo conversato con il regista Robert
Guédiguian.
Il negozio di strumenti
musicali da cui il film prende il titolo è quello dove si svolge il tentativo
di furto nella scena d’apertura. È una scena che ha un forte valore simbolico
perché nel mostrare il fallimento dell’atto criminale stabilisce un paragone
tra l’azione dei ladri e i furti commessi da Maria. Con questo sottolineando
una differenza sostanziale perché la donna è spinta dalla necessità e
dall’amore e non dalla volontà di arricchirsi.
Proprio così. La
Gazza Ladra si apre mostrando un’azione criminosa commessa per ottenere
soldi e quindi potere. Lo definirei un furto capitalista. Penso che molti
delinquenti oggi, in particolare i nuovi trafficanti di droghe, hanno la stessa
ispirazione dei predatori capitalisti del XIX secolo. Non hanno nessuna morale,
non hanno nessun rapporto con il concetto di furto che esisteva una volta, e
cioè di condividere tra più persone i soldi che la società non è disposta a
mettere a disposizione. Un po’ come faceva Robin Hood che come sapete non è mai
esistito ma che comunque è un simbolo molto forte del banditismo sociale.
Quando una società non
permette a un ragazzino di imparare a suonare il piano così come a Maria
di godere dei piccoli piaceri della vita, come può essere ascoltare un po’ di
musica di Rubinstein, il furto diventa un’opposizione etica. Maria ruba
per amore, per permettere al nipote di suonare quella musica al posto suo. Un
po’ come faccio io con il cinema che ho intrapreso per parlare al posto di mio
padre. Lui non aveva diritto di parlare ma è grazie a lui che ho imparato a
esprimere concetti, quindi adesso parlo per lui.
Ma c’è di più perché
quando Maria dice che un giorno suo nipote suonerà la musica che lei ha
sempre sognato esprime un piacere di vivere che non deriva dall’acquisizione
dei beni, dal potere d’acquisto, dagli aumenti del salario, ma dalla
possibilità di ascoltare musica, di leggere libri, di praticare sport, ovvero
di godere di attività culturali in un mondo in cui invece le attività culturali
sono considerate secondarie non degne di rivendicazione, di lotta e di
combattimento.
Nel mio film la musica
rivendica il proprio piacere, perché vivere non vuol dire sopravvivere, ma
godere di quello che ci ha dato la terra. In tal senso La gazza ladra è un film
sui desideri.
Rispetto ai concetti
appena espressi i versi della poesia di Victor Hugo, Povera Gente, recitati dal
personaggio di Jean Pierre Darroussin rappresentano la chiusura del cerchio.
Sì, sì, ovviamente.
Attraverso le parole di
Hugo il film ci dice che non c’è bisogno di processi né di polizia, ma solo di
solidarietà. Una predisposizione che siamo invitati a fare nostra nei rapporti
con il prossimo.
Questo è molto vero.
Sulla questione mi ha influenzato molto il discorso di Pier Paolo Pasolini
sul genocidio culturale in cui parlava di come quella parte di società
dimenticata dalle istituzioni trovasse comunque la maniera per vivere in
maniera felice. Mi pare che oggi succeda la stessa cosa e cioè che la vita vera
sia lontana dalle istituzioni e invece presente laddove le persone regolano tra
di loro la spartizione dei beni. Maria fa attenzione che le persone
derubate non siano danneggiate dalla sua azione consapevole che qualche euro in
meno non li rende meno felici. Vorrei dire che lei è una ladra molto onesta.
Lavora giorno e notte anche senza essere pagata ed è per questo che le persone
di cui si occupa la amano a spada tratta.
Poi è vero che il film si
ricollega a Victor Hugo. Ne I Miserabili c’è una scena
molto simile a quella in cui Jean Pierre Daroussin si reca al
commissariato per scagionare Maria da ogni colpa. Mi riferisco a quando Jean
Valjean ruba dei candelieri al prete che lo ha ospitato. Quando arriva
la polizia quest’ultimo invece di denunciarlo dice: “lui non mi ha rubato
nulla. Sono stato io a regalargli tutto e anzi, mi sono dimenticato di dargli
altro”. A proposito di questo sempre Hugo ha scritto un testo sulla
lotta di classe in cui metteva in guardia le persone povere a non avere fiducia
dei borghesi, ma di trovare sempre il modo di cavarsela da soli. Hugo
diceva che i borghesi non avrebbero mai condiviso niente e in effetti è così
perché non esiste un capitalismo filantropico. La ricchezza crede solo in se
stessa.
