domenica, aprile 30, 2017

sabato, aprile 29, 2017

LA GUERRA DEI CAFONI

La guerra dei cafoni di Davide Barletti, Lorenzo Conte
con Pasquale Patruno, Letizia Pia Cartolaro, Donato Paterno
Italia, 2017 
genere, commedia
durata: 90' 


A Torrematta, territorio selvaggio e sconfinato, in cui non vi è traccia di adulti, se si esclude il gestore di un capanno-bar, ogni estate si combatte una lotta tra bande: da una parte i figli dei ricchi, i signori, e dall'altra i figli della terra, i cafoni. A capo dei rispettivi schieramenti si fronteggiano il fascinoso Francisco Marinho e il cupo Scaleno. Il prologo, che fa emergere quale fosse la differenza tra il padrone e il cafone in epoca medievale, funge da chiave di lettura per l'intera opera; poi si passa agli anni Settanta del secolo scorso, in cui le due bande formate da chi ha troppo e chi non ha nulla combattono senza tregua, cercando al contempo di conoscersi. Un santo protettore dei cafoni, che si chiama Papaquaremma, un cane di nome Mosè e un ragazzo e una ragazza che, come Romeo e Giulietta, appartengono alle classi opposte, possono essere validi esempi di un rimando ad archetipi narrativi forti. Si avverte anche un'eco de "Il signore delle mosche" di Peter Brook, senza, però, che vi sia la minima perdita di originalità. Qui il dramma è temperato dal sorriso suscitato dal personaggio del piccolo Tonino; ma soprattutto, l'analisi socio-antropologica di quell'Italia che non c'è più è acutamente aspra e priva di eufemismi. Il conflitto sociale degenera in una mutazione in cui è determinante la temibile figura di Cuggino, che segna l'ingresso ufficiale della malavita organizzata nel tessuto sociale: i cafoni non vogliono diventare delinquenti, come viene detto in un battuta, ma i delinquenti sapranno come progressivamente espropriarli della loro valenza che ha radici ancestrali. Davide Barletti e Lorenzo Conte sono riusciti a portare sullo schermo con successo un progetto che sulla carta avrebbe potuto sembrare troppo ambizioso. A partire dal casting, formato da adolescenti alla loro prima esperienza cinematografica e chiamati a interpretare con un dialetto stretto, tanto da necessitare dei sottotitoli, un passaggio d'epoca per loro lontanissima. Un lungo percorso di studi li ha condotti a prestazioni di estrema naturalezza, fondamentali per l'esito di una messa in scena complessa, ispirata al romanzo omonimo di Carlo D'amicis.
Riccardo Supino

giovedì, aprile 27, 2017

LA TENEREZZA

La tenerezza
di Gianni Amelio
con Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti, GIovanna Mezzogiorno, Elio Germano
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 103'


Chiunque ritenga che il cinema sia diverso dalla letteratura filmata non potrà non apprezzare l'ultimo lavoro di Gianni Amelio. Il regista calabrese per il suo nuovo film è partito infatti da una fonte letta e apprezzata da centinaia di lettori - il bestseller "La tentazione di essere felici" del romanziere napoletano Lorenzo Marone - per arrivare a qualcosa di nuovo e completamente diverso. In realtà se confrontiamo il libro con il romanzo qualche punto in comune ancora c'è ma nelle sostanza la riscrittura operata sul testo originario ha reso le caratteristiche iniziali così annacquate da far sembrare "La tenerezza" un opera senza altri natali che quelli datigli dal nostro autore. Il quale, per il suo tredicesimo film decide di mettere in scena un'altra vicenda di assenze famigliari e, in particolare, di figure paterne costrette a fare i conti con le responsabilità da cui a suo tempo si sono sottratte. Motivi, che in un film di Amelio si traducono in una drammaturgia emotivamente carica di struggente malinconia e di pulsioni ancestrali che spingono i personaggi (padri o figli che siano) a mettersi in viaggio - letteralmente ("Ladro di Bambini" e "Lamerica") o in senso metaforico - alla ricerca della parte mancante.

Ne "La tenerezza" a essere protagonista è Lorenzo (un grande Renato Carpentieri) avvocato in pensione che vive da misantropo in una magione rifugio nel cuore di Napoli (restituita con puntuale dovizia dalla fotografia di Luca Bigazzi) e il cui interesse nei confronti dell'esistenza è risvegliato dall'arrivo di Michela (Micaela Ramazzotti), l'esuberante vicina di casa, la quale, con la complicità del marito e dei suoi due bambini lo coinvolgono all'interno di un quotidiano che fa riaffiorare nell'uomo una tenerezza da sempre negata a Elena (Giovanna Mezzogiorno, restituita al cinema che conta) e Saverio, i figli dei quali Lorenzo rifiuta ogni tentativo di riavvicinamento.



Se la svolta narrativa de "La tenerezza" - sulla falsariga dello schema adottato dal libro di Marone - è data dal fatto di sangue che sconvolge le vite dei protagonisti, costringendoli in un modo o nell'altro a uscire fuori dal senso di inadeguatezza (di essere padri così come di essere figli) che nel film di Amelio è tratto comune a tutti i personaggi, bisogna riconoscere al regista la capacità di saper arrivare a quel momento con una coerenza che deriva non solo dal clima di sospensione che grava sulle vite dei personaggi, ognuno dei quali sembra essere sul punto di un cambiamento continuamente rimandato, con ciò che ne consegue in termini di ansia e di aspettative da parte degli interessati, ma anche dai piccoli segnali di cui Amelio riempie lo schermo, come a presagire il luttuoso evento: a cominciare dall'incerta identità e dalla possibile minaccia dell'extra comunitario (vittima o carnefice degli sbarchi clandestini non è dato di sapere) di cui Elena deve tradurre la deposizione in tribunale; per non dire dell'improvviso scoppio d'ira di Fabio (Elio Germano), il quale, per futili motivi si scaglia contro un venditore ambulante, interrompendo il quadro di armonia domestica che regnava un attimo prima. 

