sabato, maggio 30, 2015

IL REGNO DEI SOGNI E DELLA FOLLIA

Il regno dei sogni e della follia
di Sunada M.
Giappone 201
genere, documentario
durata, 118'



E' verosimile ipotizzare di far coesistere l'idea di un'entità produttiva in teoria votata ad avere anche una voce in capitolo sul Mercato con la sua gestione, simile per molti aspetti all'incognita di organizzare un'eterogenea famiglia allargata ? Forse si'. A giudicare almeno dall'interazione che ha messo a stretto contatto per anni - una trentina, più o meno, e oggi funestata dalla prospettiva di un futuro incerto - le componenti umane/inventive e quelle tecniche di decine di persone radunate nello Studio Ghibli (nome ispirato dalla fascinazione di Miyazaki per il bimotore italiano Caproni 309 'Ghibli' e che la dizione giapponese restituisce come "Gibli"), impegnate a concorrere a dare fisionomia definita alle intuizioni di due individui fuori da comune, l'uno quasi il complemento dell'altro. Miyazaki Hayao, appunto, da un lato, classe 1941, uomo metodico, incontentabile ("Domani. Domani disegnerò meglio"), se pungolato loquace, bonariamente tirannico, quanto intriso di un ostinato sebbene composto scetticismo ("Il mondo non sa dove sta andando"; "Anche l'innovazione, come parte di un mondo interamente meccanico, finisce per produrre sogni maledetti"); e Takahata Isao, di un lustro più anziano, dall'altro, al contrario laconico, presenza fisica stessa assai elusiva - nel film compare pochissimo - in apparenza assorto o distratto ai limiti dell'inerzia, esecutore certosino di portenti perlopiù negletti, dalla gestazione travagliata e pressoché sempre fuori tempo massimo, come dagli esiti avvilenti al botteghino. A meta' strada fra i due, punto di equilibrio e parafulmine alle divergenze, stratego e produttore, Suzuki Toshio, intimo di entrambi e co-fondatore dello Studio.
In tal senso, non risulta dunque forzato o esageratamente poetico il titolo del documento per immagini dedicato da Sunada alla fucina prima delle animazioni nipponiche, insediatasi in seconda pianta stabile presso Koganei - conurbazione dell'area metropolitana di Tokio caratterizzata da edifici bassi, sovente muniti di tetti praticabili a mo' di veranda-osservatorio e costellata di zone verdi da cui non e' inusuale, a margine di giardini silenziosi che appaiono a volte imprevisti dietro i profili delle costruzioni, vedere svettare frondosi alberi d'alto fusto - Non e' così improbabile, in altre parole, che i sogni (memorie personali rielaborate, sedimenti letterari, suggestioni, fantasie, sofferenze composite, malinconie insopprimibili) e le follie (l'ossessione per l'esplorazione delle forme - "La ricerca di un ideale che sfugge sempre", osserva Miyazaki - per la composizione di moti interiori complessi, quindi spesso contraddittori; la dedizione ad una tecnica di preferenza artigianale nell'illusione/speranza di eliminare/ridurre la distanza tra concepimento ed espressione per il tramite di un contatto fisico con i parti dell'immaginazione e dell'intelletto) abbiano trovato dimora comune in un luogo in cui e' a portata di sguardo scrutare il gioco d'ombre e i riflessi della luce sulle foglie e sui fiori per la presenza di grandi finestre e di ampie vetrate; spiare il cielo a fine giornata da angoli privilegiati a qualche metro da terra; maneggiare matite, pastelli, pennelli, scartabellare innumerevoli fogli su cui i tratti sono appena abbozzati o già perentoriamente determinati, in un andirivieni in cui disciplina ed estro, calcolo e improvvisazione, sembrano aver raggiunto un soddisfacente compromesso e essersi dati sul serio, per una volta, il medesimo obiettivo.

Del resto, la pellicola indaga, appoggiandosi ad una struttura circolare cadenzata su ritmi lenti contrappuntati dalla garbata mestizia delle note di Masakatsu Takagi, proprio un periodo al tempo fecondo e contrastato per lo Studio, quello relativo alle fasi finali della realizzazione dei (forse) ultimi lavori di Miyazaki e Takahata: "Si alza il vento" e "La storia della Principessa Splendente". Ciò che si respira, infatti, tra i corridoi ingombri di schizzi, fotografie, attrezzi da disegno, decaloghi affissi alle pareti tra l'assertivo e l'edificante, sparuti pupazzetti in scala degli eroi della Casa, e' innanzitutto un clima da chiusura di ciclo, da bilancio lucido di un lungo arco esistenziale durante il quale, al netto d'inevitabili altalene tra successi e rovesci, il tentativo di dare coerenza e continuità allo slancio creativo non e' stato mai perso di vista. Miyazaki - calzoni comodi, occhialoni quadrati, chioma e barba bianca su grembiule avorio stropicciato e perenne palparsi alla ricerca di una sigaretta - per mezzo di una applicazione metodica inderogabile, che con i decenni e' diventata il ritmo interiore di una vita intera: una volta la settimana ripulitura del fiume vicino casa; dal lunedì al venerdi - dalle nove alle ventitré - al tavolo di sempre, le dita ad impugnare matite 5B o pennelli, nella progressione minima ma indispensabile di migliaia di tratti su migliaia di fogli. Di tanto in tanto un'occhiata alla gatta-mascotte Oshiko, un giro tra le postazioni degli altri disegnatori, una risata, un'idea o un commento a voce alta: la sintesi volutamente distante e un po' naïf  di una filosofia delle piccole cose, degli stupori minati dalla consapevolezza, delle purezze perdute (quest'ultime figlie anche di un rapporto mai del tutto pacificato con l'infanzia, vissuta relativamente a riparo - al contrario proprio di Takahata - dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale), penetrata fin nei gesti più quotidiani. Takahata - detto "Paku-san", vista l'abitudine di sgranocchiare sempre qualcosa - per l'inverso, grazie ad un'indolenza silenziosa talmente manifesta, un'imperturbabilità in apparenza talmente inscalfibile da sedimentarsi solo - trovando così uno specifico, irripetibile senso - nei tempi dilatati di opere (come accennato, quasi mai consegnate alla scadenza) modellate nella forma di prodigi compositivi insensati tanto ambiscono ogni volta a ridisegnare i confini delle possibilità stilistiche e narrative - e i correlativi concetti di meraviglioso, struggente e incantato - di un gesto artistico che solo l'aderenza a formule corrive c'induce ancora a relegare in un genere. Differenze caratteriali, allora, comportamenti antitetici che, pero', nel reciproco gioco delle influenze spiegano almeno in parte le ragioni di una collaborazione consolidatasi via via nonostante, per dire, e a ricordarlo e' lo stesso Miyazaki, durante il frangente delle lotte sindacali in seno alla Toei a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, Takahata, pur concorde, finisse spesso per addormentarsi dove capitava, per lo sconcerto impotente dello stesso Hayao. Una vicinanza ineluttabile, per certi versi, ribadita anche da un'altra figura importante, Oshii Mamura ("Patlabor", "Ghost in the shell", "The sky crawlers", "Avalon", et.): "La loro e' un'intesa straordinaria, anche perché non sono proprio buoni amici. Sarebbe un grande errore pensarlo. In un certo senso, sono come cane e gatto, ed entrambi hanno dei lati che l'altro non accetterà mai. Eppure fanno senza problemi fronte comune".

E se "a fare film l'infelicita' e' assicurata", in conclusione resta scritto che "per altri dieci anni penso di voler lavorare". Magari non e' ancora esaurito il bisogno di ricordare la pazienza monumentale degli alberi; di guardare il cielo più come un invito a misurarsi che come un rifugio: di rincorrere e ascoltare il vento, lui che ha sempre qualcosa da dire. Chissà come la vede Takahata.
TFK

venerdì, maggio 29, 2015

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S.SPIVET

di, Jean-Pierre Jeunet
con, Kyle Catlett, Helena Bonham-Carter, Judy Davis
genere, avventura
Francia, Austria, Canada, 2013
durata, 105'




T.S.Spivet (Tecumseh Sparrow) ha dieci anni, un certo numero di lentiggini intorno a grandi occhi curiosi, ed è una sorta di precocissimo genio, intrigato, per dire, nientemeno che dall'idea di dare concretezza duratura al moto perpetuo. Vive in una piccola fattoria del Montana assieme al padre (cow-boy tutto d'un pezzo - un po' Gary Cooper, un po' Sam Shepard - che si esprime per stereotipi western tipo: "Quel ruscello è più asciutto del sarcofago di una mummia"); alla madre (- H. B-Carter - entomologa apprensiva e pasticciona); alla sorella più grande Gracie (certa che uno dei modi più sicuri per evadere dall'isolamento e dalla monotonia della vita campestre sia quello di partecipare alle selezioni per Miss America); al gemello Leyton (oltreché sua stessa copia, replica in sedicesimo del padre che in lui vede la prosecuzione perfetta di sé stesso) e al cane di casa, uso a rosicchiare il ferro quando aumentano le tensioni interne al microcosmo familiare.

