sabato, novembre 30, 2019

VIVERE CHE RISCHIO: CONVERSAZIONE CON MICHELE MELLARA E ALESSANDRO ROSSI




Vivere, che rischio racconta la vicenda esemplare di Cesare Maltoni, eroe del nostro tempo per aver rivoluzionato l'approccio terapeutico alla malattia, collegandolo all'inquinamento ambientale. Michele Mellara e Alessandro Rossi ne fanno un personaggio epico, come quelli del cinema classico ma scevro dalla retorica che spesso accompagna tali personalità. Di seguito la conversazione con gli autori del film




Volevo partire dalla scelta di affidare alla parole del protagonista il compito di raccontare la sua stessa esistenza. Un espediente simile a quello adottato da Billy Wilder per Viale del tramonto, considerato che, alla pari di William Holden, anche quella di Cesare Maltoni è la voce di un uomo già “morto.

Abbiamo scelto di raccontare l’esistenza di Cesare Maltoni attraverso la voce fuori campo del bravissimo attore di origine romagnola Luigi Dadina, perché da un lato volevamo creare un rapporto empatico con lo spettatore; dall’altro esplicitare che sarebbe stata un viaggio nella memoria che lo avrebbe portato indietro negli anni. Tanto è vero che all’inizio del film si dice in maniera chiara che l’io narrante interpretato da Dadina è morto. Volevamo che questo attore fosse in grado di restituire la figura di Maltoni anche nell’accento. Lui era faentino, parlava bene l’inglese ma con un timbro italiano molto marcato, direi quasi con la sua cadenza.

In questo senso è efficacissimo l’espediente di Viale del tramonto, cioè del protagonista che racconta se stesso, il punto di vista della sua vita quando già è morto. Tale espediente vi permette di realizzare quello che avete detto e cioè di rendere il film un documento e di delineare un personaggio cinematografico classico che, distaccandosi dalla realtà fattuale, diventa archetipo di un modo di pensare, di un’intera società, della lotta dell’uomo contro forze più grandi di lui, e poi di acquistare l’epica che la vita di Maltoni ha avuto.

Infatti, nelle note del film abbiamo scritto che raccontiamo la storia di un eroe inteso in termini molto classici. La figura dell’uomo come modello per gli altri uomini, come archetipo della lotta contro il potere che in questo caso ha la forma delle grandi multinazionali e dei potentati economici. Poi c’è l’espediente narrativo che serviva a costruire l’empatia con lo spettatore.



All’inizio lo sentiamo parlare soprattutto in inglese ma il suo timbro è il più romagnolo che ci possa essere.

Sì. Lo presentiamo subito in questo modo per dare l’idea del carattere del personaggio, della forza e anche della sua dinamicità. Tornando alla voce, volevamo un attore che non imitasse Maltoni ma che potesse riportare lo spettatore nello stesso alveo linguistico utilizzato dal protagonista. Come avrai notato è un film documentario molto scritto. Dunque, avevamo bisogno di orchestrare la narrazione e, come diceva Edgar Allan Poe, lavorare sulla parabola delle emozioni, evitando di andare sempre solo in alto o in basso. Ci serviva, in altre parole, una narrazione nella quale ci fossero vuoti e pieni capaci di fornire elementi di contenuto per compenetrare il lavoro di Maltoni. Alle cifre, ai dati e ai numeri doveva fare da contraltare una narrazione calda e appassionata.

La scelta di una drammaturgia capace di trattare una materia seria con una sorta di simpatica leggerezza da una parte corrisponde alla personalità del protagonista, dall’altra permette di accostare il documentario, inteso come  testimonianza scientifica dei fatti, al cinema come capacità di far coesistere la figura reale con quella archetipica dell’uomo che lotta contro un nemico più grande di lui. Senza questo stratagemma l’epica del personaggio Maltoni non sarebbe risultata altrettanto efficace da riportare sullo schermo.

Assolutamente. Perché noi lo ritraiamo come un grande personaggio cinematografico, un eroe come quelli di tanti film americani, un loser che combatte la realtà, con alterna fortuna. Come i personaggi dei film risentiamo una parte della sua vita privata senza pruderie e solo per far vedere in che modo essa incide in quella pubblica. Al modo dei grandi personaggi, ci sono momenti di estrema solitudine che noi abbiamo cercato di rendere con un pathos vicino al cinema di finzione.

Ho trovato straordinario il fatto di avere reso un documentario come La vita che rischio con il passo e la drammaturgia da cinema classico.


Sì. Adesso non voglio parlarne troppo, ma lo abbiamo affrontato in questi termini. Come un film a tutti gli effetti, capace di far pensare lo spettatore coinvolgendolo direttamente all’interno della storia. Tornando alla tua domanda: effettivamente il tema trattato molto spesso è  pesante e anche drammatico.


In effetti, trattando la vita di un medico che lotta per sconfiggere patologie spesso incurabili, c’era il rischio di allontanare lo spettatore e invece guardando il film si ha l’effetto opposto.

Secondo me, abbiamo usato quella che nella pittura a cavallo tra seicento e ottocento si chiamava tecnica mista, nel senso che abbiamo usato un codice filmico che contemplasse al suo interno vari elementi, tanto è vero che esistono gli archivi, c’è un lavoro sulla grafica, c’è un lavoro di ricostruzione visiva e anche questa nota, che per noi è importantissima, della leggerezza calviniana, intesa come possibilità di dire cose molto profonde, complicate e complesse però con un tono leggero.

In questo senso, il tono della voce narrante unita alla presenza di un Io che riflette sui fatti della storia è la sintesi di quello che hai appena detto. Vi permette di essere profondi ma con un tono di voce e un modo di fare che in realtà sono leggeri e spesso ironici.

Sì. Penso che sia questa combinazione di codici ma anche di come sono montate le scene e di come si utilizzano i materiali. A questi fattori, a mio avviso, è poi il il tono della voce a produrre l’effetto che tu stai molto chiaramente esplicitando.

