mercoledì, settembre 30, 2015

RITORNO ALLA VITA

Ritorno alla vita
di Wim Wenders
con James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams
Germania/Canada/Francia/Svezia/Norvegia, 2015
genere, drammatico
durata, 118'


Per il ritorno al cinema di finzione, dopo i riconoscimenti di stima ricevuti per i documentari su Pina Bausch ("Pina") e Julio Ribeiro Salgado ("Il sale della terra") Wim Wenders sceglie di ripartire esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotto il suo cammino ("Palermo Shooting", girato in Italia nel 2008) , e cioè da un tipo di cinema che fa del tempo e del suo divenire la discriminante capace di creare la cifra estetica del suoi film, e, conseguentemente, di trasformare l'impianto narrativo delle storie in un flusso ininterrotto di immagini e parole; e ancora, passando sul piano dei contenuti il principale strumento di una ricerca che non si ferma sulla soglia dei comportamenti ma ne analizza le ragioni, arrivando a sondarle in quei territori dell'animo umano dove essi hanno origine. Nel caso poi di "Ritorno alla vita", il suo nuovo lavoro presentato in anteprima mondiale all'ultimo festival di Berlino, dove il regista ha ricevuto il premio alla carriera, ci sembra che la metodologia del regista sia diventata ancora più radicale nel diradare tutti quegli appigli che normalmente danno modo allo spettatore di metabolizzare le asperità di certo cinema d'autore. Wenders al contrario rilancia le caratteristiche cinematografiche che hanno distinto le sue opere più famose, risultando monacale, tanto nell'utilizzo dell'immagine degli attori (da James Franco, in una parte che sembra fare il verso a quelle assegnate agli attori dei suoi lavori, a Charlotte Gainsbourg, e senza dimenticare Rachel McAdams), spogliati o quasi di ogni aspetto riconducibile al loro essere parte integrante dello star system europeo e hollywoodiano, quanto nel procedere del narrato, impostato su un serie continuata di "falsi movimenti" che, nel minimalismo motorio presente all'interno delle singole sequenze, impostate su una staticità che riguarda tanto le figure umane che il paesaggio circostante, sembrano rimandare contemporaneamente alle difficoltà dello scrittore Tomas Eldan, romanziere di successo alle prese con una prolungata mancanza d'ispirazione e alle conseguenze del senso di colpa scaturito dal fatto di aver provocato, seppur in circostanze che non dipendono da lui, la tragica morte di un bambino.

Assecondando la sceneggiatura origjnale del norvegese Bjorn Olaf Johansen Wenders procede considerando il binomio arte vita, legato alle premesse che danno vita alla crisi del protagonista, in maniera simbiotica, e in un rapporto di dipendenza reciproca che, nelle mani del regista, riesce a non essere irrispettoso nei confronti del dolore provocato dalla perdita di una vita umana; oltre a ribadire dal punto di vista teorico, come la creazione artistica, almeno nelle espressioni più alte, non possa fare a meno dell'urgenza derivata dal vissuto di un'esperienza personale e intima.


Considerando poi che il "ritorno alla vita" del protagonista, e in sottordine della madre e del fratello del bambino scomparso, si avvale di una fotografia - di Benoit Debie - che nella perenne oscurità degli interni, sembra voler raffigurare il baratro psicologico e il senso di morte che ne pervade il tormentato calvario, non appare peregrina l'ipotesi che Wenders utilizzi la storia del film per riflettervi la propria filosofia esistenziale, impostata secondo i dettami di una religiosità (cristiana) che in "Ritorno alla vita", trova riscontro in una concezione salvifica del dolore; implacabile, come quello che attanaglia lo scrittore ma necessario per fare pace con i propri demoni. Come si evince dagli sviluppi sentimentali e lavorativi di cui sarà oggetto la vita del protagonista al termine del suo percorso d'espiazione. In questo senso l'attitudine emotiva di Tomas, con il suo procedere erratico e meditativo e le sue insoddisfazioni sentimentali fa si che il film di Wenders stabilisca più di una similitudine con gli approdi raggiunti dall'ultimo cinema del grande Terence Malick. Con meno scioltezza e qualche lungaggine di troppo da parte del regista tedesco.
(pubblicata su ondacinema.it)

martedì, settembre 29, 2015

POINTS OF VIEW: INTERVISTA A ROBERTA MATTEI



Roberta Mattei è una delle protagoniste di "Non essere cattivo" il film di Claudio Caligari che è stato appena scelto per rappresentare l'Italia alla prossima edizione degli Oscar. Per inauguare "Points of View" il nuovo spazio dedicato alle interviste di personaggi appartenenti al mondo del cinema abbiamo pensato a lei. Ecco quello che ci ha raccontato.

 
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Roberta, sfatiamo il concetto che tu sia una ragazza di borgata.

Sono nata a Roma e vissuta a Spinaceto, periferia di Roma sud in cui la violenza era imperante e in cui, condividevo l’esistenza con  gente di ogni tipo. Dal balcone di casa osservavo l’umanità che era in strada. Le mie giornate non di rado finivano per perdersi negli occhi e nella sofferenza di quelle persone. Di ragazzi come  Cesare e Vittorio, i personaggi principali di “Non essere cattivo”, ne ho visti tanti.

La tua è prima di tutto una formazione teatrale. Quando e come sei arrivata a salire sul palco.


Da piccola passavo delle ore a guardare le commedie di Eduardo De Filippo che mia madre registrava da Palcoscenico, il programma della Rai che si occupava di teatro. A parte la fascinazione per quello che vedevo, ad attrarmi era il senso di famiglia che dal palco e l’idea di un lavoro collettivo e itinerante. A 12 anni, vedendomi determinata, fu lei che pensò di iscrivermi all’associazione culturale di Spinaceto che i miei, poco dopo la morte dei due fondatori, un pò per caso, un pò per sfida iniziarono a gestire. E’ da li che inizia la mia gavetta teatrale,  con lo studio e la frequentazione dei vari laboratori di recitazione. Poi, a 20 anni, dopo essere stata scartata dai teatri di Genova e Torino decisi a fare un provino per entrare al Centro sperimentale.
  

 E come andò in quell’occasione.

Fu divertente, perché non avendo preparato nulla, improvvisai un pezzo tratto da “La Locandiera” di Carlo Goldoni, che conoscevo a memoria per averla vista rappresentata non so quante volte da una compagnia del mio primo insegnante Flavio Albanese, che in quel periodo provava in associazione. Tra gli esaminatori, c’era pure Lina Wertmuller, la quale rimase così colpita dalla meridionalità della mia fisiognomica,  da suggerirmi di accentuarla attraverso la  crescita delle sopracciglia.



Quindi sei riuscita ad entrare.

Si, però, insomma mi sentivo fuori luogo rispetto al mio desiderio di diventare un’attrice di teatro. Così, in piena crisi d’identità, e per una serie di fortunate coincidenze mi imbattei in Roberto Valerio che oggi è diventato un regista di fama, e che allora mi ingaggiò per rappresentare una piece, "Il Vantone", di Pier Paolo Pasolini, il mio artista di riferimento. Il reading tratto da una “Una vita violenta”, che successivamente ho portato in giro per l’Italia, nasce da quell’incontro con Valerio, che ne aveva curato il riadattamento.