Ciò che convince di meno però è la resa drammaturgia nel suo complesso, che, prosciugata del pathos presente nei suoi film più importanti e qui sostituito da un'atmosfera di raggelata solitudine esistenziale, impedisce al film di arrivare allo spettatore con la visceralità che riconosciamo al cinema di Amelio. In questo modo a momenti di grande empatia, molti dei quali riguardano le sequenze in cui Carpentieri e la Ramazzotti occupano contemporaneamente la scena, ne succedono altri il cui senso all'interno del contesto appare più meccanico e dove Amelio nel ricostruire uno dei luoghi più tipici della sua filmografia non ritrova la forza dei tempi migliori; e ci riferiamo per esempio alla scoperta dell'altro intesa come confronto tra culture che qui appare più un espediente narrativo per arrivare alla conclusione (ci riferiamo alla scena che anticipa la fine in cui Lorenzo ed Elena si ritrovano insieme in tribunale) che il modo per riflettere su una delle questioni più calde della nostra contemporaneità. Tutto ciò, senza nulla togliere ai meriti del film che per cast e compartimento tecnico (Luca Bigazzi direttore della fotografia, Maurizio Millenotti responsabile dei costumi, Alessandro Zanon del suono e Franco Piersanti delle musiche) raduna in un colpo solo il meglio di cui un regista possa disporre. Anche per questo si poteva sperare in qualche cosa di più.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, aprile 26, 2017

LE (DIS)ARMONIE DELLA REALTA'. CONSIDERAZIONI SPARSE SU TRE FILM DI BELA TARR



I. Nato a Pécs in Ungheria nel 1955, il cinema di Béla Tarr è praticamente inedito in Italia. Dopo il successo al Festival di Berlino dove la sua ultima opera, Il cavallo di Torino (A Torinói ló), vinse nel 2011 l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria, ci si accorse di questo autore fuori dai normali circuiti, conosciuto da uno sparuto gruppo di cinefili. Mai distribuito in Italia, con l’eccezione di proiezioni in qualche cineclub e passaggi nella trasmissione televisiva Fuori Orario di Rai 3, recentemente la sua produzione completa è stata editata in Dvd da Movie Inspired (già esaurito). E quindi meritoria la rassegna che la Fondazione Cineteca di Milano dedica all’autore allo Spazio Oberdan dal 14 al 30 aprile 2017 proiettando cinque sue opere: Perdizione,Le armonie di WerckmeisterL’uomo di LondraRapporti prefabbricati e Il cavallo di Torino.
II. Cinema metafisico, quello di Béla Tarr, dove l’immagine si ferma su una realtà inglobante il tempo che viene cristallizzato in una visione resa fluida dai lenti movimenti della macchina da presa. Più che una messa in scena, l’autore ungherese si concentra su una messa in quadro in cui l’attesa dell’evento può anche non arrivare o essere posticipato rispetto al punto di vista dello spettatore, ipnotizzato dall’insistenza dell’inquadratura che si prende il tempo della visione reale(istica) del personaggio all’interno della struttura filmica.
III. Non c’è un vero sviluppo diegetico nelle sue opere, ma un susseguirsi di episodi minimali, scabri, scarni, essenziali, dove il personaggio viene pedinato dalla mdp ossessivamente, sia nei suoi dialoghi sia nelle sue riflessioni (riflettenti) sul paesaggio o sugli oggetti o sulle persone, che diventano noumeno di pulsione scopica. Prendiamo, ad esempio, Maloin (Miroslav Krobot) in L’uomo di Londra (A londoni férfi, 2007): nel lungo piano sequenza iniziale, dalla sua torre circondata di vetri, osserva la nave che sbarca i passeggeri al porto per vederli entrare in un treno (lui che comanda gli scambi dei binari). La chiglia della nave, nella sua forma visiva, prende sostanza dell’attesa di eventi ripetuti in un tempo infinito e costante, che viene interrotto da un evento drammatico: lo scambio di una valigetta tra due uomini; l’uccisione di uno dei due da parte dell’altro, gettato nelle acque del porto dopo una colluttazione; la fuga dell’assassino e il recupero della valigetta dal mare notturno da parte di Maloin. Una lunghissima presa di coscienza della realtàaccadente da parte del personaggio e dello spettatore il cui sguardo è allineato con in protagonista. Oppure la visione terrorizzata di János (Lars Rudolph), il postino protagonista di Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000) che osserva la folla ostile assiepata nella piazza del villaggio ungherese, intorno al convoglio che mette in mostra una balena impagliata, in attesa delle parole di un nano, chiamato “il principe”, che aizza alla rivolta e alla distruzione della comunità. O ancora Karrer (Miklos B. Szekely) perdutamente innamorato di una cantante locale sposata (Vali Kerekes) e che perseguita per avere brevi incontri sessuali, posseduto dal demone della depressione in Perdizione (Kárhozat, 1988).

IV. I personaggi di questi tre film sono solitari, taciturni, parlano solo se invitati o costretti dalle circostanze. Maloin è sposato con una figlia e il ritrovamento di una valigetta piena di soldi, frutto di un furto avvenuto a Londra, lo sconvolge internamente. János è un giovane ottimista, preso dalla distribuzione della posta e dall’accudire uno studioso di musica (di quelle armonie di Werckmeister, ripreso dal titolo dell’opera). Il suo cambiamento avviene in modo traumatico, dalla violenza della situazione in essere, dalle parole del “principe”, che ascolta di nascosto, dalla violenza della folla inferocita e distruttrice e poi da uno Stato che diventa forma di oppressione, trasformandolo per sempre di un essere catatonico, fisso, come lo sguardo in macchina nella scena del prefinale. Karrer è un depresso cronico, che non sa quello che vuole realmente, perso tra la donna oggetto della sua ossessione e le sere passate nel bar Titaniksimbolo del disastro di una società anomica, aliena, desola(nte)ta.
V. Del resto, i personaggi sono sconfitti e travolti dall’esistenza e tutti in qualche modo sono vittime predestinate del tempo. Maloin uccide il ladro (l’uomo di Londra), ma la sua colpa è emendata dall’ispettore inglese in missione nel porto francese, con la scusa della legittima difesa. I soldi della ricompensa che riceve, sono i suoi trenta denari, il prezzo della sua coscienza che viene sottaciuta e annullata. L’innocenza di János è assassinata non dalla folla, ma da uno Stato, che usa la rivolta per imporre un ordine militare, ospedalizzato, in una prigione della mente e del libero pensiero. Karrer si fa delatore alla polizia di tutti e nella sequenza finale si mette a quattro zampe ad abbaiare contro un cane in un paesaggio desolato e sotto una pioggia scrosciante, arrancando nel fango alla ricerca di una cupio dissolvi con l’ultima inquadratura su un mucchio di letame, esplicitazione della caduta dell’uomo.