Sempre restando sulla forma del dispositivo, il film è composto da immagini d’archivio, da interviste ma anche da composizioni che sono il risultato di un accurato lavoro grafico e di fotografia. Ci sono sequenze in cui il colore rosso interviene per tratteggiare contorni e figure; altre in cui è il tipo di montaggio a rendere il senso della vicenda. Volevo chiederti qualcosa su queste due caratteristiche.

Sono due punti sostanziali in questo film, come nei precedenti. Perché, da un lato, richiedono moltissimo tempo affinché vengano sviluppati con cognizione di causa e con professionalità; dall’altro, riuscire a interpretare una sequenza in profondità e poi dargli forma – per esempio con un particolare elemento grafico – equivale a restituire allo spettatore più elementi di godimento per compenetrare quel determinato momento del film. Avendo inoltre spesso a che fare con una materia ostica e anti cinematografica, fatta di numeri, dati, cifre et., in alcuni momenti e senza esagerare, la grafica ci ha dato la possibilità di essere creativi e di stemperare un po’, come dire, anche con leggerezza, la materia del racconto.

Secondo me, fate anche un’opera che ha un forte segno cinematografico, perché gli espedienti appena menzionati non vanno a discapito dell’oggettività documentaria. Così facendo, il film diventa un’estensione dello stato d’animo e della personalità del protagonista, la cui polivalenza scientifica e umana è testimoniata dalla straordinaria idea su cui si conclude: quella della clinica di cure palliative, che trasforma il momento tragico della vita umana in un luogo confortevole e amoroso. A mio parere, il corpo del film finisce per coincidere con quello di Maltoni.


Mi fa piacere che tu lo abbia sottolineato, perché quello era il nostro intento. Rendere vivo un personaggio vuol dire reinterpretarlo in profondità attraverso il linguaggio che stai usando. Noi utilizziamo il cinema e il documentario declinandoli a varie latitudini, a seconda della materia che raccontiamo. Come hai notato, qui ci sono delle riprese dal vero che abbiamo ricostruito e ci sono delle interviste, ma insieme a queste c’è tutta una parte che invece è più legata al montaggio creativo dell’archivio, alla realizzazione di grafiche e poi, soprattutto, un finale poetico in cui, prima di abbandonarci, il personaggio ci lascia comunque con una poesia di Tagore che a nostro giudizio è interpretata con grande afflato emotivo da Luigi Dadina.


Mi pare di capire che gli strumenti  del cinema documentario siano preferibili a quelli del cinema di finzione, anche se Vivere, che rischio è una sintesi di entrambi. Forse perché la realtà è così complessa che la finzione, da sola, non riesce a soddisfare la conoscenza è la verità.

Forse c’è questo. In realtà, noi scriviamo molto nei nostri documentari, nel senso che in essi c’è un percorso di conoscenza che parte nel momento in cui cerchiamo di approfondire un tema di cui non siamo a conoscenza: che si tratti di medicina o della storia di Bologna. C’è quindi un percorso di studio sia delle fonti che dei testi di qualsiasi materiale ci possa essere utile. C’è poi un grosso lavoro di scrittura in quasi tutti i nostri documentari da cui discende l’elaborazione di una sceneggiatura.

Dicevamo di come Vivere, che rischio, sia un film molto scritto. A questo proposito, volevo chiederti qual è stato il processo di scrittura e le fonti utili a dare voce al personaggio di Cesare Maltoni ?

Ma guarda, noi abbiamo fatto una ricerca molto lunga negli archivi di Maltoni, ancora oggi conservati nella villa in cui lui visse e nella quale sono raccolte tutte le pubblicazioni scientifiche, sue e di quelle più significative di altri colleghi, ma anche documenti privati. Stiamo parlando di fotografie, di rapporti epistolari, di lettere scambiate con altri scienziati, con amici. Parte dell’avventura è iniziata da lì. Il resto come sempre è il risultato delle nostre ricerche, in cui andiamo a leggere e ci informiamo come se dovessimo fare una tesi. Questa è la prima fase. Dopodiché abbiamo costruito la drammaturgia, cioè il racconto scritto a partire da fonti documentali che però abbiamo ricucito insieme e nelle quali abbiamo anche inserito dei connettivi di tipo narrativo, cioè dei passaggi che aiutano a portare lo spettatore da un momento all’altro nel film. Questo è il tipo di lavoro che abbiamo fatto.

Oltre a questo espediente c’è la scelta di una voce rassicurante e simpatica e l’uso del dialetto da parte del protagonista e degli altri personaggi. Questo vi permette di costruire una drammaturgia capace di affrontare la serietà del tema con quella leggerezza che apparteneva al personaggio di Maltoni, uomo impegnato, ma anche capace di guardare alla vita con ironia.

Sono strategie legate tanto al personaggio di Maltoni, quanto alle necessità di scrittura. Il fatto di passare da uno stato emotivo all’altro, di portare lo spettatore verso dei picchi e poi spostare l’attenzione da un’altra parte è un modo di raccontare drammaturgico e teatrale che fa parte un po’ anche di un nostro modo di affrontare le cose. Nei nostri documentari abbiamo sempre un piglio se vogliamo ironico, anche in quelli più seri. C’è sempre uno sguardo esterno che ci permette una prospettiva a noi confacente. In Maltoni questo lo abbiamo trovato nelle lettere, negli scritti ma anche in lui, come persona e non solo come personaggio.

Dopo il grande successo di Fortezza Bastiani smettete di fare cinema di finzione per dedicarvi al documentario. Qual è il motivo di questa scelta?