Ben deciso a "rimaner sempre fedele alla scienza", T.S. percorre in solitaria le tappe d'un viaggio fisico e simbolico attraverso il continente americano e il tumulto interiore dei suoi pochi anni, che lo condurrà alla riscoperta delle gioie delle sfide intellettuali, come alla grama consapevolezza che nulla è sul serio ciò che accade e che - spesso e volentieri - vanità, menzogna, senso di colpa e doppiezza, hanno quasi il medesimo spiacevole sapore.


Il Cinema stilizzato e coloratissimo di Jeunet affronta, stavolta da un punto di vista più classico (il precedente s'identificava con l'eccentricità non solo produttiva di "Alien 4/La clonazione"), a dire quello del romanzo di formazione, l'universo-America, declinando il suo vocabolario di variazioni sincretiche quanto fondamentalmente derivative in un insieme che riesce ad accostare, senza fastidiose frizioni, panoramiche da prototipo dei film-di-frontiera al gusto più moderno per il dialogo arguto e brillante, sempre in bilico tra disinvolta saccenza e malcelato cinismo. Giù giù fino a dettagli in apparenza incongrui ma deliziosamente funzionali all'esaltazione di uno slancio avventuroso, d'una sorta d'imprevista magia che occhieggia tra minute imprecisioni e calibratissimi anacronismi tra loro in pacifica coesistenza. Entro lo spazio d'una partitura fitta di suggestioni che non si fa mancare nemmeno il fraseggio a base di steel guitar, armonica e violino, ecco palesarsi, allora, come espressione d'una capacità inventiva vitale e coerente, secchi della spazzatura in alluminio di ultima generazione e salotti foderati d'una membrana fatta di mobilio e suppellettili dall'identico color cuoio. Ecco scarponcini tecnici in gore-tex e frullatori e tostapane dall'inconfondibile design anni '50 et., nell'estremizzazione paradossale e intrigante di riferimenti culturali e metaforici che sul piano strettamente figurativo richiamano modelli cinematografici (Ford, Hawks, Capra, per dirne alcuni) e pittorici (Hopper, Wyeth, Rockwell) passati al tritatutto di un'estetica edificante e laccata.

Nonostante una voce narrante sempre sul punto d'impossessarsi in via definitiva degli snodi cruciali della vicenda, la figura del piccolo T.S. - al pari degli altri co-protagonisti, ognuno con un suo cruccio nascosto, un personale non-detto - si colora sovente di toni malinconici e d'improvvise apprensioni che sembrano preludere a un sostanziale destino di solitudine (abbastanza consueto tra i grandi ingegni) e allo stesso tempo concorrono a irrobustire gli argini sguarniti d'un mondo in cui - tutto sommato - i contrasti si appianano e i rimorsi e le sofferenze trovano consolazione, riportando la fiaba d'una fanciullezza speciale ma travagliata sul sentiero comune della ricerca di quell'incanto che fa percorrere alle gocce d'acqua sempre "la traiettoria di minima resistenza".
TFK

giovedì, maggio 28, 2015

SAN ANDREAS

San Andreas
di Brad Peyton
con The Rock, Carla Cugino, Alexandra Daddario
Usa, 2015
genere, catastrofico
durata, 104'
 
L’industria cinematografia americana, che ormai sforna prodotti a mo’ di fabbrica di giocattoli, propone costantemente, fra le altre, pellicole pensate esclusivamente ai fini dell’intrattenimento e della vendita. A questa categoria appartiene sicuramente “San Andreas”, film che narra dei terremoti provocati dal movimento delle placche riguardanti la delicata zona geografica dov'è posizionata la California. La narrazione ruota attorno al personaggio interpretato da Dwayne Johnson - qui in vesti quasi inedite -, comandante dei vigili del fuoco di Los Angeles e pilota di elicotteri, che è prossimo al divorzio con la moglie; i due, dopo l’inizio degli eventi sismici, si troveranno nuovamente uniti per salvare la loro unica figlia.

Il film pone da subito come elemento centrale quello del terrore ancestrale che è innescato da un evento imprevedibile ed incontrollabile qual è il sisma, facendo della distruzione il tratto distintivo dell’estetica filmica, impreziosita da effetti speciali che restituiscono perfettamente l’entità della catastrofe. 



A fondersi con questo elemento, però, c’è una sceneggiatura lacunosa che, oltre ad essere eccessivamente semplificata negli svolgimenti inter-familiari, inserisce continui salvataggi dell’ultimo secondo che fanno perdere di valore la Vita e la Morte, quindi sminuiscono fino a cancellare completamente l'elemento dell'angoscia provocata dalla devastazione, lasciando che il fruitore resti attrattp esclusivamente dalla resa visiva. L’aggiunta dell’elemento didascalico, inserito tramite l’immancabile esperto di turno, è un difetto aggiunto alla già eccessiva sventatezza del film.

Nonostante la catastrofe naturale sia una della paure che più esercita al contempo fascino e terrore nella psiche degli esseri umani, “San Andreas” non sfrutta l’argomento a proprio favore.
Resta da segnalare - e ormai è quasi un’ovvietà - lo scarso apporto spettacolare della visione in tre dimensioni.
Antonio Romagnoli

SGARBISTAN

Sgarbistan
di Maria Elisabetta Marelli
Italia, 2015
genere, documentario
durata, 75'


La giovane regista e produttrice milanese Maria Elisabetta Marelli, di fronte all’impellente interrogativo sulla veracità di taluni “bizzarri” comportamenti del celebre critico d’arte-politico-giornalista e tutto fare Vittorio Sgarbi, ha compiuto un gesto che si potrebbe definire, usando le parole del diretto interessato,“folle”.
Onorando – o facendone forse un cattivo uso – quell’estetica del pedinamento tanto cara a Zavattini,  la Marelli, armatasi solo di camera a mano e tanta pazienza, ha seguito Vittorio Sgarbi per trentasette giorni nell’arco di tre mesi, durante i quali il difensore delle meraviglie italiane – come va professandosi – ha visitato 42 mostre, 35 chiese, rilasciato 73 interviste, preso parte a 27 conferenze, pernottato 31 alberghi e trascorso piacevoli momenti con 18 “amiche”.
Sgarbistan (il regno di Sgarbi non conosce limiti spazio-temporali, ma è un territorio pressoché infinito che assume i confini del luogo in cui egli stesso si trova, piccolo guscio di noce di cui si sente il re) suggerirebbe fin dal titolo una presentazione in chiave comico-grottesca del personaggio, di cui la regista ha filmato ben 190 ore di vita, raggruppate poi in settantacinque minuti, che Sgarbi stesso ha commentato definendolo un trailer dell’opera a venire. Da far venire i brividi.


L’occhio muto della telecamera, si sofferma con un montaggio frenetico e vertiginoso, che ben onora lo stile di vita del suo soggetto, sui quei famosi atteggiamenti sgarbiani che lasciano ancora scossi per la loro volgarità taluni ed esaltano altri contribuendo a rendere Sgarbi un vero e proprio fenomeno mediatico nell’olimpo del triste star-system italiano.
Le riprese, a “maglie larghe” della Marelli, accolgono generosamente ogni momento della quotidianità del critico, cercando di scoprire se quella degli scrosci d’insulti televisivi e delle volgarità gratuite sia solo una maschera utile alla sopravvivenza nella società dello spettacolo. Sotto questo aspetto si può dire che la giovane e coraggiosa regista sia perfettamente riuscita a raggiungere il suo obiettivo e a svelare l’arcano, mostrando come il ritratto che ci viene fornito dai mass media di Sgarbi non abbia,ahimè, nulla di artificioso o costruito.