VI. Abbiamo detto della desolazione che Tarr inquadra con paesaggi spogli e scabri. Per aumentarne la potenza visiva ed emotiva, utilizza un bianco e nero che inserisce l’ombra come soggetto concreto dove si muovono i personaggi. Anche nelle scene diurne la luce è plumbea come a sottolineareuna notte della ragione che pervade l’uomo stesso. Ne L’uomo di Londra, gli squarci di luce sono sempre preludio a eventi drammatici, il vento che soffia diventa l’elemento atmosferico perdurante per tutto il tempo filmico. InLe armonie di Werckmeister è la nebbia e il tempo uggioso che avvolge l’atmosfera sospesa in un tempo astorico, in un eterno presente senza passato né futuro. Durante Perdizione cade continuamente la pioggia e il fango intrappola i protagonisti. Vento, nebbia, pioggia: la forza degli elementi atmosferici accentua simbolicamente la desolazione interiore ed esteriore di una vita perduta, senza speranza di riscatto, senza un sole che risplende, ma come se vivessimo in una eclissi sempiterna (ben rappresentata dal lungo piano-sequenza dell’incipit di Le armonie di Werckmeister, sineddoche delle vicende di queste tre opere).

VII. L’enorme balena impagliata, oggetto di una fiera di paese in Le armonie di Werckmeister, è la metafora della mostra dell’intelligenza come elemento di spettacolo. Morta, impagliata, inesistente, dove alligna la forza dell’ignoranza del male (il “principe” nano). La grandezza della verità contro la piccolezza della falsità. La prima un ricordo resa visibile, la seconda abbaiante e nascosta nell’ombra, immateriale, voce nel buio che si propaga come un virus metafisico che si incista nelle menti di individui che si annullano e si fondono in massa compatta distruttiva. E Tarr utilizza un altro piano-sequenza di questo leviatano in marcia nelle strade del villaggio ungherese che, come un fiume di corpi e teste anonime, travolge i deboli resti di una civiltà al suo declino. L’occhio della balena fissa in vuoto della ragione e János la osserva illudendosi della potenza di Dio, senza rendersi conto di essere alla presenza delle spoglie della ragione, strappata dalla sua condizione di natura e trasformata in un paravento dell’irrazionale malvagità che prende vita e si nutre di essa, vomitandola come un getto mal digerito e imbrattando il mondo.

VIII. Con PerdizioneTarr inizia a utilizzare il piano-sequenza, che con il bianco e nero della fotografia, diventa la sua cifra stilistica che contraddistingue tutte le sue opere a venire. Questo tipo di inquadratura e di movimento di macchina permette la dilatazione temporale, fissando il momento vissuto dai personaggi. Esso è la rappresentazione visiva dell’intimità in una dualità tra interno-esterno che porta in profondità le emozioni vissute dai personaggi e coinvolge lo sguardo spettatoriale in unaragnatela della messa in quadro costruita per addizione di sequenze dove il montaggio è lineare, mentre la scoperta della verità avviene nel movimento della mdp che svela elementi nella messa in scena, in apparenza extradiegetici e in realtà diegetici (come, ad esempio, la musica che appare come colonna sonora, ma che spesso è all’interno della scena, suonata da orchestre riprese sempre in ritardo e a latere, mai in primo piano). I piani-sequenza diventano, quindi, un fraseggio costante della filmografia di Tarr, un modo di rappresentare il mondo, un montaggio interiore. Così come la divisione dell’inquadratura effettuata riprendendo i protagonisti dietro a un muro (KarrerJanos) mentre osservano altro; oppure di fronte a un capanno sulla spiaggia (Maloin) prima di un evento brutale; o ancora negli interni del bar, con in primo piano il protagonista che ascolta dialoghi di personaggi in secondo piano (di nuovo Maloin). In questo tipo di messa in quadro, Tarreffettua uno split screen naturale, visivo, utilizzando strutture architettoniche della realtà e non il montaggio cinematografico di più riprese, concentrando ancor di più la pulsione scopica non solo del personaggio, ma anche quella dello spettatore coinvolto nella visione.
IX. Ne L’uomo di Londra – tratto dall’omonimo romanzo di George Simenon– abbiamo delle eccezioni all’utilizzo del bianco e nero che ne confermano la regola e proprio per questo degne di nota. Tarr utilizza un colore uniforme e molto desaturato, tendente al bruno, in due sequenze significativeLa prima è durante l’incontro tra Maloin e l’ispettore nella torre di osservazione, quando viene recuperato il cadavere dell’uomo assassinato dal ladro a cui l’ispettore sta dando la caccia; la seconda, quando Maloin è davanti al capanno sulla spiaggia dove l’assassino si nasconde. In entrambi i casi l’utilizzo del colore rappresenta momenti di morte: nel primo, il cadavere è visibile nella sua messa in quadro, mentre nel secondo si vede solo il capanno in un long take dove allo spettatore viene lasciato immaginare la scena all’interno, ma il colore lo collega al cadavere della scena precedente che diventa metonimica di quest’ultima senza la necessità di rappresentarla di nuovo, ma solo creandone l’evocazione con l’immagine fissa del capanno e con il suono del vento che soffia forte dal mare.
X. In PerdizioneLe armonie di Werckmeister e L’uomo di LondraTarrcompie un’operazione binaria tra contenuto e forma. Se i temirappresentano una disarmonia della realtà in essere, che si fa corpo, immanente dell’essere-uomo che porta alla solitudine esistenziale(ista), la forma utilizzata è un’armonia tra immagine e suoni, tra dialoghi e luoghi, tra interni ed esterni, tra oggetti inanimati ed elementi della natura che imperversano e riempiono lo schermo. L’armonia della messa in quadroutilizzata da Tarr diventa il contenitore della disarmonia della vita e perimetrata dall’occhio della macchina da presa. Un meccanismo visivo che tracima lo schermo e ne trascende la visione.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Béla Tarr”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 14 al 30 aprile 2017
 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/omaggio-a-bela-tarr/

martedì, aprile 25, 2017

LA TARTARUGA ROSSA

La tartaruga rossa
di, Michaël Dudok de Wit
Francia, Belgio, Giappone ,2016
genere, animazione
durata, 80'


"Though now this better life
has brought a different understanding
And through these endless days
shall come a broader sympathy..."
- King Crimson -



Febbrilmente a riparo di noi stessi per il tramite di un cinismo in forma di corazza tanto spessa quanto di scarso pregio e mai indifferente alle lusinghe dell'opportunismo, con ogni probabilità scrolleremo le spalle dinanzi al mistero antico che si fa largo dal carapace spalancato di un'opera come "La tartaruga rossa", animazione soavemente impassibile nell'essenzialità geometrica delle sue linee in felice equilibrio fra le sottrazioni di certi estri di matita nord-europei e la misura stilizzata d'impronta giapponese, e come maternamente irridente, per contrasto, nei confronti della stoltezza con cui la condizione umana si limita a riproporre sé stessa senza che questo comporti quasi mai modificazioni apprezzabili alla sua essenza, tanto da originare scarse o nulle ricadute in una prassi già da par suo avvilente.