La risposta più semplice e banale a questa domanda è che a un certo punto abbiamo deciso di viaggiare, trasformando il desiderio di cercare uno sguardo sul mondo nella possibilità di raccontarlo dentro le nostre immagini e nei loro contenuti. Questo ha occupato tutto il nostro tempo, sia creativo che produttivo, tant’è che abbiamo creato una società di produzione insieme a Ilaria Malagutti, che poi è la produttrice di tutti i nostri documentari, e a Francesco Menghini che è un altro filmmaker. Come sai, è abbastanza complicato realizzare documentari, richiede molto tempo e necessità un’esplorazione del mondo che ti porta via da casa. Nei nostri lavori abbiamo sempre cercato storie che avessero un taglio internazionale e universale e legami forti con la nostra realtà nazionale, anche locale. In alcune circostanze e anche in maniera inconsapevole siamo tornati a soffermarci su comunità di persone. È una cosa che abbiamo fatto in Fortezza Bastiani in cui raccontiamo una comunità di studenti. Da lì in poi noi abbiamo sempre cercato di parlare di un insieme di persone. Forse quella su Maltoni è l’unica vera  biografia di un personaggio, anche se in realtà dietro di lui c’è la storia di una città, c’è la storia di un modello sociale, di un modello politico. L’altra cosa che ci ha spinto ad ampliare i nostri orizzonti è l’interesse verso le questioni anche drammatiche e scottanti dei nostri tempi. I temi della globalizzazione, l’impatto delle multinazionali, l’impatto dello sviluppo fuori controllo sulle vite delle persone.



Facendo un paragone con Fortezza Bastiani, anch’esso ambientato a Bologna, volevo chiederti se ai giovani protagonisti di quel film sarebbe piaciuta la figura di Maltoni. Io penso di sì.

Sì. Ai protagonisti di Fortezza Bastiani, di certo. Erano un gruppo molto attento al sociale, a quanto accadeva intorno a loro, lettori onnivori, dunque credo proprio di sì. Poi lui era un comunista, un omosessuale, un ribelle, quindi aveva tutte le caratteristiche in grado di renderglielo interessante.

Dopodiché da spettatore e da cittadino, mi chiedo come sia possibile che un personaggio di tale caratura sia ai più sconosciuto e così poco ricordato dalle istituzioni italiane. Io, per esempio, non sapevo della sua esistenza.

Io penso che le ragioni siano figlie dei tempi in cui viviamo, come pure del nostro paese, nel senso che spesso l’Italia ha la memoria di un pesce rosso. Non eri solo tu a non saperne nulla. Cesare Maltoni è stato lasciato nel dimenticatoio. Abbiamo avuto molto chiara questa impressione nel corso delle prime proiezioni, in cui moltissima gente vedendo il film si rendeva conto di quanto fosse strepitosa e straordinaria la figura del protagonista. Il New York Times gli ha dedicato delle pagine intere. Stiamo parlando di un personaggio che probabilmente in altri paesi avrebbe avuto dei monumenti.

Avrebbe vinto il premio Nobel!

Ha fatto delle cose straordinarie, di portata unica a livello internazionale. Nel documentario viene detto molto chiaramente che gli operai di un’importante industria petrolchimica americana conoscevano due italiani: uno era Cristoforo Colombo, l’altro Cesare Maltoni. Ha cambiato radicalmente i diritti sulla tutela ambientale dei posti di lavoro, quindi stiamo parlando di un gigante. Il fatto che da noi sia sconosciuto è dovuto al fatto che essendo esterofili tendiamo a riconoscere poco le nostre eccellenze. Poi c’è un rimosso, rispetto alla cultura, alle cose comuni, al senso degli altri che ritroviamo declinato in molte situazioni della nostra quotidianità.

L’azione di Maltoni fu visionaria e anche scomoda, perché le sue scoperte andavano a ledere gli interessi dei potentati economici e finanziari artefici dell’inquinamento ambientale e, quindi, della conseguente pandemia tumorale. L’isolamento e gli attacchi, la sorta di damnatio memoriae di cui è stato vittima, sono un po’ lo specchio della società non solo di allora ma anche di oggi.

Guarda, la storia è sempre contemporanea, quindi sono pienamente d’accordo. La storia che raccontiamo è proprio lo specchio del nostro presente.

Maltoni parte dall’ospedale Sant’Orsola, in cui viene confinato dopo aver lasciato la carriera universitaria, e da lì compie la sua rivoluzione. Inizia a fare delle cose che in Italia e anche nel mondo non si facevano e di cui diventa l’avanguardia. Cambia una mentalità. Con lui la cura della malattia diventa prevenzione prima dell’insorgenza della stessa.

L’istituto Ramazzini da lui fondato si rifà al famoso motto dello scienziato seicentesco di Bernardino Ramazzini “Prevenire è meglio di curare”, e questa è stata, come dire, la leva ideale che ha sempre animato lo spirito di Maltoni. In estrema sintesi, sono tre le cose straordinarie che lui ha fatto. La prima è che all’inizio degli anni Sessanta riesce a impostare una campagna di screening per il Pap test relativo al tumore della mammella e di quello della radice dell’utero per migliaia e migliaia di donne, con la complicità e il supporto dei rappresentanti politici dell’Emilia Romagna. La seconda è appunto la fondazione dell’Istituto Ramazzini, che sotto la sua guida ha fatto ricerche su sostanze tossiche cancerogene dimostrandone la gravità. Parliamo di un istituto di ricerca scientifico indipendente ancora oggi tra i più autorevoli a livello internazionale, diretto da Fiorella Belpoggi, già allieva di Maltoni e presente nel documentario. La terza e ultima cosa è, alla fine degli anni Novanta, il primo Hospice italiano per le cure palliative di Bentivoglio, vicino Bologna, realizzato attraverso il supporto della mecenate bolognese, Isabella Feragnoli.



A emergere in maniera sostanziale e non dogmatica è il fatto che dietro all’azione di Maltoni c’è l’idea di dedicare il suo lavoro a favore delle persone più povere che, nei fatti, erano le prime vittime dell’incontrollato sviluppo tecnologico. In questo senso lui incarna in maniera fattiva il suo essere comunista.