Mi pare di capire che i tuoi genitori sono stati importanti per la realizzazione delle tue aspirazioni artistiche.

Non solo loro ma anche mio fratello. Vengo da una famiglia di mentalità aperta e di radici contadine, che in ogni occasione mi lasciato un’assoluta libertà culturale. Mia madre è calabrese, mio padre umbro, e da entrambi, che hanno sempre avuto una spiccata predisposizione artistica, ho imparato a fare le cose con calma e a dare il tempo agli eventi di manifestarsi secondo la propria predisposizione. Un po’ come avviene nella coltivazione dei campi, che va di pari passo con il ciclo naturale delle stagioni.


Successivamente è arrivato il film di Caligari e il personaggio di Linda.

Be non esattamente. Prima di quel film avevo fatto molta gavetta televisiva, lavorando in diverse fiction e in un mediometraggio e avevo girato pochi mesi prima "Italian Race" di Matteo Rovere. Quelle esperienze, mi hanno insegnato a stare davanti alla macchina da presa, dove, contrariamente al teatro, sono il volto e gli occhi a fare la differenza. In “Non essere cattivo” avevo fatto il provino per interpretare Viviana ma Caligari, dopo avermi vista, mi disse che ero perfetta per il personaggio di Linda. Nonostante il minutaggio ridotto, il ruolo era complesso, perché nell’arco di poche scene dovevo essere in grado di rendere, da una parte la tenacia di una madre pronta a lottare con tutte le sue forze pur di assicurare un futuro migliore a lei e al figlio; dall’altra, il sentimento di una donna disposta a tutto per tirare fuori il suo uomo dalla pericolosità di quella vita, per provare a dargli un'alternativa che forse, però, è solo illusoria.



Come sei riuscita a entrare nel ruolo.

Sul set il Maestro dava poche ma precise indicazioni, e quindi, per costruire il personaggio sono partita come sempre dall’analisi del testo. Nel farlo, mi sono tornati utili i miei trascorsi, che mi hanno permesso  di portare dentro al film situazioni che in qualche modo avevo già vissuto. In più, ero abituata al clima di complicità tipico della marginalità raccontata da Caligari, in quanto, sin da bambina, avevo vissuto in un palazzo che ospitava gente d’estrazione umilissima, e di cultura Rom. Conoscevo le dinamiche che si stabiliscono quando l’unica cosa su cui puoi contare è il rapporto d’amicizia con un'altra persona, come capita ai protagonisti del film, che non posseggono nulla, a parte la legame fraterno che li unisce. Ma la riuscita di questo processo non sarebbe stato efficace, se a stimolarlo non ci fossero state l’urgenza e la verità da cui nascono le opere di Caligari. Non potrei mai recitare in un film  in cui non credo, perché il pubblico se ne accorgerebbe in un attimo. 


A questo proposito, mi sembra che l’amicizia tra Cesare e Vittorio sia regolata da una sorte di codice d'onore.

Io non parlerei di codice d'onore, bensì di un codice di borgata, fondato su un sentimento di assistenza reciproca, e su un meccanismo d’amicizia e di sottile fiducia, che fa da collante al loro rapporto. Per descriverlo con il cinema, mi viene in mente l’amicizia virile raccontata da  Martin Scorsese in “Mean Streets”.


Volevo chiederti se tu e gli altri attori vi siete resi conto che stavate partecipando a un film così importante.

Se dovessi giudicare dallo stupore delle nostre facce alla fine dell'anteprima veneziana direi di no, perché dopo la proiezione sono successe cose incredibili. A parte i dieci minuti di applausi, quello che mi ha colpito è stato vedere le facce della gente, l’emozione che non riusciva a trattenersi. Mi ricordo della mamma del maestro e quelli che insieme a noi hanno partecipato alla realizzazione del film, tutti a piangere come dei bambini. Sul set eravamo coscienti di girare con un maestro del cinema ma nessuna poteva pensare all’entusiasmo e alla benevolenza con cui “Non essere cattivo” è stato accolto.


Parliamo invece di te come donna.

Nella vita mi potrei paragonare a Elettra, perchè in lei ci sono tutti gli eccessi del mio carattere. Sono una persona idealista che soffre quando vede un'ingiustizia. Ho un'empatia molto sviluppata che mi porta a percepire l’ambiente in cui mi trovo e le falsità che vi dimorano. Per questo mi auguro di poter sempre lavorare con persone che stimo; I miei occhi ti dicono sempre quello che penso come pure il mio stato d'animo e questo può essere un limite. Pur restando una persona positiva, sono spesso attraversata da un misto di  gioia e  di tristezza e quindi, da quel velo di malinconia che dal punto di vista artistico è molto creativo. Direi quasi che sono patologicamente appassionata della malinconia e che in un certo senso la coltivo



E invece da spettatrice cosa ti piace.

Scelgo molto le cose del passato, e quindi mi piacciono attrici come Tina Pica e Franca Valeri che davvero amo molto. Se invece penso a quelle di oggi ti dico Loredana Simioli, che in "Reality" faceva la moglie del protagonista. Tra quelle straniere invece mi viene in mente il nome di Cate Blanchett, mentre parlando di registi, a parte Caligari, dico Wes Anderson, David Cronenberg e Lee Hae-jun.
di Adele De Blasi e Carlo Cerofolini

UN MONDO FRAGILE

Un mondo fragile
di Cesar Acevedo
con Haimer Leal, Hilda Ruiz, Edison Raigosa, Marleyda Sot
Colombia, Francia, Paesi Bassi, 2015
durata, 97'
 
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Nel corso degli anni  una parte di cinema proveniente dai paesi più disagiati ha contribuito ad alleviare il senso di colpa di quella parte del mondo che, attraverso l’empatia  provocata dalla visione dell’altrui sofferenza, ha trovato il modo per sublimare gli eccessi di benessere presenti nella propria condizione. Il risultato è stato quello di un appiattimento generale che è pesato soprattutto sulla qualità delle immagini, costrette ad una semplicità il più possibile corrispondente a quella del soggetto in questione. In controtendenza lavora invece “Un mondo fragile” di Cesar Acevedo che, nel raccontare la vita grama di una famiglia di contadini costretta a lavorare  i campi in condizioni di semi schiavitù, prende a riferimento il lavoro di pittori come Andrew Wyeath (Christina’s World) e Jean Francois Millet, componendo sequenze di straordinaria bellezza paesaggistica e figurativa. In casi come questi, la riuscita del film si sposta su problematiche di segno opposto rispetto ai modelli precedenti. Perché se è vero che lo sguardo del regista riesce a restituire la sofferenza dei protagonisti con una dignità e un rigore che lo mette al riparo dalle accuse di facile populismo, d’altro canto la meraviglia delle composizioni visive rischia di entrare in contrasto con la necessità di restituire senza filtro il sangue delle vittime. Detto che la discussione rimane aperta e che “Un mondo fragile” non si è fatto mancare nulla in termini di premi, ricevendo quello di migliore opera prima all’ultima edizione del festival di Cannes, per quanto ci riguarda la decisione di collocare i personaggi all’interno di lirismo visivo come quello immaginato da Acevedo, ci sembra il modo scelto dal regista per risarcirli di tanta afflizione.

