mercoledì, luglio 30, 2014

DURAN DURAN-UNSTAGED

Duran Duran: Unstaged
di David Lynch
con Duran Duran
Usa 2011
genere, doc, musicale
durata,  

Istintivamente si sarebbe portati a respingere qualsiasi paragone tra le parti in causa, distanziate non solo da una concezione dell'arte che non potrebbe essere più diversa ma anche dal profilo emotivo e psicologico del pubblico a cui questa è destinata. Parliamo appunto di David Lynch, e dei Duran Duran, artisti che non hanno bisogno di presentazione, coinvolti in un progetto multimediale iniziato con le riprese del concerto della band, tenutosi al Mayan Theatre di Los Angeles nel 2011, e poi proseguito con la realizzazione di un lungometraggio che pur mantenendosi visivamente autonomo rispetto all'evento in questione, nasce comunque sulla suggestioni scaturite da quell'incontro. Il risultato è questo "Duran Duran: Unstaged", ibrido d'autore che assembla materiali eterogenei (documentario, finzione, video arte e spot musicale) destinati a convivere e a comunicare sul piano filmico attraverso il tessuto sensoriale di cui Lynch si serve per tenere insieme le parti del suo film. Nella sua impossibiità di essere normale, dichiarata nella sequenza introduttiva in cui, tra distorsioni visive e asincroni sonori, riusciamo a scorgere a malapena la silhouette del regista, pronto a scomparire dentro la pulsante energia delle sue invenzioni coreografiche, "Unstaged" appare quasi scontato nella sua costruzione cinematografica, con il repertorio - vecchio e nuovo - del gruppo inglese sincronizzato alla progressione di un cineracconto in parte onirico, in parte surreale, che Lynch fa scorrere sotto le immagini del concerto. Un ruscello visivo che fa da commento alle singole canzoni, portando a galla, è proprio il caso di dirlo, un'alternanza di stati d'animo che tutti insieme non sono solo il contraltare immaginifico prodotto dalla partitura melodica delle star inglesi ma anche la testimonianza di una filosofia esistenziale (la pratica della meditazione trascendentale di cui Lynch è uno dei più fervidi sostenitori) che il cinema di Lynch assorbe in pieno nel suo farsi estasi di mondi altri: iconografici e cinefili, come poteva esserlo per esempio la Hollywood ritratta in "Mulholland Drive", oppure interiori, espressione mutevole e diretta di un subconscio in continuo allertamento, e perfettamenti raffigurati da un capolavoro definitivo come "Inland Empire", a cui "Duran Duran: Unstaged", nei suoi continui spostamenti di senso, in parte si ricollega.

 

Se qualcuno, e sappiamo che sono in molti, si interrogava sul destino di una carriera cinematografica arrivata a un punto di non ritorno, con l'ultimo lungometraggio (datato 2006) che aveva disintegrato qualsiasi regola di continuità e verosimiglianza a favore di un'ispirazione lanciata a briglia sciolta, questa nuovo lavoro ci dice di un artista che non si è stancato di esplorare le possibilità del mezzo ma a cui forse dobbiamo iniziare a rivolgerci con parametri non esclusivamente cinematografici. In "Unstaged" infatti non c'è solo il regista di opere uniche nel loro genere - alcuni passaggi con il campo lungo di una vllla isolata e immersa nell'oscurità della notte, lo stupore colto nel viso di una fanciulla senza nome, le appendici di un fuoco perennemente acceso sembrano infatti rimembranze dei suoi film più famosi - ma anche il compositore musicale, il pittore, l'artista concettuale e altro ancora, assemblato in un origami di rappresentazioni che sfuggono al senso comune, e a cui bisogna avvicinarsi scevri da preconcetti che porterebbero a dubitare sul valore di associazioni come quelle che, sulle note del pezzo da hit parade, ci mostrano in primo piano il modellino di un elicottero che vola verso una meta indefinità o la griglia di un barbecue che sembra scandire il ritmo della canzone attraverso lo stato di cottura degli elementi ivi poggiati. Così, se non fosse per la sua componente più glamour, quella dedicata allo spettacolo di LeBon e compagni, "Duran Duran: Unstaged" potrebbe intitolarsi "Looking for Mr. Lynch" per la maniera con cui il regista lascia trasparire tracce di un sè che sta cercando di organizzarsi e di ripartire. 


Magari in sordina, cogliendo al volo la possibilità di filmare il proprio tributo nei confronti di un gruppo musicale (e qui sta la sorpresa) da sempre stimato. Una scelta che, a conti fatti, non lascia deluso nessuno: né gli estimatori del regista, abituati alle variazioni di un mood refrattario a qualsiasi tipo di previsione, né i fan dei mitici Duran Duran, pop band degli anni Ottanta rigenerata da un make up che se non aggiunge nulla in termini di glamour, di certo li proietta in una dimensione di mistero e di bellezza che si riflette in senso positivo sullo spessore della loro discografia. Un merito non da poco. 
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, luglio 25, 2014

ANARCHIA- LA NOTTE DEL GIUDIZIO

Anarchia-La notte del giudizio
di James Demonaco
con Fan Grillo, Carmen Ejogo, Kiele Sanchez
Usa, 2014
genere, horror
durata, 103'



Se e’ vero che il Cinema, in particolare quello genericamente definito “spettacolare”, tende sempre più spesso a cibarsi della sua propria “carne”, riutilizzando all’infinito parti di se stesso per assemblare altrettanti “corpi”, non e’ detto che il prodotto ultimo di quest’immenso apparato masticatorio/digerente sia per forza uno scarto. Ne e’ prova, ad esempio, “Anarchia: la notte del giudizio”/”The purge: anarchy”, di James DeMonaco, prosecuzione più che ideale del precedente “La notte del giudizio”/The purge” (2013), sempre ad opera dello stesso autore.

Distopia ravvicinata (siamo nel 2023) inerente un “nuovo ordine” propagandisticamente sorretto dalla liceità concessa – almeno per dodici ore, una volta l’anno – di dare “sfogo” (“purge”, appunto, e relative affinità, tipo “epurazione” e “purificazione”) a qualunque tipo di compulsione criminale per, in teoria, concorrere a sradicarla dal fondo melmoso dell’animo umano, in realtà organizzato allo scopo d’instaurare una sorta di “darwinismo sociale” tanto sanguinoso quanto definitivo, “Anarchia…” supera di slancio sia l”impasse’ circa la riproposizione di un modello come semplice alternanza di variazioni minime su un’idea fortunata ma fragile, sia la resa incondizionata ad un meccanismo magari remunerativo ma di puro e semplice ricalco. E ciò soprattutto in ragione del fatto che DeMonaco ha con scaltrezza continuato a lavorare sulle regole base dei generi utilizzati, ora accentuando alcuni toni, ora comprimendone altri: operazione, a pensarci, tutt’altro che scontata e sovente trappola letale per un numero imprecisato di tentativi analoghi.