È vero. Lui ha militato nel Comunismo, è stato eletto in Consiglio Comunale a Bologna nelle liste del PCI e, attraverso il partito di quegli anni, soprattutto nella figura del senatore comunista Luigi Orlandi, Maltoni trovò l’appoggio politico per mettere in campo e realizzare le proprie idee in ambito scientifico. Un pensiero, il suo, sempre animato da un grande senso del bene comune, dal fatto di lavorare per tutti e non per una certa Italia, quindi anche per i meno abbienti, per un diritto alla salute trasversale che arrivasse a tutti i cittadini. Ad aiutarlo fu anche la sua abilità di comunicazione. Maltoni era capace di parlare nei convegni più esclusivi e raffinati così come alla casalinga semianalfabeta di Voghera.

Rimanete sempre sul personaggio ma attraverso di lui raccontate indirettamente la storia di una comunità, di una città come Bologna. In questo senso l’evoluzione esistenziale di Maltoni diventa quella della a società in cui vive.

Lo sguardo sulla società del suo tempo – destinato ad arrivare ai nostri giorni – era importante e noi lo rendiamo sia nelle immagini di repertorio ma anche con l’utilizzo di grafiche che aiutano a sottolineare il passaggio degli anni, come pure il cambiamento dello sguardo sulla sua persona, dapprima accolta nella comunità dei rivoluzionari bolognesi come un innovatore e poi, piano piano, sempre più messo da parte con un malcelato bigottismo e un po’ di fastidio per i suoi conseguimenti, per il fatto che aveva pestato i piedi un po’ a tutti. Forse per la prima volta ci siamo concentrati su un personaggio solo ma abbiamo sempre mantenuto l’attenzione sulla collettività. In tutto quello che abbiamo scritto e raccontato c’è sempre un interesse a vedere quelli che sono attorno, non solo al centro della scena. Accanto a Maltoni c’è tutta la città, c’è l’ospedale di Bologna, c’è il movimento delle donne colte nella presa di consapevolezza del proprio corpo e nella necessità di liberarsi da imposizioni maschili secolari, c’è un’idea di salute sul lavoro, ci sono tanti movimenti che lui intercetta e che riesce a portare avanti con le sue idee scientifiche.

A proposito dell’importanza di Maltoni, volevo che mi parlaste della sua rivoluzione scientifica, quella che gli permise di dimostrare la dannosità dell’ambiente sulla fisiologia del corpo umano. Lui fa degli esperimenti che sono lunghissimi e costosi, talvolta noiosi ma tali da renderne inattaccabili i risultati. Le sue imprese appaiono titaniche.

È una cosa eroica, una lotta contro i titani. Dieci, quindici anni e migliaia di topi, centinaia di migliaia di vetrini, l’ossessione per i numeri, le statistiche. A un certo punto qualcuno dice che non faceva delle tabelle di statistiche e dati ma dava proprio i numeri, un tumore alla volta. C’era quindi una meticolosità che probabilmente non è neanche più praticabile con i modelli scientifici attuali ma che all’epoca aveva una forza dirompente. È sì, è vero, lui porta avanti una rivoluzione sociale nei modi in cui ti dicevo ma anche scientifica. L’idea, che oggi è stata sepolta, è che la scienza dovesse aiutare a prevenire i danni da essa stessa prodotti.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it/Coversation)

FROZEN II - IL REGNO DI ARENDELLE



Frozen II - Il segreto di Arendelle
di Chris Buck e Jennifer Lee
con Idina Menzel, Kristen Bell, Jonathan Groff
USA, 2019
genere: animazione, commedia, avventura, musicale
durata, 103’



Tornano le due sorelle di Arendelle, Anna e Elsa, così diverse eppure così vicine e in sintoni, nel sequel del fortunatissimo film Disney, “Frozen”.
Stavolta a smuovere le acque e il destino del regno dove vivono le due protagoniste ci pensa un enorme segreto anticipato, nelle prime battute, da un racconto del padre alle due piccole in un interessante e, al tempo stesso, divertente flashback.
Elsa è sempre più inquieta perché convinta che una voce la stia chiamando per svelarle il segreto di Arendelle. Per non allarmare la sorella, in un primo momento non le racconta niente, ma si trova costretta a farlo quando capisce che il segreto è più grande di lei. Le due decidono di partire insieme (con i fidati Kristoff, Olaf e Sven) per cercare di risolvere il mistero. Oltre a scoprire cosa nasconde il proprio regno e a conoscere tanti personaggi che, in un modo o nell’altro, cercheranno di dare il proprio contributo, le due sorelle verranno nuovamente messe a dura prova per testare il loro legame indissolubile che niente e nessuno può distruggere. Mentre Elsa entra in contatto con i quattro elementi, cerca di interrogarsi e di “discolparsi” in qualche modo perché si sente responsabile di molti avvenimenti, Anna dovrà fare i conti con la distanza e la separazione temporanea della sorella.
A fare da cornice alle due protagoniste e alle tematiche centrali e serie del film, ci sono tre personaggi da non dimenticare assolutamente che rappresentano la chiave comica (ma in molti casi anche riflessiva) della storia: Kristoff, e i suoi continui tentativi di fare la grande proposta ad Anna, l’inseparabile renna Sven che regalerà una sorpresa veramente inaspettata e il mitico pupazzo di neve Olaf, protagonista assoluto di uno dei momenti più divertenti dell’intero film, destinato a rimanere nella storia dei film d’animazione come scena più divertente (nella versione italiana gran parte del merito va anche a Enrico Brignano che dà voce al personaggio riuscendo a camuffarsi e, al tempo stesso, a caratterizzarlo particolarmente).


