giovedì, settembre 26, 2019

C'ERA UNA VOLTA...IN HOLLYWOOD


C'era un volta… in Hollywood
di Quentin Tarantino
con Leonardo Di Caprio, Brad Pitt, Margot Robbie,
USA, 2019
genere, drammatico, thriller
durata, 161'


Tutto l’amore che Quentin Tarantino nutre per il cinema si può benissimo vedere nel suo più recente lavoro, “Once upon a time… in Hollywood”.
Il film è ispirato, in parte, ai tragici avvenimenti di Cielo Drive dell’agosto 1969 che hanno coinvolto Sharon Tate, allora moglie all’ottavo mese di gravidanza di Roman Polanski, e alcuni amici, barbaramente uccisi da Charles Manson e dai suoi seguaci che irruppero nell’abitazione del regista, fuori per lavoro.
La storia di Tarantino si lega a questo evento, seppur modificandone l’andamento, mettendo in relazione la coppia cinematografica con Rick Dalton, attore protagonista di una popolare serie televisiva, “Bounty Law”, e la sua controfigura, Cliff Booth.
Questi due personaggi sono i veri protagonisti della vicenda. Il primo, reduce dal grande successo della serie, si trova improvvisamente ad avere a che fare con la realtà di un nuovo cinema voluto da Hollywood che lo obbliga ad accettare piccole parti da cattivo da lui non apprezzate; il secondo, invece, allontanato dai set a causa della sua condotta, si ritrova alla costante ricerca di qualcosa. A dare nuovo vigore ed energia a Rick Dalton ci pensano, indirettamente, Sharon Tate e il marito che si trasferiscono nella casa accanto a quella dell’attore. Dopo aver fatto questa importante scoperta, Dalton si augura di poter entrare, un giorno, nella cerchia dei due vicini e poter anche far parte di un film di Polanski.
Purtroppo, però, le cose non vanno inizialmente come previsto e tutti questi personaggi vivranno una serie di avventure e disavventure prima di potersi incontrare in qualche modo.
Un vero e proprio omaggio al cinema è quello che Tarantino fa in questa pellicola densa di riferimenti e citazioni (sia alle sue opere che ad altre opere cinematografiche) tanto da portare lo spettatore a pensare di poter identificare il regista con la Sharon Tata che, al cinema, si gusta il successo del suo film apprezzato dal pubblico presente in sala. Un po’ una strizzata d’occhio ad un cinema passato che, per certi versi, rimpiange, un po’ una strizzata d’occhio ad un cinema presente e futuro che può riportare gli sfarsi della vecchia Hollywood.

Ma si tratta anche di una sorta di omaggio alle persone realmente coinvolte nella strage avvenuta per mano di Manson e dei suoi seguaci. Il giusto riscatto per la Tate, interpretata in maniera impeccabile da una bravissima Margot Robbie che, nonostante non si sempre e costantemente presente, fa sua la scena e fornisce al personaggio la giusta caratterizzazione.
I due protagonisti, invece, sono interpretati uno da Leonardo Di Caprio, ormai una certezza, qualunque sia il ruolo a lui affidatogli e l’altro da un Brad Pitt veramente efficace che rientra a pieno titolo in carreggiata dimostrando di saper gestire anche un personaggio non semplice come quello di Cliff Booth (il primo scritto da Tarantino, dal quale il regista è partito per costruirgli attorno tutta la storia).
Forse, per alcuni, un po’ poco “tarantiniana” come pellicola perché non presenti molte scene pulp, ma sicuramente un grande elogio alla settima arte per la quale il regista non ha mai nascosto il suo amore incondizionato. 
Veronica Ranocchi

domenica, settembre 22, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Heaven knows what di J e B.Safdie (USA 2014)

LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO. INTERVISTA AL REGISTA DEL FILM KARIM AINOUZ



Vincitore della sezione Un Certain Regard alla scorsa edizione del Festival di Cannes, La vita invisibile di Euridice Gusmao è un affascinare quanto struggente melo contemporaneo dominato da due figure femminili da cui è impossibile non essere conquistati. Impegnato come presidente del GdA Directors Awards, abbiamo avvicinato il regista brasiliano per farci raccontare genesi e realizzazione del film



I pregi de La vita invisibile di Euridice Gusmao riguardano tanto i contenuti quanto la forma. Esemplare a tal proposito è la sequenza introduttiva. Non solo la rarefazione dell’elemento umano e la sospensione temporale prodotta dalla visione del paesaggio naturale in cui sono immerse le protagoniste ne riproducono l’esclusività del legame: da un lato, infatti, la frase rivolta a Euridice – “Vieni, sta per piovere” – è a dir poco sibillina sul destino avverso che attende le ragazze; dall’altro, lo sviluppo dell’azione, con Guida che precede la sorella e le porge la mano per aiutarla a superare le asperità del cammino, definisce come meglio non si potrebbe le differenze caratteriali della stessa Guida, intraprendente e istintiva, e di Euridice, riflessiva e giudiziosa.

Pensavo che nella prima scena fosse importante mettere tutto quello che ci sarebbe stato nella storia, ma che lo si dovesse mostrare in maniera metaforica. La cosa curiosa è che l’inizio era stato girato in maniera diversa, perché avevo previsto di presentare le sorelle alternativamente come adulte e come bambine. Per me la condizione delle due sorelle rimandava alla storia di Adamo e Eva, i quali se fossero rimasti nella natura, rinunciando alla civiltà, sarebbero potuto essere felici insieme. Questo vale anche per le protagoniste, altrettanto unite e solidali una con l’altra. In un certo senso, quando parlo del temporale che sta per giungere mi riferisco a ciò che sta arrivando al termine della giornata: parlo del patriarcato che irrompe sulle loro vite e le separa. A proposito del rapporto tra forma e contenuto, la scena in questione era anche un modo per introdurre la città di Rio che, appunto, è immersa nella natura. Inoltre, volevo trasmettere il mistero dato dal fatto che poco dopo aver lasciato quella scena le ragazze verranno separate e si perderanno.