lunedì, settembre 28, 2015

MAGIC MIKE XXL

Magic Mike XXL
di Gregory Jacobs
con Channing Tatum, Amber Heard, Jada Pinkett Smith
Usa, 2015
genere, commedia
durata, 130'




Se anche Steven Soderbergh non si fosse allontanato dal cinema per dedicarsi alla produzione televisiva, siamo sicuri che non avrebbe mai avallato la sceneggiatura che è alla base di "Magic Mike XXL", sequel del film girato nel 2012 dal regista americano. Rispetto all'esordio sono rimaste l'esposizione dei corpi e la plasticità coreografica dei balletti interpretati dagli aitanti protagonisti. Data per scontata l'assenza di Matthew Mcconaughey che non solo era quello che aveva più da perdere dalla partecipazione a un simile progetto,  ma a cui non poteva più offrire la prestanza di un tempo, il nuovo Magic Mike può contare sul faccia ipervitaminizzata e un pò gonfia di Channing Tatum, il quale, non si sa per quale ragione, offre una prestazione a mezzo servizio. Perchè, al di là del fatto che la trama da l'impressione di dipendere esclusivamente dalle iniziative del suo alterego filmico, senza il quale niente potrebbe accadere, è altrettanto vero che il suo protagonismo rimane sulla scena quel tanto che basta per aprire le "danze" e lasciare poi agli altri l'incarico di completare l'opera, smentendo in qualche modo lo spirito di squadra professato dalla storia. Daltronde la sceneggiatura è di quelle che non lasciano alternative, con il viaggio a Las Vegas dove il gruppo ha organizzato il suo addio alle scene, a fare da raccordo per una sequela di video clip musicali che rappresentano il contraltare alla necessità di dilatare il percorso di avvicinamento attraverso una serie di tappe successive. 

E al modo con cui i produttori permettono a ciascun attore di avere il suo momento di gloria, che non ha caso coincide con le sequenze girate sul palcoscenico. A far da riempitivo tra un balletto e l'altro comparsate da guest star (Elizabeth Banks, Jada Pinkett Smith e Amber Heard) e tanta voglia di parlare. Il resto è noia.

domenica, settembre 27, 2015

SICARIO

Sicario
di Denis Villeneuve
con Emily Blunt, Benicio Del Toro, Josh Brolin
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 




Aggredita dagli eventi della storia, la filosofia del sogno americano è stata scalfita da una serie di rovesci che hanno rischiato di mettere in discussione i cardini stessi del suo pensiero. Da par suo e a fasi successive il cinema nazionale ha cavalcato l'onda della crisi, appropriandosene soprattutto quando si è trattato di adombrare una compartimentazione dello Stato organizzata su più livelli di conoscenza e di potere. E stato quindi ovvio che a farsene carico in sede di rappresentazione fosse proprio un genere come la crime story , naturalmente portato a occuparsi di ciò che si nasconde tra le pieghe del reale, e più di altri in grado di raccontare la vertigine di un'esistenza andata fuori controllo. Una tendenza che proprio in questa stagione ha raggiunto il punto di non ritorno, con l'uscita sugli schermi di "Citizen Four", il film di Laura Poltras, in grado di dimostrare quanto poco ci sia da aggiungere in termini di finzione alla pura documentazione dei fatti, capaci in una vicenda come quella legata a Edward Snowden, di rivaleggiare per tensione e colpi di scena con i migliori capolavori del genere in questione. Questo per dire quanto fosse difficile dopo quel precedente, raccontare una storia come quella di "Sicario", che, nel narrare le vicende di un gruppo di agenti governativi, impegnati a contrastare l'operato dei cartelli del narcotraffico messicano, doveva di fatto mostrarsi, sotto il profilo della credibilità, all'altezza di ricreare la liminalità del male che fa parte di chi, come i protagonisti del film, sono chiamati ogni giorno a combatterlo. Non è dunque un caso se la sceneggiatura, a fronte del leviatano investigativo messo in piedi da Matt Graver (un grande Josh Brolin) e da Aleandro (Benicio Del Toro), operatori non meglio identificati del governo americano, decisi con ogni mezzo a scovare il boss di turno, e quindi di tutto quel corredo di armi, di violenza e di cinismo che generalmente si accompagna a questo tipo di imprese, ometta (ad esclusione dei minuti finali), di dare visibilità ai loro antagonisti. Perchè, nonostante "Sicario" presenti nel corso della sua vicenda momenti di pura tensione, come pure una serie di incursioni cinetiche fatte di sparatorie, inseguimenti ed altro ancora, l'interesse del regista si sofferma soprattutto su quello che succede nell'animo dei protagonisti e in particolare di Kate (Emily Blunt), agente idealista e rispettosa della legge che sceglie di supportare le azioni della task force guidata da Graver e Aleandro.


Così, accanto alla dimensione tipica dell'investigazione criminale, costituita dalle procedure per ingaggiare il nemico invisibile, "Sicario" si sposta dapprima, in maniera impercettibile, e poi in modo più netto, verso una rappresentazione sempre meno oggettiva e costruita a livello visivo sullo stato d'animo di Kate, chiamata a rappresentare l'anello di congiunzione che divide il bene dal male. A salire in cattedra, sono di conseguenza le psicologie dei protagonisti e il senso d'afflizione che da quelle si riversa sul film attraverso passaggi di pura astrazione; come di fatto risultano la combinazione tra le inquietanti panoramiche del territorio messicano, ripreso con l'evidente intento di sottolineare il senso di smarrimento di Kate, assorbita dai dettagli di un viaggio che la separerà definitivamente dalle antiche certezze; e successivamente, poco prima dell'epilogo, la sequenza dell'operazione notturna all'interno di un tunnel scavato nella roccia, in cui l'estraneità del paesaggio umano e geografico, così come risulta dalle telecamere dei visori notturni utilizzati dagli operatori, non è solo il modo per tradurre l'emotività della donna rispetto all'ignoto che gli si sta rivelando ma anche, attraverso l'alterità dell'ambiente, la distanza fisica e morale che separa Kate dalla mancanza di morale dei suoi compagni di viaggio.