Restando ai punti di riferimento essenziali – “action” e “thriller” – “Anarchia…” oltre che a giovarsi dello spostamento del cuore dell’azione dal contesto suburbano/borghese a quello metropolitano/proletario (accorgimento che, da un lato – a parte trasformare la resa dei conti del primo film in una estenuante caccia all’uomo tra viali deserti e vicoli sordidi, figlia di un immaginario sterminato quanto, a suo modo, classico, vedi, per dire, i “guerrieri” di Hill – allarga la prospettiva visuale e radicalizza i temi portanti dell’opera rendendo più dilatata ma costante la suspense; dall’altro, rimestando nel gorgo di tendenze forse – ancora – minoritarie, comunque inconfessabili o sconvenienti, insinua il sospetto inquietante per cui la dissoluzione dell’attuale struttura delle società affluenti non e’ un noioso argomento da consesso internazionale ma una possibilità in avanzato stato di realizzazione, nei confronti della quale la sopra accennata collocazione “futuribile” rassicura come il celebre tappo a protezione della celebre diga), serra i ritmi del montaggio, impedendo alla tensione di calare sotto il limite di guardia; moltiplica i punti di vista insidiosi, facendo del luogo più insignificante una potenziale ultima spiaggia; fa aderire quasi senza tregua la mdp ai volti e ai corpi dei personaggi, consentendo la scansione sistematica del loro termometro emotivo; alterna e impasta sfumature di colori “allucinati” – lampi azzurrognoli, ocra opachi, grigi smorti, incarnati terrei, neri pieni – a sottolineare il progredire di un disastro – fisico, morale, civile – oramai non più incombente me ben dentro i fatti. Tale prassi consente così al film d’incardinarsi con decisione entro i binari di una partitura forse prevedibile ma serrata e pulsante, supportata anche dall’accorto ridimensionamento degli apporti dei sottotesti socio-antropologici (qui blandamente ribaditi, come a sancirne la pacifica – e sinistra – accettazione), nonché dalla sbozzatura elementare ma energica delle figure principali (l’antieroe laconico, efficiente e dal cuore non del tutto indurito; madre e figlia attrezzate da una vita marginale a resistere e a lottare; una coppia in crisi che troverà la forza per solidarizzare di nuovo) e dall’impatto poco più che accessorio della eterna contrapposizione ricchi/poveri con annesso leader carismatico vendicatore (questi ultimi, declinati in modi diversi, elementi di debolezza di entrambi i “Purge”).

Concisione, allora. Pochi fronzoli. Violenza secca, impietosa e minimi squarci aperti su un futuro chissà quanto ancora a portata di mano. Produce di nuovo la premiata ditta Blumhouse, sempre coadiuvata dall’alacre zampino di Michael Bay.

giovedì, luglio 24, 2014

22 JUMP STREET

 22 Jump Street
di Philip Lord e Chris Miller
con Jonah Hill e Channing Tatum
Usa, 2014
genere, azione, commedia, poliziesco
durata,
 
In un cartellone cinematografico regalato all'improvvisazione e alla scarsa lungimiranza distributiva può verifarsi quello che non ti aspetti, e cioè l'uscita di un film che oltre al divertimento ha pure un pò di sale in zucca. Se poi il titolo di questa perla rara è "22 Jump Street", seconda puntata di un dittico che porta sullo schermo il telefilm che ha lanciato Johnny Deep, allora lo stupore si confonde con l'incredulità. Perchè il film diretto da Philip Lord e Chris Miller pur presentando quella demenzialità tipicamente americana che da Adam Sadler a Judd Appatow fa sganasciare il pubblico americano e lascia indifferente quello europeo, non è esclusivamente finalizzato alla risata sgangherata ma lavora anche sulla sceneggiatura e in particolare su un sottostesto che partendo dal genere buddy movie - a cui si rifanno le dinamiche tra i due protagonisti- lo decostruisce con situazioni e battute che enfatizzano la componente virile e maschilista, tipica di quella rappresentazione.

 
In pratica, mentre segue le indagini di Morton Schmidt e Greg Jenko, poliziotti sottocopertura costretti a infiltrarsi in un college per smascherare lo spacciatore che ha ucciso una studentessa (era questo il leit motiv della serie televisiva) "22 Jump Street" procede nella demitizzazione di alcuni dei must del cinema poliziesco e giovanilista. Dall'indagine investigativa, rocambolesca quanto improbabile, al legame di fraternità tra i due compari, raffigurato all'insegna di un evidente gaiezza ("siamo come Batman e Robin con la differenza che siamo entrambi Batman" dice ad un certo punto il personaggio di Jonah Hill), per non dire delle situazione da college movie, (le feste da sballo, le confraternite studentesche e sportive, lo spring break) ognuna delle quali parodiata con la dovuta dose di esagerazioni e paradossi. Lord e Miller giocano a carte scoperte rivelando fin da subito la natura ibrida del loro film, televisiva (il film si apre con il riassunto della puntata precedente) e al tempo stesso cinematografica. Channing Tatum e Jonah Hill  si prestano allo scherzo svuotando i loro corpi di qualsiasi implicazione divistica e intellettuale, dimostrando una versatilità fuori dal comune. In questo modo "22 Jump Street" finisce per soddisfare buon umore e intelligenza, lasciandoci con il desiderio di poter continuare a gustarci le  peripezie degli stranulati poliziotti.
 

mercoledì, luglio 23, 2014

I GUARDIANI DI ISRAELE

I guardiani di Israele
di Dror Moreh
Israele, 2013
genere, documentario
durata, 101'




La concomitanza tra la visione de "I guardiani di Israele", documentario di Dror Moreh inserito nel cartellone del Biografilm 2013, e le notizie che ci arrivano da Gaza, con l'offensiva israeliana impegnata a neutralizzare l'azione di Hamas bombardando i territori dove esso si nasconde, è una coincidenza destinata a incidere sull'equilibrio emotivo dello spettatore. Realizzato nel 2012 e candidato alla nomination nella categoria di miglior documentario nell'edizione degli Oscar dell'anno successivo, "The Gatekeepers" (questo il titolo originale) deve la sua lungimiranza non tanto nella proposizione di una questione, quella palestinese, che è da sempre al centro del problema mediorientale, quanto piuttosto all'analisi che di essa ne fanno i protagonisti del film. Ad essere intervistati infatti, sono sei ex capi dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano che ha il compito di raccogliere informazioni e formulare prodotti di intelligence in territorio nazionale (a differenza del Mossad che svolge le stesse funzioni al di fuori dei confini dello stato). E' attraverso la loro versione dei fatti che il film cerca di spiegare il conflitto ebreo palestinese - a partire dalla guerra dei Sei Giorni e fino agli eventi che precedono l'escalation delle ultime settimane-, alternando immagini di repertorio e ricostruzioni fittizie (elaborate in digitale) alle risposte degli uomini di stato che, tutti, nessuno escluso, si sforzano di restituire in maniera linerare le dinamiche di un conflitto che per ragioni storiche e politiche è riottoso a qualsiasi tentativo di semplificazione.