Un’altra cosa interessante del tuo film è la commistione tra classico e contemporaneo. A  prima vista, ci troviamo davanti a una messinscena tradizionale, a cominciare dalla consequenzialità del montaggio e dalla centralità dei personaggi. A spezzare l’equilibrio interviene il lavoro all’interno dell’inquadratura, soprattutto per quanto riguarda l’uso del colore, spesso contraddistinto da una o più predominanti chiamate a caratterizzare la scena.  Come capita nella sequenza della sala da ballo in cui la passione di Guida per il suo innamorato colora di rosso l’intero ambiente. È un aspetto, questo, che mi è piaciuto molto.

Penso che questo sia stato un film difficile per me. Sono sempre molto interessato al melodramma e questo è il tipo di cinema che mi interessa. Se noti, tale forma cinematografica ti permette di parlare anche dei personaggi subalterni, quelli che in qualche modo vengono soffocati dalla società egemonica. Come hai potuto osservare, tutte queste cose rendono il film oltremodo vintage ed è questo il tipo di problema che ti ritrovi ad affrontare quando ti rivolgi a una storia ambientata nel passato ma girata oggi. Il punto era di come non farlo sembrare melenso, in quanto il problema del melodramma è quello di essere troppo dolce, mentre io volevo un film vivo e contemporaneo. Di solito il melodramma è molto pudico, mentre questo è un film sui corpi di donne che la gente cerca di addomesticare. La vita invisibile di Euridice Gusmao è dominato dalla presenza dei  corpi e poi dalla sensualità, fattore molto importante in questo film. Per quanto riguarda la forma sono partito dalla considerazione che le due sorelle vivono in un mondo artificiale. Lavorare sui colori è stata una scelta molta chiara ed era anche un modo per sedurre lo spettatore.

I colori dominanti sembrano quasi al neon.

Ottima osservazione! Ci sono colori del film che non esistono negli anni Cinquanta. Quelli al neon sono stati un modo per dare vivacità e forza visiva alla storia, utilizzando una palette contemporanea che potesse ricreare l’artificialità dell’ambiente. Parlo di artificialità perché questo film è incentrato per la maggior parte sul mantenimento di certe apparenze, come quella di conservare unita la famiglia tradizionale; parliamo di sovrastrutture destinate a diventare delle vere e proprie prigioni. Trattandosi di un film brasiliano, è per natura sopra le righe; noi non abbiamo paura di essere eccessivi o troppo zuccherosi, e la palette di colori era anche il modo di celebrare il nostro modo di essere.


Accanto a te avevi un direttore della fotografia come Hélène Louvart, conosciuta anche in Italia per aver illuminato le opere di Alice Rohrwacher. Com’è  stato lavorarci insieme?

È stata la prima occasione che ho avuto di lavorare con lei e la ragione per cui l’ho cercata è il film di Alice, lo straordinario Le meraviglie. Per me non è scontato collaborare con una persona nuova, è un po’ come fare l’amore la prima volta, non sai come muoverti. Helene si è rivelata una fantastica collaboratrice: una cosa che mi è piaciuta molto di lei è la sua libertà “punk”, ma anche il rigore e la presenza nei riguardi della storia. Il suo è un modo di lavorare molto aperto e maturo. Avere lei dietro la macchina da presa mi ha permesso molta più intimità con le attrici, perché lei è capace di creare un campo magnetico molto particolare. Questo è il mio primo film girato in digitale perché di solito ho avuto la fortuna di impiegare la pellicola. Helene ne è molto esperta, ma neanche per un momento ha pensato di far sembrare il digitale ciò che non è. Se guardi bene, puoi notare quelle che sono le caratteristiche tipiche del digitale, quali il rumore e una certa sovraesposizione.


Volevo chiederti del suo modo di mescolare la luce naturale e quella artificiale. Lei è molto brava in questo tipo di operazione.

La costruzione delle luci è molto importante non solo in termini estetici ma perché ti aiuta a raccontare la storia. Ogni cosa quindi veniva usata per raccontare le azioni dei personaggi. Se per esempio Guida si trovava da sola in casa e di colpo veniva assalita dalle emozioni eravamo sempre lì, pronti a capire in che modo i suoi sentimenti potessero essere tradotti in colore. Hélène è stata in un certo modo punk (ride, ndr) ma comunque delicata nelle riprese.

Un’ultima domanda sulle protagoniste: una, Julia Stockler, è un po’ un tipo alla Penelope Cruz, l’altra, Carol Duarte, ha corpo e modi da Greta Garbo.

Penso sia stato importante che fossero molto diverse una dall’altra ma che avessero anche qualcosa di simile, per esempio il naso. C’è qualcosa di simile nei loro nasi! È stato importante anche che i loro corpi fossero diversi: uno è come le statue di Giacometti, l’altro esattamente il contrario. Mentre facevo i casting ho cercato di tenerlo sempre presente. Queste due ragazze che non si erano mai incontrare prima le ho trovate molto adatte non solo come attrici ma anche per la magica energia esistente tra di loro. Sul set erano come sorelle, diverse ma legate.  Ho scherzato sul naso, ma prima delle riprese abbiamo trascorso molto tempo insieme e si era creata un’intimità che si è poi trasportata sullo schermo.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

INVISIBILI: THE KINGS OF SUMMER


The kings of summer
di, JordanVogt-Roberts
con: Nick Robinson, Gabriel Basso, Mosés Arias, Nick Offerman, Erin Moriarty, Alison Brie, Megan Mullally, Lili Reinhart
Usa, 2013
genere, drammatico, commedia
durata, 90’