Il critico viene ritratto come un esteta sensibile e viscerale, un amante, si potrebbe dire, capace di passioni e moti nei confronti di un quadro come di una donna, di un libro o di una pizza.  Questo atteggiamento quasi bulimico è in un certo qual modo nobilitato e motivato dallo stesso critico, che afferma come la sua indubbia (onni)presenza derivi proprio da un costante – e non sempre indispensabile – tentativo di essere a ogni possibile pubblico evento. Sgarbistan è quindi un’opera ibrida, a metà strada tra l’agiografia, il film comico, la parodia e il reality show – di cui, non si dimentichi, Sgarbi è il nume tutelare.
Il dubbio che se ne trae è che il critico ferrarese sia così profondamente immerso nel mondo dell’arte da non riuscire più a distinguere il confine con la vita, facendo della sua privata esistenza – posta che ancora ne esista una – , uno spettacolo grottesco e certamente non necessario.
Se da un punto di vista filmico-documentaristico la Marelli ha dimostrato un’ineguagliabile e del tutto immotivato coraggio nel scegliere di tallonare Vittorio Sgarbi in lungo e in largo per l’Italia; il suo prodotto trova una giustificazione solo nel brio e nel flusso incessante d’immagini e situazioni in cui il suo soggetto viene a trovarsi. 
Erica Belluzzi

mercoledì, maggio 27, 2015

THE TRIBE

The Tribe
di Myroslav Slaboshpytskiy
con  Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy,
Ucraina, 2014
genere, drammatico
durata, 130'


Conosciamo a memoria la retorica della malattia di matrice hollywoodiana e di come l’industria cinematografica l’abbia sfruttata per costruire progetti in grado di accattivarsi l’empatia dello spettatore, prostrato e insieme commosso da una miriade di interpretazioni strappalacrime. Uno schema talmente consolidato da indurci a pensare che non ci fosse altra possibilità di sguardo e di considerazione; fino all'uscita di due opere che nell'ambito di una stagione comunque normalizzata dalla presenza di prodotti accondiscendenti e rassicuranti ( "La teoria del tutto") il coraggio di raccontare la disabilità da un punto di vista non necessariamente conformista. Del polacco "Io sono Mateusz"” avevamo già parlato in occasione della sua uscita nelle sale italiane, mentre di “The Tribe” conoscevamo il clamore suscitato durante l’anteprima avvenuta nell'edizione di Cannes della scorsa edizione. In quel frangente, a scuotere la routine festivaliera era stata non solo la scelta di presentare senza alcun sottotitolo un film interpretato da attori non udenti e quindi decifrabile solo da chi fosse stato a conoscenza del linguaggio dei segni utilizzato dagli attori; a destare scalpore era stato piuttosto la visione cruda e senza alcuna mediazione della diversità fisica, asciugata da qualsiasi enfasi pietistica e invece descritta come valore fondante, e diremo discriminante, di un sodalizio dedito a qualsiasi tipo di violenza e aberrazione. Il film di Myroslav Slaboshpytskiy racconta le giornate di un istituto per sordomuti e di un gruppo di studenti che nelle ore extrascolastiche organizza una serie di azioni criminose che, alla pari di una qualsiasi struttura malavitosa, sono il risultato di una struttura clanica perfettamente gerarchizzata quanto efficace nel mettere in piedi attività illecite che vanno dalla vendita illegale al latrocinio e persino alla prostituzione, realizzata con la collaborazione di alcune coetanee a dir poco generose.

Alla stregua di in un dramma shakesperiano “The Tribe” segue l’ascesa e la caduta di quel “regno” descrivendone le leggi e i meccanismi che lo regolano in una modo che si avvicina a quello usato da Martin Scorsese per raccontare la "sua" Little Italy. A fare la differenza in questo caso non è solo l’estetica, dominata dalla ferinità dei corpi e da una messa in scena scarna, in cui a colpi di piani sequenza (fissi e mobili) protagonisti e ambiente vengono refertati da una mdp che lavora con precisione da entomologo. Diversamente dalla maggior parte dei prodotti in circolazione “The Tribe” non impone alcuna censura ai suoi criteri di rappresentazione, filmando un viaggio all'inferno che non arretra neanche quando si tratta di mostrare in tutta la sua drammaticità i dettagli di un aborto illegale che fa sembra quello di “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” una versione per educande. Slaboshpytskiy è bravo a realizzare lo scarto che permette al film di spostare l’interesse del pubblico sugli aspetti sociali e antropologici della vicenda, mettendo in secondo piano le peculiarità del linguaggio che entrano in gioco non più come denuncia di una menomazione fisica ma come segno distintivo di un' alterità che la gang di giovinastri persegue con scientifico accanimento.

Coercitivo e discutibile ma non per questo meno interessante - soprattutto nella decisione di collocare la violenza proprio nel cuore del sistema educativo che fa di tutto per bandirla - “The Tribe” deve molto al suo andamento circolare, fatto di escursioni che, ritornando ogni volta al punto di partenza -rappresentato dalla casa istituto - ne circoscrivono il campo d'azione, isolandolo dal resto del contesto. La conseguenza, invero paradossale per il realismo del contesto, è un livello d'astrazione che amplia i significati della vicenda. Basti pensare alla fatiscenza degli ambienti, decadenti e rovinosi, e alla visione materialistica dell'esistenza, giustificata esclusivamente da principi mercantili e di sopraffazione, per capire quanto "The Tribe" sia lo specchio di quello che accade in questi giorni in Ucraina, paese produttore di un film che vale la pena di andare a vedere.

FURY

Fury
di David Ayer
con Brad Pitt, Shia Labouf, Logan Lerman
Usa, 2014
genere, guerra
durata,  134'


La storia narrata, che David Ayer porta sullo schermo con “Fury”, inizia quando la guerra è conclusa agli occhi del mondo ma è più che mai viva agli sguardi dei soldati che devono ancora debellare gli ultimi residui di resistenza disperata da parte dei nazisti, che in comune hanno l’essere tutti ignari o noncuranti del fatto che la Storia, quella con la “S” maiuscola, ha già fatto il proprio ri/-corso.

Accade dunque che l’avanzata solitaria di “Fury” - nome dato al carrarmato capitanato dal sergente “Wardaddy”, interpretato da un Brad Pitt che dà al suo personaggio i toni inquietantemente pacati di un uomo segnato da qualcosa di non ben definito né  tantomeno definibile - sia descritta tramite la claustrofobia della vita al suo interno - dove cinque uomini combattono a vuoto per una sorte che è già stata definita - e nell’ancor più angusta messa in scena degli spazi esterni che ospitano il lento incedere del cingolato - complice una raffinatissima fotografia che riprende spesso le figure in controluce o comunque avvolte da nebbie e fuliggini diegetiche ma al contempo quasi oniriche, mantenendo la medesima atmosfera anche nei pochi interni -. L’elemento religioso, spesso inserito con la reiterata recita del “Padre Nostro” o con citazioni di versetti del Vangelo, diventa una presenza forte quanto necessaria, dal momento in cui stabilire un rapporto umano, e specialmente amoroso, non è cosa che la Natura della guerra può contemplare - si veda l’incontro sbrigativamente tragico tra Norman ed Emma -.

E se gran parte del narrato è ambientato in giornate cineree nelle quali il tempo e lo spazio appaiono piatti allo stesso modo, l’oscurità che avvolge il contesto della battaglia finale mette in risalto i colori caldi del fuoco e del sangue - alcune tonalità richiamano abbastanza esplicitamente “Apocalypse now” - rendendo “Fury” un piccolo gioiello che, al pari dell’”American sniper” di Eastwood -  film che la critica italiana ha additato, come del resto aveva fatto anni fa con “Arancia meccanica” e “Full metal jacket”, come film di destra, definizione di cui si fa seriamente fatica a capirne il significato - potrebbe gettare delle solide basi per l’avvento di una “Nuova New Hollywood”.
Antonio Romagnoli

lunedì, maggio 25, 2015

AVENGERS: AGE OF ULTRON


di: J.Whedon.
con: R. Downey jr., C.Evans, C.Hemsworth, S.Johansson, M.Ruffalo, J.Renner,
E.Olsen, A.Taylor-Johnson, P.Bettany, J.Spader, S.L.Jackson.
- USA 2015 - 140 min

"Your mojo will have no effect,
as we head into tomorrow".
- P.Weller -

Forte di una solidità finanziaria conquistata con sistematica applicazione, pertinacia che ad oggi la equipara, più o meno, ad una multinazionale di media grandezza (quest'ultimo "Avengers/age of Ultron" - tassello di una galassia in apparente continua espansione - già veleggia dove l'aria e' sottile e si misura in dollari con otto, nove zeri), la Marvel, oramai non più Comics, o non solo ma coerentemente e prepotentemente Productions e Studios, si e' inserita in via definitiva all'interno di quella declinazione terminale dell'eterno-ritorno-dell'uguale che caratterizza la condizione di agonia differita di una Cultura, quella Occidentale, al punto di rappresentarne una delle varianti più tipiche.