 


Moreh è un intervistatore scomodo, che non manca di sottolineare con le sue domande le contraddizioni di una condotta bellica che procede al di fuori di ogni morale, e che per questo considera il danno collaterale (ovverosia le vittime civili) come un elemento che in molti casi non impedisce la messa in discussione degli obiettivi da raggiungere, il film è anche una sfida alle regole del gioco cinematografico, perché in questo caso la consapevolezza degli interlocutori, abituati a districarsi tra le maglie di una retorica ben più complessa di quella propostagli dal film, rendono difficile la conduzione del "gioco" da parte dell'autore. Lo si nota dalla compostezza degli intervistati e il tono, sicuro e controllato con cui reagiscono ai passaggi più controversi, come quello che riguarda l'uccisione a sangue freddo di due terroristi che hanno sequestrato un autobus israeliano, oppure quando si tratta di scoprire uno dei gangli di un sistema apparentemente inossidabile, e che invece l'uccisione di Rabin, con quello che ne consegue in termini di sicurezza interna e di politica estera, si scoprirà sorprendentemente vulnerabile. Pur in presenza di questi fattori, il film riesce comunque a portare alla luce contraddizioni e discordanze che appartengono tanto ai vari schieramenti politici, colpevoli di "agire senza alcuna strategia" (queste le parole usate dagli intervistati) e in balia di frange religiose e dei movimenti di ultradestra che auspicano una nuova palingenesi (ricercata nel progetto, per fortuna sventato, di far saltare il Duomo della Roccia, situato nel cuore della Gerusalemme araba), che all'organizzazione dello stesso Shin Bet, influenzata dal personalismo dei vari plenipotenziari e spesso incapace di prevedere le mosse del nemico; e poi, in maniera proporzionale al crescendo di una drammaturgia fatta di immagini - della tragedia - che lasciano sgomenti, si preoccupa di ricomporre i fili del discorso, arrivando alla certezza che il dialogo sia l'unico modo per uscire fuori dal guado. A oltranza e con qualsiasi tipo di interlocutore, come afferma in chiusura Avraham Shalom, machiavellico nella gestione della crisi ma anche pragmatico nell'ammissione di una sconfitta collettiva che solo il confronto tra le parti in causa può rendere meno terribile.

 

Costruito come il più classico dei documentari d'inchiesta, "I guardiani d'Israele" non ha la presunzione di distinguere tra buoni e cattivi, quanto piuttosto di entrare nella mente del leviatano per cercarne di riportarlo alla ragione. Dalla banalità del male, tratteggiata con agghiacciate dovizia di particolari e con un'asetticità che ricorda quella di "The Fog of the War", all'enunciazione della duplice logica, politica ma anche religiosa, che spiega l'atteggiamento schizofrenico di Israele nei confronti degli accordi di pace siglati e poi in qualche modo sconfessati "I guardiani di Israele" è illuminante rispetto agli avvenimenti in corso e andrebbe guardato per evitare di accontentarsi alle versioni di facciata.
(pubblicata su ondacinema.it)

martedì, luglio 22, 2014

TRANSFORMERS 4- L'ERA DELL'ESTINZIONE


Transformers 4
di Michael Bay
con Mark Wahlberg, Stanley Tucci. Li Bingbing
Usa, 2104
genere, fantascienza, azione, blockbuster
durata, 164'






Provare a sintetizzare con approfondita completezza le molte implicazioni legate ad un'uscita di "Transformers 4 - L'era dell'estinzione" non e' uno scherzo, perché ancora prima che un film il nuovo lavoro di Michael Bay e' più di altri è il risultato di un presupposto economico e commerciale, pensato e poi realizzato in termini di efficacia globale. Per capirlo basterebbe soffermarsi sui titoli di testa dove, a spiccare in termini d'importanza, non sono gli attori di turno - che in fondo hanno nel solo Mark Wahlberg un corpo che possa competere con la prestanza dei giganteschi mutaforma - ma piuttosto il marchio di una multinazionale del giocattolo come la Hasbro, già nel cinema con il dittico di G.I.Joe, e subito il nome di un produttore esecutivo come Steven Spielberg, colui che il cinema blockbuster l'ha addirittura inventato (Lo Squalo, 1975). Un matrimonio all'insegna del marketing e della fantasia che Michael Bay si impegna a tenere insieme con una serie d'effetti speciali che ad ogni uscita, e in attesa di nuovi spartiaque tecnologici, migliorano in termini di qualità e verosimiglianza.


In questa maniera si comprende l'apertura verso opportunità che spalancano nuove trasversalità, consentite dall'ingaggio di Li Bingbing, star del cinema cinese, e dalla delocalizzazione del paesaggio che, nelle battute finali, abbandona i confini nazionali e si espande nel lontano oriente, con la megalopoli honkonghese a far da palcoscenico per la resa dei conti tra buoni e cattivi. Così come la necessità, arrivati al quarto appuntamento, di rinnovare il brend, con una trama che sul piano concettuale azzera quello che avevamo visto nelle puntate precedenti. Accade infatti che, per un oscuro (quanto banale) motivo, i Transformers da salvatori della patria diventino una minaccia per la sicurezza nazionale e quindi oggetto di una messa al bando (l'estinzione) che coincide con la loro eliminazione. Ad aiutarli questa volta - ecco un altro cambiamento- non e' più lo spregiudicato teen ager interpretato da Shia Lebouf, ma piuttosto un inventore fallito, impersonato appunto da Wahlberg, padre single soffocato dai debiti e messo alle strette dalle richieste di indipendenza della figlia adolescente.


In questo modo pur mantenendo inalterata la continuità interna, "Trasformers 4" si presenta come una sorta di reboot che investe persino la componentistica dei robot, con il restyling della parte automobilistica degli alieni che li trasforma in veicoli scintillanti e colorati alla maniera di "Fast and Furious", serie peraltro citata nel corso della vicenda. Una svolta che trova riscontro anche nel sottotesto del film quando, mettendo al centro del film un personaggio come Cade Yeager  si fanno largo in maniera manifesta i valori di un America conservatrice e patriottica, già presente in tutto il cinema di Bay,  e qui rafforzata dalla scelta di affidare la rappresentatività della razza umana ad una tipologia di americano, Cade Yeager, assimilabile a quella del classico redneck - seppur illuminato - intriso fino al midollo dello slogan "Dio, patria e famiglia". E poi nei riferimenti a un certo cinema che, nei passaggi ambientati nella Monument Valley ( come aveva fatto in questa stagione un'altro film automobilistico, "Need for Speed") della coppia Ford/Wayne, così come nell'identificazione tra la nobiltà del passato con quella del vecchio cinema caduto in disuso, la dice lunga sugli orientamenti del messaggio offerto dal nuovo Transformer, che, è bene dirlo, compie appieno il suo dovere, calamitando l'attenzione su uno spettacolo che non fa sentire il peso del suo pur lungo minutaggio.
(pubblicata su dreamingcinema.it)

domenica, luglio 20, 2014

PER UN PUGNO DI SPICCI di Antonio Romagnoli

Per un pugno di spicci
di Antonio Romagnoli
con Nika Perrone, Fabrizio Stefan, Cristian laiontini, Ivano Calafano, Giuseppe Scaglione
Italia, 2014
genere, commedia, drammatico
durata,




