venerdì, ottobre 31, 2014

ANNIE PARKER

Annie Parker
di Steven Bernestein
con Samantha Morton, Helen Hunt, Aaron Paul
Usa, 2013
durata, 91'
Nel cinema il tema della malattia è stato quasi sempre e per ovvi motivi il pretesto per imbastire melodrammi ad alto tasso di coinvolgimento. Ma accanto alle storie strappalacrime sul tipo di quella che da "Love Story" in poi ha creato una serie di emulatori più o meno all'altezza del capostipite, il filone si è arricchito di varianti e sfumature che partendo dal caso clinico e dalle sue conseguenze, si sono sforzate di offrire un motivo di speranza allo spettatore scorato dalla visione di cotanta afflizione. Da "L'olio di Lorenzo" a "Con il fiato sospeso" della nostra Costanza Quatriglio, il genere in questione ha visto fiorire una serie di pellicole che accanto al dramma della sorte avversa presentano il tentativo di ribellarsi al destino già scritto attraverso l'individuazione di una possibile cura.  
In questo senso "Annie Parker", diretto dallo sconosciuto Steven Bernestein, è paradigmatico nel ricalcare per filo e per segno un canovaccio che, dopo il contraccolpo della terriibile scoperta, vede la protagonista affrontare il calvario di una risalita dolorosa e solitaria, in un'alternanza di speranza e delusione fatto apposta per sottolineare lo spirito indomito della donna, determinata a capire le ragioni di un destino che la unisce alla madre e alla sorella, già morte per il medesimo motivo. Accanto a lei ma impegnata sul fronte della ricerca  la dottoressa Marie Claire King condizionata dalla mancanza dei fondi necessari a portare avanti lasua battaglia.


Trattandosi di personaggi realmente esistiti ma adattati per lo schermo da sceneggiatori hollywoodiani (uno di questi è lo stesso regista) Annie e Marie risentono di quelle tipizzazioni che vanno a nozze con i  personaggi esemplari, privi cioè di quelle linee d'ombra che di solito appartengono alla vita ma che al cinema deprimono e spaventano Ad essere esaltate sono così le doti di perseveranza delle due donne e la loro ostinata fede nelle rispettive possibilità, così come la misericordia di un paesaggio umano votato al sostegno incondizionato delle nostre beniamine. La santificazione è dietro l'angolo ma ad impedirlo ci pensano le intepretazioni di Samanta Morton e Helen Hunt (dopo The Sessions in un altra parte "terapeutica"), brave nell'evitare i tranelli di ruoli che spingono l'acceleratore del pathos e dell'empatia. Nel dare vita ai fantasmi delle rispettive solitudini - Annie per via di un marito troppo fragile che non riesce più ad accettarla, Marie a causa dello scetticismo di chi potrebbe finanziargli le ricerche- si affidano ad una recitazione che non concede nulla di più di quanto necessario. A dar loro manforte, Aaron Paul, in un ruolo da "maledetto" che si allinea a quelli con cui abbiamo imparato a conoscerlo.

mercoledì, ottobre 29, 2014

Farewells: Benjamin 'Ben' Bradlee




Qualche giorno fa, a novantatré anni, ci ha lasciato Benjamin "Ben" Bradlee, giornalista, leggendario (e per una volta l'attributo non e' usato a vanvera) direttore del "Washington Post". All'inizio degli anni '70, aveva contribuito alla diffusione dei Pentagon papers (documenti riservati in cui venivano circoscritti intenzioni e scopi autentici del coinvolgimento USA in Vietnam) e, successivamente, sostenuto il lavoro d'investigazione giornalistica di Bob Woodward e Carl Bernstein (passato poi alla storia nell'accezione più ampia e comune di reportage sullo Scandalo Watergate) inerente il ruolo opaco e illegalmente manipolatorio recitato dall'amministrazione Nixon nel contesto periclitante del conflitto nel Sud-Est asiatico, allo scopo di arginare il montante dissenso dell'opinione pubblica, da un lato, e l'opposizione del Partito Democratico, dall'altro: sforzi, materiali e suggestioni confluiti, all'interno di una stagione contraddittoria ma ancora disposta alla riflessione e alla critica, nel resoconto serrato e impietoso di "All the President's men" (1976) di A.J.Pakula, con R.Redford e D.Hoffman. Pagine importanti di Storia e di Cinema, quelle qui in breve rievocate, che Bradlee ha concorso a scrivere e a sedimentare nella memoria comune. Grazie Ben.

TFK

Film in sala da Giovedì 30 Ottobre 2014

UNA FOLLE PASSIONE
Serena
di Susanne Bier
con Jennifer Lawrence, Bradley Cooper, Rhys Ifans
2014 USA - Drammatico - 106 min

LA DANZA DELLA REALTA'
La Danza de la Realidad
di Alejandro Jodorowsky
con Alejandro Jodorowsky, Brontis Jodorowsky, Pamela Flores, Jeremias Herskovits
2014 FRA/CHI - Drammatico - 130 min

DRACULA UNTOLD
di Gary Shore
con Luke Evans, Sarah Gadon, Dominic Cooper, Samantha Barks
2014 USA - Drammatico/Horror - 92 min

RITORNO A L'AVANA
Retour à Ithaque
di Laurent Cantet
con Jorge Perugorría, Isabel Santos, Fernando Hechevarria, Nestor Jimenez
2014 FRA - Commedia- 90 min

PELO MALO
di Mariana Rondón
con Samuel Lange, Samantha Castillo, Beto Benites, Nelly Ramos
2014 GER/VEN - Drammatico - 93 min

LA SPIA
A Most Wanted Man
di Anton Corbijn
con Rachel McAdams, Philip Seymour Hoffman, Robin Wright, Willem Dafoe
2014 GER/GB/USA - Thriller - 122 min

ANNIE PARKER
Decoding Annie Parker
di Steven Bernstein
con Samantha Morton, Helen Hunt, Aaron Paul
2013 USA - Drammatico - 91 min

LAST SUMMER
di Leonardo Guerra Seràgnoli
con Rinko Kikuchi, Lucy Griffiths, Yorick van Wageningen
2014 ITA - Drammatico - 94 min

CONFUSI E FELICI
di Massimiliano Bruno
con Claudio Bisio, Marco Giallini, Anna Foglietta, Massimiliano Bruno,
Paola Minaccioni, Caterina Guzzanti
2014 ITA - Commedia - 105 min

lunedì, ottobre 27, 2014

BOYHOOD


Boyhood
di Richard Linklater
con Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Patricia Arquette
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 165'
 
 
Immaginiamo le facce dei produttori quando Richard Linklater, regista indipendente con qualche puntata nel cinema mainstream (School of Rock), si è presentato con la sceneggiatura di quello che poi (inizialmente il titolo era "12 years) sarebbe diventato "Boyhood". Il progetto infatti prevedeva di utilizzare il tempo reale e non quello fittizio per rappresentare anche in fase di cambiamenti fisici e anagrafici il percorso esistenziale di Mason e della sua famiglia, protagonisti del racconto. Si trattava in pratica di suddividere il set del film in 12 parti, da girare necessariamente anno dopo anno fino ad arrivare a più di due lustri di durata. Linklater ahimè per lui non era Kubrick, famoso ai suoi tempi per una simile idea poi addomesticata e normalizzata dal punto di vista cimematografico con "Intelligenza Artificiale", e così tanto ardire deve aver stupito non poco i suoi interlocutori. Che però, in silenzio, e con molta speranza si sono imbarcati in un impresa poi felicemente coronata dai riconoscimenti, anche critici, ricevuti all'ultima berlinale. 
 