Procedendo in un straordinario (per cambiamento e risultati) percorso di metamorfosi registica, Villeneuve riparte da dove si era fermato e quindi da "Prisoners", replicato fin dall'inizio sia nella scena girata nella casa degli orrori dove, come nel lavoro precedente, ritroviamo una segregazione coatta, sia nella presenza di una sorta di botola, qui come allora disegnata con le vestigia di uno strumento di morte. Di quel precedente lavoro, ingiustamente sottovaluto, "Sicario" rappresenta l'ulteriore messa a fuoco di uno sguardo che non si è fatto svalutare dai condizionamenti delle produzioni hollywoodiane. Pur pagando qualcosa sotto il profilo delle meccaniche del racconto, deboli in alcuni snodi della narrazione - tra tutte, la presenza del collega di Kate, escluso dalla squadra e poi rimesso in gioco con spiegazioni risibile e poi l'incertezza delle motivazioni che spingono la protagonista a rimanere in pista nonostante l'evidenza della mala parata - Sicario è una storia di "fantasmi" che ha il budget di film indipendente e la forma di un prodotto blockbuster. Del primo, ha il coraggio di mostrare il tributo di sangue pagato alle sicurezze della democrazia americana; del secondo, il carisma degli attori e il senso dello spettacolo. In concorso all'ultima edizione del festival di Cannes in cui è passato con somma indifferenza, "Sicario" è il film di un grande regista.
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, settembre 25, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: THE GREEN INFERNO

The Green Inferno
di Eli Roth
con Lorenza Izzo, Ariel Levy, Aaron Burns, Kirby Bliss Blanton
Usa, 2015
genere, horror
durata, 103' 




Chissà se Eli Roth, prima di dedicarsi a “The Green Inferno”, avrà avuto tempo e la voglia di ripassare i fondamentali del suo cinema. Se così fosse successo, ci sarebbero stati almeno due titoli utili a stimolarne la verve creativa: il primo  sarebbe stato piuttosto scontato, essendo “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato, un punto di riferimento per quelli come Roth, che decidono di diriger un horror incentrato sul tema del cannibalismo. L’altro, crediamo,  lo avrebbe spiazzato, trattandosi di uno dei film più sottovalutati e meno conosciuti di Marco Ferreri. “Come sono buoni i bianchi”, diretto da regista nel lontano 98, raccontava infatti di un gruppo di volontari che, dopo essere giunto in Africa per motivi umanitari, finiva tra le fauci degli indigeni che aveva cercato di sfamare. Un contrappasso più o meno simile accade in “The Green Inferno”, quando gli attivisti di un movimento studentesco si ritrovano in ostaggio della tribù che avevano cercato di proteggere dall’avidità delle multinazionali, intenzionate a sterminarli per  acquisire le loro terre. Anche in questo caso c’è di mezzo l’antropofagia, e anche Roth, come Deodato, ce la mette proprio tutta per rendere il supplizio dei corpi nella maniera più truculenta che sia possibile. Tra urla strazianti e squartamenti a tutto schermo, “The Green Inferno” però si mantiene alla larga da qualsiasi tipo di verosimiglianza e non pensa neanche per un attimo di imitare “Cannibal Holocaust” che del genere mokumentary fu uno dei precursori. Troppo diverso è il suo tipo di cinema, fandato sin dal principio sull’alleanza con il pubblico di riferimento, coccolato sino allo stremo pur di soddisfare la voglia di gran guignol, che il film, a parte il breve scampolo girato a New York, necessario a creare il presupposto “politico” che porterà i ragazzi in Amazonia, non si fa di certo mancare.

Quello che ne viene fuori è un divertimento preordinato e scandito da una via crucis tanto prevedibile quanto necessaria ad assicurarsi il favore dei seguaci. Più che la paura, fiaccata dagli eccessi di parossismo, è il disgusto a farla da padrone, continuamente stimolato dalla visione del martirio a cui i giovani vanno incontro. Il giudizio sul film è inevitabilmente di parte, e nella conta tra favorevoli e contrari a determinare il gradimento è il fatto di riconoscersi o meno, nell’estetica formulata dal regista. Il quale, forse per attenuare l’eversione del suo messaggio, forse per cercare di rendersi più simpatico, si inventa un finale che sembra volersi prendere beffa di tutto e di tutti. Da questo punto di vista la lezione di Ferreri sarebbe tornata veramente utile.

giovedì, settembre 24, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: ARIANNA

Arianna
di Carlo Lavagna
con Ondina Quadri, Massimo Popolizio, Valentina Carnelutti
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 84'


Nonostante le difficoltà che sta attraversando dal punto di vista produttivo, il cinema italiano continua a dare segnali di vitalità. Prova ne sia, all’ultimo festival di Venezia, la presenza di un gruppo di film che ha portato alla ribalta i nomi di Antonio Messina (L’attesa),  Alberto Caviglia (Pecore in erba),  Lorenzo Berghella (Bangland), e appunto di Carlo Lavagna, il regista di “Arianna”, che alla pari degli altri appena menzionati  partecipavano alla manifestazione con la loro opera d’esordio. Al di là delle differenze rintracciabili all’interno dei singoli titoli, ad emergere  in linea generale è il desiderio di porsi in alternativa alla dilagante voglia di omologazione, che caratterizza il panorama cinematografico nostrano. Una diversità che “Arianna” iscrive di diritto nel proprio Dna, attraverso la vicenda della giovane protagonista, adolescente introversa e inquieta che, nell’arco dell’estate trascorsa a contatto con un ristretta cerchia di coetanei  e immersa nella natura incontaminata che circonda la villa di famiglia, è costretta, un poco alla volta, a fronteggiare le conseguenze di un segreto che troverà risposta nella particolarità fisiologica del proprio corpo. 


Partendo dall’anello mancante di una personalità altrimenti incompleta, “Arianna” è il racconto di una presa di coscienza, dolorosa ma necessaria, in cui l’acquisizione dei diversi tasselli che serviranno a ricomporre il mosaico psicologico , della protagonista ma in sottordine anche degli altri famigliari, sono il risultato di un percorso narrativo che adottando la struttura di un thriller esistenziale, procede più per accumulazioni visive che verbali, producendo immagini, a volte svianti, sul tipo di quelle dal sapore bucolico che, contraddicendo la drammaturgia della storia, improntata a un soffuso senso di precarietà, inducono a sentimenti di spensieratezza e di divertimento; a volte evocative del futuro della protagonista; anticipato dal primo piano del volto incorniciato da acque dalla consistenza amniotica, a sottolineare la metamorfosi in atto; in certi casi persino ardite, nella rappresentazione di una sessualità che non solo non rinuncia alle nudità dei corpi ma che nel caso di Arianna, la mostra con un occhio che sembra acuire il mistero di cui la sua carne si fa portatrice. Qualità estetiche e figurative che, sulla scia del successo di registi come Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, sono diventate tratto comune a una fetta sempre più numerosa del cinema italiano; e che però, a differenza di altre volte, nel film di Lavagna riescono a fare a meno del proprio decor, per dare linfa agli aspetti emozionali di una vicenda che, seppur collocata in un contesto anche poetico, risulta nelle sue conclusioni tutt'altro che idilliaca; come testimoniano le parole di Arianna che, nel commentare a posteriori il suo percorso di rinascita non omette le difficoltà della consapevolezza acuisite al termine del suo viaggio esistenziale. Senza dimenticare che “Arianna” affrontando tra gli altri temi, quello relativo alle nuove (per modo di dire) forme di identità sessuale – come già aveva fatto Laura Bisturi in “Vergine giurata” - mette in circolo un’idea di comprensione e di tolleranza che davvero sono un invito a non aver paura di affermare le proprie differenze; qualsiasi esse siano.

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: EVEREST

Everest
di  Baltasar Kormákur
con Josh Brolin, John Hawkes, Jake Gyllenhaal, Jason Clarke.
Usa, 2015
genere, drammatico, avventura
durata,  121'


Innumerevoli esempi, nella storia del cinema e della letteratura, sono la dimostrazione del fatto che la dialettica uomo/natura vada ben oltre il facile manicheismo. Se "Into the wild" rappresenta, difatti, un'occasione per avere uno tra gli spaccati più lucidi circa la società americana - laddove "americano" è un aggettivo diventato ormai estensione di "occidentale": affare, questo, piuttosto inquietante - "Everest", anch'esso tratto da un libro-reportage di John Krakauer ("Into thin Air"), ha un approccio alla vicenda - ovvero una scalata di gruppo sull'Everest finita in tragedia, alla quale Krakauer ha partecipato in prima persona - necessariamente più intimo.