Torna Antonio Romagnoli col suo ultimo lavoro breve, "Per un pugno di spicci", corto girato in economia ma pervaso della medesima atmosfera scanzonata e dissacratoria - sempre in bilico tra omaggio e canzonatura, lunga memoria cinematografica e quel tanto di usura tipica delle tracce narrative assiduamente frequentate - degli "esperimenti" precedenti. Sarcasmo e impertinenza, quindi; calembour e placida cialtroneria; rapidità di sguardo intrisa di una sorta di complice cinismo e inaspettati momenti di tregua che sembrano preludere svolte al momento appena intraviste ma già come impazienti di prender forma...". 
TFK
 https://www.youtube.com/watch?v=ll1WST8jZKA

venerdì, luglio 18, 2014

LA GELOSIA

La gelosia
di Philippe Garrel
con Louis Garrel, Anna Mouglalis, Esther Garrel
Francia, 2013
genere, drammatico
durata, 71' 


 Per chi non conosce Philippe Garrel, "La gelosia" potrebbe risultare un concentrato di anomalie, caratterizzato com'è da un linguaggio cinematografico che si pone fieramente al di fuori del tempo e delle mode. Immerso in un bianco e nero patinato e demodè, recitato in maniera compassata e animato da una gravità implosa, "La gelosia" porta in scena una vicenda di ordinario disamore che procede secondo un canovaccio ampiamente risaputo. Louis (Garrel) e Claudia (Anna Mouglalis) infatti sono due amanti la cui complicità viene messa a dura prova da un'esistenza avara di soddisfazioni e di risorse finanziarie. Se lei ha rinunciato al riconoscimento del proprio talento artistico nella speranza di trovare un lavoro stabile, Louis si divide tra le attenzione per la piccola Julie, nata da una precendente relazione, e una carriera d'attore teatrale che però stenta a decollare. Tra ambizioni frustrate e continue tentazioni il rapporto non tarderà a deteriorarsi

Che per Garrel il cinema sia un modo per parlare di se è un fatto oramai acclarato. In questo caso, al di là dei coinvolgimenti familiari - Louis ed Esther Garrel- chiamati a recitare la parte di fratello e sorella, lo spunto autobiografico finisce per dominare l'intera storia, che, ove si eccettui la collocazione temporale trasferita ai nostri giorni, trasfigura per filo e per segno il vissuto del padre del regista. Un gioco di specchi, dove l'arte nell’imitare la vita non riesce a spogliarsi del suo cotè più intellettuale, destinato a fare capolino negli atteggiamenti ombelicali dei protagonisti, nell'egotismo che li crogiola in un'inerzia compiaciuta e decadente, e in quello spleen in cui certo cinema francese ama declinarsi. Ciononostante, o forse proprio per questo Garrel è riuscito a crearsi un segno distintivo che ne ha fatto un punto di riferimento per quella parte di borghesia che ama immaginarsi più emancipata di quanto non lo sia, e a cui piace sentirsi depositaria della grande utopia sessantottina.


Cinema "partigiano" dunque, destinato a esaltare un  numero ristretto di eletti, a cui il regista offre un kammerspiel che fa controllo formale uno dei suoi tratti distintivi. Frammentando la narrazione con sequenze che ogni volta s’interrompono all'acme della tensione emotiva, Garrel riesce ad alzare il tasso di esistenzialismo della storia e nel contempo ne impedisce le conseguenze più nefaste, quelle che normalmente appesantiscono la drammaturgia. In questo modo il film riesce a farsi apprezzare per lo straniamento prodotto dal contrasto tra dramma interiore e compostezza figurativa, che nel film risulta controllata ai limiti della maniera, con la distanza dai corpi ottenuta con largo uso di campi medi e lunghi che li rende emblematici di una condizione umana universale e condivisibile. Irritante quando trasforma i dialoghi in sentenze filosofiche, "La gelosia" ha però un fascino retrò che a Venezia 2013 gli stava per valere il premio poi andato a Gianfranco Rosi.

giovedì, luglio 17, 2014

REVIVAL PASOLINIANO

Che Piero Paolo Pasolini sia una figura con cui l'Italia deve fare i conti è ormai una falsa notizia. Artista e intellettuale refrattario ad affiliazioni e opportunismo, Pasolini nel corso degli anni 60/70 rappresentò la spina del fianco di quell'Italia democristiana e bigotta che si riteneva insindacabile, e che per questo, al momento della tragica scomparsa, è stata indicata da molti come la principale responsabile di quella morte, mandante occulta di un omicio commesso da altri. Se la vicenda reale si è fermata alla condanna di Pino Pelosi, ragazzo di strada accusato di avere ucciso Pasolini durante un incontro clandestino, il cinema ha  provato  ad andare avanti ripercorrendo più di una volta quella parabola esistenziale, con una scrittura che ha alternato giornalismo da inchiesta (Marco Tullio Giordana con "Pasolini, un delitto italiano) a ricostruzione documentaria (Roberto Olia con "Nero Petrolio"), per arrivare ad arrendersi di fronte all'evidenza di un mistero destinato a rimanere tale. Per questo motivo sorprende e fanno piacere la notizie di questi giorni che riportano in primo piano la vita e l'opera dello scrittore e regista friulano, attraverso due film a lui dedicati.

Il primo è "Pasolini" di Abel Ferrara, in predicato di figurare nel concorso veneziano ed interpretato da William Defoe, il secondo, poco pubblicizzato ma non meno interessante è invece "Pasolini, la verità nascosta" di Federico Bruno, con Massimo Ranieri nella parte del protagonista. In attesa di verificarne i risultati, sappiamo già che entrambe le storie si focalizzano sugli ultimi giorni di Pasolini, con Ferrara che ha puntato tutto su un ritratto intimista e introspettivo, in cui la realtà si alterna con una forte componente onirica, mentre Bruno sembra aver scelto un impostazione culturale e letteraria , con la stesura di Petrolio, il libro dello "scandalo" (Petrolio, rimasto incompiuto) a fare da trait union tra il pubblico e il privato dell'artista. 

A confortare l'appassionato sulla giustezza dell'approcio riservato a una figura cosi importante e problematica ci sono almeno due cose: la carriera cinematografica di Ferrara, da sempre refrattario a qualsiasi compromesso, e abituato nel bene e nel male a far prevalere il suo punto di vista (vedasi l'ultimo "Welcome to New York, sul caso di Strauss Khann), e, a seguire, la serietà professionale degli attori coinvolti, che nel caso di Ranieri servirà anche ad aumentare l'attenzione nei confronti di un lavoro meno reclamizzato di quello firmato dal regista americano. A metterlo in guardia invece, il rischio di un maledettismo che nel caso di Pasolini rischia di togliere spazio all'analisi e all'approfondimento. Di una cosa siamo però sicuri, e cioè che le polemiche non mancheranno. Prepariamoci dunque alla tenzone, e nell'attesa magari buttiamo un occhio a qualcuno dei capolavori Pasoliniani. Sarà un modo per non lasciarsi incantare dai soliti venditori di parole.

mercoledì, luglio 16, 2014

FISIOGNOMICA DI UN SUCCESSO: BRAD PITT

La differenza diventa palpabile quando si tratta di scriverne, perchè a fronte di un fisiognomica da copertina Brad Pitt ha saputo costruirsi nel corso del tempo una credibilità  non pronosticabile e che ora non si può liquidare con qualche nota di colore e  con i calcoli da botteghino. Sul piatto della bilancia non ci sono solo una quarantita di film ma anche un ruolo da produttore che è diventato il segno più evidente di una maturità artistica che ha visto Pitt impegnato sul versante di un mecenatismo illuminato, con film come "The Tree of Life"," L'assassinio di Jesse James", "12 anni schiavo" , successi non scontati che hanno permesso al nostro di farsi strada verso il cinema più impegnato.