Molte le canzoni in questo sequel che lo trasformano quasi in un vero e proprio musical, dove i personaggi, invece di agire immediatamente, si fermano a riflettere, si pongono delle domande, evidenziate proprio dalle varie strofe e trovano il coraggio e la forza di rialzarsi o di agire tra una nota e l’altra.
Sempre più netta, ma anche più evoluta, la differenza tra le due sorelle. Da una parte una Elsa sempre più precisa, attenta e chiusa in se stessa, nonostante la consapevolezza di poter avere delle persone fidate accanto; dall’altra una Anna nella quale tutti si possono riconoscere, curiosa, intraprendente, disordinata, ma anche e soprattutto molto amorevole nei confronti degli altri e della sorella in primis.
Altro elemento non di poco conto è la grafica, veramente curata nei minimi particolari che dimostra, ancora una volta, il miglioramento disneyano da questo punto di vista e quasi una spinta verso qualcosa di sempre più vicino al reale. Non sono soltanto ben evidenti le lentiggini delle protagoniste, i capelli definiti di entrambe o i particolari degli abiti (dalle trecce di Anna, ai fiocchi di neve del vestito di ghiaccio di Elsa), ma anche le gocce d’acqua sembrano assumere una “caratterizzazione” quasi reale. A proposito dei vestiti si potrebbe aprire un’interessante parentesi sul fatto che le due figure cambiano abbigliamento in un momento specifico della vicenda e se, all’inizio, hanno due abiti eleganti che sembrano rimandare all’idea classica della principessa, dopo rivelano, invece, di essere pronte all’avventura e a cambiare da tutti i punti di vista.
Un ottimo lavoro quello della Disney in questo sequel tanto atteso che non ha assolutamente disatteso le aspettative, ma anzi ha tutte le carte in regola per diventare ancora più cult del primo!
Veronica Ranocchi


domenica, novembre 24, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

The World of Tomorrow di Dan Hertzfeldt (USA, 2015)

L'UFFICIALE E LA SPIA


L'ufficiale e la spia
di Roman Polanski
con Jean Dujardin, Emmanuel Seigner, Louis Garrel
Francia, Italia, 2019
genere. storico, drammatico
durata, 126


Come si fa a rimanere un grande cineasta dopo lustri di onorata carriera e di una serie innumerevoli di premi ce lo dimostra Roman Polanski in quello che fin qui è stato il film più bello della 76a Mostra del cinema di Venezia. La storia de "L'ufficiale e la spia" - tratta dall'omonimo romanzo di Robert Harris, già  utilizzato dal nostro per "L'uomo nell'ombra" - infatti è di quelle di cui non solo il cinema ma anche la saggistica e la letteratura si sono occupate più volte, contribuendo da par loro alle caratteristiche paradigmatiche ormai attribuite al cosiddetto "affare Dreyfus". Questo per dire come il soggetto in questione, oltre ai rischi di retorica connessi con l'importanza dell'argomento, utilizzato nei dibatti contemporanei come cartina di tornasole del sopravvissuto antisemitismo europeo, non potesse contare, almeno in partenza, su quelle caratteristiche di novità e scoperta utili a stimolare l'interesse dello spettatore. Stiamo dicendo che nell'adattare per il cinema l'ennesima versione del caso in questione, Polanski doveva per forza di cose inventarsi qualcosa capace di giustificare gli sforzi anche economici legati alla realizzazione della sua creatura.


In effetti, così succede, a partire dal rapporto che ha la prima sequenza con le altre che seguono. Apparentemente ordinaria, seppur nella sua tridimensionale magnificenza, la scena relativa alla degradazione pubblica di Dreyfus, realizzata con un campo lunghissimo e onnicomprensivo dello schieramento di ufficiali, sottufficiali e militari semplici chiamati a fare da testimoni al "pubblico ludibrio", svolge una funzione di senso che il film si porta dietro nel corso di tutta la sua durata e che misura il grado di iniquità applicato dagli organi giudicanti nei confronti del condannato. Tanto più eclatante infatti è la forza menzognera dell'accusa, sancita dalla natura pubblica dell'evento come pure dalla ricerca del regista dell'estensione massima dello spazio possibile all'interno dell'inquadratura, quanto più clamorosa risulta la mancanza del medesimo metro di messinscena quando si tratterà di rendere onore alla verità dei fatti con la scoperta del complotto operato dagli alti ufficiali dell'esercito francese nei confronti del malcapitato e dunque della sua innocenza, tenuta nascosta al mondo non solo dalla volontà dei congiurati ma anche dalle scelte di regia di Polanski, deciso a far sentire la grandezza del misfatto (anche) attraverso l'idea di sottrarre spazio alle inquadrature - tutte girate in interni e in ambienti angusti e ordinari -  e di consegnare la scoperta della verità a una non altrettanto grandeur visuale. Una posizione scontata, quella presa da Polanski a favore del suo personaggio, ma resa geniale dal modo in cui lo stesso ha deciso farcene parte.   
Una noblesse d’art che già da sé fa capire allo spettatore non solo che tipo di opera si troverà davanti una volta entrato in sala ma anche, e soprattutto, la capacità del regista di applicare ai fatti un punto di vista in grado di ricreare la verità del loro svolgimento ma di reinventarne - come si è cercato di spiegare sopra - la comprensione.

Anche per ciò che segue a venirci incontro è ancora la forma, comprensiva di vecchio e nuovo quando si tratta di creare vasi comunicanti tra passato e presente e, dunque, atta a inventare l'immagine della Storia con un manierismo (si veda per esempio l'utilizzo da cartolina del grigio seppiato usato per colorare la cattività sofferta da Dreyfus nell'isola in cui fu esiliato e incarcerato) che è tanto del decor ambientale quanto delle figure umane che vi partecipano. E, ancora, non contenta, di sabotarne i risultati con movimenti di macchina (accenni di carrellate e brevi long take) che spezzano per un attimo il rigore e la compostezza raggiunta, riportandoci al segno cinematografico dei giorni nostri.
Stabiliti i collegamenti e le relazioni formali, per il Maestro è un gioco da ragazzi fare di Dreyfus il proprio alter ego, nella similitudine - denunciata dal regista - tra il trattamento riservato da giustizia e opinione pubblica al capitano francese e quello (ancora oggi) subito dall'irrequieto regista da parte di istituzioni e opinione pubblica.