La solidarietà tra gli
uomini sta alla base della spiritualità che pervade i tuoi film. La tua è una
religione senza preti né chiese perché il bene come concetto metafisico è
sostituito dalla predisposizione morale delle persone ad agire concretamente a favore
degli altri.
Sì, questo è un aspetto
che c’è da sempre e che cerco di esprimere in maniera sobria da almeno
venticinque anni. Penso che il cinema non debba mostrare sole le cose che non
vanno. Far vedere a qualcuno che soffre quanto sia triste la sua condizione mi
annoia profondamente. Al contrario mi interessa mostrare l’aspetto più eroico
della povera gente. Per me è una vera e propria missione e un segno di rispetto
verso i miei pari che erano e sono persone straordinarie, uomini e donne di
grande nobiltà d’animo.
Sullo schermo nero mentre
scorrono i titoli di testa si sentono i rumori della città. Questa soluzione
sembra quasi il manifesto del film perché in effetti La Gazza Ladra è
girato quasi tutto all’aperto: per le strade e nei giardini delle case del
quartiere Eustache in cui hai ambientato la maggior parte dei tuoi
lungometraggi.
Sì, perché credo che nel
quartiere dove sono nato e cresciuto le persone povere dalle loro case hanno
sempre potuto godere di viste magnifiche. Nel sud della Francia fa caldo per
cui si sta molto all’aperto. Ogni abitazione ha un balcone o delle piccole terrazze
con piante e fiori. E in fondo c’è il mare che in maniera metaforica
rappresenta lo schermo in cui proiettare tutti i sogni del mondo. Abitare in un
luogo dove la bellezza esiste per davvero è una grande opportunità. Lo dico da
persona che da tempo abita a Parigi, città dove alla pari delle altre grandi
metropoli l’architettura ha smesso di organizzare gli spazi avendo in mente
armonia e bellezza. Il sole e le vedute presenti nel mio cinema rendono la vita
povera molto più bella.
Per i tuoi personaggi la
strada e la vita di quartiere per come la riprendi, sempre colorata e vivace,
costituisce una sorta di rivincita rispetto alla precarietà della condizione
umana. La vitalità che emana permette loro di superare le difficoltà della
vita.
Sì, sì, la ritengo una
cosa possibile. D’altronde penso che la più grande miseria nel mondo
occidentale sia quella di rifarsi ai desideri degli altri. Di perseguire un
modello di vita borghese che non ci appartiene. Se restiamo sui nostri valori
le cose vanno molto meglio.
In questo senso per i
tuoi personaggi, e forse anche per te, Marsiglia è come l’Algeria per Albert
Camus. Il mare, il sole, la vita di quei luoghi sono quelli che vi fanno
sentire ancora vivi. Nonostante tutto.
Sì, questa è una cosa in
cui credo nel profondo. C’è una bellissima frase in cui Camus dice che dentro
di lui c’è un sole implacabile. Che qualsiasi cosa succeda il sole, inteso
metaforicamente come luce, sarà sempre presente e questa è una consapevolezza
capace di dare grande conforto.
Se la condizione sociale
è anche qui come negli altri film la premessa da cui parte la storia a fare da
discriminante ne La gazza ladra sono i sentimenti dei personaggi più che
il loro posizionamento rispetto a una determinata causa.
È così perché anche qui
credo che bisogna parlare della possibilità dell’amore e del desiderio. Nei
giovani questi sentimenti agiscono in maniera più immediata come accade alla
figlia di Maria che si innamora del figlio della persona derubata dalla
madre. In questo senso il desiderio diventa un elemento di resistenza
rivoluzionaria. Penso che nella nostra vita a contare non sia solo il sociale,
ma anche aspetti più intimi come amore e desiderio.
Sei d’accordo nel
definire La Gazza Ladra un film d’amore? Nel film questo sentimento è
declinato in tutte le sue accezioni: da quello sensuale a quello platonico, da
quello letterario a quello famigliare. Ne fai il vero elemento di uguaglianza
tra le persone.
Sì, è vero. È molto vero.
Questo è quello che ho detto prima. Penso che uno dei desideri più grandi sia
quello di raccontare le storie più potenti possibile. E per questo bisogna
abbracciare tutte le linee della nostra vita. Di queste fanno parte il conflitto,
l’adesione, l’amore, la lotta di classe, ma anche l’amore materno, la passione,
l’incontro con l’altro. Tutto questo fa parte della nostra vita. Per raccontare
le storie più forti bisogna cercare quelle più ricche di emozioni e di
possibilità.