Evidentemente Pitt deve aver fatto tesoro del consigli di Robert Redford che, in occasione delle riprese di "A Rivers Run Through It" ebbe modo di profetizzare un futuro radioso per il suo attore, a patto d riuscire a superare i condizionamenti di uno status symbol che le Major volevano a tutti costi edonistico e patinato. Certo il processo non è stato facile, e così, prima di arrivare al punto di svolta, avvenuto nel 2006 con il film di Gonzales Inarritu "Babel" - ma anche con una serie di interviste e dichiarazioni orientare a costruire un immagine più attenta al mondo circostante" , in cui per la prima volta l'attore appare con il volto segnato dal tempo e nel pieno di una maturità anagrafica che diventerà il suo marchio di fabbrica, allontantandolo da quella giovinezza artificiale che è parte integrante del mainstream hollywoodiano. 


Da quel momento, oltre alla versione disimpegnata e cool che tante soddisfazioni aveva dato al nostro ( da "The Snatch" alla trilogia di "Ocean Eleven") ci saranno le prove di "Burn After Reading" e soprattutto l'Aldo Raine di "Bastardi senza gloria", che aggiungeranno sfumature sardoniche e grottesche alla sua maschera di bellezza incontaminata, e poi il dittico costituito dall'accoppiata "L'arte di vincere" (nomination all'Oscar) e The Tree of life" (Palma d'oro al festival di Cannes), decisivi nel raggiungimento di una credibiltà che oggi gli permette di cimentarsi con il medesimo successo (di critica e di pubblico) in lavori dotati di un'autorialità spettacolare e pure remunerativa, come dimostra lo spot pubblicitario del noto profumo francese, dove "L'uomo ideale" si mostra per quello che è: uno splendido cinquantenne a cui tutto riesce  in maniera naturale. E la storia è lungi dall'essere finita, con un nuovo film, "Fury", ancora una volta ambientato nella seconda guerra mondiale, pronto a rinnovarne le gesta.  

martedì, luglio 15, 2014

POLICEMAN (Ha Shoter)

 Policeman (Ha shoter)
di Nadav Lapid
con Yiftach Klein, Yaara Pelzig
Israele, 2011
genere, drammatico




La vita di un poliziotto delle forze antiterrorismo israeliane è scandita da rituali che appartengono a un quotidiano che non conosce nazionalità: la complicità amicale verso i colleghi che condividono i suoi stessi rischi si alterna con quella della moglie che lo aspetta a casa, ansiosa di rivederlo nelle stesse condizioni in cui è uscito. Apparentemente vitale, il film procede in due direzione: la prima ci mostra uomini fisicamente ineccepibili e professionalmente capaci, che vivono muovono e combattono con in mente un unico obiettivo che è quello di catturare il nemico arabo; la seconda invece si prende cura di confutare quelle certezze con variazioni sul tema che, se non mettono in discussione l’apparato statale e burocratico nel quale si inserisce l’operato degli agenti, di certo lo mina a livello individuale, per la scoperta di una realtà che non corrisponde a quella dedotta dai briefing e dalle strategie che precedono la repressione armata.

Increspature di una superficie perfettamente levigata, queste asimmetrie costituiscono in chiave drammaturgia il valore dell’intera opera: il collega malato di tumore che si ostina a lavorare trasmettendo agli amici la sensazione di un invincibilità relativa, i dati di un operazione andata storta, con la morte di persone innocenti a relativizzare il mito della guerra chirurgica, e poi ancora il machismo di Yaron, marito premuroso di una moglie incinta ma allo stesso tempo capace di portarsi a letto una cameriera minorenne, ed infine la scoperta più sconvolgente, rappresentata da un terrorismo autoctono, nato nelle risacche di una nazione abituata a difendersi dall’esterno e per questa poco abituata a fare i conti con il dissenso interno.

Due facce della stessa medaglia, gli agenti governativi ed il gruppo terroristico che Nadav Lapid ci presenta in modo secco, senza introduzione, precipitando lo spettatore all’interno di due mondi differenti, ma costretti a convivere nel medesimo scenario. La tradizione va di pari passo con nuove forme di dissenso: da una parte l’ordine e la conservazione, dall’altra il rigurgito di una vita disumana. Compartimentazione che il regista traduce sul piano filmico con una narrazione parallela, destinata ad incrociarsi solamente nel finale, quando la resa dei conti tra buoni e cattivi porterà ad ulteriori sorprese, e che per il resto procede in maniera indipendente.

L’uso di luci naturali, l’assenza di qualsiasi virtuosismo tecnico ed un cast funzionale alla storia contribuiscono a rendere il film fruibile ed allo stesso tempo impegnato. Di questi tempi una rarità. Presentato in prima mondiale al festival di Locarno del 2012, il film ha vinto il premio speciale della giuria, facendo di Lapid uno dei registi più interessanti dell'ultimo periodo.

mercoledì, luglio 09, 2014

Film in sala da Giovedì 10 Luglio


IL PARADISO PER DAVVERO
Heaven is for real
di Randall Wallace
con Greg Kinnear, Kelly Reilly, Thomas Haden Church
2014 USA - Drammatico - 100 min

LA MADRE
di Angelo Maresca
con Carmen Maura, Stefano Dionisi, Laura Baldi, Luigi Maria Burruano
2014 ITA - Drammatico - 90 min

LA RICOSTRUZIONE
La Reconstruccion
di Juan Taratuto
con Diego Peretti, Claudia Fontan, Alfredo Casero, Maria Casali, Eugenia Aguilar
2013 ARG - 93 min - Drammatico

L'ESTATE STA FINENDO
di Stefano Tummolini
con Andrea Miglio Risi, Marco Rossetti, Giuseppe Tantillo, Nina Torresi, Nathalie Rapti Gomez
2013 ITA - Drammatico - 102 min

PARANORMAL STORIES
di Andrea Gagliardi, Tommaso Agnese, Roberto Palma,
Stefano Prolli, Omar Protani, Marco Farina
con Daniele De Angelis, Primo Reggiani, Laura Gigante, Tania Bambaci, Lorenzo D'Agata
2014 ITA - Horror - 92 min

MAI COSI' VICINI
And so it goes
di Rob Reiner
con Michael Douglas, Diane Keaton, Sterling Jerins, Barbara Vincent,
2014 USA - 94 min - Commedia/Sentimentale

sabato, luglio 05, 2014

INSIEME PER FORZA

Insieme per forza
di Frank Coraci
con Adam Sandler, Drew Barrymore
Usa, 2014
genere, commedia
durata, 117'