Looking for a ride to your secret location
where the kids are setting up a free speed nation for you
Got a foghorn and a drum and a hammer that's rockin'
and a cord and a pedal and a lock that'll do for now
- Sonic Youth -


Difficilmente si potrebbe penetrare appieno l’american way of life qualora si decidesse di trascurarne uno dei grimaldelli culturali che ne facilita l’accesso, vale a dire il cosiddetto teen movie, meglio ancora se declinato nella variante introspettivo-ribelle. E ciò per la ragione - invero intuitiva - in base alla quale all’interno dei rizomatici e variabili incastri su cui può poggiarsi la sua struttura è possibile riconoscere il lavorìo di un laboratorio sociale in miniatura in cui si ricalcano più o meno pedissequamente le logiche coercitive del mondo adulto (un esempio: “Welcome to the dollhouse”, di Solondz); si approntano resistenze non di rado brutali o grottesche per cui goliardia, sana cattiveria e sprezzo del ridicolo ne smascherano le vere sembianze fino a una letterale autofagia (“The society”, di Yuzna - mettiamo - per non parlare del leggendario “National lampoon’s animal house”, di Landis); si sottolineano gli slanci esitanti e/o sofferti in cerca di personali vie alternative al fine di non replicarne bruttezze e vicoli ciechi (vedi “Leave no trace”, della Granik o, tra i più recenti, “Firecrackers”, della Mozzafari). Tale prossimità di prospettive, di atteggiamenti - in sintesi, di linguaggi - in un paese in cui la giovinezza non è mai stato solo un riferimento anagrafico (Whitman docet) ma un valore, uno dei tratti distintivi di un popolo che a essa sembra addirittura votato, tanto alcuni caratteri di quella - ingenuità intesa come fiducia e sostanziale ottimismo, esuberanza fisica, apertura verso il futuro, cocciuta fedeltà a una insofferente autarchia, alla vertigine illusoria del viaggio et. - nel teen movie vanno a sovrapporsi con ragionevole approssimazione ai tratti più intimi della sua essenza, torna utile allo scopo di comprendere un po’ più in dettaglio questo modo così particolare di guardare al mondo, alle sue contraddizioni; questo spirito spesso ai nostri occhi europei oltremodo stupefacente e sconcertante, appetibile ma con un che di sgradevole, in apparenza risolto ma percorso da sinistre inquietudini. Se poi la predetta visione - di per sé già peculiare - viene calata in quella sorta di cornice ideale che è il suo ambiente di elezione, vale a dire lo scenario naturale, ossia, di nuovo, la tante volte menzionata wilderness, ecco che il quadro descritto assume la sua fisionomia definitiva, a dire quella di un canone autosufficiente, provvisto di riferimenti filosofico-letterari (da Thoreau a Twain, quindi London, passando per Hemingway, giù fino a Johnson, et.); iconografici (da Homer a Hopper, et.); storici (il far west e il mito della frontiera sono, prima di ogni altra suggestione, l’immagine stessa di un corpo-a-corpo ingaggiato con la Natura); musicali (da Guthrie al gospel, da Seeger a Dylan, dal blues al country, et.).

Tutto ciò per introdurre un lavoro come “The kings of summer” dell’esordiente Vogt-Roberts, bildungsroman agreste sullo sfondo dei rigogli boschivi dell’Ohio (dove il film è stato girato, anche se il luogo centrale dell’azione - Tottenville - richiama l’omonimo sobborgo situato a Staten Island, NY), già dal titolo sbilanciato verso l’esplorazione di volontà vergini quanto inclini alla deformazione ironica della realtà una volta giunte alla soglia della consapevolezza, al punto di dover individuare nel cuore di una parentesi privilegiata, dopo l’inevitabile impatto, quell’equilibrio minimo tra sé e il mondo esterno inteso sia come paesaggio vivente che come organizzazione (sociale) precostituita (per molti aspetti, a ben vedere, dilemma simile declinato, stavolta secondo coordinate iper-spettacolari, nel successivo “Kong: Skull Island”). Da subito, infatti, le vicende che vedono coinvolti Joe/Robinson, quindicenne in conflitto con un padre, Frank/Offerman, sardonico tiranno in cerca di una alternativa soddisfacente da opporre a un destino di vedovo burbero; Patrick/Basso, ragazzone della squadra di lotta del liceo angariato dalla sollecitudine stucchevole di genitori estratti di peso dalle pagine di un catalogo di vendite per corrispondenza; e Biaggio/Arias, variazione sconcertata dei ragazzini-liberi-pensatori di “Captain Fantastic”, minuto e strambo soggetto dalle pretese attitudini marziali e dispensatore di aforismi criptico-paradossali a getto continuo (“Ieri ho incontrato un cane randagio che mi ha insegnato cos’è la morte”; “Un orso che non crede a niente è più facile da abbattere”; “Sono gay” - parlando con Joe - “Ma sei sicuro ?”. “I miei polmoni si riempiono di liquido a ogni cambio di stagione”), si caratterizzano, oltreché per la spiccata - e ovvia - insofferenza nei confronti delle mediazioni poste dall’Autorità (la scuola, la famiglia, le stesse consorterie generazionali a cui i coetanei cercano di appartenere per alimentare la propria autostima), per una divertita messa alla berlina - cosa questa già meno scontata - delle sue incoerenze e inadeguatezze (il padre di Joe non solo costringe il figlio a partecipare a lunghe sessioni di Monopoli ma conta di vincere anche barando; i genitori di Patrick ne valutano la dignità estetica a partire dall’ipotetico giudizio che potrebbero darne i vicini a seconda del maggiore o minore stato di cura del suo aspetto), entro cui convogliare, assieme alle impellenze e alle sprovvedutezze dell’età, il desiderio di dare forma e consistenza personali alla parola libertà diventando, motuproprio, i re dell’estate.