Ci si trova dunque di fronte agli scenari vasti ed imbiancati della montagna, attraverso un montaggio poco scolastico, contrapposti oltre che alla continua ricerca dei primi piani dei protagonisti alle situazioni in interno raffiguranti i familiari in apprensione. Se da un lato la sovrabbondanza della situazioni personali rende la drammaturgia leggermente macchinosa, la visione in tre dimensioni, invece di aggiungere, sottrae potenza alla visione, rendendo le inquadrature più belle e classiche fastidiose - specie alla presenza di un oggetto sfocato in primo piano -.

"- Quando sono a casa sono sempre depresso.
 - Quindi ora sei felice?
 - No, sto soffrendo, ma mi sento vivo."

"Everest", quindi, racconta - seppur con tutti i difetti di grammatica filmica del caso, comprese le didascalie precedenti i titoli di coda - il fallimento della volontà di potenza nell'illusione del superamento di sé stessi in un'impresa che è oltre i limiti dell'umano - ed ecco che ci si ricongiunge al quesito che si pone attraverso la storia di McCandless: quanto fuggire è realmente una fuga? -. Ecco che la vita trova la propria dolce risoluzione nella morte: sembra quasi di sentire ancora la montagna che respira.
Antonio Romagnoli

mercoledì, settembre 23, 2015

UN MONDO SENZA PIETA'

 Un mondo senza pietà
di Eric Rochant.
con: Hippolite Girardot, Mireille Perrier, Yvan Attal
Francia, 1989 
genere, drammatico
durata, 85'




"Oisive jeunesse
A tout asservie
Par delicatesse
J'ai perdu ma vie".
- A.Rimbaud -


Nel tempo dell'obsolescenza programmata dei prodotti, una delle merci simboliche che mano mano ha visto più assottigliarsi il proprio intervallo d'impiego (ossia il percorso che lo separa dalla data di scadenza e, quindi, dalla massa indifferenziata dei rifiuti) e' - va a sapere se per disgrazia o per fortuna - quella del ribelle a vario titolo. Che - genericamente - ribellarsi sia diventato sempre più necessario o sempre più funzionale agli scopi opposti al suo manifestarsi, e', in altre parole, materia vasta e controversa che e' sensato destinare ad altre sedi. E' tuttavia un fatto che il Cinema riesca ancora, con una certa puntualità, a restituire modificazioni e sfumature proprio in relazione a questo aspetto antagonista del vivere, nei modi di un'immediatezza e una sintesi oggigiorno rare (un'annotazione per tutte e per restare vicino a noi: "Les combattants", di Cailley), a volte persino precluse - o magari in esse solo discontinue - ad altre forme d'espressione.

Esempio tra i possibili e' di certo anche la figura di Hyppo/Girardot nell'esordio di Eric Rochant, a nome, appunto, "Un mondo senza pietà". Già nel passo assertivo del titolo echeggiano gli atteggiamenti scostanti e il fare nervoso di un giovane (borghese) disincantato e cinico abbastanza per, da un lato, convivere, facendosi mantenere, assieme al fratello minore, liceale più dedito allo spaccio al dettaglio tra i coetanei che all'applicazione scolastica; dall'altro, darsi per pura inerzia alla remunerazione aleatoria del poker, inframmezzando tali attività alla contemplazione distante e sarcastica di un mondo - il nostro, a dire l'Occidente moderno, tecnologico, finanziario il quale, tra l'altro, proprio in ragione dei presupposti filosofici, politici, economici che lo fondano, non può non essere senza pietà - in piena e soddisfatta rincorsa verso la distruzione ("Se almeno potessimo prendercela con qualcuno. Se potessimo credere di servire a qualcosa. O di andare da qualche parte... Ma cosa c'hanno lasciato ? Un domani felice ? Il grande mercato europeo ? Non abbiamo niente"); alle frequentazioni con l'amico del cuore Halpern (un Yvan Attal posapiano e sardonico, anch'egli qui alla sua prima volta - e al suo primo Cesar -) e alla roulette sentimentale a base di ragazze incapaci di lasciare, a conti fatti, traccia duratura in una prassi scaltrita dalla ripetizione e da avvilenti conferme. Chiaro che le cose prenderanno una piega inedita al momento in cui il destino in apparenza segnato di un buono a nulla come tanti, come Hyppo, andrà ad intersecarsi a quello dell'altrettanto in apparenza mite Natalie/Perrier, minuta e riservata, di mestiere (precario) interprete, laboriosa e precisa esecutrice di una vita da esperire sul parimenti diffuso ma insidioso crinale che separa la sicurezza fittizia della regolarità dai giri a vuoto dell'insulsaggine dell'aurea mediocritas, in attesa di un'opportunità solo in parte esauribile da una prestigiosa borsa di studio oltreoceano.

Il pregio di un film piuttosto lineare nella messinscena ma reso sotterraneamente vibrante e autentico dallo scontrarsi di dialoghi diretti e non di rado insofferenti ad individuare un tormento esplicitato quasi proprio malgrado, tratto cioè fuori a forza da una nausea che vorrebbe solo non sapere più niente (alla sceneggiatura ha collaborato A.Desplechin, autore avvezzo a masticare il disagio interiore), come da silenzi duri o di trattenuta afflizione, risiede soprattutto - e allo stesso tempo - nella frizione (a dire, nel sorprendente effetto di naturalezza che da tale attrito scaturisce) tra un Sistema che per statuto non fa che promuovere ed esaltare l'individuo e l'impossibilità pratica di conciliare le esistenze dei singoli - i loro sogni, i loro smarrimenti, le loro presunzioni - con l'impianto solo in superficie rigoroso e finalizzato di una realtà sul serio slabbrata e ormai perlopiu' incomprensibile, tenuta assieme da una frenesia dissipatoria che Hyppo prova a gestire con la rinuncia e una calcolata apatia e Natalie, propositiva e fiduciosa, s'illude ancora di poter, bene o male, cavalcare, ma da cui entrambi, in maniere diverse, si sentono tenuti in ostaggio, oltreché, sottopelle, umiliati. In tal senso - nel corpo di una Parigi di corsa, seduttrice opaca e brutale nello splendore ingannevole dei suoi annosi boulevard - Hyppo, seguito passo passo dalla mdp di Rochant, nonché sostenuto dalla progressione decisa e inquieta della partitura-guida per piano di Gerard Torikian, si sposta su ciò che resta delle impronte di un immaginario cinematografico tipicamente francese come dovesse o fosse ancora possibile saldare la strafottenza lunare dei non-eroi godardiani al tipico gusto-del-negativo tardo moderno, inodore, insapore ma capace di pervadere e, all'occorrenza, recidere tutto, anche gli scampoli di un maledettismo magari spendibile sebbene, comunque, fuori tempo massimo, così come i vincoli ideali e romantici di un ipotetico Antoine Doinel scaraventato dalla meraviglia dell'incontro/rivelazione col mare all'iper-parossismo omicida del carnevale dei topi contemporaneo.