Dall'ultima volta che li avevamo visti insieme, stiamo parlando di "50 volte il primo bacio", sono passati quasi dieci anni, eppure nel caso di Adam Sandler e Drew Barrymore il tempo cinematografico sembra essersi fermato. Un pò per ragioni di copione, essendo "Insieme per forza" un film polarizzato su caratteri volutamente infantili e strenuamente impegnati a sconfessare la maturità insita nella figura genitoriale prevista dal ruolo, un pò perchè la fisicità asessuata e cartonesca dei due attori li pone su una dimensione atemporale e assessuata che esclude qualsiasi ipotesi di invecchiamento. Rispetto al film del 2004 però, quello di Frank Coraci (per la terza volta infilato in un film di Sadler) rafforza un modello di comicità sopra le righe e un pò cafona con cui nel tempo Adam Sandler si è identificato, nonostante gli abboccamenti della critica che non aveva mancato di apprezzarne le incursioni nel cinema d'autore ("Ubriaco d'amore", "Reign Over Me").

Fedele a se stesso e a un regista come Frank Coraci che lo aveva diretto in "The Waterboy", film fondamentale nella definizione di quella dimensione non sense che così bene si addice all'espressione stralunata e imprevedibile dell'attore americano, Sandler si ripresenta sullo schermo con un ruolo che gli consente di mantenersi in empatia con un pubblico anagraficamente trasversale. In "Insieme per forza" è infatti Jim, vedovo inconsolabile e padre di tre figli che si ostina a rimanere attaccato al ricordo della moglie, ignorando le necessità della prole, bisognosa di trovare un corrispettivo femminile diverso dal surrogato offerto dal soffoncante genitore. L'occasione di cambiamento è data dall'incontro con Lauren, madre separata in cerca dell'anima gemella. Dio li fa poi li accoppia, non prima di un complicato apprenditato che assume la forma di una vacanza "indimenticabile".


Girato con una messinscena che si distingue per la qualità bidimensionale delle immagini e per una messinscena che raggiunge il suo punto più basso nell'esotismo di un paesaggio - quello africano, in cui buona parte della storia è ambientata - tanto artificiale quanto può esserlo quello ricostruito interamente in studio, "Insieme per forza" e' una commedia che alterna buoni sentimenti a una demenzialità corriva e kitsch. Si passa così da scene madri in cui soprattutto Sandler si propone come padre affettuoso e sensibile ad altre in cui l'attore si trasforma in una versione a stelle e striscia dei nostri Boldi e De Sica, con doppi sensi e mimica da slapstick comedy che fanno il paio con le scorribande occasionali dei vari sparring partner tra cui si distinguono per insistente insipienza i commenti musicali del crooner intepretato da Terry Crews, ex star del football passata poi al cinema. Ovviamente c'è spazio anche per un inserto romantico rappresentato dalle schermaglie tra Jim e Lauren ma questi momenti sono poca cosa rispetto ad una costruzione narrativa che è quasi sempre un pretesto per piazzare gli assoli del divo americano, il cui talento, ci sentiamo di dirlo, meriterebbe qualcosa in più di uno spettacolo da palinsesto di secondo piano.
(pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, luglio 03, 2014

CAN'T STAND LOSING YOU

Can't Stand Losing You
di Andy Grieve, Lauren Lazin
con Andy Summer, Sting, Stewart Copeland
Usa, 2013
genere, documentario
durata, 84'


E' scritto negli annali che il momento migliore per chiudere una carriera sia quello di farlo all'apice del successo. Se così è, possiamo dire che i Police, banda musicale di massimo culto agli inizi degli eighties, abbiano preso alla lettera l'adagio ritirandosi dalle scene proprio nel momento di massimo fulgore e al termine di un tour mondiale (Il "Synchronicity Tour" che fece segnare l'apoteosi in termini di consenso e di vendite di dischi. A ricordarne le gesta è il bel documentario di Andie Grieve e Lauren Lazin realizzato mettendo insieme immagini di repertorio, filmati amatoriali e, venendo all'attualità, istantanee tratte dalla reentrè della band avvenuta nel 2007 con una serie di concerti celebrativi che anche se non ufficialmente ( la dichiarazione di scioglimento non è stata mai formulata) hanno decretato la fine di un avventura musicale più unica che rara.


Ma la particolarità di "Can't Stand Losing You" non consiste tanto nella visione del resoconto artistico esistenziale, che, per quanto appassionato e coinvolgente nulla aggiunge al mito del trio formato da Sting Copeland e Summers, bensì nella prospettiva con cui il film ritorna sulle fasi salienti della loro ascesa, letta attraverso gli occhi e il cuore di  Andy Summers, il chitarrista della band. Una scelta non casuale perchè a cominciare dalla particolarità della propria biografia (per mancanza di alloggi Summers nasce in una sorta di carovana comprata dagli zingari) e continuando dalle delusioni lavorative che precedettero la nascita dei Police, Summers comferma di essere stato la componente più equilibrata del gruppo, quello capace di contenere da una parte il talento musicale di Stewart Copeland, dall'altra di tenere a bada le ambizioni divistiche di Sting,  front man e uomo copertina della band. Così, se il film procede con salti temporali che uniscono in un medley tra passato e presente alcuni dei pezzi migliori del repertorio (ma ogni fan si sa avrebbe qualcosa da obiettare a riguardo, chi scrive in questo caso è rimasto orfano de "When The World Is The Running Down") l'interesse del cinefilo si sofferma sul retrogusto fatalista di alcuni passaggi, in cui Summers fa capire l'inevitabilità di quanto poi si sarebbe verificato con il logoramento dei rapporti personali e di lavoro, e su una malinconia che è qualcosa di più di un semplice rimpianto e che nasce dalla constatazione che il successo a un prezzo quasi sempre insostenibile. Detto questo il film rispetta le iconografie dei personaggi, soprattutto quella di Sting che cannibalizza le attenzioni dello spettatore con un protagonismo che divora il resto della ciurma, evita di affondare il coltello nella piaga (le trasgressioni da rock band sono appena accennate e  inserite in un contesto aneddotico come quello che vede John Belushi incontrato a Bali pronto a far da guida lungo i sentieri dello sballo) e ci propone momenti anche divertenti come quello in cui Summers si ritrova in un bar a fare il karaoke di "Every Breath You Take" insieme a un gruppo di ignari avventori, e ancora corto circuiti emozionali che nel film si verificano ogni volta che la telecamera ci restituisce il colpo d'occhio del back stage con Summers che ci porta sul palco e nei camerini dove si consumano gli attimi dell'ultima avventura. 