Lungi da desolati abissi metropolitani (ricordiamo, per citarne solo uno, “Heaven knows what” dei fratelli Safdie), dalla spensieratezza minata dal disincanto che anima il tentativo estremo di un film come il “Dazed and confused” di Linklater di farsi racconto morale sul crinale di un cinismo illusoriamente elevato ad antidoto contro il fallimento dei tempi in corso (e di quelli a venire), impermeabile agli ingorghi nevrotici sull’essere sempre e comunque cool e sulla popolarità, la sfida di Joe - e in trasparenza di Vogt-Roberts - si concentra sulla pazza idea di mollare, finita la scuola e con l’approssimarsi della bella stagione, senza proclami o gesti plateali, senza avvisaglie autodistruttive ma con un sorriso furtivo sulle labbra, le comodità casalinghe e le oramai trite incomprensioni per trovare un posto appartato in qualche angolo di bosco, metter su casa con gli amici e lasciarsi alle spalle obblighi, restrizioni e scadenze. In fondo basta dire ai rispettivi genitori di volersi trattenere un giorno o due dai compagni, sottrarre un certo numero di attrezzi dalla rimessa, un po’ di contante dalle tasche giuste, materiali di scarto da un cantiere e l’avventura può cominciare, alla scoperta di un mondo che per la prima volta (prodigio poco riconosciuto all’adolescenza, in specie in quest’Occidente dalle passioni tristi) sembra nuovo di zecca (“Ma che ora è ?”, dice Patrick a Joe che lo sveglia punzecchiandolo con un bastone. “Chissenefrega”, fa Joe, “Siamo nel bosco. Il tempo non esiste nel bosco. Andiamo a esplorare !”). L’idillio virile funziona - ed è la parte più imprevedibile e accattivante dell’opera - tra corse nei campi, battute di caccia dai risultati altalenanti condotte con machete e spadone simil-excalibur, incursioni tra gli avanzi di un diner per integrare la dieta, improvvisati rituali propiziatori (scene in cui sovente si opta per la frontalità di campi medi e ravvicinati sostenuta da una pastosa luce amniotica tale da esaltare l’epifania di quella condizione di irripetibile grazia originaria racchiusa in istanti che, eccedendo il corso delle cose, si trasfigurano in una armonia superiore ampliando quel territorio già tutto da scoprire sospeso, tanto per fare mente locale, tra la tensione magico-onirica di “Butter on the latch”, della Decker, e il rigore astratto di “Gerry”, di Van Sant; e, al tempo, spazio di riferimento in cui il Cinema Americano ogni volta reinventa e pasce la sua devozione per la giovinezza scoperta e celebrata a contatto con la Natura nel tentativo di avvicinarla al proprio Io più profondo), fin quando fa capolino, mentre polizia e mezza comunità locale cominciano a mettersi sulle tracce dei tre, l’elemento perturbatore per antonomasia, quello femminile, qui incarnato dalla bionda Kelly/Moriarty, intrigante e sveglia infatuazione inespressa di Joe la quale, complice la dabbenaggine del novello Robinson certo di fare colpo invitandola nell’eremo segreto, finisce manco a dirlo tra le braccia di Patrick, da cui il più incontrollabile e ridicolo degli scazzi (“Tutto filava liscio prima che tu arrivassi. Sei come il cancro !”), nonché l’avvitarsi progressivo dell’utopia.

Approdo sempre evitabile quantunque piuttosto consueto nel genere, la faccenda da qui assume toni e sfumature concilianti, a dire per didascalia costruttivi, con tanto di evento catalizzatore atto a ricompattare in una dimensione più matura il quadro delle aspettative e delle relazioni, instradando di contro il passo smaliziato e noncurante degli inizi sul binario di una scaltra accettazione/comprensione, come se ciò non rimasse anche e pericolosamente con rassegnazione. Ma questo non ditelo a Joe.
TFK

VENEZIA 76. AD ASTRA


Ad Astra
di James Gray
con Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Liv Tyler, Rhut Negga, Donald Sutherland
Usa, 2019
genere, drammatica, avventura, fantascienza
durata, 124'



Un po' come aveva fatto Denis Villeneuve che da autore di film d’essai è diventato regista di costosissimi quanto sofisticati blockbuster, anche James Gray pare avviato a seguire le orme del collega canadese, presentando in concorso alla 76a edizione della Mostra del cinema di Venezia il fantascientifico "Ad Astra", imperniato sulla vicenda di un astronauta americano, il maggiore Roy McBride (Brad Pitt, in  rampa di lancio per la prossima edizione degli Oscar), impegnato nella missione spaziale che dovrà riportare a casa il padre scomparso anni prima nel tentativo di trovare traccia di nuove forme di intelligenza aliena. Rispetto all’avventuroso "The Lost City of Z" (in italiano tradotto con il titolo di "Civiltà perduta") il regista newyorkese continua a utilizzare il genere come cassa di risonanza per i contenuti della sua poetica, ma in questo caso lo fa rendendo ancora più scopera la sovrapposizione tra i meccanismi di genere e la riflessione filosofico-esistenziale che fin dall'esordio accompagna le vicissitudini dei suoi personaggi. Come già successo ai protagonisti di "Little Odessa", "The Yards", "I padroni della notte" e non ultimo "Civiltà perduta", anche l'astronauta interpretato da un intenso e molto in parte Brad Pitt deve sopportare le conseguenze del peso della figura paterna e come loro - a un certo punto - si ritrova ad avere l'ultima occasione per tentare una riconciliazione attraverso un'autentica via crucis. Ma non finisce qui perché alle analogie sopra elencate se ne sommano altre due che finiscono per coincidere con il "Cuore di Tenebra" di Joseph Conrad, a suo tempo sfiorato con il film precedente e qui invece parafrasato da Gray sostituendo la volta spaziale alla foresta vietnamita e facendo del padre di Roy (lo "space cowboy" Tommy Lee Jones) un nuovo Kurtz, alla pari di quello di Brando impazzito per eccesso di genio. Se poi consideriamo la consistenza della posta in gioco, ancora una volta legata all’ambizione omerica di superare i confini dell'umano per sostituirsi a Dio, si capisce in che tipo di impresa si sia arrischiato e quali paragoni mettano in circolo le scelte del regista americano.