Armato nonostante tutto di un insopprimibile vitalismo, declinato per sottrazione nelle fogge di una difesa strenua di ciò che l'interiorità non vuole smettere di dettare e si rifiuta di spartire con un contesto umano, psicologico e morale sostanzialmente indifferente nella sua equanime crudeltà ("Cosa sei, una macchina ?", apostrofa stranita Natalie. "Una macchina per vivere", ribatte secco Hyppo), Hyppo finisce così per opporre alla sua stessa rassegnazione la forza nuda di una coerenza più sistematica e coriacea rispetto alla risolutezza programmatica e persuasa solo negl'intenti di Natalie, a ben vedere, in fondo, molto più conformista nell'aderire a modelli di comportamento che traggono la loro legittimità per gran parte dalla passiva reiterazione/condivisone su larga scala.
Addirittura il perdigiorno arriverà a mostrare - per non rinunciare ad uno slancio autentico, quantunque minato dalla patologica transitorietà di questi anni inumani - di essere svincolato pure dalla propria inconsistenza ("A volte bisogna fare delle concessioni", borbotta. E: "Dovrò sgobbare ancora"), sperimentando in prima persona, nel fallimento di ogni prospettiva ribellistica che non sia una lucida e intransigente auto-emarginazione, lo spazio residuale in cui in via esclusiva essa può produrre, col rischio mai del tutto eluso di uno sforzo a perdere, una trasformazione interiore vera e profonda, vale a dire l'innamoramento, esaltante e doloroso strappo non addomesticabile al tessuto di giorni altrimenti irrimediabilmente perduti, verso il quale, con nonchalance e una punta d'apprensione, mostrare sincera apertura secondo l'estro beffardo di una semplice constatazione: "Non ci resta che innamorarci come dei coglioni. E questa e' la cosa peggiore".
TFK

martedì, settembre 22, 2015

PER AMOR VOSTRO

Per amor vostro
di Giuseppe M Gaudino
con Valeria Golino, Adriano Gianninim Vincenzo Gallo
genere, drammatico, commedia
Italia, 2015
durata, 110'




A volte i numeri contano fino a un certo punto. Se così non fosse, archivieremmo la vittoria conquistata alla settantaduesima edizione del festival di Venezia, dove Valeria Golino è stata insignita con il premio per la migliore interpretazione femminile, come l'ultima di una carriera che proprio in laguna aveva trovato ragion d'essere, grazie al Leone d'oro conquistato nel 1986 per la prova fornita in "Storia d'amore" di Citto Maselli. E invece, al di là dei calcoli e dei ricorsi storici, il ruolo di Anna Ruotolo, interpretato in "Per amor vostro" di Giuseppe Gaudino, appare, per l'importanza dei significati e  le implicazioni delle sfumature, di quelli in grado di fare la differenza anche in presenza di un attrice di tale fama e versatilità. Perché Gaudino, nel raccontare la storia del  personaggio, non si accontenta di mettere in scena il percorso umano ed esistenziale attraverso cui si snoda l'emancipazione della donna, rispetto all'infelicità della propria condizione di moglie e di madre, ma ha il coraggio, alla pari di Anna, che si ribella alla subordinazione a cui la relegano le consuetudini del proprio status, di condensare all'interno di quella vicenda, e quindi, della sua protagonista, un universo di umori e di sensazioni che - possiamo intuire, vista la ricchezza e la provenienza dei riferimenti - appartengono in maniera antropologica e ancestrale alla tradizione più popolare della cultura partenopea, ma non solo. A confermare tale ipotesi, basterebbe, da sola, la cornice musicale che dà l'avvio al film, capace di trasformare in carne e in ossa - quelle della protagonista - le  parole della canzone(melodica) destinata, nel corso del film, a far da contrappunto al transfert emotivo, che permette ad Anna,  di entrare in sintonia - nella bizzarria delle sue manifestazioni - con l'evidenza dell'artificio scenico, drappeggiato da un tourbillon visivo, contaminato da un'eterogeneità di effetti ottici e digitali, richiamati ogni volta, per  sottolineare l'alternanza dei livelli di coscienza in cui si dipano le varie fasi del racconto. E, sempre su questo versante, trovano collocazione, le continue escursioni nei retaggi di una liturgia, reperibile nel bagaglio di credenze, di riti e di superstizioni che appartengono tanto ai personaggi della storia, quanto al patrimonio sociale e culturale della città, e che, nel caso della protagonista, costituiscono invero, la ragione principale delle sue disgrazie. Come dimostrano, dapprima il siparietto in cui Anna, per accontentare l'anziana madre, si presta a baciare la reliquia della santa responsabile di averle fatto trovare il lavoro; e, successivamente, nei flashback riferiti all'iniziazione religiosa ricevuta dalla bambina, in cui l'assoluta devozione all'obbedienza impartitale da quel catechismo, corrisponde in età adultà, al mix di ingenuità e di benevolenza caratteriale con cui Anna accoglie le vicissitudini di chi gli sta davanti.


Ma come dicevamo, "Per amor vostro" non si esaurisce nella semplice rappresentazione di un universo circoscritto, perchè la rivincita di Anna nei confronti del marito violento e manesco, è, da una parte, il risultato dell'affrancamento operato nei confronti del proprio vissuto, dall'altra la conseguenza della messa in discussione di un immaginario universalmente condiviso, e individuato dalla sceneggiatura, nel personaggio di Michele Migliaccio (un Adriano Giannini, davvero bravo), il divo televisivo a cui Anna suggerisce le battute e del quale finisce per innamorarsi. E non a caso, sarà proprio la vacuità del mondo a cui l'attore appartiene, sintetizzato dal ritratto in controluce di  Adriano che, del romanticismo dei suoi personaggi non riesce a trattenere neanche un pezzetto, a fare da volano per una presa di coscienza, che, oltre a determinare le sorti esistenziali di tutti i personaggi, sembra quasi metterci in guardia sul potere di convincimento e di manipolazione  di certe forme di intrattenimento.