Le avventure dei paladini-in-costume o, come si diceva un tempo, dei "supereroi con super problemi", infatti, sono state rese via via assimilabili a viscere e a fantasie tanto disparate quanto ricettive al generico richiamo dello stupore, dei grandi intrighi e dell'azione, recuperando in parte ciò che si perde in originalità e aderenza ad una logica precisa perché corrispondente ad un mondo omogeneo e autosufficiente, in diffusione su scala vastissima e ricaduta capillare, in linea con la prassi di una sorta di neo-colonizzazione. Conseguenza diretta di questo decorso graduale e forse (?) inevitabile, e' stata la serializzazione globale delle vicissitudini di un pugno di individui speciali, quasi tutti ideati a ridosso della stagione delle ultime utopie da matite geniali perché innanzitutto appassionate e anticonformiste. Di stratificazione in stratificazione - dei, semi-dei, mutanti, geek in cerca di rivalsa, surfisti argentati, super-soldati, esperimenti sfuggiti di mano, ragazze invisibili, idealisti dai sensi iper-acuti, et. - i personaggi Marvel punteggiano delle loro acrobazie e della loro abnegazione (o, al contrario, desiderio di distruzione) il paesaggio condiviso di una proiezione fantastica allo stesso tempo potenzialmente senza limiti e saldamente ancorata ad un ingranaggio di sfruttamento commerciale che ne vincola l'esistenza, nella gran parte dei casi, alle cadenze inesorabili della reiterazione.

A tale consustanziale paradosso non deroga nemmeno una delle costole principali di un già possente torace, per l'appunto quella degli Avengers, qui giunti alla loro seconda prova di resistenza (al botteghino), mantenuti vieppiù in assetto dall'intero cast dell'esordio, a cui va aggiunta qualche nuova entrata (P.Bettany/Visione, la più seducente) e dalla mano - più avvezza che ispirata - di Joss Whedon, ad orchestrare con usuale e diligente disinvoltura, non esente pure da qualche preziosismo (sapida, sebbene prevedibile, la vorticosa sequenza di apertura uncut), le peripezie dell'intreccio, atte a trascinare, ora di concerto, ora in siparietti singoli, in verità quasi dimessi e chissà quanto scientemente caricaturali (uno per tutti: la parentesi agreste, con tanto di famigliola apprensiva, nel micro eremo di J.Renner/Hawkeye), i componenti storici della formazione: R.Downey jr./Iron Man - perigliosamente al limite del minimo sindacale la resa del suo magnate-spaccone, in eterno bilico tra sarcasmo sornione e affabulazione manipolatoria -; C.Evans/Cap.America; C.Hemwsorth/Thor; S.Johansson/Natasha Romanoff-Vedova Nera; M.Ruffalo/Hulk, a cui si affiancano i fratelli potenziati A.Taylor-Johnson/Pietro ed E.Olsen/Wanda Maximoff, altrimenti noti come Quicksilver e Scarlet Witch.

D'altro canto, il fascino teorico e a suo modo sublime dell'insidia di turno - Ultron/J.Spader, programma senziente alla ricerca spasmodica di un corpo da cui far rifulgere la propria magnificenza visionaria, tradito, nelle premesse, da uno svolgimento che ne diluisce il portato piegandolo alle mere esigenze di una contrapposizione Bene/Male esperita nella sua quasi totalità per via muscolare, scelta fin troppo sintopica, a ben vedere, a dispetto della sua ovvia frenesia di superficie; e da una nemesi narrativa che finisce per intrappolarne il dissidio, in nuce sconvolgente, nella genesi della Visione, specie di alter ego disilluso ma dalla parte giusta della barricata - si stempera presto in una trattazione che pone l'incognita dell'intelligenza artificiale, della malleabilità/disponibilità dei corpi, ossia della loro non scontata familiarità con l'entità inorganica - il metallo - sul piano anodino e, se vogliamo, conservatore, della responsabilità umana circa il suo più o meno consono utilizzo, smarrendo quasi sul nascere tutta una serie d'implicazioni interessanti/inquietanti riguardo un altro modo d'intendere questa materia esotica e la sua, per dire, volontà di potenza, istinto di morte, piacere tattile del contatto col mondo fisico, nostalgia di un passato mai vissuto eppure pre-sentito, et... Bivio questo che, in ogni caso, sollecita considerazioni di carattere estetico inerenti la matrice di oggetti filmici inclini a raccontare incarnandolo un processo di gemmazione dell'immaginario collettivo, chiamando in causa, con declinazioni diverse, il rapporto che vincola l'umano all'organismo tecnologico, lo stato attuale della loro ibridazione o resistenza a diventare l'uno parte non secondaria dell'altro. A dire: ciò che nella visione di M.Bay, ad esempio, spinge sulla stilizzazione di un universo meccanico già ampiamente consapevole non solo della propria indipendenza - se non autentica primazia nei confronti della civiltà sapiens - ma persino della propria carica seduttiva (nelle forme, nei colori, nelle ricercate ridondanze), al limite di quell'erotismo trans-umano già scandagliato a dovere da Cronenberg e qui non di rado convogliato su sfiziose coordinate auto-parodistiche; nella versione di G. del Toro si assesta, invece e di un tanto, sulla stasi promiscua in cui Uomo e Macchina si alternano nel ruolo di protesi reciproche ma ancora non si fondono; in Whedon, posto l'indizio dirimente (che proprio l'antagonista Ultron coglie da subito), cioè l'attrazione fisica tra il super-metallo - il Vibranio - e la cellula organica, la carne, ripiega - per ora, almeno - sulla soluzione compromissoria (e consolatoria) di una ennesima variante (Visione) sostanziata dall'integrazione di un software benigno (il Jarvis doppio immateriale di Stark/Iron Man) e addirittura un composto alieno (una delle Sei Gemme dell'Infinito, qui estratta dallo Scettro di Loki, dall'indicibile potere e che diverrà sicura materia del contendere nei futuri sviluppi delle traversie dei nostri).

Innegabile, come che sia e tornando al film, la tenuta ritmica dell'insieme, in cui l'alternanza fra pause meditative o leggere, inevitabili intermezzi esplicativi (al solito, la trama pur semplificata, può risultare farraginosa e indifferente a coloro che hanno poca dimestichezza col comparto supereroistico) e combattimenti - gli effetti sono a cura della ILM - si rivela comunque in grado di rilanciare di continuo la propria orologeria ad incastro, ingenerando una qual aspettativa e, di conseguenza, alimentando il gradiente della tensione. Per il resto, aspettiamo il prossimo capitolo, notando di sfuggita ma con curiosità e a parziale sostegno di quanto detto, la composizione marmorea a mo' di "Trionfo degli Eroi" carezzata da un movimento avvolgente della mdp sui titoli di coda, a ribadire la vocazione a tutt'oggi prevalentemente classica di uno sguardo su qualcosa che (forse) non c'è ancora ma il cui respiro e strano splendore già screzia l'aria.

TFK

domenica, maggio 24, 2015

THE LAZARUS EFFECT

The Lazarus Effect
di David Gelb
con Mark Duplass, Olivia Wilde
Usa, 2015
genere, horror
durata 83'


Se la paura ha a che fare con il subconscio non bisogna meravigliarsi che il cinema la rappresenti attraverso immagini claustrofobiche, chiuse a qualsivoglia orizzonte e realizzate in spazi concentrati. Un'estetica che è divenuta il marchio di fabbrica della Bloomhouse Production, casa di produzione nota per aver firmato alcuni degli horror più interessanti degli ultimi anni (Insidious, Sinister) e in questo caso responsabile di "The Lazarus Effect", realizzato secondo criteri che puntano a trasformare i limiti delle proprie risorse finanziare nel punto di forza dell'intera operazione. Alla cui base c'è l'idea che sta al centro della vicenda, e cioè la possibilità di riportare in vita i morti, e soprattutto la responsabilità, etica e materiale che tale consapevolezza può comportare. E poi la storia, incentrata sull'equipe di scienziati, decisi a impedire che l'inquietante scoperta finisca nella mani dei cattivi e per questo, costretti a sperimentarne l'efficacia su uno dei membri della squadra.