Il quale, finché si tratta di restare con i piedi a terra, o quanto meno di staccarsene per rimanere entro i limiti di una fantasia conosciuta, riesce comunque a trovare la maniera di far coesistere il coté esistenziale e l'afflizione del tormentato protagonista, comprensiva dei pensieri e delle riflessioni pronunciate in serie dalla voce fuori campo, alla necessità di colorare d’avventura miti e leggende della cosiddetta nuova frontiera, quella che dovrebbe fare da sfondo al loro prossimo incontro. Agevolata da una serie di non detti che favoriscono il mistero e non abbisognano di spiegazioni, la prima parte di "Ad Astra" fila via leggera e affascinante, grazie anche alla ottima performance di Pitt, la cui adesione al personaggio sembra pescare dalle vicissitudini familiari occorse alla star hollywoodiana. Diversamente, quando la trama si sviluppa oltre i territori del lecito - corrispondenti alle tappe che porteranno McBride su  Marte e Nettuno - e il viaggio prende piede inanellando una serie indicibile di complicazioni, l'impalcatura narrativa inizia a vacillare sotto i colpi di sorprese improbabili, carenza di logica (ma come avrà fatto Jones a procurare il cibo per oltre vent'anni?) e personaggi pensati al solo scopo di portare avanti la trama o quantomeno a variarla (il personaggio di Ruth Negga) del poco necessario a legittimare una ulteriore progressione. La qualcosa, oltre a compromettere la credibilità della vicenda e con essa il suo ingrediente emotivo, vanifica in parte alcuni dei pregi del film che, però, in termini assoluti, rimangono in ogni caso notevoli. Parliamo dell’interpretazione di Brad Pitt, mai così in parte nel  ruolo di un uomo ferito dalla vita, della visionarietà di certi scorci ambientali (su tutti quelli ubicati sulla stazione lunare) e al mood malinconico e struggente tipico del regista, per non dire, in generale, del comparto tecnico destinato a monopolizzare gli Oscar di categoria. Sbrigativo quando si tratta di trarre la lezione morale dalle difficoltà appena superate (il male tempra fisico e spirito permettendo ai più coraggiosi di aprirsi al bene degli altri), "Ad Astra" ci lascia davvero l'amaro in bocca anche quando si tratta di chiudere la vicenda, facendo della solitudine universale appena teorizzata non tanto il motivo per riflettere in maniera complessa sul significato di ciò che abbiamo visto ma, al contrario, il pretesto per autorizzare un finale consolatorio e conformista.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

VENEZIA 76: MARTIN EDEN


Martin Eden
Pietro Marcello
con Luca Marinelli, Jessica Cressy, Denise Sardisco, Carlo Cecchi.
Italia, 2019
genere, drammatico
durata, 129'



Certo cinema italiano non soltanto è vivo ma è riuscito anche a eliminare alcuni dei difetti che un tempo gli venivano non a torto imputati. Se lo scorso anno a incaricarsi del compito era stato Roberto Minervini con il suo "Che fare quando il mondo è in fiamme?", quest'anno toccava a Pietro Marcello prendere il testimone del nuovo corso, presentando un film, "Martin Eden", che denunciava fin dal titolo l'ambizione di aprirsi a un pubblico non solo italiano, per ragionare dell’umano attraverso una fonte, quella dell'omonimo romanzo di Jack London, ancora una volta - come il lungometraggio di Minervini - riferita all'immaginario americano. A differenza del collega, Marcello fa un'operazione di segno opposto, rinunciando alle forme del documentario per debuttare in quelle di finzione, ma soprattutto sposta la collocazione della storia dagli Stati Uniti all'Italia e, in particolare, nella Napoli del primo Novecento, facendo di luoghi e persone della metropoli partenopea una sorta di contro canto dell'avventura umana del protagonista, figlio del popolo costretto come tanti a sbarcare il lunario fino al giorno in cui l'incontro con una ragazza di famiglia benestante lo renderà consapevole dell'importanza del sapere, spingendolo a diventare uno scrittore.

Come in parte già anticipato, Marcello non è interessato alla ricostruzione filologica del romanzo in questione, né ha intenzione di mettere in scena un film di e in costume, così come di seguire anche nel montaggio e nelle scenografie le convenzione tipiche del genere. Se, infatti, i riferimenti letterari e cinematografici spingerebbero l'operazione verso una realizzazione di tipo classico, va da sé che Marcello per trascorsi e intendimenti fa di tutto per sviarne logiche ed espedienti.