Proprio la scelta narrativa di un frangente al contempo avventuroso e archetipico, trasfigurato pressoché senza attrito negli spazi aperti di un apologo esemplare - un uomo solo in mezzo all'oceano trova per caso salvezza dai flutti su un'isola di certo più piccola delle sue presunzioni (più volte egli tenta di abbandonarla, negando l'evidenza di dover fare i conti con una nuova dimensione psicologica e materiale della realtà), epperò salda nella irriducibilità tranquilla della sua naturalezza - regala al lavoro di de Wit (a cui non è estraneo, e non solo per via della co-produzione, il respiro ampio e meditativo, l'attenzione sia minuziosa che stupita per i dettagli, l'ineffabile senso di perdita e la dignitosa malinconia che ad esso s'accompagna, ossia il magistero compiuto dello Studio Ghibli, qui nella persona di Takahata Isao, genius loci in veste di supervisore artistico) il sapore raro delle cose ultime, delle piccole/grandi verità nude, scevre della retorica e dell'apparato interpretativo con cui in genere la cosiddetta modernità tenta di circoscriverle, vuoi perché oramai incapace di stabilire con esse un dialogo fecondo, vuoi perché persuasa, nel trionfo terminale del materialismo, del loro ruolo di cascame irrazionale che a ritorni successivi rallenta il corso fatale del capitale e delle merci.

A qualche raro mendicante d'azzurro, a cui s'aggiungerà col tempo il novello Robinson del film e il suo sparuto seguito di granchi dispettosi (trasfusione quasi indolore del micromondo animista miyazakiano), sarà forse sufficiente a conciliare un sentore d'intolleranza al pragmatismo acritico e alla monetizzazione di ogni istante del suo quotidiano, la minuta granulosità pastello dei cieli e delle vastità marine vicine a Seurat e a talune intuizioni di Signac; il verde nuovo e vispo che fiorisce, degrada e rinasce per nessuno, della vegetazione dell'isola; la distante persistenza bruna delle pietre; lo splendore argenteo della sabbia notturna, così simile ai bagliori opachi della neve appena caduta. Lo stesso per il silenzioso squarcio dell'aria rappresentato dal volo degli uccelli; per la chioma rossa come lo scafo di Nerval della femmina/Natura pronta a donare dolcezza e spessore a una solitudine senza scampo o per l'antracite espanso punteggiato di stelle, del firmamento. Ogni cosa a ruotare all'interno dell'unico eterno presente tollerabile, quello circadiano, campo limitato ma esperibile da cui attingere aspettative, ricevere rifiuti o impreviste ricompense, su cui fantasticare o da torcere in allucinazione, attendendo il balsamo della morte: per una volta senza bisogno di parole. 

TFK

lunedì, aprile 24, 2017

SPAGHETTI STORY

Spaghetti Story
di, Ciro De Caro
con, Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, SaraTosti, Rossella d'Andrea
Italia, 2013 
genere, commediadurata, 85'





Tra un de profundis e l'altro, magari arriva il momento in cui se ne ha abbastanza delle rampogne, ricevute o dispensate che siano. Figurarsi delle lagne. Deve essere stato un percorso mentale molto simile a questo ad aver indotto un cineasta come De Caro a piantar l'affollata baracca con annessi burattini dei pluridecennali sermoni in articulo mortis, nonché delle lacrime spesso e volentieri di coccodrillo, riguardanti lo stato-del-Cinema-italiano; a vuotarsi altresì le tasche - pare anche a vendersi la macchina - allo scopo di raggranellare i quindicimila euro e spiccioli utili a mettere insieme il suo nuovo film, quasi un nuovo esordio, "Spaghetti story", appunto. E già questo - la semplice ostinazione di qualcuno che scommette, non solo metaforicamente, su un'intuizione - un paio di riflessioni dovrebbe suscitarle.

Senza scadere nell'esaltazione stucchevole e ridicola del pauperismo (che è bello e nobile soprattutto se lo praticano gli altri) che, per quanto il Cinema sia uno dei principali campi di applicazione dell'innovazione tecnologica, alla lunga, da risorsa diciamo così creativa, diventa solo e unicamente indigesto impasto di frustrazioni, osserviamo subito che nel caso di De Caro penuria di mezzi (una manciata di giorni per le riprese, set per gentile concessione di parenti e amici), freschezza e stretta attualità della storia, necessità di ribattere a colpi d'idee (non solo alle angustie produttive ma anche e - forse - soprattutto all'attualità di cui sopra, tanto all'apparenza liberale e dispensatrice di promesse di affermazione o di affrancamento, quanto, assai spesso, amalgama ostile e appiccicosa costituita da sempre nuove combinazioni di antichissimi collanti quali l'accidia, il menefreghismo, le convenienze incrociate, le mere mascalzonate et.), si danno allegramente di gomito infondendo vita ad un insieme semplice, di garbata ingenuità e a tratti piuttosto divertente.


D'altro canto, l'occhio fisso e ravvicinato del regista sulle vicissitudini paradossali se non fossero così autentiche di un gruppo di giovani (nel caso, romani) la cui precarietà ormai non è più la variabile avversa dei rapporti di produzione ma un vero e proprio modo di (non) vivere giunto a mettere sul piano di un grottesco aut-aut l'opzione di un piatto di pasta o di una pizza e l'acquisto di un paio di scarpe, pena il fallimento delle economie personali (e nei confronti del quale l'unica alternativa rimasta sembra essere la totale emarginazione o lo spaccio - quest'ultimo nei modi e negli esiti più vicini ai "Soliti ignoti", tanto per capirsi, che, per dire, alle prospettive iperboliche e cool delle "Belve" di Stone -  e nonostante i toni spesso spassosamente frenetici della commedia tutta ruspante cattiveria e dialoghi mordaci contrappuntati da improvvisi silenzi - alla cui riuscita concorre in maniera determinante l'uso per una volta coerente e ben cadenzato del dialetto -), aiuta a contestualizzare meglio le psicologie e gli atteggiamenti di tutti i personaggi, di certo non esenti da fragilità tanto epidermiche nella loro oggettività quanto incistate in una prassi che pulsa sottotraccia e oscilla quasi solo tra disimpegno e opportunismo. Uomini e donne angustiati ma allo stesso tempo come sollevati dagli orizzonti ristretti di una vita che un po' è diventata, un po' non si è impedito che si trasformasse in una routinea corto raggio. Persone orgogliose, in fondo, di quella indipendenza di ritorno come risacca dell'individualismo narcisistico di massa, eppure, a stringere, sole e disarmate appena una porta si chiude, a un imbarazzo non segue motto e il riflesso condizionato che si oppone a un rifiuto finisce per essere invariabilmente un mutismo perplesso e in parte vittimistico.