Il film traduce la tua
poetica con una prosa filmica semplice ed essenziale, capace di portare a galla
la vita senza alcuna manipolazione o artificio. L’adesione artistica al
soggetto che racconti mi pare una sorta di manifesto politico della tua arte. È
così?
Sì, sono d’accordo con
te. Faccio un cinema di adesione che spero possa far sentire a casa lo
spettatore. Questo succede quando le persone pensano che i personaggi sono come
loro, quando si accorgono che le persone sullo schermo sono uguali a quelle che
incontrano per strada. Per fare questo non c’è bisogno di alcun effetto
artificiale. Basta rimanere a una certa distanza e poi amare i personaggi che
si filmano. Se ci pensi nel mio cinema di rado ci sono personaggi cattivi. Il
male è sempre in campo, ma nei miei film i personaggi sono più o meno amabili
ma mai davvero negativi.
A proposito dei
personaggi, penso che la magia del cinema nei tuoi film sta anche nel vedere
gli stessi attori interpretare personaggi diversi. Quello che in altri film
rischia di essere una ripetizione per te diventa un valore aggiunto.
In realtà è un effetto
che non avevo calcolato. Non l’ho deciso in maniera teorica. È venuto da solo.
Inizialmente è stata una forma di resistenza: visto che nessuno voleva fare i
miei film, ci siamo dati da fare per realizzarli per conto nostro, dunque abbiamo
iniziato a lavorare insieme perché non avevamo i soldi. Ci impegnavamo durante
le vacanze senza essere pagati, realizzando film fuori dal sistema. A un certo
punto i nostri lavori hanno cominciato a funzionare per cui abbiamo avuto
maggiori finanziamenti e supporti internazionali. Con il tempo questo modo di
lavorare è diventato una sorta di metodo.
Quando mi chiedono che
tipo di film faccio dico sempre che sono quelli di Jean Pierre Daroussin,
Gerard Meylan e Ariane Ascaride. Se vedete questi
tre attori tutti insieme vuol dire che si tratta di un lungometraggio diretto
da me. La nostra collaborazione dipende anche dall’aspetto generazionale che è
molto importante perché oltre ad avere la stessa età siamo tutti figli di lavoratori,
siamo comunisti e nel corso degli anni non abbiamo mai cambiato il nostro
credo. Siamo così uniti che tutto quello che ti ho detto durante l’intervista
lo avrebbero potuto dire anche loro usando le stesse parole.
Hai fatto di Ariane
Ascaride, Jean Pierre Darroussin e Gerard Meylan le icone del tuo cinema. Si
può dire che per te siano degli autori aggiunti e cioè che in qualche modo
contribuiscano a costruire le tue storie con la loro vita e non solo con la
loro arte?
Esattamente, soprattutto
con la loro vita, perché dal punto di vista dell’arte, cioè della maniera in
cui si lavora, lo facciamo in modo molto classico con me che scrivo, loro che
recitano e così via. È vero poi che stando sempre insieme ogni cosa che succede
nella vita personale diventa materia da cinema. Siamo una compagnia di cui io
sono una sorta di capo comico nella maniera in cui lo era Molière che
nonostante fosse sposato ha continuato a frequentare i suoi amici mettendo le
loro esperienze dentro le sue storie. In questo senso più che un autore sono il
coautore dei miei film perché io rappresento il portavoce del gruppo.
C’è un momento in cui dal
dettaglio del pesce che sta friggendo sulla padella si passa al primo piano del
personaggio di Darroussin che si volta verso quello accennando un sorriso. In
quel breve passaggio siamo quasi in grado di sentire l’odore del cibo. Questo
per dire di come la verità delle interpretazioni sia capace di farci sentire il
profumo della vita.
Ciò che succede quando
scrivo per loro succede anche quando gli attori stanno con me o tra di loro.
Sono attori che lavorano ovunque, nel cinema come nel teatro, ma è vero che
quando stiamo insieme non è la stessa cosa. Non voglio dire che sono più o meno
bravi però succede qualcosa di diverso. In generale sono attori molto buoni, ma
quando lavoriamo insieme sono presi dalla voglia di raccontare le loro storie,
quelle dei loro padri o delle persone che hanno conosciuto. Lo fanno con una
spontaneità e una giustezza che li rende diversi. Non migliori ma diversi. Io
stesso quando li dirigo sono più veloce e più partecipe perché sembra che il
testo non esista più. Loro recitano senza prepararsi e senza ripetersi mai. Arianne
per esempio dice una frase presente nel testo senza però sapere come reagiranno
gli altri. Funziona così da sempre perché ci troviamo bene così.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)