The painted bird
di Václav Marhoul
con Petr Kotlár, Nina Šunevič, Ala Sakalova
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ucraina, 2019
genere: drammatico
durata: 169’
Un film sul quale ci sarebbe da dire un’infinità di cose è sicuramente l’ultima pellicola di Václav Marhoul, “The painted bird”.
La storia, tratta dal romanzo omonimo di Jerzy Kosinski, è il viaggio di un bambino ebreo ai tempi della Shoah che, per un motivo o per un altro, si trova costretto a viaggiare in luoghi sempre diversi, ad avere a che fare con persone diverse e ad assistere a scene impensabili solo ed esclusivamente per sopravvivere. Inviato dalla famiglia da una “zia” nella campagna per farlo vivere più tranquillamente, il piccolo assiste alla morte di quest’ultima e viene catapultato in un mondo troppo grande per lui, dove orrore e violenza, sotto tutti i punti di vista, sono all’ordine del giorno. Tra animali uccisi, occhi letteralmente asportati con dei cucchiai, torture, violenze carnali (viste e subite) e omicidi, il bambino riesce a farsi spazio in questo mondo e a crescere autonomamente arrangiandosi come meglio può, sfidando freddo e caldo, notte e giorno, fame e sete.
Pellicola interamente in bianco e nero con una fotografia incredibile che cerca di descrivere senza spiegare l’insieme dei luoghi (ma si potrebbe intendere anche mondi) che il giovanissimo protagonista si trova a percorrere.
Uno degli elementi che più di tutti colpisce è sicuramente la totale assenza di musica e l’utilizzo di suoni e rumori in presa diretta. L’altro elemento è, senza ombra di dubbio, la crudeltà e la violenza che il regista decide di utilizzare per arrivare a colpire le corde dello spettatore, anche di quello meno sensibile. Purtroppo se da una parte questo significa mostrare effettivamente la nuda e cruda realtà, dall’altra non permette la creazione di empatia con nessun personaggio, ma sottolinea ancora di più la freddezza con la quale si entra in contatto fin dalla prima sequenza. Una spietatezza voluta, ma forse eccessiva.
Se a ciò si somma, poi, la durata (interminabile) di quasi tre ore, si può ben comprendere che si tratta di un prodotto tutt’altro che semplice, sotto tutti i punti di vista e che, come se non bastasse, il regista ha impiegato più di dieci anni per portare a termine.
E’ costruito proprio come un romanzo, dove ogni avventura (o disavventura) del bambino costituisce un capitolo con tanto di titolo che ci presenta il nome dei vari personaggi che incontrerà sul suo cammino e che, altrimenti, non avremmo modo di conoscere data la quasi totale assenza di dialoghi che non permetta allo spettatore di sapere i vari nomi.
Davvero bravo il bambino protagonista che, nonostante sia costretto a situazioni estreme, riesce comunque a esprimere, anche solo con uno sguardo, tutta la paura (e talvolta il disgusto) che lo accompagna.
Peccato per l’eccessiva durata e crudeltà che tolgono forza a un’opera che nel complesso risulterebbe più che riuscita, ma che, in questo modo, non riesce ad andare oltre.
Veronica Ranocchi
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