Così, seguendo alla lettera le premesse del titolo, Linklater filma il persorso esistenziale e geografico di Mason, figlio di genitori separati che insieme alla madre e alla sorella cerca di trovare il suo posto nel mondo tra gli alti e bassi che caratterizzano il quadro emotivo e psicologico di qualsiasi vita umana. Ed è proprio la ricerca di questa normalità da parte del regista, pur in quadro assolutamente disfunzionale - valga per tutti il reiterati fallimenti matrimoniali della madre e l'eterna adolescenza del genitore - a costituire la peculiarità che fa la differenza. Perchè Linklater, dal canto suo, invece di far pesare sul piano estetico e di marketing la scommessa delle sue scelte, le investe in termini di credibilità e verosimiglianza. Conoscendo le dinamiche dell'inconscio ed i condizionamenti che esso riceve dalla visione delle immagini, il regista sembra quasi nascondere il tesoro del film dietro il flusso temporale che scorre davanti ai nostri occhi per farlo tornare sotto forma di immedesimazione. Una progressione che ha l'estensione di un romanzo, ed almeno all'inizio, la sua fatica introduttiva. Ma è solo un momento perchè con il passare dei fotogrammi il dispositivo messo a punto da "Boyhood", con i volti degli attori naturalmente modificati dalla particolarità della lavorazione, smette di essere finzione per diventare vita.
 
Nel raccontare il suo arco cronologico, "Boyhood" non cade in tentazioni da riassunto del bigami, e quindi nelle rappresentazioni da cartolina, preferendo riflettere i cambimenti storici in maniera indiretta: mediante le parole di un telegiornale o nei discorsi dei personaggi, oppure evidenziando la progressione anagrafica di Mason attraverso l'evoluzione  dei mezzi di comunicazione (computer, cellulari e tablet), colti con rapidi stacchi della mdp. I cambiamenti fisiogomici e quelli emotivi diventano allora il vettore di un umanesimo ricco di grazia e di leggerezza che Linklater ha messo progressivamente a punto con il rigore della sua carriera (soprattutto attraverso la trilogia dedicata a Celine e Jesse) e che qui tocca, secondo chi scrive, il punto più alto. Spalleggiato dal suo attore feticcio, quel Ethan Hawke ormai abbonato ai ruoli "in diretta", ma anche da Patricia Arquette e Ellar Coltrane (Mason) bravo nel non farsi condizionare dalla responsabilità del ruolo, il regista americano crea un universo che si tocca con mano, e che riesce ad farsi amare senza alcun ammiccamento e pur con le forti dosi di sano pessimismo. Se Tarkovsky diceva che il compito del cinema è quello di cattura il tempo e il suo divenire, allora dobbiamo dire che oggi Linklater è il migliore dei suoi allievi.

sabato, ottobre 25, 2014

IS THE MAN WHO IS TALL HAPPY?

Is the Man Who Is Tall Happy?
di Michel Gondry
con Noam Chomsky, Michel Gondry
Francia, 2013
genere, documentario, animazione


Ci sarebbero molti modi per iniziare a parlare del nuovo film di Michel Gondry, tanti quanti sono i rivoli di un tessuto visivo che nelle opere del regista francese arricchisce di spunti, trovate e microstorie la descrizione del soggetto principale. Gondry, infatti, è uno di quegli autori che si fatica a incasellare in uno spazio artistico definito. Formidabile inventore di immagini che sfuggono alla normalità attraverso la contaminazione di forme e di stili (dalla video-arte al videoclip, dall'animazione alla pittura), il nostro autore è riuscito con una manciata di film, anche non completamente riusciti ("Mood Indigo - La schiuma dei giorni"), a guadagnarsi la fama di demiurgo cinematografico in grado di competere per fantasia e suggestioni con quella di un collega talentuoso e altrettanto alla moda come Wes Anderson. Per non smentire la sua fama, Gondry si ripresenta sulla scena con un lavoro che in un certo senso esula da quello a cui ci ha abituato e nello stesso tempo ci rientra pienamente. Cercheremo d'essere più chiari, non prima di aver premesso che "Is the Man Who Is Tall Happy?" è il resoconto di una serie di incontri con Noam Chomsky, linguista di fama universale, ma anche personaggio che sfugge a qualsiasi tentativo di normalizzazione, se è vero che pur in presenza di riconoscimenti e tributi da parte dell'establishment, Chomsky si è distinto per una militanza radicale e antimperialista rivolta non solo contro la politica estera degli Stati Uniti ma anche di quella di Israele, terra promessa di cui è impossibile condividere le scelte.

 

È infatti la personalità dell'interlocutore, insieme al tema dell'intervista, tanto specifico quanto astratto per chiunque non sia un addetto ai lavori e abbia voglia di saperne di più sulle origini del linguaggio e sull'influenza che esso produce nella percezione della realtà, ad accendere la spia su un soggetto che, fin da subito, denuncia una singolarità affine alla poetica dell'autore francese. Senza rinunciare alla finalità di quell'incontro, con il consueto schema di domande e risposte che, salvo qualche eccezione - quella che accenna al legame con l'adorata moglie, da poco scomparsa, lo è di sicuro - si mantengono sempre in linea con le premesse del documentario, Gondry si comporta da par suo, rappresentando quell'intervista attraverso disegni animati, che egli stesso si prende la briga di realizzare. Un lavoro "pazzo e disperatissimo", come egli stesso afferma, che Gondry compie in concomitanza con la fase di pre-produzione di "Mood Indigo" (è forse questa la ragione della sua parziale riuscita?), e che, però, gli consente di illustrare come meglio non si potrebbe l'ineffabilità dell'argomento in questione e i molti paradossi di cui Chomsky si serve per cercare di rendere comprensibili le proprie affermazioni.

 

Collocati su uno sfondo nero e grezzo, immersi nel rumore della telecamera demodé utilizzata dal regista e dominati da un segno stilistico che sembra pensato da una "spotless mind", i disegni di Gondry sembrano rifarsi a un cinema che riesce a coniugare le possibilità della moderne tecniche alla purezza del cinema muto. Una fantasmagoria di linee che si reinventano continuamente per dare vita a una gemmazione di storie pronte a spiccare il volo sulle ali di un'immaginazione febbrile e instancabile. Ma a dispetto di altri lavori dove il lato più artistico del regista sembrava prendere il sopravvento sulla centralità dei contenuti, quanto vediamo sullo schermo si sposa perfettamente con l'inafferrabilità delle parole, di cui l'animazione ci permette se non di afferrarne i significati, almeno di sfiorarne il senso.