Detto che "The Lazarus Effect" si allinea ai criteri utlilizzati dagli altri film della scuderia, essendo girato esclusivamente in interni e con location limitate al minimo indispensabile, bisogna dire che nello specifico a venir meno non è la mancanza di originalità del tema - ancora una volta attraversato dal senso di onnipotenza dell'uomo che si fa Dio e che per questo deve essere punito - ma della sua messainscena, tanto scontata quanto priva di immaginazione, anche in ragione di una regia che non riesce a imprimere al film un pizzico di personalità. All'assenza di partecipazione per la sorte dei personaggi concorrono anche le performance degli attori, anonime anche nel caso di un' attrice come Olivia Wilde che, dopo gli infelici esiti di "Third Person", si conferma in senso negativo. 

venerdì, maggio 22, 2015

TOMORROWLAND

Tomorrowland
di Brad Bird
con George Clooney, Britt Robertson, Hugh Laurie
Usa, 2015
genere, fantascienza
durata, 130'



E' un George Clooney in versione Indiana Jones quello che presta il volto a Frank Walker uno dei due protagonisti di "Tomorrowland" di Brad Bird, il film che racconta di un mondo distopico e di una città del futuro in cui Walker e la sua giovane amica Casey Newton si ritroveranno nel tentativo di salvare il mondo dal un drammatico destino. Un fine ultimo, quello della storia, che appartiene di diritto alla fantascienza e che di per sè non permetterebbe a "Tomorrowland" di fare la differenza con i film della sua categoria, se non fosse che Bird trasforma il viaggio di avvicinamento alla fantastica metropoli in un percorso a ostacoli in cui fantasia e visionarietà hanno la meglio sull'esibizione delle potenzialità produttive. Possibilità finanziare che di certo non mancano al lungometraggio della Disney e che "Tomorrowland" esibisce quando si tratta di ricreare la diversità del mondo alternativo su cui Frank e Casey ad un certo punto arriveranno. Ma in questo caso il valore aggiunto del film è proprio quello del regista che anche qui, come aveva fatto in parte anche nell'ultimo episodio di "Mission impossible: protocollo fantasma" - riesce a girare il suo film come se fosse un cartoon, e quindi, a consegnare i suoi protagonisti, uomini o bambini che siano, a una purezza fanciullesca che gli permette  di mostrare - senza provocare alcun scandalo - l'amore (platonico) tra Walker e Athena, la ragazzina che ha il compito di reclutare i due "salvatori",  anche quando le differenze anagrafiche di quel legame, nato in età scolare e diventato proibitivo per il fatto che Athena è rimasta quella di allora, lo renderebbero di per sè impresentabile. Ma non solo, perchè come succede spesso nei cartoon della Pixar, da cui Bird proviene, ad essere coinvolto nello spettacolo è un pubblico trasversale che in "Tomorrowland" ha la possibilità di ritrovare il gusto per l'avventura che fu di Spielberg e del suo Indiana Jones e la meraviglia divertita e colorata dell'universo a cui la Disney - che produce il film - da sempre ci ha abituati. 


E se per il divo Clooney il ruolo di Walker pur inedito, rientra in quella dimensione smargiassa e un pò demode che fa il paio con l'immaginario anche pubblico dell'attore, "Tomorrowland" è anche il modo di rivedere in azione Hugh Laurie nei panni di un villain da fumetto e di valutare le potenzialità di Britt Roberton (Casey), che almeno qui riesce a tenere testa alla contaggiosa fotogenia del celebre partner.

giovedì, maggio 21, 2015

YOUTH - LA GIOVINEZZA

Youth - La giovinezza
di Paolo Sorrentino
con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 118'
 
Possiamo affermarlo senza paura di smentita. Paolo Sorrentino è un regista senza vie di mezzo e per questo destinato a dividere le platee; Un pò come fa il suo cinema, capace in ogni scena di contenere tutto e il contrario di tutto; dal tragico al ridicolo in una continua mescolanza di cultura alta e bassa che in "Youth la giovinezza" tocca il suo apice quando immagina che tra gli ospiti del lussuoso albergo svizzero in cui si svolge la vicenda ci sia anche Diego Armando Maradona, il famoso calciatore che con la sua opulenta fisicità rappresenta il perfetto  contraltare alla dimensione artistica e intellettuale in cui si muovono i protagonisti della storia. I quali, all'interno del film, rappresentano, per le differenze della loro personalità, un altro esempio di coesistenza di opposte tendenze, con Fred (Michael Caine candidato fin da adesso a una stagione di premi) direttore d'orchestra di fama mondiale che ha rinunciato a suonare per intraprendere una vita apatica e priva di stimoli, e Mick (Harvey Keitel), regista cinemaotografico che invece è deciso a viverla fino in fondo attraverso la realizzazione del film che dovrà consacrarne la carriera. 
 
Ai due amici Sorrentino regala una vacanza da sogno e anche l'alibi per un consuntivo esistenziale che li vedrà protagonisti e insieme spettatori delle esistenze con cui condividono le comodità di quel ristoro. Senza dimenticare quello che resta di legami famigliari e colleghi di lavoro, tutti, a cominciare dalla figlia di Mick (Rachel Weisz) lasciata dal marito e in cerca di consolazione, coinvolti nel singolare rendez vouz.

Se qualcuno aveva pensato che "Youth" potesse rappresentare una pausa e forse l'antidoto alle ambizioni e al gigantismo de "La grande bellezza" è bene che si ricreda, perchè il regista napoletano non solo continua a ragionare sui massimi sistemi - in questo caso ì'amore l'amicizia messi a confronto con lo scorrere del tempo - ma spinge l'acceleratore sul piano della visione, assecondata da una mdp capace di ridefinire il senso del reale in chiave personale e soggettiva. "Youth" si separa dal mondo per ricrearlo a sua immagine e somiglianza in una porzione di territorio che diventa laboratorio di tic, manie e ossessioni che, al solito, il regista coglie attraverso un campionario umano sospeso tra armonia e deformità. Sorrentino più di altri cita se stesso e le proprie virtù. Da qui forse la sensazione di un déjà vu che rischia la maniera, seppur di gran classe, e la tendenza a un assolutismo estetico e contenutistico che a volte appesantisce l'armonia del film, rendendola frammentata e diseguale. A mettere d'accordo tutti sono invece gli intepreti e le qualità delle loro performance, sorprendenti soprattutto nei ruoli di secondo piano, con Jane Fonda, Paul Dano e Rachel Weisz bravi a ritagliarsi la loro fetta di gloria in un' opera comunque dominata dalla classe deila coppia regina.

sabato, maggio 16, 2015

MAD MAX: FURY ROAD

Mad Max: Fury Road
di George Miller
con Tom hardy, Charlize Theron
Australia, Usa
genere, azione, fantascienza, thriller, avventura
durata, 120'


La creazione di un universo narrativo così intrinsecamente barocco e cinematograficamente ingombrante, com'è quello di questo Mad Max, è una scelta registica tanto più lodevole quanto connotata di una voglia di distaccarsi dal precedente background post-apocalittico-distopico della saga, orientandosi verso l'estremizzazione dei tratti fantasy/steampunk che, pur integrati nei canonici topoi del Mad Max, conferiscono al film un taglio fantascientifico dal sapore fumettistico che non è affatto un cattivo modo di rivisitare/reinventare la saga.
Ma il film non si esaurisce nella caratterizzazione di questa nuova e pur affascinante estetica, e intesse una storia sufficientemente interessante da far quasi pesare la continua – a tratti morbosa – insistenza della macchina da presa sull'azione esplosiva finalizzata alla mera spettacolarizzazione dell'inseguimento.
Facendosi infatti forza della valenza quasi allegorica degli elementi narrativi – tratto che qui, fortunamente, non è solo l'alibi di una scrittura superficiale – , il film procede come un lungo inseguimento nel panorama desertico di una terra desolata dove Furiosa (Charlize Theron) scappa in cerca di redenzione accompagnata da un carismatico e tormentato Mad Max (Tom Hardy) e dalle mogli di un crudelissimo Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne, l'ex Toecutter), un autoproclamato signore della guerra e messia delle masse affamate in uno dei pochi insediamenti umani rimasti.