Onore quindi alla Golino, e alla capacità di caricarsi con disinvolta leggerezza, il peso e la responsabilità di un tour de force ad alto rischio, che comunque l'attrice riesce a rendere senza cedere alle gigionerie e ai virtuosismi utilizzate dai colleghi americani per rendere la totalità  di un ruolo come quello di Anna.  E, ovviamente, a Giuseppe Gaudino, per la bravura con cui gli fa corrispondere l'estetica di un'architettura visuale ("vedo tutto scuro" dice Anna, quasi a legittimare la scelta di girare quasi per intero in bianco e nero) che riassume le diverse esperienze - teatrali e documentaristiche in primis - di un'artista meritorio di una maggior attenzione e, con molta probabilità, di una migliore conoscenza da parte del recensore incaricato di parlarne. Ed è forse questa la ragione per cui, l'ammirazione nei confronti del melò realizzato dal regista, riesce solo in parte a trasformarsi in un soffio di pura emozione. Una penalizzazione, nei confronti dell'opera in questione, di cui ci assumiamo la piena responsabilità e, che comunque, non impedisce a "Per amor vostro" di guadagnarsi il plauso.
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, settembre 21, 2015

Film Telecomandati: THE PRESTIGE


"The Prestige"/id.
di: C.Nolan
con: H.Jackman, C.Bale, M.Caine, S.Johansson, P.Perabo, D.Bowie, R.Hall.
Drammatico - USA 2006 - 130 min

Salito agli onori delle cronache cinematografiche nel 2000 con "Memento" - il film "a rebours" - Nolan (autore che ha diviso da subito gli appassionati, fin troppo consapevole fino alla "furbizia cinematografica" per taluni, incontestabilmente geniale per altri), esibisce in questo "The prestige", dopo le alterne vicende di "Insomnia" (2002) e "Batman begins" (2005), una narrazione più lineare, riuscendo tuttavia ad approfondire - ancora una volta con l'aiuto del fratello Jonathan in fase di scrittura e basandosi sull'omonimo romanzo di Christopher Priest - quei temi che sin dall'inizio hanno concorso a caratterizzare la sfera d'interessi della sua creatività: i sempre ambigui concetti di "verità" e "finzione", innanzitutto, e le ricadute che hanno su quell'altrettanto grande mistero che e' l'"identità" individuale. La scansione non cronologica del tempo e la possibilità che essa offre di moltiplicare le angolazioni e i punti di vista. Il "sospetto" di una casualità superiore e arcana che si fa beffa dell'agire umano condannandolo allo scacco e all'angoscia. L'inconsistenza venata di menzogna che permea i rapporti umani.

Londra, sgoccioli dell'età Vittoriana: due maghi di talento - Robert Angier (Jackman) e Alfred Borden (Bale), fascinoso e ammaliatore delle folle, il primo; introverso, sfuggente ma estroso, il secondo - si sfidano senza esclusione di colpi alla ricerca del "Prestigio", ovvero dell'illusione perfetta, per la quale arriveranno a mettere in gioco molto più che i propri destini professionali...

La storia del film e' la storia di un ossessione, la più terribile, forse - quale verità più "vera" di un raggiro abilmente confezionato ? - che in quanto tale non ammette intralci e non conosce soste, calpesta le regole condivise (illusioni, in sostanza, solo più "razionali" e compartimentate, osserva Nolan), spazza via gli affetti (specchio quasi sempre infranto dell'illusione più grande, l'amore) e giunge a sfidare la Morte. "Gli uomini vogliono essere ingannati", ripetono a più riprese i due funamboli del trucco, dietro le quinte dei palcoscenici e lungo le strade di paesi e città che sembrano a loro volta fondali posticci di una bugia (l'utopia di una società che nella decisiva transizione a cavallo dei secoli XIX e XX comincia a credere di potersi affidare alle "certezze" della scienza e della tecnica deponendo una volta per tutte le armi della critica) scaltramente congegnata. Solo l'inganno, nascondendo la realtà per ricrearla, può produrre la sospensione del giudizio e con essa le premesse per la meraviglia più fuggevole ma più bramata - la felicita' - a cui tutto si sacrifica e del cui culto il mago sa di essere, al tempo, il sacerdote più esposto e la vittima più misconosciuta. Scostante e geometrico, rigoroso e determinato nel suo pessimismo, anticonvenzionale perché non consolatorio, permeato di un romanticismo cupo ma seducente, ispessito dalla prevalenza delle tonalità scure, l'opera di Nolan funziona laddove s'inceppano molte opere di media/grossa produzione: coniugare le aspettative spettacolari con lo svolgimento di un tema scomodo fino alle sue non rassicuranti conseguenze. Muovendosi lungo direttrici che mano mano si svelano essere altrettanti vicoli ciechi, infatti, il film procede e cresce per brevi blocchi di scene contraddistinte da movimenti larghi e circolari della mdp e da oculate ellissi. Azzeccate e inquietanti le scenografie sempre sul punto di rivelarsi meri sipari dietro cui s'intrecciano artifici infiniti, così come una fotografia densa di penombre capace di moltiplicare la costante atmosfera di enigma della vicenda. Pregevoli ed efficaci nella loro semplicità "artigianale" gli effetti speciali. E se Jackman e Bale si confermano attori convincenti e a proprio agio, ecco che passa quasi inosservata la diva Johansson, in un ruolo poco più che esornativo. Splendidamente sottotono e sardonico, invece, Michael Caine, in una parte solo in apparenza secondaria; mentre David Bowie nei panni dello scienziato precursore Tesla utilizza la sua proverbiale ambiguità per solleticare la curiosità nei confronti di un personaggio di non comune ingegno eppure più che negletto dalla Storia.

TFK
 
In onda questa sera su IRIS alle ore 2100

VIA DALLA PAZZA FOLLA

Via dalla pazza folla
di Thomas Vinterberg
con Carey Mulligan, Matthias Schoenaerts, Michael Sheen
genere, drammatico
Uk, 2015
durata, 119'

 

Il maggior rischio di fare un film in costume, solitamente, risiede nel perdere di vista il confine, per quanto marcato sia, che separa il dramma "letterario" dal meno consistente formato dello sceneggiato televisivo. In tal caso, la cosa più strana è che una premessa del genere introduca il discorso circa il film di un autore come Thomas Vinterberg.

"Via dalla pazza folla", in effetti, lascia spiazzati perché non solo è la conferma che il regista danese abbia ormai dimenticato i postulati fondamentali che componevano il "dogma 95" - lista sottoscritta anche da Von Trier; quest'ultimo, per fortuna, sembra essersi scostato poco dagli intenti dichiarati in data 13/03/1995 - ma che sia andato - per ragioni sconosciute, vista la resa finale - in direzione esattamente opposta all'assioma fissato vent'anni fa. Accade dunque che la melodia della colonna sonora, melensa e pomposa nel tentare un trasporto emotivo, si sostituisca completamente al suono prodotto dalle immagini; che la fluidità di staedycam e carrelli subentrino alla percezione iper-realista della camera a mano; che la pellicola in 35 mm venga abbandonata in favore di un'immagine digitale eccessivamente lavorata in fase di post-produzione - la sovrabbondanza di paesaggi (specie albe e tramonti) per altro non è minimamente bilanciata rispetto all'economia della narrazione -.