Chiaro che, in un esperimento condotto di forza su direttrici così limitate benché nette, decisivo diventa l'apporto dei volti e dei corpi chiamati a incarnare lo sviluppo e l'anima delle circostanze descritte. Anche su questo "Spaghetti story" è in grado di dire la sua. Assemblando, infatti, un gruppo di giovani interpreti - più o meno alle prime armi (o, per meglio dire, con una qual gavetta nel Cinema piccolo o indipendente o invisibile, è lo stesso) - affiatati, scevri da birignao e pose fasulle, sorretti dalla prossimità autobiografica ai fatti (qualcosa che può avvicinarsi, più in generale e oggi come oggi, all'autobiografia stessa di un paio di generazioni), ecco che pressoché senza filtro viene restituita a chi guarda la vivace ma anche amara empatia di traversie magari solo drenate dal rumore di fondo della cronaca; orecchiate, forse, o - perché no ? - la cui asprezza è stata provata direttamente sulla propria pelle. In tal modo le peripezie di Valerio, factotum per sfinimento e aspirante attore; il cinismo dal cuore d'oro di Cristian, l'amicone di una vita, quello che non fa il pusher ma sta "a mette in piedi 'na cosa che c'ha 'n futuro"; la petulanza venata di comprensione di Giovanna - sorella di Valerio - sempre pronta a sostenerlo e soprattutto a metter mano al portafogli e non ultima, la costanza, la testardaggine giocata come finta arrendevolezza della di lui fidanzata Serena, studentessa lavoratrice e futura mamma (interessante connubio di sagacia ed enigmatica indolenza), diventano, senza sforzo apparente, quasi sotto i nostri occhi, l'epitome di una condizione, nel nucleo della quale però si riconosce ancora lo sforzo di tenere al centro l'umanità irripetibile della persona, l'importanza di ascoltarne - e tollerarne - le contraddizioni: in particolare quell'istinto che, per quanto estenuato da mille sollecitazioni, non ha perso la misura del valore e insieme lo slancio a prendersi cura delle cose (per tutti valga il piccolo ma significativo gesto di Valerio il quale, nel gorgo della sua sconfitta sentimentale e professionale, ramingo e stanco, fuori da un bar, gettando via la carta del suo panino mangiato controvoglia e vedendola mancare il cestino e rotolare a terra, si alza e ve la depone).


Se questa è la prospettiva - e fermo restando la chirurgica riuscita degli assolo-per-due-voci di Cristian e Valerio (quasi un film a parte) che ricordano i micidiali battibecchi tra Dante e Randall in "Clerks" di Smith - giocoforza si fa più conciliante la valutazione circa la ripetuta frammentazione del montaggio all'interno dell'inquadratura, che nulla aggiunge in termini d’instabilità perenne delle vicende di quanto già non facciano, e più palpabilmente, le frequenti sfocature (casomai, nell'insistenza, quella sottrae qualcosa alla spontaneità d'assieme come all'accorto uso della luce naturale). Identico discorso si può applicare all'ultima parte del film, in cui speranza e ottimismo sembrano più cercati che consequenziali alle premesse, in leggero attrito col compatto realismo che permea buona parte degli ottantacinque minuti di quest'opera che si sta facendo strada unicamente in ragione della sua irresistibile impertinenza e di un contagioso passaparola.
TFK





DA "IL CONTAGIO" A "IL PRINCIPE DELLE PEZZE", LE NUOVE PRODUZIONI DELLA GEKON PRODUCTIONS

Forse ve ne sarete accorti ma esiste un certo cinema italiano che amiamo vedere più di altri, e a cui dedichiamo tempo e attenzione in virtù della capacità che ha di scoprire talenti e di saperli valorizzarle attraverso opere che non perdono di vista i gusti del pubblico. Da qui la decisione di pubblicare il comunicato stampa della Gekon Productions relativo alla lavorazioni di alcuni titoli, primo fra tutti quello dei registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, "Il contagio", tratto dal romanzo di Walter Siti, che per quanto ci riguarda sono già adesso in cima alla lista dei film più attesi della prossima stagione. 





Sono appena finite le riprese de Il contagio dei registi romani Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, con Vincenzo SalemmeAnna FogliettaVinicio MarchioniGiulia BevilacquaMaurizio Tesei. Tratto dall’omonimo best seller di Walter Siti, il film è stato prodotto daKimerafilm e Rai Cinema in collaborazione con la Gekon Productions. “Mi auguro che questo film possa segnare l’inizio di una lunga collaborazione, di un percorso insieme rivolto ad un’autorialità e una qualità cinematografica capace di coniugare anche i gusti del pubblico” – afferma Francesco Dainotti, socio fondatore della Gekon Productions. “In questi anni, infatti – prosegue Dainotti –, la KimeraFilm si è ritagliata uno spazio importante in questa dimensione, per ciò spero che la sinergia che si è venuta a creare sul set possa ritrovarsi in futuro con altre collaborazioni produttive”.


Ma se il set de Il contagio si è appena concluso, ecco che ne inizia subito un altro, quello deIl principe delle pezze del talentuoso esordiente Alessandro Di Ronza. Le riprese del film – un documentario che offre un nuovo ritratto della storia del cinema italiano attraverso le tappe che hanno fatto grande l’arte del costume cinematografico in Italia e nel mondo – inizieranno questa settimana con la partecipazione straordinaria di Claudia Cardinale. Un altro sodalizio artistico, quest’ultimo, creatosi con il primo film prodotto dalla Gekon, Ultima fermata diGiambattista Assanti – con cui la Cardinale si è aggiudicata la Nomination come Miglior attrice non protagonista ai David di Donatello 2016.
In fase di post-produzione, invece, il mediometraggio Confinati a Ponza di Francesco Maria Cordella con Debora CaprioglioPeppino Mazzotta Bruno Torrisi – ritratto a sfondo intimistico di Benito Mussolini e Pietro Nenni durante la prigionia sull’isola pontina.
Un lungo e proficuo percorso, quello della Gekon Productions, che punta ad un cinema giovane e di qualità, trovando il giusto equilibrio fra la dimensione artistica e quella popolare.