Il Macguffin sposta l'azione sulla strada, facendo del film un particolarissimo road movie dall'azione spropositatamente magniloquente – tanto da rendere completamente superfluo il 3d – che tuttavia riesce a coinvolgere per il delicato incastro dei rapporti umani che si viene a creare mentre l'inseguimento continua.
Ai personaggi viene infatti affidata l'anima del film, alle loro considerazioni e alla curata evoluzione delle loro personalità – tutte caratterizzate individualmente, anche quelle delle bellissime mogli-oggetto con poco spazio nel film – che, attraverso percorsi individualmente diversi e restituiti in modo capace con poche battute, riconsegnano una lettura estremamente profonda per la sua cifra quasi favolistica.
Michelangelo Franchini

IL RACCONTO DEI RACCONTI-TALE OF THE TALES


Il racconto dei racconti
di Matteo Garrone
con Salma Hayek, Vincent Cassel, Stacy Martin, John C Reilly
Italia, Francia, Gran Bretagna, 2015
genere, fantasy
durata, 125'



Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale
 a quanto c’è noto da lungo tempo.
S. Freud

In un sistema produttivo disastroso come quello italiano, la scelta fatta da Matteo Garrone nel trasporre sullo schermo “Lo cunto de li cunti” potrebbe inizialmente apparire, al netto della sua precedente filmografia e ancor di più dei titoli nostrani,  se non azzardata, quantomeno spiazzante.

Nonostante le dichiarazioni fatte dal regista, a sua detta poco interessato al parere della critica ma concentrato sul riscontro del pubblico nelle sale, con la sua ultima opera Garrone si getta come mai aveva fatto prima nell’esplorazione del non-noto, esplorazione che, se precedentemente era legata principalmente al restituire sullo schermo gli anfratti psicologici dei personaggi, ora è legata ad ogni aspetto del film.  Pur non mancando i ponti che tendono a comunicare col passato cinematografico del nostro, con la m.d.p. mai dimentica di soffermarsi sui volti degli attori, Garrone si trova a dover adattare il proprio stile ad un genere cinematografico caratterizzato da un linguaggio sui generis. Riuscita la decodifica, l’estetica che confeziona l’opera risulta essere il perfetto contenitore di tutto il discorso autoriale che, si voglia o no, s’impone, grazie anche ai richiami fotografici di “Barry Lyndon” o a quelli pittorici di Caravaggio - la fotografia è firmata da Peter Suschitzky, storico collaboratore di un certo David Cronenberg, geniale nel bilanciare e fondere la fiaba con gli elementi dell’orrido e del grottesco, anche grazie all’ottima resa degli effetti speciali -.

L’eccezionalità dello scritto di Basile stava nell’aver saputo miscelare la novellistica colta - riferendosi in particolar modo al “Decameron” - alla favolistica di estrazione popolare/orale, eccezionalità che ha reso Garrone l’unico autore del pianeta a potersi permettere di rimandare contemporaneamente a Pasolini ed a Peter Jackson, non dimenticando che la sua fiaba è anche per bambini, e che anche nell’attività fantasmatica dei bambini sono presenti paure e angosce. 


Il perturbante diviene quindi la linea guida che lega tutti gli elementi - la nascita macchiata dalla Morte; la bellezza perduta nella vecchiaia; la rivisitazione del mito di Amore e Psiche; l’ossimorica pulce gigante; etc. -, elementi che innescano l’intero meccanismo cinematografico, retto dunque sulla dialettica eraclitea della dinamicità derivata dagli opposti - È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi. -; diventa quindi semplice respingere le accuse di chi afferma la poca empatia avvertita durante la fruizione poiché, come il Das Unheimliche Freudiano, “Il racconto dei racconti” è una visione che necessariamente è pensata per essere avvertita come estranea e familiare allo stesso tempo. Nel segmento finale, dove l’equilibrista cammina sulla fune ardente sospesa in aria, tutto torna nella matura riflessione meta-narrativa di Garrone, che lascia aperte due strade: lasciarsi incantare, con lo sguardo in su, ed assistere allo spettacolo, oppure osservare sulla propria pelle l’incombenza della Fine; la grandezza del film, probabilmente, sta nella possibilità di percorrerle contemporaneamente. 
Antonio Romagnoli

venerdì, maggio 15, 2015

CALVARIO

Calvario
di Michael McDonagh
con Brendan Gleason, Kelly Reilly, Chris O'Dowd
UK, 2013
genere, drammatico
durata, 101'


Che ci sia continuo bisogno di far arieggiare i locali abitati dal cinema contemporaneo, di questi tempi,  è sotto gli occhi di tutti. A farsi carico di questa necessità, tra gli altri, anche se dalle nostre parti un po’ in sordina, è arrivato John Michael McDonagh - da non confondere con il fratello Martin, autore di “Sette psicopatici” -, prima con l’esuberante “The Guard” (2011), adesso con “Calvary”, che sarà nelle sale italiane a partire dal 14 maggio 2015. Il film è ambientato in un paesello sulla costa dell’Irlanda dell’Ovest e narra di James Lavelle, prete di una piccola parrocchia. La storia si apre durante la confessione di un penitente che, stuprato da un prete vent’anni prima, minaccia di uccidere Lavelle la domenica seguente.

Nonostante il drastico cambiamento di toni rispetto all’opera precedente, senza rinunciare al suo stile, McDonagh sembra essere a proprio agio nel trattare tematiche come la spiritualità individuale e l’influenza della religione nella cultura occidentale e ad inserirle senza alcuna forzatura in un’impacchettatura solo in apparenza a metà tra noir e dark comedy. Procedendo nell’arco temporale che separa la sequenza d’apertura dall’omicidio annunciato nella stessa, “Calvary” ha i suoi migliori pregi in una scrittura iper-ragionata e lenta nel proprio incedere, e nella fotografia di Larry Smith - “Eyes Wide Shut”; “Bronson”; “Only God Forgives” – che restituisce perfettamente sia le tonalità grigie e Joyceiane dell’ambientazione che il percorso psicologico/esistenziale del protagonista, paragonato, come suggerito dal titolo, alla salita affrontata da Cristo andando verso la propria crocifissione.

Ciò che rende “Calvary” definitivamente un capolavoro, oltre i motivi sopra descritti, nonché l’interpretazione di Brendon Gleeson, è l’abilità del regista nell’indagare circa un linguaggio cinematografico Nuovo - si veda la scena dell’uccisione mantenuta solenne nonostante l’utilizzo del rallenty e del jump cut - eludendo costantemente, in ogni fase, la trappola dell’Ovvio.
Antonio Romagnoli

giovedì, maggio 14, 2015

CAFE' DE FLORE

di Jean-Marc Vallée
con Vanessa Paradis, Kevin Parent, Hélène Florent, Evelyne Brochu
Canada, Francia, 2011
genere, drammatico
durata, 122' 



Café de Flore è la storia di un uomo che non potrebbe desiderare di più e ne è cosciente, e di un ragazzino di sette anni che non ha proprio tutto per essere felice, ma fortunatamente non ha la lucidità per esserne cosciente.
Come anticipato in maniera forse un po’ didascalica dalla voce narrante, Café de Flore è un complesso tessuto narrativo costituito dalla somma di due macro-storie, di cui la prima, ambientata a Montreal ai giorni nostri vede Antoine (Kevin Parent a un magnifico debutto cinematografico), affermato dj di fama mondiale alla soglia dei quarant’anni, follemente innamorato di Rose (Evelyn Brochu) e padre di due splendide bambine avute dal precedente matrimonio con la compagna di una vita Carol (Hélène Florent); mentre la seconda ruota attorno alla più debole vicenda di Jacqueline (Vanessa Paradis), ragazza madre che negli anni sessanta a Parigi cresce il figlio down Laurent (Marin Gerrier).
Il film, diretto e scritto da Jean Marc Vallée dopo C.R.A.Z.Y e Young Victoria, è stato presentato alla Mostra internazionale d’arte cinamatografica di Venezia nel 2011, senza riuscire tuttavia a ottenere una distribuzione italiana, sebbene avesse ottenuto ben tredici candidature ai Genie Awards (gli Oscar canadesi).
A motivo del mancato plauso di pubblica e critica si può forse addurre l’innegabile complessità dell’opera, strutturata come un vero e proprio mosaico compositivo e narrativo, in cui al plot bipartito – reso unitario grazie all’espediente di Cafè de Flore, una canzone popolare in Francia negli sessanta particolarmente amata da Jaqueline e remixata da Antoine qualche decade dopo –, devono essere sommate numerose storie-nella-storia, che si aprono a matrioska in un percorso pressoché infinito di suggestioni e spunti narrativi.