 

Se Gondry, d'accordo con Chomsky, è convinto della parzialità dell'opera cinematografica che, anche nelle versioni più genuine, è il frutto della manipolazione operata dal regista sul materiale filmato, allora l'animazione diventa - come afferma il regista nella sequenza iniziale - un atto di onestà nei confronti dello spettatore, avvertito fin da subito del carattere unilaterale dei contenuti mostrati. Speculazioni che poco incidono sul valore di un'opera tra le più personali fra quelle realizzate dall'autore francese e che, in prospettiva, potrebbe fornire nuovi strumenti per un'eventuale esegesi della sua filmografia.
(pubblicato su ondacinema.it)

venerdì, ottobre 24, 2014

9 FESTIVAL DEL FILM DI ROMA: PARADISE LOST

 Festival del film di Roma-8 giornata
Escobar: Paradise lost
di Andrea Di Stefano
durata,

L’aura che si crea attorno ai criminali illustri, sul piano specie iconografico, attecchisce spesso sulla fantasia di autori, in particolar modo registi cinematografici, che ne subiscono la fascinazione. Talvolta – anzi fin troppo spesso – si rischia di cadere nel cliché (vedi “Blow”, storia con la quale, tra l’altro, il nostro Pablo aveva già qualcosa a che fare); altre volte, ed è il caso del film di Di Stefano, si riesce ad andare oltre la siepe che delimita il proprio giardino per indagare – e/o mostrare – dell’altro.
La storia è quella di Nick che, dopo aver lasciato il Canada ed aver aperto una piccola attività in spiaggia col fratello, conosce e s’innamora di Maria, adorata nipote di zio Pablo Escobar.
Ed è partendo da questo punto di vista inedito che il film – complice un Benicio del Toro mostruoso nel costruire il suo personaggio, sempre sul filo del tagliente rasoio dell’imprevedibilità – va a confermarsi un prodotto d’ottima fattura e fuori dalla norma. Partendo da una fotografia curata in ogni dettaglio e che restituisce a pieno l’illusione/amarezza del titolo, passando per una sceneggiatura che matura attraverso i silenzi, laddove i dialoghi sono ridotti all’essenziale e non prendono mai troppo il sopravvento.

Andrea Di Stefano, un po’ come aveva fatto Paolo Sorrentino ne “Il Divo”, utilizza la figura di Escobar per parlare del potere e circoscriverne tutte le proprie dualità e contraddizioni. Il denaro e la popolarità diventano solo mezzi attraverso il quale il potere vuole, sempre più senza limiti, superare sé stesso, distruggere ogni cosa che gli si opponga e, attraverso le proprie facoltà divinatorie, costruirsi su come si mostra dall’esterno: intoccabile. Nick e Pablo   –  ne abbiamo ulteriore conferma nel dialogo che ha quest’ultimo col prete prima dell’arresto – altri non sono che, ognuno a proprio modo,  l’uomo che disseta e asseconda, oltre ogni limite, la propria natura: l’illusione o l’avere il controllo di essa.
“E non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato
ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
Antonio Romagnoli

9 FESTIVAL INTERNAZIONE DEL CINEMA DI ROMA: LA FORESTA DI GHIACCIO

Festival del film di Roma -9 giornata
La foresta di ghiaccio
di Claudio Noce
Italia 2014
durata, 99'
 

Fare un film di genere significa, se non innovarne modi e linguaggi, perlomeno rispettare i codici che esso esige per propria natura. Claudio Noce tenta di fare un thriller tra le montagne del Trentino, dove la narrazione si sviluppa attorno ai fatti riguardanti gli immigrati dal confine sloveno.
Di manifattura  davvero pregevole, il film risulta però poco convincente dal punto di vista della scrittura dal momento in cui, essendo, come dicevamo sopra, un tentativo thriller (che si trasforma a tratti in un noir mal gestito), è privo dei momenti di tensione che dovrebbero caratterizzarlo in quanto tale. A non aiutare sono la piattezza dei personaggi, a loro modo tutti già preconfezionati - la poliziotta sotto copertura che svolge indagini inutili agli occhi dei colleghi, il protagonista in cerca di vendetta etc..-, e dello svolgimento che ne consegue. Quest'insieme di elementi rende la visione - seppur scorrevole - apatica, non creando alcun senso né di fastidio né d'interesse a proseguire oltre.
Andando, con le sue evidenti pecche, a confermare l'importanza della fase di scrittura di cui ogni film necessita, "La foresta di ghiaccio" va a inserirsi in quella filmografia  di prodotti narcisisti che si fregiano esclusivamente della propria estetica dimenticando il resto, fruitore compreso.
Antonio Romagnoli (voto **1/2)

giovedì, ottobre 23, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: INDEX ZERO

9  Festival del film di Roma- 8
Index Zero
di Lorenzo Sportiello
Italia 2014
durata, 84'
 
"Una società non si giudica soltanto da ciò che crea, ma soprattutto da ciò che non riesce a distruggere".
Basterebbero queste parole a definire il limbo di ricorsi storici ai quali l'uomo è eternamente condannato. E' compito del cinema, invece, laddove sia questo l'argomento interessato, mostrare l'elemento brutale del concetto di società e di tutte le declinazioni affini che ruotano intorno alla parola stessa.
"Index Zero" racconta, in una società di un futuro nemmeno troppo lontano, di Kurt ed Eva che, per dare una prospettiva migliore al figlio ormai prossimo alla nascita, tentano di entrare illegalmente negli Stati Uniti d'Europa (ipotesi, quella degli U.S.E., nemmeno troppo campata per aria, già presa in considerzione da Ortega Y Gasset tempo addietro). I due vengono catturati e destinati in un centro, la cui funzione è rendere gli essere umani pronti per essere produttivi ed inseriti nella comunità una volta raggiunto l'indice zero.
Prodotto in maniera indipendente , "Index Zero" è un film che fa sicuramente categoria a sé in ogni sua fase, che sia pre-produttiva, di realizzazione e contenutistica, rendendo fattibile ciò che in Italia, fin'ora, è stato solo utopia. Una messa in scena perfetta e mai sopra le righe accompagna la fotografia, sempre grigia e disperata, in una coerenza narrativa tenuta insieme da una grande regia e da una sceneggiatura talvolte al tritolo, che sbava solo in alcuni momenti  tirati troppo per le lunghe.
La rivolta popolare finale e il cenno d'innamoramento tra i due giovani, in maniera tutt'altro che ottimista, pongono l'uomo in una condizione irriversibilmente astorica in cui la vita - e noi dietro ad essa - continua a girare a vuoto.
Antonio Romagnoli

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: ALL CATS ARE GREY

Festival del film di Roma-8 giornata
All cats are grey
di S.Dellicour
Belgio201
durata, 85'



Nel tranquillo (molti dicono semi-anestetizzato) Belgio, Dorothy, adolescente di qual grazia e poche parole mena, in apparenza senza troppi patemi, la sua routine borghese comoda e insulsa. Senonché un cruccio non le da pace: il desiderio di conoscere il vero padre, quello biologico, dal momento che l'altro - con cui condivide le abitudini di tutti i giorni - altro non e' che il frutto della sagace mobilitazione materna, finalizzata, attraverso un passaggio sull'altare, a meglio puntellare le proprie ambizioni di classe. Dorothy un po' per noia, un po' per testardaggine, un po' per autentica frustrazione, comincia ad indagare per suo conto, coadiuvata da un all'inizio riluttante Paul - detective privato dalla corporatura robusta e dall'animo malinconico, convinto di essere lui il vero padre della ragazza - mettendo così pian piano insieme le tessere di un puzzle che si rivelerà più complicato di ciò che l'apparenza di una consuetudine confortevole e rispettabile poteva lasciar supporre.