Non dimentico della sua precedente cinematografica ma anzi traendone nuova ispirazione, Marcello compie sul piano della forma un connubio tra vecchio/documentario e nuovo/finzione in cui ciò che è stato partecipa al presente quando si tratta di far dialogare con la realtà i pensieri, le parole e le azioni di Martin. Tra i primi a farsi largo c’è "La bocca del lupo" ripreso nella metodologia con cui questo alternava il racconto orale dei due protagonisti ai filmati di repertorio che ricostruivano la storia sociale e demografica e le trasformazioni urbanistiche della città ospitante (Genova). Più che il fine Marcello ne adotta le procedure (per esempio la  ricolorazione dei materiali d’archivio e il montaggio a distanza sull'esempio del "mentore" Artavazd Pelešjan) e la dimensione poetica, adattandole alle "temperature" della vicenda in maniera che i frammenti in questione siano allo stesso tempo testimonianza di una formulazione diversa della verità (diretta e non mediata) e, per contro, una pietra di paragone che invece di allontanare finisce per avvalorare la parte "apocrifa" del film, quella a cui Marcello riserva il compito di incarnare la bellezza del creato e l’armonia di cui parlava London e che i primi piani di Luca Marinelli e Jessica Cressy (e senza dimenticare l'ottima Denis Sardisco nel ruolo di Margherita) traducono in immagini come meglio non si potrebbe. 

Se ciò non bastasse a fare di "Martin Eden" un gioiello fuori dal coro, ad aumentarne il "carico" ci pensa  il gioco di specchi che fa del protagonista una sorta di doppio del suo autore. "Martin Eden" infatti condensa non solo, e come già detto, il cinema del nostro (il paesaggio che Martin vede dalla casa di Maria è lo stesso di "Bella e perduta") ma ne riassume l'individualismo (oltre che regista e sceneggiatore Marcello è stato - spesso - anche produttore  e direttore della fotografia dei suoi film) e la scelta di vivere appartato rispetto al suo mondo di riferimento. Per non dire del'adesione alla libertà artistica di Martin, replicata nel disseminare il film di inserimenti anacronistici: per esempio, la comparsa di automobili degli anni Sessanta e Settanta seguite, poco dopo, da soldati vestiti alla maniera delle camicie nere,  come pure - in apertura -  il juke-box di canzoni di diverse epoche e stili chiuse da "Voglia 'e turnà" cantata da Giuliana De Sio. Fino al colpo di genio finale, rappresentato dalla trovata di incanalare la verve polemica e febbricitante dell’artista engagé creando, nella parte conclusiva, un cortocircuito tra il modo di recitare e anche di presentarsi di Marinelli alla figura pubblica e privata di Gian Maria Volontè, che del credo professato da Marinelli/Eden fece vita, oltre che arte. Giustamente inserito da Barbera nel concorso veneziano "Martin Eden", in attesa di verificare l'eventuale inserimento nel palmarès dei vincitori, si appresta a uscire nelle sale italiane con i migliori auspici. Come sempre al pubblico spetterà l'ultima parola. 
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)  

lunedì, settembre 16, 2019

VENEZIA 76. SE C'E' UN'ALDILA' SONO FOTTUTO - VITA E CINEMA DI CLAUDIO CALIGARI



Se c’è un aldilà sono fottuto – Vita e cinema di Claudio Caligari 
anno, 2019
durata, 105'
genere: documentario
Italia, 2019
regia, Simone Isola, Fausto Trombetta


Ancora cinema italiano protagonista alla Mostra del cinema di Venezia. Questa volta grazie a Simone Isola e Fausto Trombetta, i quali nel dedicare un tributo alla vita e al cinema di Claudio Caligari realizzano un documentario che assomiglia a un film per la capacità di riportare in vita e davanti alla macchina da presa il regista di Non essere cattivo. Di seguito l'intervista ai registi di Se c'è un aldilà sono fottuto - Vita e cinema di Claudio Caligari.




La sequenza iniziale introduce in maniera coerente il vostro film. In essa c’è innanzitutto il protagonista della storia e cioè Claudio Caligari, presente nella lettera indirizzata da Valerio Mastandrea a Martin Scorsese. Ci sono i contenuti riguardanti la costante produttiva che ha impedito al regista di realizzare un numero maggiore di lungometraggi. C’e, soprattutto, il documento che prende forma e, dunque, la mescolanza di linguaggi e materiali che vi ha permesso di riportare in vita l’esistenza umana e professionale dell’autore. Un’unità di intenti, quest’ultima, simile a quella messa da tutti coloro che si sono messi a disposizione di Caligari per aiutarlo a realizzare Non essere cattivo.

Simone Isola: Si, diciamo che ci sta come chiave di lettura, perché Se c’è un aldilà sono fottuto – Vita e cinema di Claudio Caligari è stato fatto con lo stesso spirito, e cioè nel tentativo, spero riuscito, di mettere insieme elementi di diversa natura. Poi diciamo che se il documentario è cosi ricco di contenuti è dovuto al fatto che c’è stata un’unione di forze tra me e Fausto Trombetta, che per primo aveva intrapreso un documentario su Caligari. Lui è di Ostia e vive negli ambienti dove è stato girato il film, dunque è bello che sia partito da quei luoghi, anche dal punto di vista dell’ispirazione.


Io sono entrato in gioco nel momento in cui sono arrivati da me per intervistarmi a proposito di Non essere cattivo, di cui avevano già girato venti, trenta interviste autoprodotte sulla spinta di un grande e contagioso entusiasmo. Da lì, abbiamo deciso di unire le forze per fare qualcosa di più ambizioso che oltre alle interviste contenesse anche altro materiale: abbiamo preso il backstage delle riprese di Non essere cattivo e abbiamo scritto un progetto nuovo che dalla lavorazione del film – e quindi dalla lettera di Valerio Mastandrea – arrivava alla presentazione del film a Venezia, dopo aver raccontato la vita e il cinema di Caligari attraverso delle tappe che sono quelle della lavorazione del suo ultimo lungometraggio. Quindi, se non ci fosse stata questa unione di intenti sicuramente il documentario non sarebbe venuto cosi bene perché, come detto, una parte del lavoro era stato  già avviato da lui.