Se non un accozzaglia di vicende differenti, l’opera appare talvolta un frammentato mosaico in cui ogni singolo tassello potrebbe godere di vita autonoma. Se da un lato tale varietà increspa la fluidità e la scorrevolezza narrativa, dall’altro Vallée, grazie a una forte componente onirico-trasognata e alla copresenza di numerosi piani spazio-temporali – sogni, ricordi, immaginazioni, speranze, incubi – crea un’opera ricca e stimolante per tutti i sensi: una colonna sonora – forse vera protagonista del film – che spazia dai Pink Floyd ai Sigur Rós, si accompagna una fotografia eclettica e per certi versi sperimentale.
Il plot, apparentemente scontato, nasconde interessanti incursioni nel tema della metempsicosi e della sopravvivenza dell’anima al corpo, nei cui confronti il regista si pone in maniera critica, proponendo una visione laica e non pre-orientata.
Attraverso un tema ampio e complesso come quello della reincarnazione dell’anima, vengono indagate le diverse facce dell’amore, dall’affetto coniugale fino all’amore materno, dipinto come un sentimento esclusivo dominato da una qual certa gelosia irrazionale.
Per certi versi il misticismo di Vallée ricorda quello de La doppia vita di Veronica, probabilmente omaggiato dallo stesso regista canadese nella caratterizzazione di uno dei suoi personaggi chiave, che porta lo stesso nome della protagonista del capolavoro di Krzysztof Kieślowski.
Erica Belluzzi

mercoledì, maggio 13, 2015

PITZA E DATTERI

Pitza e Datteri
di  Fariborz Kamkari   
con  Giuseppe Battiston, Andrea Pergolesi, Mehdi Meskar
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 92'

Il tema dell'integrazione, l'incontro-scontro fra due culture antitetiche e il delicato incastro fra i sistemi etici sono il tema portante di una commedia all'italiana che riesce a mantenersi sempre distante da quella dimensione umoristica grottesco-surreale che è più spesso un effetto collaterale che un obiettivo centrato.
Il motore dell'azione è la moschea dove la comunità musulmana di Venezia era solita pregare e che un'avvenente Zara (Maud Buquet)  – archetipo di donna emancipata all'occidentale, conscia/consapevole della propria femminilità – ha trasformato in un salone di bellezza. Per riprenderla viene chiamato un aiuto dall'Afghanistan: un imam che – dall'alto della sua saggezza – aiuti i fedeli a ritrovare un punto di raccolta. Ma nella migliore tradizione umoristica pirandelliana avviene il contrario: l'imam è un ventenne impacciato.
L'intreccio – geniale nella sua semplicità – è la fonte della vis comica, che scaturisce da una serie di gag mai eccessive basate su fraintendimenti dovuti alle differenze culturali. Ma il film non si risolve nella storia e anzi ha il proprio punto di forza nei personaggi – sostenuti da attori capaci, tra i quali spicca un meraviglioso Giuseppe Battiston -, nella loro graduale evoluzione e nella semplicità con cui raffigurano l'eterna opposizione dialettica fra oriente e occidente, il deserto e il mare, sistemi di vita opposti ma non inconciliabili.

A uscirne vincitore è proprio il confronto, che qui muove i personaggi - quasi come un blando espediente narrativo -  fino alla consapevole arrendevolezza che precede il compromesso e la sintesi hegeliana delle due opposizioni. Un risultato tutt'altro che negativo considerando che la regia riesce anche a colorare il tutto con le tonalità di una commedia ben confezionata e a risolvere, con quella stessa delicata ironia che accompagna il film così come accompagna – e nobilita – il film l'orchestra di piazza Vittorio, la questione del fondamentalismo religioso, con un espediente originale e divertente.

La necessità di ritrovare un luogo culturalmente identitario all'interno di uno spazio cittadino straniero – e in quanto tale “estraneo” e regolato da norme altre – è la semplice e riuscita metafora con cui il film si interroga sulla reale possibilità di inserimento di un Islam moderato/moderno che ha il volto – giovane, non a caso – di Mehdi Meskar (soprannominato Saladino), costretto a venire a patti con una femminilità matura e a misurarsi con un mondo multietnico – la Venezia storica del crocevia di mercanti e culture – che può accettare soltanto – questo suggerisce il film – una rispettosa convivenza pacifica in cui le differenze non siano motivo di attrito ma di arricchimento.
Michelangelo Franchini

martedì, maggio 12, 2015

LES LYONNAIS

"Les Lyonnais/A gang story".
diO.Marchal
con, G.Lanvin, T.Karyo, D.Duval, F.Renaud, L.Astier, F.Levantin.
Francia, 2011
genere, polar
durata, 102'



Sembra uno scherzo - e se lo e', non può essere che di pessimo gusto - ma il cantilenante adagio (il quale, e' chiaro, prima o poi, si rivelerà comunque essere l'ultimo azzardo di una serie di ripugnanti automatismi) per cui si-deve-fare-tutto-ciò-che-si-può-fare, al momento di entrare in circolo col composto semplice ma spesso indigesto (perché scomodo) di cui e' fatto il noir - e il suo gemello europeo, il polar - trova un suo sinistro e affascinate ubi consistam, ossia quella formula coerente, rudemente elegante, nutraceutica e stimolante dipendenza, di un-mezzo-per-uno-scopo, al cui maliardo inganno e' difficile sottrarsi. Caso di specie e' "Les Lyonnais" - reso come "A gang story" - di Olivier Marchal ("Gangsters", 2002; "36 Quai des Orfevres", 2004; "L'ultima missione", 2008; "Braquo, serie TV dal 2009), tipo robusto dall'aria esausta ma risoluta, passato, dopo quasi vent'anni trascorsi tra la Brigade Criminelle di Versailles e l'antiterrorismo, la Surete', di Parigi, con crescente successo e considerazione, alla scrittura, prima e alla direzione, poi.

Giocato sull'incastro incalzante e deterministico tra passato e presente (il passato, in particolar modo se di natura criminale, non solo permea di se' e vincola il presente in un meccanismo perverso e non di rado letale che aggiunge senza posa anelli nuovi alle catene della colpa ma induce spesso ad illudersi, a mo' di appiglio estremo, circa la possibilità per cui gl'individui di esso impastati e da esso plasmati vi restino fedeli), "Les Lyonnais" ricostruisce, a partire dalle memorie di Edmond Vidal, detto Momon (G.Lanvin), sopravvissuto truand di origine gitana, malinconico e, in conclusione, solo senza scampo - in un rifluire continuo di cronaca e finzione utile a restituire più un paesaggio psicologico ed emotivo che un resoconto, sebbene puntuale nella sua voluta frammentarietà, di un'avventura malavitosa - le vicende sul filo del rasoio della banda che titola il film, la quale, al termine di un feroce apprendistato come forza fresca di un'organizzazione di sedicente ispirazione gaullista, si coagulo' in manipolo autonomo e imperverso', a colpi di rapine-lampo tanto con scrupolo congegnate, quanto all'occorrenza brutali - non arrestandosi appunto davanti a nulla, meno che mai di fronte al nascente mercato internazionale degli stupefacenti (che ne avrebbe, tra l'altro, minato gli equilibri interni fino alla discordia e alla dissoluzione) - nella Francia sud-orientale per circa un decennio, tra la fine degli anni '60 e per buona parte dei '70. All'interno di tali direttrici, punto di saldatura e frizione di tutte le vicissitudini, trova posto la parabola umana, personale e familiare, intessuta da Momon con Serge Suttel/T.Karyo, compagno, complice e fratello d'elezione, conosciuto in quell'età, la fanciullezza, e secondo i modi di una solidarietà tra esclusi, durante la quale e' possibile tracciare indelebilmente il sentiero di un'esistenza intera.