BOSTON - CACCIA ALL'UOMO

Boston - caccia all'uomo
di Peter Berg
con Mark Wahlberg, Melissa Benoist, Michelle Monaghan
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 133'


Boston, 15 aprile 2013. A causa di una sanzione disciplinare, il sergente Tommy Saunders è costretto a integrare la squadra incaricata della sicurezza della maratona, la più vecchia degli Stati Uniti. Il clima festivo è interrotto dall'esplosione di due bombe. Gli ordigni, piazzati lungo la linea d'arrivo sulla Boylston Street, uccidono tre persone e ne feriscono 264. In tempi rapidissimi, la video sorveglianza permette di identificare i due colpevoli, due fratelli di origine cecena devoti alla causa estremista. FBI e polizia cominciano una serrata caccia all'uomo attraverso una città in stato di choc. Una corsa contro il tempo a cui Tommy Saunders darà il suo eroico contributo. Con "Boston - Caccia all'uomo", centrato di nuovo su una storia vera, Peter Berg risale il tempo di qualche anno e ritorna sul drammatico attentato di Boston nel giorno della sua celebre maratona. Abile a ricostruire gli avvenimenti, e qualche volta i luoghi a chilometri di distanza, ricrea l'attentato del 2013 e ritraccia la ricerca che ha permesso di neutralizzare uno dei due terroristi e catturare il secondo. La prima mezz'ora del film predispone una suspense angosciosa, impiegando una struttura corale e introducendo una galleria di personaggi che saranno coinvolti nel tragico avvenimento. Tutto, note sintetiche comprese, è orchestrato per forzare l'empatia e rendere più impressionante il momento dell'esplosione. La storia procede in montaggio parallelo, raccontando da una parte il tentativo di fuga dei colpevoli, dall'altra l'inchiesta che rende conto degli sforzi dei bostoniani. La ricostruzione scrupolosa non impedisce i movimenti, ricollegando abilmente gli intrecci orditi al centro di una folla di corridori, spettatori, infermieri, medici, soccorritori, pompieri, poliziotti, agenti dell'FBI, giornalisti. Come in "Sully", gli eroi sono persone che fanno bene il loro lavoro: un'inchiesta straordinariamente rapida ed efficace avviata da un piccolo indizio, un uomo che guarda in direzione contraria della folla che lo circonda. 


Certo gli eroi di Berg non hanno l'intelligenza visionaria dei personaggi di Eastwood; nondimeno Mark Wahlberg, alla sua terza collaborazione con il regista, serve impeccabilmente l'ora fatidica inseguita dal suo cinema, che è coerente dietro al fragore delle bombe o all'esplosione di una piattaforma. Ciascuna scena, ciascun piano ci rammenta i fondamenti del cinema di Berg: una camera piazzata nel cuore dell'azione che riscrive con brio tutta l'intensità di una missione compromessa, di un disastro ecologico, di una maratona 'mutilata'. Il dinamismo, l'energia cinetica e il contre-plongée iconico amplificano il rapimento del disastro, quella contemplazione emotivamente assorta che è parte del paesaggio artistico e culturale di Peter Berg. Sullo sfondo di un décor che collassa, dentro l'estasi del caos, Mark Wahlberg incarna un'estetica di ordine. Il cinema di Berg genera americani capaci di prendere le misure della propria responsabilità, di accordarsi su valori che li trascendono e allo stesso tempo una forza impersonale che spinge l'azione, è questo il caso, contro la tentazione dell'esaltazione patriottica. Boston - Caccia all'uomo declina intenzionalmente l'analisi delle motivazioni dei terroristi, per focalizzarsi sul vissuto dei protagonisti, che sfilano, quelli veri, sull'epilogo come da tradizione. E da retorica. Primo di due film consacrati all'attentato di Boston, "Boston - Caccia all'uomo" precipita lo spettatore in due ore intense, che confermano la solidità del cinema di Peter Berg.
Riccardo Supino

domenica, aprile 23, 2017

9 FESTIVAL DEL FILM DI ROMA: NIGHTCRAWLER

Festival del film di Roma 10 giornata
Nightcrawler
di D. Girloy
USA 2014
durata, 117'



L'ennesimo assaggio di come e quanto la cosiddetta informazione può essere volutamente manipolatrice e orgogliosamente cialtrona, l'avevamo avuto nemmeno una settimana fa incrociando le vicende dei protagonisti di "Gone girl" di Fincher. Ora, con "Nightcrawler" di D.Gilroy - sceneggiatore passato alla regia; co-autore, tra l'altro, insieme al fratello Tony, dello script di "The Bourne legacy" (2012) - rischiamo una, forse, salutare indigestione, rovistando tra gli avanzi di un più che metaforico punto-di-non-ritorno, alle propaggini del quale comunicazione, giornalismo, arbitrio, voyeurismo, indifferenza, cinismo, speculazione, si fondono in una massa tanto ancora indistinta quanto già solo di primo impatto sinistra.
Los Angeles. Oggi. Louis Lou Bloom (sul serio una specie di fiore-pronto-a-sbocciare, della cui presenza nel variegato giardino sociale non ci eravamo ancora accorti; strano germoglio subdolo e con tutte le carte in regola per diventare parassitario, nel caso, restituito dalle fattezze smagrite, il passo rigido e lo sguardo fisso e penetrante di Gyllenhaal, attore che qui ribadisce la propria confidenza nel cambiar pelle con una certa disinvoltura), cerca di sfangarla improvvisandosi ladro ma è poco più di una mezza tacca. A malapena, infatti, mette insieme rottami di rame, metallo da recinzione e tombini che poi svende a piccole ditte sempre a caccia di materie prime. Una notte qualunque gli si rivela il proprio destino sotto forma di un incidente stradale e di un operatore che, telecamera in spalla, sbircia e ruba sequenze delle operazioni di rimozione dalle lamiere. A suo modo, per Lou, è una rivelazione: da qui ad improvvisarsi cameraman d'assalto o, come si dice in gergo, stringer, il passo è breve. Messa assieme un'attrezzatura rudimentale, munitosi di un apparecchio sintonizzabile sulle frequenze della Polizia, analizzati e ordinati i codici di riconoscimento dei crimini, si scapicolla sulla scena di eventi tragici o delittuosi appena consumati (e in una casistica così vasta, può entrarci di tutto: dalla rapina in un supermercato, allo scontro automobilistico; dall'omicidio allo stupro, passando per un incendio, un'aggressione o un tentato suicidio e così via), filma il possibile - riservando particolare preminenza ai dettagli efferati e ai risvolti truculenti - e mette il materiale girato a disposizione di quella rete di emittenti locali, piccole o medie, che su tali notizie impostano la quasi totalità dei loro palinsesti. All'inizio è dura ma mosso da una personalissima filosofia aziendale che mescola in un amalgama inedita quanto spavalda reminiscenze da manualistica della motivazione, istinto di rivalsa e feroce auto-conservazione, ambizione di guadagno e una qual atonia interiore di fondo, Lou si scaltrisce e si organizza in fretta. Al suo svezzamento concorre anche Nina/R.Russo (per inciso, moglie di Gilroy, interprete che sopperisce con la grinta a palesi ed annosi limiti espressivi), spregiudicato direttore di una televisione con pochi peli sullo stomaco, che sulle prime ne sfrutta il noviziato, quindi ne incoraggia e puntella la mancanza di remore, al punto che Lou non si tirerà indietro neanche quando si prospetterà l'ipotesi di mettersi di traverso ad una pericolosa indagine dell'LAPD, con tutto ciò che ne seguirà...