Lo stato di salute di Caligari insieme alla consapevolezza su quella che poteva essere la sua ultima volta sul set ha conferito ancora più forza al vostro lavoro, come dimostrano le immagini raccolte nel backstage del film.

Fausto Trombetta: Si, questo ha creato una vera e propria unione di intenti, ed è da li che nasce la famosa “banda Caligari”, passata alla storia proprio perché l’intenzione era quella di rimettere Claudio sul luogo dove per lui era più naturale stare e cioè sul set. Abbiamo sempre pensato che fosse giusto e doveroso fare così.

La sensazione è che Se c’è un aldilà sono fottuto si possa considerare un po’ come il quarto film di Caligari, quello in cui per la prima volta troviamo il regista e il suo universo davanti alla macchina da presa. Come si diceva, Caligari vi prende corpo all’interno di un  flusso che fa degli umori, dei modi di essere e dello sguardo del regista la materia fondante del vostro racconto.

F.T.: Questo succede perché fondamentalmente non c’è distinzione tra cinema e vita di Claudio; uomo e regista attengono uno all’altro, tant’è che il sottotitolo del nostro film è appunto vita e cinema di Claudio Caligari. Le due cose sono indistinguibili perché lui ha vissuto della sua idea di cinema. Lo dice anche la madre nell’intervista contenuta all’interno del documentario. Noi, in qualche modo, con questo lavoro vogliamo restituire almeno in parte qualcosa a Claudio. Ciò che gli è stato tolto dalle dinamiche della sua vita e da quelle interne al mondo del cinema.

Mescolate finzione a documentario, passato e presente per confrontare il paesaggio dei film di Caligari con quello reale e contemporaneo delle immagini di oggi. In più, sovrapponete alcuni dialoghi delle sue opere a istantanee del presente,  come capita nella bellissima sequenza dedicata a Pasolini e alla lapide a lui eretta.


S.I.: I tre film di Claudio sono tre cult e a me ha sempre molto colpito il discorso sul tempo, perché quando un regista fa un film a distanza di quindici anni è chiaro che cambiano i paesaggi e le persone. Inoltre, mi incuriosiva molto che un uomo nato sul lago maggiore di sponda torinese, tramite il cinema e la letteratura, si fosse così appassionato a quei luoghi che definiva pasoliniani e che per lui erano il simbolo delle periferie del mondo. Quindi, ci piaceva tornare in quei posti e vedere gli scheletri di ciò che ne era rimasto. Il monumento a Pasolini è sempre lì, rinnovato rispetto all’originale, ma sempre uguale nel disegno. I quesiti che esso pone sono sempre attuali e politici ma a cambiare sono luoghi e paesaggi. Dopodiché, portare i dialoghi dei suoi film – che secondo sono tra i più belli che siano stati fatti – sui luoghi di oggi ti dà quella sensazione di stacco temporale che li fa sembrare come se arrivino da un’altra dimensione. La particolarità vuole che essi siano talmente fusi con quegli ambienti da creare unione anche nella distanza. Sono audio dei film, però i luoghi sono gli stessi e così pure le dinamiche. Non cambieranno mai, ed è per questo che abbiamo pensato a questo tipo di collegamenti.


Se lui indagava la trasformazione del corpo sociale nel corso degli anni voi fate lo stesso con il vostro film, perché andate nei medesimi luoghi per dare conto di come sono diventati.


F.T.: Claudio come Pasolini sostenevano che il vero cambiamento all’interno di una società e, in particolare, di una città si vede nelle periferie perché bene o male il centro storico, nel corso degli anni, rimane sempre uguale a se stesso. Quindi, una delle chiavi di lettura del nostro lavoro è stata quella di rivisitare i luoghi prima pasoliniani e poi caligariani per riscontrare che effetti si sono prodotti con il passare degli anni. Per esperienza personale posso dire che le piazze di spaccio che si vedono in Amore tossico oggi sono molto diverse da trentacinque anni fa. A mancare è quel tessuto sociale che paradossalmente prima pur nella povertà e nella disperazione c’era ed era forte.

Pasoliniano lo è Non essere cattivo e voi lo fate vedere nella presa di coscienza di come anche le borgate abbiano acquisito le distorsioni della mentalità capitalistica a discapito del primordiale vitalismo incarnato in questi luoghi.

S.I.: Il messaggio di Non essere cattivo l’ho capito leggendo la sceneggiatura. In questo senso, sono contento che tanti ragazzi abbiano visto il film perché contiene un messaggio profondo ma non complesso che è quello che Cesare non è un cattivo ma un disperato. La sua rapina è un tentativo di farsi ammazzare perché quello è l’unico modo per ribellarsi a un sistema che ti fa lavorare in un cantiere senza darti i soldi che ti servono per coprire i tanti richiami consumistici. In quegli anni anni ’70 e soprattutto ’80, in cui la coscienza politica era sfumata, l’unica ribellione era quella di andare incontro alla morte. Cesare muore mentre Vittorio affronterà una vita difficile e complicata, cercando di proteggere il figlio dal richiamo dello spaccio e della droga, per la quale i soldi non bastano mai. E, quindi, il messaggio è che lo stare nella società porta a questo tipo di atteggiamenti e che per questo è necessario andare oltre la semplice divisione tra buoni e cattivi. Parlo di un avvertimento comune a tutti e tre i film, anche nel secondo, dove c’è questo gruppo di pirati che viene dalla periferia per andare a rubare in centro. Si tratta di un messaggio fortemente politico reso in una chiave particolare.