La qualità del lavoro realizzato da Polanski si vede parimenti nei dettagli, come lo sono quelli relativi alla presa in rassegna dei cosiddetti personaggi storici, per una volta esentati dall'essere delle semplici macchiette (soprattutto Zola, autore dal noto J’accuse da cui il film prende il titolo originale) e, in termini assoluti, quando si tratta di restituire e restituirci un Jean Dujardin come non l'avevamo visto dai tempi di "The Artist", talmente dignitosa e piena di umanità è l'interpretazione del colonnello Georges Picquart, ufficiale dei servizi segreti a cui spetterà il compito di scoprire l'ingiustizia e, con sprezzo del pericolo, di denunciarla davanti a chi non aveva voglia di sentirla. Se Dreyfus è, per  forza di cose, il doppio di Polanski, il personaggio incarnato da Dujardin ne è quantomeno la proiezione ideale, nella constatazione di una coerenza, quella del militare, che impedisce all'uomo di venir meno al senso di giustizia e di verità, difese ad oltranza, e di cedere ai pregiudizi nei confronti della comunità ebraica, a cominciare dai propri, dichiarati in una delle scene iniziali del film. Per Polanski è dunque lui l'uomo moderno, sintesi perfetta dell'umano riconciliato dalle contraddizioni che attraversano la nostra contemporaneità. A lui e al suo interprete vanno le nostre considerazioni migliori in vista del premio come migliore attore. Non che quelle di Brad Pitt o Joaquin Phoenix siano da meno. Anzi. Qui però è una questione di verità storiche, quelle che l'attore francese incarna meglio degli altri.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

KLAUS - I SEGRETI DEL NATALE


Klaus – I segreti del Natale
di Sergio Pablos
con Jason Schwartzman, J. K. Simmons, Rashida Jones
Spagna, 2019
genere, animazione
durata, 98’


Nuovo film d’animazione targato Netflix, “Klaus – I segreti del Natale” di Sergio Pablos, fa entrare in anticipo nello spirito natalizio.

Jesper è un giovanissimo postino che tenta di essere addestrato all’accademia postale, il cui direttore è il padre, ma che, approfittando di questo legame, fa tutt’altro e viene etichettato come il peggior studente, non in grado di svolgere i compiti a lui assegnati. Per punirlo, ma anche e soprattutto per farlo riflettere e crescere, il padre lo invia su un’isola ghiacciata al circolo polare artico, Smeerensburg, che si fonda, secondo quanto dicono gli abitanti stessi, su rivalità, faide e lotte. Qui dovrà riuscire a consegnare 6000 lettere, dopodiché potrà tornare a casa. Dopo un’accoglienza tutt’altro che calorosa, Jesper capisce che il suo compito non sarà facile dal momento che le persone, odiandosi, non hanno la minima intenzione di scambiarsi parole, figuriamoci lettere. Ma tutto cambia grazie ad un caso fortuito: un bambino in cerca di compagnia e di divertimento, un’insegnante locale inizialmente amareggiata e soprattutto Klaus, un misterioso falegname che vive da solo in una capanna piena di giocattoli di legno da lui stesso fabbricati. Grazie all’incontro con l’anziano Klaus, Jesper ritrova la speranza e crea qualcosa di magico e unico a Smeerensburg.

Si tratta di una storia di finzione sul mito di Babbo Natale, impersonato, in questo caso, dal silenzioso Klaus, ma è una rivisitazione diversa dalle classiche storie. Al di là di alcuni luoghi comuni legati al Natale e alla figura di Babbo Natale, tutto è reso in maniera “naturale” e semplice. E’ ovvio pensare di donare ai bambini dei giocattoli la mattina di Natale, è ovvio fabbricarli per loro ed è ovvio rimanere a guardarli mentre, soddisfatti, scartano i rispettivi pacchi scoprendo all’interno proprio ciò che desideravano di più.

Il personaggio di Jesper è, involontariamente, un aiutante di Klaus e, come nella maggior parte delle volte, il suo modo di vivere e di vedere il mondo cambia radicalmente nel momento in cui incontra il vero protagonista ed entra in contatto con lo spirito (magico) del Natale.Un’animazione che rimanda ai classici disegni animati del passato, ma che, nella sua semplicità, dimostra di essere all’altezza del compito.

I presunti “nemici” dei protagonisti non vengono sconfitti, non ci sono guerre e faide, ma vengono semplicemente sopraffatti da un clima e da uno spirito positivo che non può che cambiarli.Insomma quello che, alla fine, viene fuori da “Klaus” non è tanto il come è nata la leggenda di Babbo Natale, ma quanto piuttosto il fatto che deve essere la bontà a prevalere in qualsiasi scelta. Bisogna mettere da parte l’odio e volersi bene, non soltanto a Natale. Se poi, al profondo e bellissimo messaggio, sommiamo la nostalgia per la “vecchia” animazione tradizionale e la simpatia del personaggio di Jesper (che in italiano è doppiato da un esilarante Marco Mengoni), la ricetta per il film d’animazione perfetto per questo Natale è pronta.
Veronica Ranocchi

sabato, novembre 23, 2019

IL FILM DELLA SETTIMANA - VIVERE, CHE RISCHIO





Vita e morte di un eroe del nostro tempo raccontata con profondità e leggerezza in un documentario in cui il lavoro d'archivio si somma a quello grafico e di finzione operato nelle immagini e sulla forma de racconto. Distribuito da I Wonder Pictures e diretto da Michele Mellara e  Alessandro Rossi è un film necessario oltrèche bello.  