Immerso nel labirinto di pastose luci notturne (a cura di R.Elswit), di frequente squarciato da macchie sciolte sui toni del blu, del rosso e del giallo, come se l'intero spettro del visibile (e del praticabile) fosse ricoperto della medesima laida membrana che tutto accorpa e destina ad una ripetizione ottusa e crudele nella sua ciclica indolenza, "Nightcrawler" svela il suo pregio più grande - e fonte principale dell'inquietudine che secerne - nella concentrazione senza divagazioni o, peggio, sottolineature esplicative e moraleggianti, sulla prassi spietata e contabile di un uomo totalmente ma monodimensionalmente moderno, ossia solo, senza affetti, senza distrazioni, animato dalla nuda volontà di potenza la quale, una volta individuato il suo campo di applicazione, su di esso prende a esercitarsi con qualunque mezzo, senza la minima esitazione, fino a imporsi/impossessarsene nella più stringente delle logiche capitalistiche produzione-profitto-consumo-distruzione. Lou, a dire, nel suo piccolo agisce - in un ben munito carnevale dell'assurdo che sostanzia e sostiene quel rapporto d'interdipendenza patologica che lega il sistema odierno di costruzione delle informazioni (e fruizione delle immagini), sempre più teso verso la ricerca di un oltre, di preferenza estremo, a un pubblico (in rapida crescita) che di quell'oltre si nutre avido secondo l'arcaico principio di piacere basato sulla contemplazione compiaciuta della sofferenza altrui da una posizione di relativa sicurezza - alla stregua della libera circolazione dei capitali all'interno del tessuto connettivo che regola l'equilibrio e il funzionamento delle attività umane in un contesto vergine: ossia ne invade, in primis, per gradi ma con metodo e diffusione capillare, i gangli, alterando i meccanismi di reciproca interazione (in origine, non necessariamente orientati a un fine cumulativo o a un interesse particolare); piega, poi, i rapporti alla sola dinamica guadagno/perdita, diventandone arbitro indispensabile, da un lato e, di fatto, svuotandoli di ogni peculiarità, dall'altro; per ergersi, infine, a ago della bilancia di qualsivoglia relazione (in tutto e per tutto derubricabile a semplice legame di natura contrattuale) e sola unità di misura in rapporto alla quale argomentare su termini come valore, scelta, senso et. Bloom, armato di telecamera e a riparo dagli scrupoli, cioè, opera - addirittura anticipando talune mosse sulla scacchiera degli eventi o predisponendo le circostanze su una linea che gli riservi il minimo attrito e il massimo ricavo - su una lunghezza d'onda assai simile a quella del principio economico dominante la modernità, quasi ne fosse una naturale estensione, in ogni caso, per il medesimo scopo: proliferare, espandersi, rafforzarsi. Come un virus. Come un tumore.

L'insolita variante di creatura notturna che egli è (un nightcrawler, un lombrico, appunto, che impassibile rimesta le frattaglie di un'umanità devastata per trarne vantaggio), si dimostra così in grado - al netto di una blanda consapevolezza e di una ancor più scarsa partecipazione - di ritoccare in via ulteriore i margini di una convivenza solo propagandisticamente stabilizzata e regolata da presupposti e norme razionali. E se, con ogni probabilità, all'opera di Gilroy avrebbe giovato una maggior asciuttezza per lenire l'intermittente sensazione di programmaticità dell'insieme, il resoconto scabro e dal torbido fascino della perversione a cui è giunto l'ottimismo contagioso (e opportunista) del nulla esiste, tutto è permesso - quasi senza colpo ferire già virato in una sua nemesi ancor più deforme e aggressiva - resta intatto e, anzi, col progredire della vicenda, si ammanta di una sua intransigente e spaventosa inevitabilità, tale da riaffermare che se questa è ormai da considerarsi buona parte della canticchiante e danzante merda del mondo, allora sembra persino grottesco, oltreché tardivo, votarsi alla eventualità per cui deus dementat quos vult perdere.
TFK

LA FOTO DELLA SETTIMANA


                                           Eden di Mia Hansen-Love (Francia, 2014)

sabato, aprile 22, 2017

ACQUA DI MARZO

Acqua di Marzo
di Ciro De Caro
con Roberto Caccioppoli, Rossella D'Andrea, Claudia Vismara
Italia, 2017
genere, commedia
durata, 100'



Ci sono film di nicchia che diventano tali non perché non abbiano le caratteristiche per conquistare le grandi platee ma in ragione di cause che riguardano la possibilità di promuovere il prodotto e di piazzarlo nella sale con un adeguato numero di copie. Ne sa qualcosa Ciro De Caro che per il suo film d’esordio, “Spaghetti Story”, realizzato con mezzi di fortuna e con un budget inesistente (5 mila euro) è riuscito - grazie a una strategia distributiva diventata in seguito un modello da seguire - nell’impresa di sopravvivere all’oblio cui sono destinati quei film che nel corso della prima settimana di programmazione non riescono a realizzare introiti sufficienti a giustificarne la permanenza in sala. Dopo circa quattro anni dall’uscita del primo film “Acqua di Marzo” conferma quanto di buono si era detto a proposito del regista romano, il quale, per la sua opera seconda si affida ancora una volta alla commedia, declinata secondo lo stile semplice ma sostanzioso che sembra essere uno dei marchi di fabbrica della sua cinematografia. Al centro della scena di “Acqua di Marzo” troviamo tre personaggi - un ragazzo e due ragazze - che, neanche a farlo apposta sembrano parenti stretti di quelli che avevamo conosciuto in “Spaghetti Story”,  se non fosse che il fatto di essere un poco più adulti dei loro predecessori basta e avanza per fare della vita uno scenario diverso da quello ludico e speranzoso che ci si aspetterebbe quando l’età consente ancora di andare a spasso con la gioventù. Se a fare da motivo trainante in “Acqua di Marzo” è il triangolo sentimentale che si forma quando Libero (l’ottimo Roberto Caccioppoli), in trasferta a Battipaglia per fare visita la nonna morente, si imbatte nell’ex compagna di banco (la brava Rossella D’Andrea ) separata e con figlia a carico, in realtà il film mette in scena una serie di crisi esistenziali che intercettano le problematiche di una generazione alle prese con le difficoltà del precariato lavorativo e con il problema di  conciliare il pragmatismo della ragione alla fede dei sentimenti. 