Il circolo vizioso fatale in cui spesso finiscono per avvitarsi film del tenore e della fattura di "All cats...", risiede nella rigidità eccessiva della struttura drammaturgica, la quale, dopo aver isolato i caratteri principali e averli impostati - la madre bas-bleu apprensiva e invadente; il padre acquisito campione d'assenza; quello in teoria naturale combattuto tra il senso di colpa e lo slancio di riannodare i fili di un discorso affettivo troppo presto interrotto; l'amica del cuore - Claire - programmaticamente ribelle in ragione di atteggiamenti che combinano con scarse varianti, faccia tosta, indolenza e lingua lunga - li obbliga a non muoversi più di tanto entro uno schema di parole e gesti che, col tempo, tende sempre più ad abbandonare la complessità del ritratto per accomodarsi nella più ovvia restituzione di un cliché , precludendo, di fatto, qualunque ipotesi di evoluzione psicologica e, con essa, l'eventualità di un azzardo o di una sorpresa.

E se sul serio tutti-i-gatti-sono-grigi, e' non tanto e non solo, quindi, perché la madre di Dorothy paga con il rimorso e la vergogna  forse l'unica parentesi sfrenata di un'esistenza centrata sul controllo e l'onorabilità, quanto per il motivo che nella passiva coerenza ad un campionario ristretto di accorgimenti narrativi e formali, non viene quasi data possibilità a tensione e coinvolgimento per ritagliarsi uno spazio autonomo e attivo nella vicenda, lasciando di conseguenza campo libero ad una uniformità (una sorta d'indefinito grigiore, appunto) che della concretezza e della vitalità ha solo i contorni.

Da rilevare, ancora, l'accorto lavoro sulla luce che, soprattutto negli interni dalle geometrie moderne, si diffonde morbida nelle sfumature dei bianchi, dei grigi e dei bruni; anche se, a stagliarsi davvero, alla fine resta solo il viso chiaro e un po' scostante di Dorothy.

TFK
(voto: **)

mercoledì, ottobre 22, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: TUSK

 Festival del cinema di Roma-7 giornata
Tusk
di  Kevin SmithUSA 2014 
Usa, 2014
durata, 102'
 



Wallace Bryton/Justin Long e Teddy Craft/un dilatato H.J.Osment si sono inventati un loro podcast (trasmissione radio via internet) specializzato sulle figure appartenenti a quella particolare fauna umana che tra goliardia e cretinismo gira in maniera amatoriale video demenziali o strambi e poi riversa il frutto delle proprie prodezze in rete. La coppia di amici campa discretamente sull'idiozia di massa, fin quando Wallace si mette in testa di conoscere uno dei semi-svitati di persona e va a cercarlo al suo luogo di origine, una cittadina canadese, ove, giunto, scopre che familiari e amici ne stanno celebrando il funerale. Infastidito per aver macinato tanti chilometri a vuoto e comunque intenzionato a spremere qualcosa di sostanzioso per la sua attività, nel gabinetto di un bar del posto, appeso di fronte alla latrina, Wallace crede di aver trovato ciò che fa per lui: tra pubblicità, annunci di ogni genere e altre amenità, scova una lettera scritta su carta di pregio, con calligrafia ordinata e senza errori o cancellature, nella quale si promette - a chi sarà interessato e si farà vivo - ristoro e una confortevole permanenza a base di storie e mirabolanti avventure narrate dalla viva voce di chi ne e' stato protagonista. Wallace, intrigato, s'appropria della lettera e comincia le sue ricerche. Contattato per telefono il tizio autore della missiva - un tale che dice di chiamarsi Howard Howe/M.Parks - chiede lumi circa la località da raggiungere e vi si reca. La', nell'atmosfera ovattata e tetra di una grande casa isolata nei boschi del grande nord, colma di cimeli e quadri, dagli interni in legno, adornata di enormi tappeti, con pareti rosso scuro, tra una tazza di te', resoconti di viaggi e complicate peripezie, citazioni da Coleridge e Tennyson, il nostro eroe verra' sequestrato e, con perizia certosina, degna del più accorto macellaio come di un altrettanto meticoloso chirurgo, trasformato in un... tricheco ! Più precisamente nel Mr.Tusk che da titolo al film ('tusk' in originale sta, appunto, per 'zanna'), secondo le stazioni della personalissima e aberrante teoria psicopatico-nichilista di Howe, volta alla dimostrazione materiale del fondo orribile e disumano che motiva ogni azione.

Con "Tusk" Smith guarda alla fabula gotica con venature horror il cui collante stavolta solo in parte e' rappresentato dalla rivelazione grottesca del mondo delle circostanze e dei fatti o di quello psicologico-emotivo, spesso sgangherato o non al passo coi tempi, come dal divagare su aspetti minimi della cultura popolare americana o dal trastullarsi in non di rado spassosi nonsense: ad un livello più profondo e in altre parole, in "Tusk", si snoda piano piano - pur tra parentesi che non disdegnano, in ogni caso, lo sberleffo e lo sghignazzo di antica memoria - il filo di una riflessione non accomodante riguardo l'interessata ambiguità del singolo contemporaneo - Wallace, abile nella loquela, disinvolto e puntuto, con i suoi atteggiamenti da eterno ragazzo scanzonato, manipola chi gli sta attorno: Teddy che gli tiene bordone più per ammirazione che per paritario legame di amicizia; Ally/Genesis Rodriguez, la fidanzata, che dice di amare ma tradisce sistematicamente (e da cui proprio con Teddy viene a sua volta tradito, e come se nulla fosse); gli stessi mostri di cui va a caccia, mero strumento, per lui, di arricchimento personale - l'avanzato stato di una malattia dai risvolti feroci e per tanti versi imprevedibile che assedia l'uomo comune d'inizio millennio - Howe, benché in la' con gli anni, racconta il suo gesto mentre si compie alla stregua di un orripilato rifiuto della società moderna, gretta, individualista nel senso più abbietto del termine, falsamente civilizzata, poco al di sotto della quale pulsano desideri e smanie tanto ancestrali quanto sanguinarie - l'anestetizzata passività con cui si assiste (e si contribuisce) alla disintegrazione dei rapporti umani - la liaison fra Teddy e Ally e' data per scontata e solo in parte e' motivata dalla frustrazione della ragazza per il comportamento irresponsabile di Wallace - il piacere sadico-puerile (a dire quasi del tutto incosciente) con cui s'infligge il dolore - l'impassibilità distante mostrata da Howe nel portare a compimento la sua opera vivente; i resoconti truci e dettagliatissimi cadenzati dal detective LaPointe/J.Depp in un misto di ebetudine, frenesia alimentare e sonnolenza - et,.

"Tusk" risulta, così, un film più cupo e stranito di quello che la sua superficie sarcastica e disimpegnata - qua e la' - lascia intravedere. Qualche perplessità emerge per il finale, che appare paradossalmente più consolatorio, nella sua prevedibilità, dell'intenzione che lo ispira, si presume, quest'ultima, beffarda.