domenica, novembre 17, 2019

LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA

Le Mans ’66 (Ford vs Ferrari)
di James Mangold
con Matt Damon, Christian Bale, Caitriona Balfe
USA, 2019
genere, biografico, sportivo, drammatico
durata, 152’


Bellissima e intensa sfida quella tra due grandissimi nomi, quelli della Ford e della Ferrari, protagonisti del nuovo film “Le Mans ’66 – La grande sfida”. Non a caso il titolo originale è proprio “Ford vs Ferrari” a sottolineare ancora di più la concorrenza e la rivalità tra questi due marchi.
Il film di James Mangold si concentra sulla figura dell’automobilista Ken Miles e su quella del progettista Carroll Shelby che hanno contribuito alla realizzazione della Ford GT40, la macchina che ha permesso alla Ford, appunto, di vincere la 24 ore di Le Mans nel 1966 (e anche le edizioni successive) contro il colosso Ferrari.
Il focus sulle due figure protagoniste serve al regista per raccontare un momento di crollo del marchio Ford nel 1966 che, in seguito a una forte crisi nelle vendite, decide di mettersi alla prova per una delle gare automobilistiche più importanti e più di risalto del mondo per poter rilanciare la propria immagine.
Per poterlo fare il magnate a capo della Ford decide di chiedere aiuto a uno dei massimi esperti nel campo: Carroll Shelby che inizia, fin da subito, ad adoperarsi per realizzare qualcosa che possa concorrere con l’avversario principale: la Ferrari. Una volta chiamato a rapporto l’amico Ken Miles, pilota ed esperto di auto sotto tutti i punti di vista, i due cominciano a lavorare ad un nuovissimo modello di auto che potrà fare concorrenza alla Ferrari. Ma dovranno fare i conti con chi proverà a mettere loro i bastoni fra le ruote.

Una storia intensa e appassionante che fa rimanere lo spettatore incollato allo schermo in ogni momento, sia nella fase di preparazione della vettura, sia in quella nella quale viene utilizzata. I due personaggi sono ben caratterizzati e il pubblico non può far altro che avvicinarsi a loro e immedesimarsi in Miles alla guida di una vettura che appare supersonica, ma anche comprendere l’indecisione la rabbia di Shelby in determinati frangenti.
L’abilità del regista risiede proprio nell’ampio utilizzo di effetti speciali che permettono al film di vivere le avventure in prima persona, praticamente a fianco del pilota. Lo scalare delle marce, gli ingegnosi sorpassi e le repentine accelerazioni fanno stare perennemente col fiato sospeso e il brivido della corsa coinvolge anche il più distaccato spettatore.
Nota amara per il pubblico italiano è sicuramente la descrizione del marchio Ferrari, etichettato in maniera negativa come acerrimo nemico, despota egoista e disposto a tutto pur di non avere niente a che fare con il colosso americano.
I due attori protagonisti, Matt Damon nei panni di Shelby perennemente con il chewing gum e una masticazione concitata, e il trasformista Christian Bale (che quasi si stenta a riconoscere dato l’enorme calo di peso) nei panni di Miles sono la ciliegina sulla torta di un film che potrebbe concorrere per qualcosa.
Veronica Ranocchi

mercoledì, novembre 13, 2019

MOTHERLESS BROOKLYN - I SEGRETI DI UNA CITTA'



Motherless Brooklyn - I segreti di una città
di Edward Norton
con Edward Norton, Bruce Willis, Gugu Mbatha-Raw, Alec Baldwin 
USA, 2017
genere, drammatico, thriller
durata, 144'


Preceduto da una lunga e travagliata gestazione, iniziata nel lontano 1999, "Motherless Brooklyn - I segreti di una città" come suggerito dal titolo riferito al soprannome affibbiato dal detective Frank Minna (Bruce Willis) all'aiutante Lionel Essrog (Edward Norton, interprete principale oltre che regista) è innanzitutto  la storia di un personaggio e della sua complicata esistenza. Da questo punto di vista il cinema del regista Edward Norton non cambia la matrice classica già presente in "Tentazioni d'amore",  ribadita nella centralità assegnata al protagonista rispetto alle "vie di fuga" (narrative) rappresentate dal paesaggio umano e metropolitano attraversato da Lionel nel corso dell'indagine per scoprire i responsabili dell'omicidio del suo mentore. Alla pari del film d'esordio, che nel triangolo amoroso di due amici innamorati della stessa ragazza omaggiava la commedia degli anni d'oro, "Motherless Brooklyn - I segreti di una città" compie lo stesso tipo di operazione, accentuandone però la matrice noir collocando nella New York degli anni 50 una vicenda che l'autore del libro - Jonathan Lethem - da cui il film è tratto aveva ambientato in epoca contemporanea.

Da questo punto di vista quella che poteva essere un riferimento esplicito ma indiretto a una realtà storica e cinematografica diventa nel film di Norton una vera e propria rievocazione per immagini, allineando uno dietro l'altro le situazioni, i personaggi e gli schieramenti come pure le dinamiche di potere tipiche di un periodo in cui l'America, dopo la Seconda Guerra Mondiale, cercava di consolidare la leadership mondiale  facendo i conti con i fantasmi di quella filosofia pragmatica e capitalistica che per contro l'aveva imposta al vertice delle nazioni. In questo senso, alla maniera di "The Naked City" di Jules Dassin anche "Motherless Brooklyn" trova il modo di contaminare l'elemento criminale con uno sguardo critico e sociale sulla disparità e l'ingiustizia del sistema statunitense e sulle discriminazioni nei confronti delle classi meno abbienti e, in particolare, su quella afroamericana, nella vicenda in questione costretta a lasciare le proprie case a causa di espropri legalizzati (oggi si chiamerebbe gentrification), sul tipo di quelli realmente accaduti in America (una denuncia che Joe Talbot ha reso centrale nel suo "The Last Black Man in San Francisco" passato a Locarno) negli anni in cui è collocata la storia.