"Servono tre cose per diventare uomo", sussurra il padre al piccolo Edmond: "Agire con rapidità, parlare poco e non tradire i propri ideali". "Peccato che non funzioni così...", sentenzia a se stesso, una vita dopo, lo stesso Momon, quando e' ora di tentare un bilancio complessivo ed onesto della propria esperienza. Del resto, lucidità di analisi, la quasi disperata lealtà di fondo (più a se stessi e come sorta di ostinazione virile che fedeltà incrollabile ad un presunto codice che la Storia e gli adeguamenti progressivi - sempre meno esigenti - dell'animo umano ad essa hanno via via, dai rispettivi fronti, eroso, tanto da far osservare ad un altro esponente di punta del cosiddetto neo-polar come Frederic Schoendoerffer: "Il milieu e' cambiato, i codici d'onore spazzati via a immagine della nostra società che si e' degradata con le disillusioni. Questi tipi sono totalmente irresponsabili, completamente impazziti, fuori dai limiti. La violenza e' il loro linguaggio, il loro mezzo di sopravvivenza per tenere il potere". E similmente: "Una banda dura dieci o dodici anni. Dopo un'altra banda prende il potere: e' veramente come nella catena alimentare. I malavitosi lo sanno. La storia del criminale che termina la propria vita felice, in campagna, e' un mito. Questo mestiere finisce sempre male"), come anche l'accurata ricostruzione documentale delle storie, l'attenzione ossessiva ai dettagli (abbigliamento, accessori, armi, gesti, sguardi), la pignoleria nel tratteggio delle psicologie, hanno sempre caratterizzato i lavori di Marchal, peraltro intrisi di una incoercibile irrequietezza, di una irruenza a stento trattenuta, ambivalenze caratteriali, queste, che se da un lato lo hanno posto sulla scia nobile segnata dalla meticolosa compostezza, dal rigore nipponico, di un autore decisivo come Melville, dall'altro hanno contribuito ad avvicinarlo a personalità non meno complesse come, ad esempio, M.Mann e J.To, di alcuni canoni espressivi dei quali ha saputo poi, di opera in opera, giovarsi (pensiamo, per dire, alle geometrie al tempo essenziali, astratte eppure sanguigne, selvagge, delle sequenze più squisitamente militari, a diverse riprese presenti anche in "Les Lyonnais"). Elementi questi che tornano di nuovo e assemblati quasi con ferocia intorno alle figure di Momon e Serge, gangsters predestinati da una educazione alla vita violenta e randagia, il cui unico cemento, la fiducia carnale e omertosa - sottolinea Marchal - si rivela poco a poco malfido, friabile, perché inadatto a respingere le infiltrazioni di un nuovo genere di opportunismo (di evoluzione dell'adattamento ?), cieco, irriflessivo, apatico, quindi incline a lasciar campo libero all'efferatezza, abile a non svelare mai del tutto la sua amalgama di base, neppure se sottoposto al vaglio della prova del nove per eccellenza, l'avidità. In un contesto del genere, riferimenti già precari come costanza, franchezza, capacita' di concentrazione, rispetto delle gerarchie, e' facile che virino - e in fretta (sul serio stava cambiando un'epoca: al di la' del gusto e dei costumi, della politica o dell'economia, una mutazione antropologica vera e propria era in atto e cominciava a mostrare il suo vero volto a partire da uno dei laboratori sociali più sensibili, quello del crimine) - in potenziali strumenti di autodistruzione ("Una vita per una vita", si dice, a voce bassa, meccanicamente, quasi ad autoconvincersi ma già non era più così vero).

Nella luce tagliente che isola e attraversa ambienti e volti, ora come fiamma pulsante che alimenta vite vissute senza risparmio perché senza domani (ciò che costituisce il quotidiano e' già avvenuto - amori, figli, svaghi - Oggi non c'è che da guardarsi le spalle, fumare nervosamente, mangiare con le mani, cambiare spesso riparo), ora segno perspicuo, persino accecante, a volte, di un destino segnato da sempre e avaro d'indulgenze, la menzogna e il tradimento pur reiterati e intrecciati - ci si e' giunti, al fine, a fare-tutto-ciò-che-si-può-fare - non riescono più a giustificare e ad esaurire lo spazio già residuale di uno stupore muto, l'ultimo, stonatura di nessun conto nel trionfo unanime e annoiato della Morte.
TFK


lunedì, maggio 11, 2015

FORZA MAGGIORE

Forza Maggiore
di Ruben Östlund
con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli
Francia. Danimarca, Germania, 2014
genere, drammatico
durata122'
 


Il diritto definisce forza maggiore ogni tipo di evento o energia esterna che, impedendo a un individuo di resistervi, lo costringono ad agire.
Questo il titolo dell’ultimo lungometraggio di Ruben Östlund, stella nel firmamento del cinema nordico, che non a caso con quest’opera ha vinto ha vinto il Premio della Giura nella sezione Un certain Regard alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes ed è stato successivamente selezionato per rappresentare la Svezia nella categoria Miglior film Straniero ai Premi Oscar.
Gran parte della vicenda è anticipata nella prima magistrale scena, in cui un fotografo si accinge a scattare – e costruire – immagini di felicità di una famiglia in un momento di riposo su un impianto sciistico, dicendo loro come sorridere, toccarsi e porsi in relazione l’uno all’altro quel tanto che basta per dare l’idea di un nucleo sereno.
Tomas (Johannes Kuhnke) e la bella moglie Ebba (Lisa Loven Kongsli) decidono di ricavare dall’affollata routine lavorativa, una settimana bianca da trascorrere assieme ai figlioletti in un lussuoso residence nei pressi di un impianto sciistico.
La prevedibile tranquillità di una vacanza sanza ‘nfamia e sanza lodo – in cui il padre risulta estraneo alle abitudini dei figli nonchè incapace di stabilire un contatto emotivo con loro, mentre ogni compito è delegato all’occhio attento ma stanco della madre –, è presto sconvolta da una vera e propria valanga che travolge la famiglia nell’atto di consumare un pasto su una terrazza panoramica. Se Ebba si butta sui figli cercando di trarli in salvo, la prima istintiva reazione di Tomas è invece quella di scappare – avendo però a cuore di portare con sé l’i-phone e i guanti –.
La coppia, che presto si accorgerà di non essere mai stata così lontana, deciderà di scegliere una versione ufficiale della storia da raccontare agli amici e in segno di pace si stringerà la mano, quasi onorando una tacita liturgia bellica. 

Diversamente dell’allegro quadretto borghese che le azioni dei quattro parrebbero suggerire, mentre Tomas e Ebba si troveranno presto a desiderare di trascorrere l’uno del tempo senza l’altro in lunghe passeggiate solitarie sugli scii, i bambini mostreranno di non voler trascorrere tempo coi genitori.
Ecclettico e interessante è l’uso della fotografia e del colore. Mentre i vari personaggi, a dispetto delle distanze che li separano, vengono caratterizzati dalla medesima cromia – tutta la famiglia ad esempio indossa un pigiama petrolio –, talvolta un uso della luce quasi zenitale assieme all’alternanza del bianco e del nero, suggerisce la presenza di un vuoto oramai incolmabile. 

«Vedevo la valanga, è cresciuta, è diventata enorme e all’improvviso è stato chiaro che non era sotto controllo» affermerà uno dei due coniugi, e la frase non ha certo il solo valore di descrivere l’evento naturale, assumendo anzi significato in relazione allo sprofondare della relazione.
Ad aiutare i protagonisti nel lento processo di riconoscimento della noia che guida le loro giornate, guidandoli in un moto per inerzia, saranno altri ospiti del residence: una donna sposata che nonostante la famiglia e i figli ha deciso di non abdicare alla propria libertà sessuale e intellettuale e una giovane coppia appena formatasi e apparentemente stabile nella stabilità del proprio amore.
La macchina da presa, per lo più statica, riprende con fermo cinismo l’evoluzione di quella che sarebbe dovuta essere la piacevole vacanza di una famiglia perfetta, indugiando con un certo humor sulle fragilità dei protagonisti, i cui comportamenti, così per bene e così borghesi, finiscono per essere dipinti come ridicoli e grotteschi.
Erica Belluzzi