TFK
(voto: ***1/2)

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: I GUARDIANI DELLA GALASSIA

Festival del cinema di Roma
I guardiani della galassia
di John Gunn
con Chris Pratt, Zoe Saldana, Vin Diesel
genere, fantasy
Usa, 2014
durata, 121'

Parlare de “I guardiani della galassia” è un po’ come tirare fuori la vecchia storia delle uova al tegame: chi le vuole ben cotte, chi meno ma, al dunque sempre di quello si tratta, di uova. L’ultimo parto dei Marvel studios (distribuzione Disney) si muove, infatti, in equilibrio su un grado di cottura – per continuare ad usare la metafora alimentare – che rasenta una buona frittata, buona perché ha più o meno il sapore di sempre.
La storia della combriccola dei Guardiani – Peter Quill, ragazzone scapestrato ma dal cuore d’oro, Indiana Jones con meno titoli accademici ma con sempre al seguito un walkman, ultimo regalo della madre scomparsa; Gamora, guerriera dalla pelle verde in cerca di riscatto da un passato burrascoso; Drax, galeotto iper-palestrato animato dall’unico desiderio di vendicare lo sterminio della propria famiglia; Rocket, procione parlante frutto di strane alchimie biologico-cibernetiche, ingegnere tuttofare, mercenario petulante e sarcastico e Groot, albero antropomorfo che si esprime ripetendo all’infinito l’asserzione che indica il suo nome – è quella tipica dei buddy movies, in cui all’inizio si sta sempre sul punto di staccarsi la testa vicendevolmente e alla fine si diventa amiconi inseparabili. Nel caso, a porsi di mezzo, è il tira e molla intrapreso fra due razze opposte e ostili, una delle quali briga senza esclusione di colpi per impossessarsi di una sfera prodigiosa –Orb – contenente il potere immenso della commistione degli elementi che hanno formato l’universo, al fine di sterminare gli avversari, da un lato e porre la propria decisa candidatura al comando del medesimo, dall’altro.

Ciò che è interessante notare, però, è che dove il film funziona meglio – e sembra un paradosso – per i suoi 121′ (che filano via, in ogni caso, con una certa agilità) è quando si affida ai siparietti farsesco-goliardici modello slapstick comedy, più che alle sequenza d’azione, le quali, nella ripetitività di schemi e soluzioni formali abbondantemente usurate, dicono poco anche al più integralista dei sostenitori. A riparo della propria noncurante superfluità, “I Guardiani della galassia” si apprestano a sbarcare/sbancare anche da noi (sono annunciate per l’uscita del 22/10 ben 600 copie) e a non abbandonarci per un bel pezzo. L’ultima immagine del film, difatti, è una sovrimpressione che recita: “I guardiani della galassia torneranno ancora”. Se lo dicono loro…
(Il 3D, nel caso, non aggiunge sale alle uova).
TFK (Voto **1/2)

martedì, ottobre 21, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: ROMA TERMINI

Festival del cinema di Roma-7 giornata
Roma Termini
di Bartolomeo Pampaloni
Italia 2014
durata, 79′

Il documentario, in Italia, da qualche anno a questa parte sembra avere un fascino, oltre che un discreto successo – si vedano le premiazioni di “Sacro G.R.A.” e “Tir”, rispettivamente alle edizioni 2013 dei festival di Venezia e Roma – al quale sempre più registi nostrani cedono, riuscendo però ad innovarne i modi ed i linguaggi. Tra questi autori s’aggiunge anche Bartolomeo Pampaloni che, con “Roma Termini”, narra, attraverso la drammaturgia documentaristica, la vita dei barboni – altresì, come direbbero i politicamente corretti, i senzatetto – che bazzicano la stazione Termini.
Argomento, quello degli homless, già trattato, durante il festival, in maniera diversamente efficace da Moverman con “Time out of mind”. Usiamo l’epiteto diversamente efficace poiché qui, trattandosi di documentario, s’affronta la tematica con un approccio ed un linguaggio, del tutto differente. Linguaggio che, però, ha le sue innovazioni e peculiarità, specie nel manierismo delle riprese, sgranate e quasi sempre sfocate, che vanno a richiamare la diegeticamente  vita sbiadita dei protagonisti che vivono nel caos, quasi atavico, della stazione centrale della città capitolina. Film che trova i suoi lievi difetti – difetti che, del resto, avevamo riscontrato già nel sopracitato “Time out of mind”- nell’eccessiva prolissi del proprio giungere a conclusione.
La solitudine diventa un’arma a doppio taglio nell’essere, da una parte, fonte di disperazione, dall’altra, nella presa di coscienza d’un eccesso di lucidità, quasi una salvezza.
“Ti sei mai innamorato in vita tua?”
“No”.
Antonio Romagnoli (voto ***1/2)

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: TIME OUT OF MIND

Festival del cinema di Roma-6 giornata
Time out of mind
di O.Moverman.
Usa 2014
durat, 



Una delle prime cose che viene in mente riflettendo su un film come "Time out of mind" di Oren Moverman, e' che la sola, autentica, libertà rimasta all'individuo occidentale e' quella di sparire. Non si spiegherebbe altrimenti il calvario materiale e morale vissuto ogni giorno da George/Gere, uomo che ha perso il lavoro, non ha mezzi, famiglia (se non una figlia che non frequenta più ma spia di tanto in tanto dall'esterno della vetrina del bar in cui lavora), amici, e del quale il mondo - il mondo delle opportunità e del benessere, il mondo in cui ogni desiderio ha un nome e un'etichetta col prezzo sopra - semplicemente non ne vuole sapere.

Spesso il cinema di Moverman si e' mosso entro i meandri scomodi del dolore e della perdita: pensiamo all'esordio alla sceneggiatura per "Jesus' son" (1999), sui racconti di Denis Johnson; ai reduci spostati di "The messenger" (2009), o al poliziotto disadattato di "Rampart" (2012). In "Time out of mind" il passo rallenta e si concentra sulla vita minuta di un uomo-massa solo e confuso (un Gere controllato e convincente nell'esprimere lo smarrimento, l'incredulità e il disinganno che ha portato via al personaggio, lentamente ma senza scampo, persino il tempo, quello del titolo, cancellandone le tracce dall'esperienza comune, al punto da forzarlo ad esclamare con allibito scoramento: "Io... non esisto"); sui tentativi spesso patetici - se non fossero tragici - di racimolare un pasto o un letto; sui peripli insensati all'interno di un organismo burocratico deputato in linea teorica alla sua salvezza e  auspicabile reinserimento che, al contrario, lo umilia e lo esaspera con la richiesta, per dire, della copia di un documento inesistente al fine di avere accesso all'assistenza o con la sistematica ingiunzione di rispondere a questionari la cui mancanza di qualunque sensibilità tipica delle regole e dei protocolli, alla fine, non fa che rimestare oscenamente nelle pieghe di sofferenze tutt'altro che superate o anche solo rimarginate.

Ciò che può in via erronea sembrare una sorta di spaccato sociologico descrittivo ed anodino ed invece rappresenta il quotidiano di un numero sempre maggiore di uomini e donne, si avvale di una messinscena sobria - attenta ai dettagli, ai mutismi imbarazzati, ai piccoli gesti trattenuti o abortiti - come intrisa di una qual mesta eleganza e sostenuta dalle meravigliose luci della fotografia espansa di Bobby Bukowski, livida e splendente sulle cose e sui volti durante i giorni freddi di una primavera che tarda ad arrivare; morbida e densa negli interni desolati, nelle sale d'aspetto degli ospedali o nei locali pubblici ove si consuma il teatrino sfinito di una cordialità che oramai stenta a passare persino nelle formule convenzionali di un linguaggio che non interroga mai, davvero, l'umano ma si limita a gestirne le circostanze esteriori. Meno convincente e' la scelta di dilatare alcune scene oltre la loro naturale conclusione: il ritmo interno dell'opera, via via, ne risente, non aggiungendo di fatto nulla allo spessore emotivo dei protagonisti o alla tensione narrativa della storia. Come che sia, Moverman, pur alludendo nel finale ad una possibilità di rinascita - l'unica sensata, l'unica degna - compone l'ennesimo ritratto avvilente e scoraggiante di questa nostra presunta modernità, di un altro nuovo secolo ottimista e sorridente per contratto, quanto crudele e oppressivo per quel poco che resta nel cuore dell'uomo.