Detto questo, "Motherless Brooklyn" non rinuncia all'ingrediente più atteso e intrigante del suo copione, argomentando la discesa negli inferi di Lionel, costretto a confrontarsi con gli intrighi e i peccati della classe politica e imprenditoriale (ieri come oggi intenta ad agire in pieno conflitto di interessi), e con un "Kingpin" come quello incarnato dal mefistofelico Alec Baldwin, attraverso il confronto dell'uomo solo contro tutti, l'unico tra tanti interessato alle sorti del prossimo, nello specifico raffigurata da Gugu Mbatha-Raw, qui nel ruolo della ragazza al "centro del mirino".

Debitore degli antieroi raccontati dalla letteratura Hard Boiled, il protagonista di "Motherless Brooklyn" ne conferma non solo la fiducia nel detective "homo faber", opposto alle spinte violente e autodistruttive dell'inconscio collettivo, ma gli affida quel primato morale che il personaggio di Lionel porta con sé nella condizione di figlio abbandonato e soprattutto per le conseguenze della sindrome di Tourette (mimata ai limiti della maniera dall'attore/regista) che gli impedisce una normale socialità.

L'evidenza della menomazione sommata all'irreversibile diversità del protagonista consentono a Norton di optare per una descrizione dei fatti quasi mai interiorizzata e leggibile dall'esterno, se non fosse per alcuni brevi inserti che testimoniando la formidabile memoria del protagonista diventano utili quando si tratta di giustificare la facilità con cui Lionel (e la trama) vengono a capo dei "segreti della città". Se dunque "Motherless Brooklyn" è risolto tutto in superficie, nella chiarezza sin troppo lineare del narrato (al contrario di ciò che capita nei capolavori del genere), ove si eccettui uno dei pochi richiami interni alla trama, quello nel quale la distinzione tra gli uomini delle idee (i buoni) e gli uomini d'azione (i cattivi) serve a offrire un minimo di sfumatura a una sceneggiatura sin troppo manichea, il risultato è quello di un'operazione più intellettuale che sincera.
Di certo Norton dimostra di aver visto e letto l'indispensabile, ma la sua rappresentazione si limita a mettere in scena in maniera corretta i topoi del cinema noir senza però riuscire a renderli autonomi. A farne le spese è il pathos, raffreddato dalla meccanicità degli snodi narrativi e soprattutto dall’incapacità di rendere verosimili certi sentimenti, a cominciare da quelli - amorosi - di Laura nei confronti del protagonista. A tutti gli effetti "Motherless Brooklyn - I segreti di una città" fa segnare per il suo regista un passo indietro rispetto al film d'esordio.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)



lunedì, novembre 11, 2019

PARASITE

Parasite
di Bong Joon-ho
con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeoung
Corea del sud, 2019
genere: thrille, drammatico, commedia
durata, 132’



Ha tutte le carte in regola per poter competere con i grandi titoli di quest’anno cinematografico l’ultimo film di Bong Joon-ho, “Parasite”.
Una costruzione particolare e interessante della storia che impiega tutta la prima parte del film per entrare nella mente dello spettatore.
La trama, apparentemente semplice, ma geniale, vede protagonista una povera famiglia sudcoreana, composta da padre, madre e due figli che vivono in una sorta di scantinato piegando cartoni per la pizza per sopravvivere, ma che, attraverso alcuni sotterfugi e inganni riescono, poi, tutti a farsi assumere dalla ricca famiglia Park bisognosa, inizialmente di un insegnante per la figlia, poi di una per il figlio piccolo e successivamente anche di un autista e di una domestica.
La famiglia protagonista riesce, così, a insinuarsi all’interno di questa villa moderna e della coppia ricca e snob che abita al suo interno, incurante di ciò che succede intorno. Ma, ad un certo punto, succede qualcosa che farà cambiare il corso degli eventi perché niente è come sembra.
Il regista sud coreano, vincitore della Palma d’oro a Cannes, riesce ad inserire nella sua opera, per il momento molto apprezzata all’estero, tratti di commedia e di tragedia, mantenendo un livello alto e costante per tutta la durata della narrazione.
Grande prova attoriale, soprattutto della giovane Park So-dam, che, grazie alla costruzione del proprio personaggio, è costretta ad interpretare più ruoli (così come anche gli altri membri della famiglia), ma lo fa convintamente riuscendo a modificare diversi tratti della propria persona per rendersi ancora più credibile nei vari frangenti.

Un’ottima regia quella del sudcoreano che non ha praticamente mai sbavature, nonostante abbia inserito praticamente quasi tutti i generi cinematografici esistenti. Il pubblico, durante la visione del film, si diverte, si dispera, si preoccupa e si inquieta. Ma niente appare fine a sé stesso. Tutto ha un perché e tutto ha una logica. Anche i momenti di silenzio dove sono gli sguardi e i movimenti degli attori e, conseguentemente, quelli dei personaggi, a parlare e a dare ancora più significati rispetto a delle semplici parole.
Ennesimo film di denuncia dell’anno che va a braccetto con Joker che può, però, tirare un sospiro di sollievo in ottica Oscar perché, in caso di candidatura (molto probabile) da parte di “Parasite”, le due opere non “si daranno noia” perché presenti in due categorie diverse: miglior film e miglior film straniero.
Alla fine la domanda che lo spettatore si pone è questa: chi è il vero parassita? Ognuno rimane solo con se stesso a riflettere se cosa sia giusto e cosa sbagliato, su chi sia il vero colpevole e chi l’innocente. Probabilmente il parassita è in ognuno di noi, per un motivo o per un altro, in maniera più velata o meno. La cosa certa è quello di Bong Joon-ho rimarrà nell’immaginario cinematografico per molto tempo. 
Veronica Ranocchi