Festival del cinema di Roma-6 giornata
Time out of mind
di O.Moverman.
Usa 2014
durat,
Una
delle prime cose che viene in mente riflettendo su un film come "Time
out of mind" di Oren Moverman, e' che la sola, autentica, libertà
rimasta all'individuo occidentale e' quella di sparire. Non si
spiegherebbe altrimenti il calvario materiale e morale vissuto ogni
giorno da George/Gere, uomo che ha perso il lavoro, non ha mezzi,
famiglia (se non una figlia che non frequenta più ma spia di tanto in
tanto dall'esterno della vetrina del bar in cui lavora), amici, e del
quale il mondo - il mondo delle opportunità e del benessere, il mondo in
cui ogni desiderio ha un nome e un'etichetta col prezzo sopra -
semplicemente non ne vuole sapere.
Spesso
il cinema di Moverman si e' mosso entro i meandri scomodi del dolore e
della perdita: pensiamo all'esordio alla sceneggiatura per "Jesus' son"
(1999), sui racconti di Denis Johnson; ai reduci spostati di "The
messenger" (2009), o al poliziotto disadattato di "Rampart" (2012). In
"Time out of mind" il passo rallenta e si concentra sulla vita minuta di
un uomo-massa solo e confuso (un Gere controllato e convincente
nell'esprimere lo smarrimento, l'incredulità e il disinganno che ha
portato via al personaggio, lentamente ma senza scampo, persino il
tempo, quello del titolo, cancellandone le tracce dall'esperienza
comune, al punto da forzarlo ad esclamare con allibito scoramento:
"Io... non esisto"); sui tentativi spesso patetici - se non fossero
tragici - di racimolare un pasto o un letto; sui peripli insensati
all'interno di un organismo burocratico deputato in linea teorica alla
sua salvezza e auspicabile reinserimento che, al contrario, lo umilia e
lo esaspera con la richiesta, per dire, della copia di un documento
inesistente al fine di avere accesso all'assistenza o con la sistematica
ingiunzione di rispondere a questionari la cui mancanza di qualunque
sensibilità tipica delle regole e dei protocolli, alla fine, non fa che rimestare oscenamente nelle pieghe di sofferenze tutt'altro che superate o anche solo rimarginate.
Ciò
che può in via erronea sembrare una sorta di spaccato sociologico
descrittivo ed anodino ed invece rappresenta il quotidiano di un numero
sempre maggiore di uomini e donne, si avvale di una messinscena sobria -
attenta ai dettagli, ai mutismi imbarazzati, ai piccoli gesti
trattenuti o abortiti - come intrisa di una qual mesta eleganza e
sostenuta dalle meravigliose luci della fotografia espansa di
Bobby Bukowski, livida e splendente sulle cose e sui volti durante i
giorni freddi di una primavera che tarda ad arrivare; morbida e densa
negli interni desolati, nelle sale d'aspetto degli ospedali o nei locali
pubblici ove si consuma il teatrino sfinito di una cordialità che
oramai stenta a passare persino nelle formule convenzionali di un
linguaggio che non interroga mai, davvero, l'umano ma si limita a gestirne le circostanze esteriori. Meno convincente e' la scelta di dilatare alcune scene oltre la loro naturale conclusione:
il ritmo interno dell'opera, via via, ne risente, non aggiungendo di
fatto nulla allo spessore emotivo dei protagonisti o alla tensione
narrativa della storia. Come che sia, Moverman, pur alludendo nel finale
ad una possibilità di rinascita - l'unica sensata, l'unica degna -
compone l'ennesimo ritratto avvilente e scoraggiante di questa nostra
presunta modernità, di un altro nuovo secolo ottimista e sorridente per contratto, quanto crudele e oppressivo per quel poco che resta nel cuore dell'uomo.
TFK (voto: ***1/2)
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