TFK (voto: ***1/2)

Film in sala da Martedì 21 a Mercoledì 22 Ottobre 2014

Soul Boys of the Western World: SPANDAU BALLET
di George Hencken
2014 GB - Documentario/Musicale- 112 min


lunedì, ottobre 20, 2014

WHITE BIRD IN A BLIZZARD

White Bird in a Blizzard
di Gregg Araki
con Shailene Woodley, Eva Green, Chistopher Meloni
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 91' 

Del filone cinematografico dedicato alle tematiche omossesuali Greeg Araki è non da oggi uno degli esponenti più accreditati ma soprattutto di maggiore visibilità. A lui si deve la rappresentazione più colorita ed eccentrica di una sessualità che altri registi americani a cavallo degli anni 80/90 avevano già esplorato - dal Gus Vant Sant de "Mala Noche" al Jonathan Demme di "Philadelphia"-  senza però raggiungere gli estremi che nel bene e nel male appartengono alla poetica del cineasta losangelino, da sempre cultore di antipodi che nel continuo  saliscedi di esaltazione e depressione individuano le contraddizioni dell' American Style of Life. Una schizzofrenia che almeno nei suoi primi film, quelli che lo hanno reso famoso ("Doom Generation" e "Exstasy Generation") sembrava nascere dalla reazione alla paura rappresentata dalla diffusione del virus dell'aids che proprio in quegli anni faceva segnare il picco della sua drammatica espansione. Sul piano cinematografico ne risultava un cinema quasi sperimentale, con narrazioni sincopate e messinscene surreali e finanche grottesche, incentrate quasi esclusivamente su storie di giovani senza arte ne parte. Vero e proprio contraltare ai laccati teen movie hollywoodiani, il cinema di Greeg Araki, passata la tempesta, si è progressivamente normalizzato, mantenendo inalterati i contenuti ma rinunciando dal punto di vista formale agli aspetti più radicali.


"White Bird in a Blizzard" il suo ultimo film è in questo senso una conferma, collocandosi in termini produttivi nei pressi di quel cinema indie che ha perso da tempo la sua forza propulsiva ma che ancora riesce a combinare e tenere insieme fattori apparentemente inconciliabili. Nel film in questione infatti il motivo dominante è rappresentato dal vedere in azione, in uno scenario assolutamente diverso da quelli in cui siamo stati abituati ad ammirarla, Shailene Woodley, una delle nuove star del firmamento hollywoodiano grazie film come "The Divergent" e "Tutta colpa delle stelle " che sono la quintessenza di una normalità che "White Blizzard" invece fa di tutto per scrollarsi di dosso.

A cominciare dalla struttura della trama che dapprima ci lascia pregustare una protagonista femminile del calibro di Eva Green, qui nei panni di Eve, desperate housewife alle prese con un matrimonio fallito e in competizione con la figlia adolescente, e poi, improvvisamente, e dopo poche scene, ce la sottrae  a causa di una misteriosa sparizione che  diventa il motivo scatenante di una serie di situazioni (scabrose) lontane dal conformismo tipico del cinema mainstream. Per continuare con la spiazzanti caratteristiche di una modernità che si esprime attraverso l'atipicità delle figure di contorno - non solo gli amici di Cat, vistosi e estroversi ai limiti del kitsch ma anche il poliziotto senza mezzi termini interpretato da Thomas Jane -  e mediante un tono parzialmente raggelato, e che però si nutre degli elementi più classici del melò hollywoodiano alla Douglas Sirk (incarnato soprattutto dalla nevros di Eve e dal clima claustrofobico in cui è immersa la vicenda), con il perbenismo americano (le tradizioni famigliari e il decoro sociale) progressivamente svuotato dei suoi valori  dall'escursione emotiva e dalle pulsioni "ormonali" di Kat, ragazza della porta accanto che si trasforma in una lolita seducente e complicata.

Stratificazioni che Araki riesce a fondere in un dispositivo semplice ma denso, in cui la linearità della progressione narrativa e la sostanziale sobrietà della macchina da presa corrispondono perfettamente alla manifestazione d'impotenza da parte dei personaggi, tutti, in un modo o nell'altro, spettatori passivi delle proprie esistenze. Una compostenza che non impedisce al regista di riprendere le tematiche che gli sono più care, e che, soprattutto nel personaggio di Kat, gli permettono di esplorare le contraddizioni di un'irrequietezza esistenziale esorcizzata dall'esuberante appettito sessuale che da sempre contraddistingue il mondo giovanile raccontato da Araki.Tra qualche giorno sugli schermi americani.

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: LA PROCHAINE FOIS JE VISERAI LE COEUR

Festival del cinema di Roma-5 giornata

La prochaine fois je viserai le cœur
di  Cédric Anger
Francia 2014
durata, 111′

“Nelle case si soffoca”. Al limite del lapidario l’affermazione del protagonista che, in apparenza gendarme, è in realtà un assassino seriale.

I fatti, ispirati a reali notizie di cronaca, sono ambientati in una Francia grigia e quasi asettica, come asettiche sembrano essere le dinamiche emozionali del protagonista. Evaso il tentativo thriller, ci si concentra sul dramma interiore di un uomo che vive, nell’ancor più paradossale vestire la divisa, una contraddizione logorante. Si tratta, dunque, di una messa in scena ben ragionata e che si rafforza con la regia sapiente e poco invadente di Anger. A convincere poco è l’epilogo finale, che risulta prolisso e quasi confusionario nel proprio svolgersi narrativo. Molto suggestive restano le scene oniriche dei vermi che, chiara metafora della morte, rappresentano l’unico destino possibile (per non dire un’invidiabile via di fuga).

Interessante il punto di vista misantropico che, nelle fasi iniziali, caratterizza il personaggio principale come uno Übermensch odierno, spostando la sottile linea che delimita la sanità mentale dalla psicopatia, che comunemente s’associa al profilo di un serial killer. Purtroppo, o per non tradire troppo il genere, o per non esulare troppo dai fatti di cronaca o, lo diciamo con un pizzico di malizia, per un probabile risentimento etico/morale del regista, le premesse vengono in parte tradite nell’andare a conclusione, ridimensionando le pretese e la riuscita di un film che, in ogni caso, rimane un ottimo prodotto. Certo è che dar la colpa, in maniera più volte evidente, alla mistificazione e al fraintendimento del cristianesimo, andando a minare le basi della nostra cultura (sempre in riferimento al precedente discorso sanità mentale/psicopatia), è un tocco di gran classe.