Come già era successo in “Spaghetti Story”, il regista fa di necessità virtù, articolando il suo dispositivo in modo che la semplicità della forma cinematografica - fatta in prevalenza di piani sequenza a camera fissa e con la telecamera concentrata sul corpo degli attori - non sia un modo per supplire alla mancanza di mezzi ma la conseguenza di una scelta volta a incidere sul senso della storia. In questo modo anche il montaggio sconnesso e la frammentazione derivante dalla continuità tra sequenze  relative a due diversi piani spazio temporali (uno ambientato a Roma, con protagonisti Libero e la sua ragazza, l’altro ubicato a Battipaglia, in cui il protagonista si relaziona con l’altra donna e con i propri famigliari) non sono espedienti fini a se stessi, ma il modo di rappresentare attraverso le immagini la confusione e le ansie di Libero e degli altri ragazzi. Non contento dell’empatia suscitata dall’umanità di personaggi ai quali, nessuno escluso, non si può non volere bene, e della presa drammaturgica assicurata dalla perfetta commistione tra dramma e commedia (caratteristica, questa, che pone De Caro sulla scia del Virzì de “La pazza gioia”) il regista stimola il coinvolgimento del pubblico nascondendo fino all’ultimo le reali intenzione dei protagonisti, divisi tra la volontà di rimanere fedele ai propri principi e il desiderio di infrangerli le regole per iniziare una nuova vita. Distribuito sul territorio nazionale in un numero limitato di copie “Acqua di Marzo” è un film d’autore con la a maiuscola. 
(pubblicato su Taxidrivers.it)

giovedì, aprile 20, 2017

LASCIAMI PER SEMPRE

Lasciami per sempre
di Simona Izzo
con Barbara Bobulova, Maurizio Casagrande, Max Gazzè, Valentina Cervi
Italia, 2017
genere, commedia
durata, 133'


Lorenzo compie 20 anni e questa è l’occasione giusta per riunire una famiglia cosiddetta allargata dinanzi ad una torta di compleanno con candeline. Presto però  la festa diviene una tragicommedia in quanto la famiglia di Viola /Barbora Bobulova è una comunità sgangherata tra figli depressi e malati di disturbi alimentari e genitori separati ed eternamente indecisi in  amore. A completare il quadro a dir poco disfunzionale concorrono poi le presenze delle due sorelle di Viola, delle quali una è lesbica ( o meglio “saffica” come si definisce l’attrice Valentina Cervi) e l’altra è una divorziata “scoppiata” il cui ex marito ha una nuova compagna di razza nera e una figlia bulimica mentre il padre delle sorelle (Renato, impersonato da Mariano Rigillo) è un depresso indefesso Casanova che ha tentato il suicidio.

Se la famiglia è chiaramente il tema centrale di “Lasciami per sempre” con le tre sorelle sulla scena - Carmen, Viola e Aida - figlie di Renato, il deus ex machina della storia sarà però l’arrivo di un ospite inatteso, e cioè di  Martina, la ragazza di Lorenzo di cui si sta festeggiando il compleanno.
La regia di Simona Izzo inizia presentando i personaggi singolarmente, facendoli sfilare nelle loro storie di vita per poi farli grottescamente scontrare nel momento clou della festa, quello dell’arrivo della torta di compleanno, in cui commedia volge alla farsa con classici bagni in piscina e bagarre continue tra gli ospiti nella cornice floreale della villa della stessa regista. L’ambientazione scelta tra verde e fragranze floreali è propedeutica nel film a evidenziare la passione di Viola che è esperta di profumi e che alla fine darà vita alla creazione di un profumo specifico e nuovo che Max Gazzè denominerà semplicemente “Acqua”. 

Attori “importanti” sono il navigato Mariano Rigillo nei panni del capofamiglia Renato, Maurizio Casagrande in quelli del ginecologo Pietro e Max Gazzé nel ruolo del musicista Nikos: i primi due sono presi in prestito dalla loro consumata esperienza teatrale, mentre Gazzè è neofita nella recitazione ma volenteroso nel suo desiderio di apprenderla. Detto questo la commedia, pur nei suoi colori forti ed intensi e nelle battute dei protagonisti non riesce a sorprendere ne ad appassionare a causa di una messinscena troppo carica e grottesca. che rasenta banalità nelle apodittiche affermazioni dei protagonisti sia in merito alle separazioni tra coniugi che per quanto riguarda il tema dell’omosessualità e del razzismo; argomenti che la Izzo  introduce troppo velocemente e che poi vengono liquidati con battute assolutamente non calzanti  e che rasentano la barzelletta raccontata al bar di quartiere.

“Lasciami per sempre” è dunque una commedia che non convince, che “eccede” nei colori, nel linguaggio, nelle scene, dipingendo il dramma di tutte le attuali famiglie allargate senza raggiungere alcun livello di poesia e di coinvolgimento emotivo in quello che sono le problematiche di ogni personaggio. Questo perché la storia è prevedibile, già vista nei suoi clichè ripetitivi di ogni insoluto dilemma della società e del costume dei giorni nostri, e soprattutto in ragione di uno sguardo che non riesce a trasmettere passione, ostinato com’è a voler ridurre a fattore comico ognuna delle problematiche affrontate, o per meglio dire, sfiorate.

Siamo lontanissimi dalle atmosfere portate in scena nel noto film di Woody Allen “Hanna e le sue sorelle” del 1986: anche lì vi era un’occasione di ritrovo di famiglia allargata che si ritrovava per la festa del Ringraziamento. Il regista americano infatti optava per una soluzione borghese e “politically correct” atteso che estrapolava una immagine di nucleo familiare eterogeneo ma apparentemente unito e felice, senza evidenziare alcun chiasso o frastuono esageratamente esasperato nei rapporti tra i protagonisti, come invece accade in “Lasciami per sempre”. Allen in quell’occasione, nel raccontare uno spaccato familiare anni ‘80 riusciva di converso a mescolare grazia, sorriso e dramma, doti sopraffine di metteur en scene e perfino una recitazione di gran classe. Senza urla, senza personaggi caricaturali e facili battute che in “Lasciami per sempre” hanno la capacità esclusivamente di causare cadute di stile e di non lanciare alla fine alcun messaggio o critica  costruttiva sui costumi del nostro secolo.
Michela Montanari