Confezionato con una fotografia che nelle tonalità scure e nella luce contrastata restituisce con puntualità l'altalenanza dello stato d'animo di chi racconta. "Can't Stand Losing You" fa uscire dalla sala con l'idea che la musica dei Police abbia retto il tempo senza perdere nulla del suo fascino. Non ci stupiremmo se, arrivando a casa, lo spettatore andasse a cercarla per continuare ad ascoltarla. 
nickoftime

 Di seguito abbiamo pensato di completare la visione del film con un punto di vista tecnico sulla discografia dei Police: la vorremmo intitolare in una maniera che in qualche modo stona un pò con il taglio scanzonato che si solito utiliziamo ma tant'è a volte le eccezioni sono belle e in questo caso riguardano anche il formato a "doppio fondo" che abbiamo utilizzato. Ma non perdete tempo e inziate a leggere la...

                                 Musicologia de The Police

Di rado accade che un'espressione indurita dalla consuetudine come "fenomeno
musicale" risulti esente da quella sfumatura sarcastica che alligna da sempre
al suo interno e che allude, in maniera più o meno esplicita, alla presenza di
limiti espressivi o a lacune tecniche di vario spessore e incidenza: come pure
ad una nemmeno tanto nascosta inclinazione alla corrivita', da intendersi nel
senso della mera ricerca di "un posto al sole" tra i gemelli omozigoti del
gusto-di-massa e della commerciabilità 'illico et immediate'. Tale categoria -
che può essere anche, quindi, a volte, una pigra certezza - poco s'attaglia
comunque ad una formazione come "The Police" (l'articolo, per comodità, di qui
in poi verra' omesso), la quale, sebbene arrampicatasi ai vertici dello "star
system" con tutte le lame a doppio taglio che ciò implica, ha dimostrato, tra
gl'inevitabili alti e bassi di qualunque parabola, di possedere gli strumenti
per sgrezzare prima e consacrare poi la sostanza che giaceva al fondo di
talenti indiscutibili.

A cominciare dalla sezione ritmica impostata da/su Stewart Copeland - ex
Curved Air - batterista in grado di assicurare, al tempo, un 'drumming' tanto
implacabile quanto multiforme (da notare, tra i tanti, il lavoro svolto in
pezzi come "It's alright for you", "Driven to tears", "Message in a bottle",
et.) e decisivo nel trapasso dalle asprezze sintetiche del punk coagulate
attorno all'esordio "Outlandos d'amour" (1978), alle sequenze più elaborate e
imprevedibili che avrebbero costituito la nuova "spina dorsale sonora" del
trio, a cavallo tra rock, new wave, reggae e sfumature caraibiche (atmosfere in
divenire già intuibili, peraltro, sia dal punto di vista formale - si pensi,
per dire, all'inciso proprio di "Can't stand losing you"; alla primissima
versione di "Roxanne", costruita come una 'bossa nova' - sia da quello, diciamo
così, "caratteriale" - Sting che in "So lonely" prefigura il proprio avvenire
di rockstar "destinata" ad una sorta di dorata solitudine: "No surprise, no
mystery/In this theatre that I call my soul/I always play the starring role").
Quindi, Gordon M.Sumner (Sting, per l'appunto), discreto bassista ma
soprattutto titolare di uno splendido falsetto naturale e di una non comune
abilita' compositiva, nel caso quella misteriosa capacita' di creare una
commistione sensata e coinvolgente di accessibilità e raffinatezza;
combinazione che consente di produrre opere (qui musicali) in cui alla
linearità quasi sempre suggestiva della struttura si aggiunge un'immediata
presa emotiva. La lista degli esempi e' lunga ed include non meno di una
dozzina di ritornelli che pressoché chiunque si e' ritrovato a canticchiare
almeno una volta: da "Next to you" a "Roxanne", passando per "Walking on the
moon" e "Bring on the night", arrivando, attraverso "Don't stand so cose to
me", "De do do do, ...", "Invisible sun", a "Wrapped around your finger",
"Every breath you take", "Tea in the Sahara", "Every little thing she does in
magic", e magari a chissà quanti altri...

A chiudere il triangolo, Andy Summers, chitarrista preciso e di una certa
eleganza, bluesman della prima ora, una mezza dozzina di "esperienze
propedeutiche" (tra cui gli "Animals" di Eric Burdon e i Soft Machine come
turnista) all'attivo, come pure autore del testo, "One train later", da cui il
documentario sopra analizzato prende le mosse. Personaggio più sfaccettato di
ciò che le cronache e il suo carattere schivo per quanto intriso di un umorismo
tipicamente 'british' ci hanno restituito, Summers ha, tra le righe di questo
suo percorso a ritroso nel passato recente, messo a fuoco con placida lucidità
la ragione forse primaria che ha permesso ad una realtà musicale sconosciuta -
esattamente ciò che i Police erano sulla scena inglese alla fine degli anni
settanta - di resistere/insistere affinandosi per arrivare ad esprimere
liberamente un personale universo poetico, fino ad imporlo: "Noi", dice
Summers, "a differenza di molti altri, sapevamo suonare". Concetto ribadito
poco più oltre, al momento di proporre a Sting l'alternativa di modulare
"accordi aperti in Mi", cosa che la oramai superstar si limita ad eseguire
senza batter ciglio, a definitiva riprova che il "fenomeno" Police - di
proporzioni enormi e concentrato in neanche un decennio, come da uno degli
stereotipi base del rock - poggiava su radici magari non molto ramificate ma
semplici e, più di ogni altra cosa, solide: basso, chitarra e batteria; voce
sensuale e/o aggressiva; ritmica potente e variata; melodie orecchiabili,
seducenti e non di rado irresistibili. Radici che il tempo ha di certo logorato
ma non reciso del tutto (la band non si e' mai sciolta "ufficialmente") e che
sostengono ancora la visione luminosa, metafora di un'avventura vissuta nel
corpo di una sfolgorante e velocissima meteora, per cui: "Can't see for the
brightness/is staring me blind/God bid yesterday/goodbye..." ("Bring on the
night").


TFK

Film in sala da Giovedì 3 Luglio 2014


BABYSITTING
di Nicolas Benamou, Philippe Lacheau
con Philippe Lacheau, Alice David, Vincent Desagnat, Tarek Boudali,
2014 FRA - Commedia - 85 min

INSIEME PER FORZA
Blended
di Frank Coraci
con Adam Sandler, Drew Barrymore
2014 USA - Commedia - 117 min

THE BEST MAN HOLIDAY
di Malcolm D. Lee
con Taye Diggs, Nia Long, Morris Chestnut, Harold Perrineau,
2013 USA - 123 min - Drammatico

LE ORIGINI DEL MALE
The Quiet Ones
di John Pogue
con Jared Harris, Sam Claflin, Olivia Cooke, Erin Richards
2014 USA - Horror - 98 min

SURROUNDED
di Federico Patrizi, Laura Girolami
con Tatiana Luter, Daniel Baldock
2014 ITA - Thriller - 98 min

RIO 2096 - UNA STORIA D'AMORE E FURIA
Uma História de Amor e Fúria
di Luiz Bolognesi
con Selton Mello, Camila Pitanga, Rodrigo Santoro
2013 BRA - 98 min - Drammatico/Animazione

CAN'T STAND LOSING YOU
di Andy Grieve, Lauren Lazin
2012 USA - 83 min - Doc

mercoledì, luglio 02, 2014

GLI INEDITI DE ICINEMANIACI: SEPTIMO

Septimo
di Patxi Amezcua
con Ricardo Darin, Belen Rueda
Spagna, Argentina, 2013
durata, 

Da quando si è liberato dall'antico retaggio il cinema argentino ha iniziato lentamente a cambiare pelle, offrendosi al mercato, è questa è già una novità, con produzioni svincolate dalla necessità di testimoniare in un modo o nell'altro i grandi misfatti di quel paese. Abbandonata la sua funzione pedagogica, peraltro sempre presente nell'impegno civile di molti suoi attori (primo fra tutti Riccardo Darin, protagonista del nostro film) la cinematografia argentina è riuscita persino a vincere un Oscar, e ora si propone come abituale frequentatrice di generi (l'ultimo in termini di uscita è il cartoon "Gol") con film come "Septimo"  di Patxi Amezcua, che strizzano l'occhio al cinema americano e la thriller in particolare.