Antonio Romagnoli (voto ***1/2)

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: SOUL BOYS OF THE WESTERN WORLD

Festival internazionale del film di Roma -5 giornata
Soul Boys of the Western World
di, G.Hencken
durata, 112′


Forse non aveva proprio tutti i torti Faulkner quando annotava che “il passato non e’ mai davvero del tutto passato”. E, parimenti, è improbabile che una osservazione di uguale tenore ma meno perentoria possa trovare maggiore applicazione in una società come quella odierna – la società dei consumi e dell’ obsolescenza programmata dei prodotti – uno dei pilastri fondativi della quale è proprio la riproposizione ciclica d’interi segmenti della sua storia, in una sorta di “inesorabile ritorno dell’uguale” che – si potrebbe persino calcolarlo – non risparmia (praticamente) nulla.
Se, poi, si restringe questo principio ad un particolare settore del vivere associato, a dire quello del generico intrattenimento/spettacolo, ecco che si nota come la tendenza alla replicazione si approssimi al cento per cento. All’interno di una reiterazione così serrata, non hanno mai smesso di saltare fuori, prima o poi, i cosiddetti “anni ’80”, di cui, a fasi alterne, si continua a dire tutto e il contrario, contribuendo, in via ulteriore, alla loro perpetuazione. A pensarci – per quanto su una scala limitata -la sensazione/condanna di vivere in un eterno presente, deriva anche in parte da questo: da una sistematica riesumazione/riproposizione/riciclo di tendenze, di modelli (con tutto il loro strascico di atteggiamenti più o meno esteriori, veri o presunti cambi di mentalità, piccole manie, et.) che finiscono per rallentare il tempo in una specie di onnicomprensiva contemporaneità.
Non stupisce più di tanto, allora, ritrovarsi “fra le mani”, oggi, movimenti artistici e relativi protagonisti – sulla cui idea di definitivo tramonto i meno inclini alla nostalgia o i pragmatici duri e puri almeno una volta si sono baloccati – perché è un po’ come se non se ne fossero mai andati. Testimonianza di quanto accennato può essere questo “Soul boys of the Western world” del britannico George Hencken, documento incentrato sulla storia del gruppo pop degli Spandau Ballet, cresciuto su ciò che restava del movimento punk di fine anni ’70 e – mutati gusti e costumi – capaci di afferrare un successo planetario che ha visto il suo apogeo al momento dell’uscita dell’album “True” (1982), per scemare piano piano lungo il decennio, fino allo scioglimento, alle controversie legali, alla malattia (superata) di uno dei membri. Prendendo le mosse dalle origini proletarie omiddle class dei cinque ragazzi, Hencken si avvia da subito sul sentiero ben tracciato delle “biografie in musica”, ossia in una sorta di diligente lavoro di repertazione che, intervallando cinegiornali d’epoca, programmi televisivi che contestualizzano i fatti, fotografie e filmini dell’archivio privato dei musicisti, offre un quadro d’assieme in cui si sovrappongono le tinte contrastate del desiderio di riscatto, quelle del genuino amore per la musica, come un certo gusto per lo sberleffo unito ad un altrettanto puntuale scaltrezza nella gestione degli affari, la cui sostanziale prevedibilità, però, alla lunga, non viene intaccata neanche dal montaggio nervoso.
Si rincorrono così, accanto alle hit più famose della band (la quale, si stenterà a crederlo, ha emesso i primi vagiti su sonorità punk), “True”, “Highly strung”, “Through the barricades”, “Gold”, “I’ll fly for you”, e assieme a tutto il corollario di mise improbabili, pettinature vaporose, limousine e migliaia di adolescenti in delirio, immagini che giustappongono la scena dei locali londinesi di inizio anni ’80, il ritorno ad una musica più ballabile, l’avvento del decennio della Thatcher, “Top of the Pops”, MTV, Live-Aid, perché impossibilitate ad offrire una qualunque prospettiva che non sia la loro semplice riproposta in un moto circolare che preclude all’analisi l’utilizzo di uno dei suoi strumenti più efficaci: la vera distanza. Nel lavoro di Huncken tale distanza non può darsi dal momento che pressoché tutto ciò che è mostrato è ancora presente – magari mutato ma nemmeno tanto – e continua a tornare e a passare, come un lieve detergente su una superficie senza asperità (gli Spandau saranno di nuovo in tour a partire dal 2015). Amen.
TFK (voto **)



domenica, ottobre 19, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: A GIRL WALKS HOME ALONE AT NIGHT

Festival internazionale del film di Roma -4 giornata
A girl walks home alone at night”
di Ana Lily Amirpour
USA 2014
durata, 99′

Non v’è alcun dubbio che, adesso come nel passato, fare film di genere “vampiresco” sia un’operazione estremamente complessa. C’era riuscito recentente Jarmoush col suo “Only lovers left alive”, risposta d’autore a “Twilight” e spazzatura simile. Il tentativo di Ana Lily Amirpour è quello di ambientare la storia di una vampira in una cittadina iraniana.
Se a risultare assai interessanti sono messa in scena e un’elegantissima fotografia in bianco e nero, la sceneggiatura appare debole e pretenziosa. La narrazione, non andando, di per sé, a parare da nessuna parte, appare ancor più confusionaria nell’impiastro citazionistico  privo di qualsiasi consequenzialità: si parte dall’iconografia alla James Dean per passare alla nauvelle vague, mettendo in mezzo Sergio Leone e cinema underground europeo. I troppi silenzi, nel tentativo di dare un’aura ancor più misteriosa alla pellicola, finiscono per negare ogni possibilità d’evoluzione o quantomeno di comprensione dei personaggi. Infine l’amore/odio tra la cultura mediorentale e quella americana viene fuori in maniera esageratamente melensa, con la vampira che, iconograficamente e metaforicamente, veste i panni della donna islamica.
Sicuramente è mirabile, quanto inusuale, il tentativo d’ambientazione di un genere che sembra avere poche vie di fuga. Meno esaltante, e di parecchio, è l’esecuzione.
Antonio Romagnoli (voto **)

IL GIOVANE FAVOLOSO

Il giovane favoloso
di Mario Martone
con Elio Germano, Michele Riondino, Isabella Aragonese
Italia, 2014
genere, biografico
durata, 137'

Un brillante futuro dietro le spalle per la prima volta di Leopardi al grande schermo.

Il giovane favoloso, applauditissimo alla settantunesima edizione del festival di Venezia, è arrivato nelle sale da poco, monopolizzando il panorama cinematografico italiano. Mario Martone, forte di una recente messa in scena delle Operette Morali (2011), nonché della vittoria del premio leopardiano La Ginestra, dirige Elio Germano in un biopic che incarna alla perfezione tutti gli stereotipi e i miti che ingiustamente accompagnano la figura del filosofo, poeta e filologo di Recanati.

La vicenda procede lentamente e indugiando sull'inessenziale, dalla fanciullezza del conte Giacomo trascorsa nella natia casa—in cui sono peraltro state girate molte scene— fino alla morte, esplorandone gli amori folli, lo studio matto, la rabbia giovane e inesplosa. La verve istrionica di Germano, esaltata dal difficile confronto con Massimo Popolizio nel ruolo dell'austero padre —come già accadde in Mio fratello è figlio unico di Luchetti—, e ravvivata dalla presenza di Michele Riondino nei panni dell'amorevole amico Antonio Ranieri, scivola spesso nell'eccesso, quasi fosse uno dei protagonisti di Freaks.