Ne La parte bassa del 1978 gli studenti invocavano l’utilizzo delle bombe come forma di contestazione. In Amore tossico gli attori sono essi stessi tossicodipendenti. Ne L’odore della notte i poveri escono dalle borgate per derubare i ricchi. Potrebbe essere questa la risposta al fatto che Claudio non riusciva a fare i suoi film, ovvero che il suo cinema metteva paura al sistema perché troppo in anticipo sui tempi?

F.T.: Sul perché Claudio non riuscisse a fare film ci si potrebbe scrivere un trattato. È il quesito che accompagna tutto il nostro lavoro. Noi certe risposte ce le siamo date, ma di certo non esauriscono la complessità della vicenda umana e professionale di Claudio Caligari.

S.I.: Lui non è arrivato a realizzare i suoi film, ma nel frattempo ha continuato a scriverli. Il problema era che i temi trattati erano sempre in anticipo sui tempi. Dodici anni fa scriveva delle baby prostitute dei Parioli con sguardo diretto e spudorato, quindi per un produttore immaginare di fare un film del genere nel 2007 non era una passeggiata. Altre volte è capitato che lui non sia sceso a compromessi, quindi come diceva giustamente Fausto sono tanti i motivi. Certo, poi se lui fosse nato ventenni prima di certo avrebbe fatto più film, ne sono quasi sicuro. Esordire a metà degli anni Ottanta non era come farlo negli anni settanta.

Il vostro film fa vedere quanto sia stato importante il ruolo di Valerio Mastandrea che in Non essere cattivo è stato il doppio di Caligari, presente sul set dal primo all’ultimo giorno come factotum dell’idea che Caligari aveva in mente per il suo progetto.

S.I.: Diciamo che Valerio ha avuto un rapporto completo con il film, cioè l’ha seguito dalla fase di preparazione fino all’uscita in sala ed è stato una sorta di alter ego del regista, supportandolo anche con difficoltà, perché poi Claudio aveva un carattere molto forte e se qualcosa non gli piaceva non mancava di fartelo notare. Quando dice – tra il serio e il faceto – che in caso di morte il film lo deve firmare Valerio, perché così se sarà venuto male non sarà lui ad assumersene la responsabilità, dimostra come fosse uno che non si fidasse ciecamente neanche delle persone a lui più vicine.

F.T.: Devo dire che Valerio ha fatto un lavoro straordinario prima e dopo perché quando giri un film con un regista che si trova in certe condizioni è un problema sotto tutti i punti di vista. Lui è stato decisivo, si è dato e speso mesi e mesi della sua vita intorno a quel progetto. Se il film si è potuto fare penso che molto del merito sia il suo.


Tra l’altro è bello che Caligari torni a Venezia perché il prestigio del Festival e l’attenzione intorno al vostro film in qualche modo lo ripaga di certe sviste.

S.I.: Venezia è la sede naturale di questo documentario, non poteva essere altrimenti. La città la vediamo più volte nel corso del film e comunque tutti e tre i lavori di Claudio sono venuti qui, dunque il festival mi sembra la destinazione ideale per quello che vuole essere non solo un tributo ma anche la voglia di restituire qualcosa a Claudio.

Alla pari degli altri, anche il suo ultimo film ci dimostra come Caligari fosse uno scopritore di talenti: da Mastrandrea, a cui ha dato dignità di attore drammatico quando ancora non gli veniva riconosciuta, ai vari Borghi e Marinelli, oggi più che mai sulla cresta dell’onda.

Una delle massime di Claudio era: “se sbagli il cast bruci il film”. Evidentemente aveva una particolare sensibilità nel scegliere gli attori. Maurizio Calvesi, che per molti anni ha lavorato a stretto contatto con lui, ci diceva di come Claudio riuscisse a vedere oltre la faccia. Osservava un volto e capiva cosa c’era dietro. In parte ce lo dice proprio Caligari quando parla del primo approccio con un ancora non così conosciuto Valerio Mastandrea. “Ho visto la sua foto”, dice Claudio, “e ho capito che non aveva la faccia da piccolo borghese e che quindi con lui potevo lavorare.” Claudio era uno che responsabilizzava molto gli attori. Non andava da loro per dirgli come fare un determinato gesto. Gli faceva invece vedere molti film e gli dava numerose referenze ma li lasciava anche molto liberi. Per un attore giovane, soprattutto se il film andava bene, tutto questo voleva dire crescere in consapevolezza e autostima.


Nel vostro dispositivo montaggio e fotografia contribuiscono non poco al risultato. Vorrei che me ne parlaste.

S.I.: Questo in parte è un film che è stato anche scritto, nel senso che aveva la possibilità di partire da (molti) materiali già acquisiti, dunque, il lavoro di montaggio è stato davvero eccezionale. Mario Marrone ha fatto un lavoro complesso. Rispetto al mio documentario su Alfredo Bini (Alfredo Bini, Ospite Inatteso, ndr) questo è stato molto più complicato perché c’era molta diversità di materiale, come pure una struttura affascinante ma comunque delicata perché organizzata su più livelli. Fausto al momento del nostro incontro aveva già realizzato 25 interviste. Quindi, facendo la mappatura dei vari materiali il lavoro di selezione e amalgama, si presentava molto articolato. Per la fotografia, invece, dobbiamo ringraziare Maurizio Calvesi per le riprese effettuate nei luoghi caligariani. La sua presenza mi ha davvero emozionato. Lui era molto legato a Claudio e si è messo a disposizione perché anche voleva lasciare il suo contributo. Un pensiero va anche a Paolo Vivaldi, che ci ha dato parte dei brani di Non essere cattivo, e poi a Marco De Annuntis, che ha avuto l’idea del progetto e che ha scritto i brani originali. Hai ragione, forse si sono messi tutti a disposizione come successo al tempo del film; forse era nella capacità di Claudio di tirare fuori il meglio da ciascuno.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)