In questo frangente al centro della questione c'è la misteriosa sparizione di due bambini, figli di un avvocato che si occupa di un processo contro un boss della malavita. Convinto che dietro l'accaduto ci sia la volontà  di fargli abbandonare la causa, Sebastian cerca di mettersi in contatto con i malviventi per riuscire a pagare l'eventuale riscatto. Dipendente da un immaginario di matrice hollywoodiana, manifesta sia dal punto di vista visivo, come si evince dalla panoramica dall'alto che apre il film mostrandoci la ragnatela urbana dove si sta per compiere il delitto, che nella tipizzazione dei personaggi, accennati quel tanto che basta per essere funzionali al meccanismi dell'intreccio. Con un occhio rivolto al ritmo della scansione narrativa  e l'altro attento a rispettare i codici di genere, "Septimo" macina colpi di scena a non finire, perdendo di vista la costruzione di una logica che sia in grado di rendere plausibile il come e il perchè della vicenda. Non tutto è' da buttare , e almeno la prima parte, quella che si svolge tra le scale e i piani del palazzo che fornisce la scena del delitto, risulta sufficientemente coinvolgente, con Ricardo Darin chiamato a recitare il duplice ruolo di detective improvvisato e di marito fedigrafo, costretto a recitare il mea culpa (ecco un altro lascito della lezione hollywwodiana) per la punizione che gli viene inflitta. La catarsi finale seppur sorprendente e moralista arriva in maniera troppo programmatica per risultare pienamente efficace. Darin, sotto impiegato, non basta a salvare il film da un deludente anonimato.

martedì, luglio 01, 2014

SYNECDOCHE, NEW YORK

 Synecdoche, New York
di Charlie Kaufman
con PS Hoffman, Catherine Keener, Michelle Williams, Samantha Morton, Jennifer Jason Leigh, Hope Davis
Usa, 2008
genere, drammatico
durata, 124'
 
Gente come Charles Buckowski e Louis Ferdinand Celine affermava che non si potesse scrivere d'altro che della propria esistenza. L'arte come monumento o epitaffio della vita era l'unico assioma da cui non si doveva prescindere se si voleva cogliere una parvenza di verità. Un altro scrittore, questa volta prestato al cinema anzichè alla letteratura, ribadisce lo stesso concetto. Stiamo parlando di Charlie Kaufman, sceneggiatore e ora anche regista di un film, "Synecdoche, New York", che vuole essere, al di là del contingente, rappresentato dalla storia di un autore teatrale in crisi esistenziale e lavorativa, il consuntivo di una carriera ancora in corso ma arrivata certamente a un bivio. Perchè se il punto è quello di un'arte che aspira a cogliere l'essenza delle cose e degli uomini, e che per questo è pronta a rinunciare alle lusinge di un successo succhiato dal genio di altri - come fa inizialmente Caden Cotard, portando in scena "Morte di un commesso viaggitatore" di Arthur Miller-  per gettarsi nelle acque di un terreno inesplorato e nudo - che "Synecdoche, New York" rappresenta attraverso l'opera definitiva che Cotard intende scrivere prima di morire- allora non c'è altra strada che mettere in scena i fantasmi della propria esistenza. Ecco allora succedersi sullo schermo alcuni dei topos stilistici e poetici del nostro: dall'assoluto pessimismo nei confronti dei rapporti umani alla presenza di una componente personale, eloquente nella coincidenze tra l'autore e il protagonista della storia, come Kaufman scrittore e regista, e nelle discussioni intorno ai limiti dell'arte scritta, già  presenti nelle nevrosi del Cage/Kaufman di "Il ladro di Orchidee". Ma non solo, perchè la frammentazione dell'io scaturita dal tentativo di fare ordine al caos del mondo che Cotard cerca di domare costringendolo all'interno di un teatro di posa che assomiglia al ventre della balena (ancora una volta un riferimento autobiografico) finisce per far esplodere il tempo e lo spazio di una vicenda che trova la sua coerenza narrativa nel fatto di essere in parte frutto delle proiezione mentali del protagonista. Come spesso accade nei film scritti da Kaufman ("Nella mente di John Malkovich" e "Se mi lasci ti cancello").

Da qui lo sfasamento temporale di un intreccio che anticipa avvenimenti poi ripresi nelle prove della rappresentazione teatrale messa in scena da Cotard, oppure il continuo gioco di specchi che ridistribuisce il medesimo ruolo ad attori diversi, arrivando ad assegnare ad una donna quello che dovrebbe essere il ruolo centrale del piece, quella del drammaturgo che non riesce a trovare la chiave di volta per mettere in scena la sua opera. 


In perenne sfida con se stesso e con il mondo, Kaufman sceglie la sfida più difficile, cercando l'assoluto attraverso la creazione di un'opera omnicomprensiva. Un'utopia destinata al fallimento che "Sydecdoche, New York" lascia presagire sin dalla prima sequenza, con Cotard che fa colazione immerso in un'atmosfera resa lugubre da bollettini di morte annunciate da radio e televisione, e dai primi sintomi di una patologia, vera o presunta, che progredirà di pari passo con la stesura dell'opera; per non dire dell'ambiente che fa da sfondo alla storia, in perenne disfacimento, con muri scrostati, carta da parati strappate e  ambienti ai limiti del vivibile ( come quello di Hazel, l'amante di Cotard, perennemente in fiamme) che sembrano la materializzazione di una malattia arrivata allo stato terminale. In quadro siffatto, e senza la mediazione dei registi a cui in precendenza Kaufman aveva affidato i suoi script, "Synecdoche, New York" non potrebbe essere diverso da quello che è: un'opera mastodonditica e logorroica che ha il fascino delle imprese impossibili ma al tempo stesso la mancanza di misura dell'Ego che l'ha concepita. Intepretato da un cast di star del cinema indie, "Synecdoche" per una coincidenza del caso che ha visto il film distribuito in Italia con anni di ritardo rispetto alla sua uscita americana può essere considerato il testamento d'attore di Philip Seymour Hoffman, non tanto per la qualità della performance (quella di "The Master, rimane a tutt'oggi il culmine inarrivabile) ma piuttosto per l'occupazione dello spazio scenico che in corpo di Hoffman interpreta con un disagio che sembra anticiparne la tragica fine.