Splendida la fotografia capace di rendere la magnificenza di una natura di cui Giacomo avverte l'ineluttabile superiorità, tale persino da ricordare alcune tele paesaggistiche di Friedrich. Peccato per una scelta musicale schizofrenica —si passa da Rossini all'elettronica con grande nonchalance— che non contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, spesso lasciata alla semplice lettura dell'intensa corrispondenza che Leopardi intrattenne con Pietro Giordani, suo mentore e guida spirituale. Il giovane favoloso è stato descritto da Martone come un "Kurt Cobain dell'Ottocento ". Lettura degli eventi "originale", dettata forse da un certo desiderio di rendere appetibile ai più
uno spirito complesso come Leopardi. Ma ormai non ci stupiamo più di nulla e con questa definizione il regista, lungi dall'avvicinare il poeta alla nostra sensibilità di moderni, finisce per stringere l'occhiolino a Schopenhauer e alla sua concezione del Mondo come nostra personale rappresentazione.

L'unica cosa che — con un pizzico di fantasia e grande generosità— potrebbe avvicinare Germano al celebre cantante è solo una colonna sonora tendente al groove, non certo quella malinconiaincapace di evolvere in ribellione che attanaglia il Leopardi secondo Martone a una a stasi che
tradisce la vivacità intellettuale del filosofo. Non a caso del suo mondo interiore —nella realtà variegato, nella pellicola racchiuso quasi unicamente dal vocabolo "malinconico"— viene proposta una ricostruzione visionaria, resa attraverso allusive occhiati omosessuali, abbuffate di gelato, frequentazioni di postriboli, il tutto sul continuo tintinnio della stessa lagna. È apprezzabile il tentativo di mostrare lo iato che divide l'animo del giovane filosofo tra ciò che vorrebbe fare e ciò cui invece si vede costretto da cause di forza maggiore —ora il padre, ora la malattia—. Ma quante domande e continue ricerche accompagnarono l'opera di Leopardi, qui invece immobile, quasi la macchietta del depresso nella sua stalattica posizione di gobbo infelice, seguace passivo delle idee rivoluzionarie dell'amico Ranieri!

Talvolta il silenzio sa essere più ribelle di mille grida —l'apparente quiete del poeta questo ci insegna—, ed è un vero peccato che anche il buon Leopardi sia stato così infelicemente tradito.
Erica Belluzzi

sabato, ottobre 18, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: AS THE GODS WILL

Festival internazionale del film di Roma -3 giornata
As the gods will
di Miike Takashi.
Giappone, 2014
120'



Miike Takashi e' un autore eclettico, controverso, quindi alterno, comunque sempre ben disposto a non tirarsi indietro di fronte agli argomenti spinosi, come alla possibilità di trarre conseguenze poco in linea con l'acquiescenza corrente. Si prenda ad esempio questo "As the gods will" e il suo modo di mettersi di traverso - alla solita maniera che coniuga sarcasmo ai limiti dell'irrisione, crudeltà beffarda, spietatezze assortite, isolate tregue in cui a fatica si fa largo la riflessione stranita o scampoli di un desiderio di vicinanza autentica, in genere negletta se non, persino, inesistente - rispetto a quella che potremmo definire con scarsa fantasia "lo stato dell'arte della modernità" ai tempi della sistematica disgregazione dei rapporti e dell'imporsi in sua vece di una condizione (post-qualcosa, meta-qualcosa, chi sa più dirlo con certezza ?) sempre più mediata (di fatto, di continuo ri-generata) dalla onnipresenza tecnologica e dai suoi più possenti bracci armati: il denaro e le merci (intese come consumo nel senso più generico del termine).

Da decenni l'Occidente si gingilla col concetto di pulsione di morte, finendo con l'averlo interiorizzato nei modi di una resa psicologica ed etica al dato-di-fatto, la superficie inerte del quale viene talvolta increspata da esplosioni di violenza pressoché immediatamente rimosse (o mal interpretate o nemmeno analizzate) nell'illusione che il mastice a base di solvibilità e oggetti  richiuda la crepa e soprattutto regga. Ebbene, Miike prova a fermarsi un istante, a guardare più da vicino il tessuto di questa realtà in apparenza dai colori vividi e subito riconoscibili quanto instancabile nel garantire che domani non sarà altro che l'ennesimo oggi, e addentrandosi nelle vite di coloro - che già solo fisicamente rappresentano il futuro - su cui quella realtà punta per imporsi una volta per tutte: un gruppo di giovani uomini e donne. Nel caso, liceali.

Alla luce di ciò, se l'esistenza di gran parte della gioventù odierna e' ritmata in maniera serrata e monotona sul progressivo allontanamento dalla pratica quotidiana dei fatti (per quanto scoraggianti, insensati, banali essi siano: pensiamo alla piaga sociale degli otaku, qui ritratti tra l'ironico e il patetico) a favore di una reiterazione fondata sull'utilizzo passivo dei manufatti tecnologici, sull'assenza o limitazione degli stimoli, sul restringimento conseguente degli orizzonti ad un qui-e-ora di primo acchito eternamente promettente ma via via inflessibile, fino al momento di mostrarsi al dunque di una scelta col suo vero volto - un ghigno severo ed esigente - diventa allora sensato scaraventarne un esemplare - Takahama Shun, Takeru Amaya e Akimoto Ichiko ne incarnano nel film l'epitome più rappresentativa - all'interno di un contesto (un gigantesco cubo bianco opaco che staziona/veleggia nei cieli, subito ribattezzato dai media accorsi golosi, "il cubo di Hokkaido") tarato su misura della logica stringente di un videogioco ad eliminazione graduale dei suoi partecipanti.

Shun - annoiato e depresso quanto sensibile e di fondo disgustato di una vita già senza vie d'uscita -; Amaya - egoista e violento, prevaricatore e cinico, votato alla conservazione di se stesso come eletto di una stirpe superiore che ha il dovere morale di eliminare i più deboli -; Ichiko - dai capelli decolorati e dall'animo in bilico tra una frivola spensieratezza, una indefinita attrazione per Shun e un grumo più intimo fatto di solitudine e frustrazione - insieme ad altri appartenenti alla loro sfera comune, assurgono così a rango di protagonisti di un gioco (la vita-agli-albori-del-terzo-millennio) in cui si prende teoricamente parte a tutto e alla fine si muore spesso per niente, ossia o per capriccio o per caso.

Miike concentra la sua attenzione sul carnevale folle ma, letteralmente, iperrealista che coinvolge/usa i ragazzi; sui loro volti stravolti dal terrore, dall'incredulità, come da una sorta di serafica apatia, costruendo una messinscena al solito pulsante nei colori vistosi (il sangue, le luci della città, i tramonti al limite dell'oleografia) e veemente nelle scansioni (a cui non poco contribuisce anche il tipico piglio assertivo nipponico) ma controllata e inflessibile nell'aderenza ad una programmatica inerzia fondata sul legame di causa-effetto. Ciò che si perde, fatalmente, nel meccanismo del "passaggio al livello successivo", si recupera nella coerenza di un pessimismo che non ammette infingimenti o scorciatoie. Perché se il Male alla fine non muore, il Bene non trionfa e la sopravvivenza e' mera questione di fortuna, non d'intelligenza, non di abilita', non di forza: se, in altre parole e a conti fatti, e' questa " la volontà di Dio", sembra lecito e addirittura  morale sentenziare alla maniera di Shun: "Se Dio ha creato tutto questo, che si fotta !".


TFK (voto: ****)