Verrebbe quasi da pensare che il film sia una provocazione nell'eseguire all'opposto i dettami del manuale, ma la drammaturgia carente - nonostante sia di un certo interesse la dinamica narrativa  posta come naturale estensione della dinamica interna ai personaggi, facendo un vago cenno al "Le affinità elettive" - rende la visione oltremodo stucchevole (complice il pessimo doppiaggio italiano) e, al momento dei titoli di coda, l'unica cosa che resta da fare è rimpiangere i tempi di "Festen".
Antonio Romagnoli

domenica, settembre 20, 2015

LA FOTO DELLE SETTIMANA

Signori & Signore di Pietro Germi (Italia, 1965)

UN DISASTRO DI RAGAZZA

Un disastro di ragazza
di Judd Apatow
con Amy Shumer,  Bill Hader, Tilda Swinton, Brie Larson 
Usa, 2015
genere, commedia
durata, 125'

 


Being Amy Schumer
Lei è più che mai sulla cresta dell'onda in virtù del successo della serie televisiva "Inside Amy Schumer", di cui è assoluta protagonista, e recentemente, per la scelta di Madonna, di affidarle l'apertura del concerto che darà il via al tour mondiale della cantante. Ultima di una serie di attrici provenienti dalla gavetta televisiva e da programmi di sketch comedy sul tipo di quelli prodotti dalla catena televisiva Comedy Central, Amy, Schumer è una stand up comedian convertita al cinema, che si distingue dalle colleghe per la presenza di una fisicità bordeline (rispetto ai canoni del cinema Hollywoodiano) che, alla pari del linguaggio senza fronzoli e forse di più, contribuisce a scardinare i confini del bello, reinventandoli  secondo una tipologia femminile, in cui le sinuosità del corpo vanno di pari passo con la qualità del quoziente intellettivo. Basti pensare al grado di consapevolezza che l'attrice impone - sua è la sceneggiatura - alla Amy di "Trainwreck", la quale, lungi dal considerarsi alla stregua delle molte damigelle in pericolo, riesce a essere pericolosamente appetibile e allo stesso tempo fortemente caratterizzata dal punto di vista della personalità.

Being Judd Apatow
In questo senso siamo convinti che al regista americano non sia sembrato vero di ritrovarsi tra le mani un personaggio come quello di Amy che, alla maniera di quelli da lui creati per film come "40 anni vergine" e "Molto incinta", non solo non rispecchia le caratteristiche dei modelli dominanti ma si propone con una purezza di spirito e di ruspante veridicità che oltrepassa le categorie di volta in volta attribuite ai protagonisti dei suoi film (il termine bamboccione è stato coniato da una delle sue storie) per diventare l'emblema di una bellezza più umana e genuina. Un'occasione da non sfarsi sfuggire, anche a costo di ritornare sui propri passi e di  attenuare la valenza delle tematiche legate alla morte e alla malattia che si erano fatte strada nella poetica del regista a partire da "Funny People", il film della svolta, sia dal punto di vista dei contenuti - più maturi e meditati- che della forma delle sue commedie, diventate meno ortodosse e contaminate da venature malinconiche e drammatiche. Al contrario di "Trainwreck" che invece si riappropria di quella componente di comicità demenziale che  aveva segnato la prima parte dei suoi lavori.

 Being Traiwreck


Ma il deja vu che "Trainwreck" propone al regista si realizza in modo parziale, perché è solo nel primo segmento di film che la perspicacia compulsiva di Amy e la sua voglia di rimanere libera da responsabilità sentimentali si trasformano in un ciclone di situazioni limite, che sono la conseguenza della parte più maschile del personaggio, quella che le consente di passare da un letto all'altro senza alcun ripensamento ma anzi pretendendo opportunità almeno pari a quelle dei vari partner; come dimostrano gli inserti  in cui Amy amoreggia con il personaggio interpretato da John Cena, non a caso quelli che più da vicino ricordano la comicità dell'Apatow prima maniera. A differenza di quello che segue, perfettamente in linea con i canoni della classica commedia sentimentale e con un protocollo amoroso che spinge la protagonista nelle braccia del suo principe azzurro (Bill Hader) , non prima di aver speso gli ultimi spicci di un'irriverenza oramai acquietata. Certo, avendo a che fare con un film di Apatow tutto è relativo, e anche nella versione più conformista la Schumer è ancora capace di qualche colpo di coda, come quello del balletto in costume da cheerleaders, in cui ancora una volta a risultare vincente è la silhouette extralarge della bella Amy, che si guadagna altri proseliti con un'esibizione fuori dalle righe per simpatia e sensualità. Il clima di festa è poi completato dalle numerose guest stars pronte a prestarsi al gioco,  e che vanno  dala perfida direttrice della rivista in cui lavora Amy, interpretata da Tilda Swinton, alla coppia Marisa Tomei e Daniel Radcliffe, protagonisti di un divertente quanto ironico film nel film, fino ad arrivare al campione di basket Lebron James, spassosamente nella parte di se stesso, a completare un film che davvero non si fa mancare nulla in termini di divertimento.
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, settembre 19, 2015

TUTTE LO VOGLIONO

Tutte lo vogliono
di Alessio Maria Federici
con Enrico Brignano, Vanessa Incontrada, Giulio Berruti
Italia, 2015
genere, commedia
durata, 85'


Viene quasi da apprezzare, a volte, quasi come fosse l’apice di un’eterna condanna, l’ostinarsi da parte di produttori/distributori nostrani nel proporre sempre lo stesso pacchetto – il sempre più inconsistente modello della commediola italiana – allo stesso consumatore. Mentre ci si sofferma ad indagare se il problema stia dall’uno o dall’altro lato, chiedendosi se sia il consumatore a volerlo o il consumatore sia tale in quanto creato dagli stessi mercanti-di-nulla , essendo quest’ultimi impossibilitati a vendere il “niente” in altri modi, nel frattempo “Tutte le vogliono” – già il titolo non lascia ben sperare – arriva in sala accodandosi alla fila dei propri film-sosia.

Nonostante sia da sottolineare la buona e per nulla scontata prova di Vanessa Incontrada, per il resto ci si trova di fronte ad un impianto visto così tante volte da risultare paradossalmente  lisergico e straniante: gli imbarazzanti equivoci narrativi e linguistici, infatti, sono immersi nella solita storia della ricca-di-buona-famiglia che si innamora del povero accattone di turno – un Enrico Brignano che sembra recitare in teatro: l’effetto è quello di ottenere una macchietta di sé stesso -. Nonostante il tema affrontato – ovvero quello dell’anorgasmia – potrebbe essere di per sé sferzante, ogni cosa viene ridotta a macchietta, sia tramite la perenne ricerca dell’equivoco cui facevamo cenno prima, sia tramite la costanza con la quale la regia sembra quasi impegnarsi nel risultare quanto più anonima possibile.

“Tutte lo vogliono”, in definitiva, rappresenta, aggiungendosi ad un’infinita lista di film nostrani che saturano il mercato impedendone – questa sì che è una faccenda comica – una crescita a lungo termine, una sorta di trinità della morte: la morte dell’impianto produttivo – per i motivi sopra spiegati -; la morte dello spettatore – indissolubilmente legato alla fase marcia della produzione -; la morte, che sembrerebbe ormai definitiva,  di una maniera come quella della commedia, che meriterebbe prodotti di ben altra caratura, se non altro per rispettare ciò che questo genere ha rappresentato nel nostro passato cinematografico e soprattutto da chi è stato rappresentato.
Antonio Romagnoli

venerdì, settembre 18, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: WE ARE YOUR FRIENDS

We Are Your Friends
di Max Joseph
con Zach Efron,  Emily Rataikowski Wes Bentley
Usa, 2015
durata, 100'



Da un po’ di tempo al cinema sembra di essere tornati all'alba degli anni novanta. A farcelo dire è la presenza quasi contemporanea di tre film, “Amnesia”, di Barbet Shroeder, appena visto al festival di Locarno, “Eden” di Mia Hansen Love, uscito in Italia sul finire dell’estate e appunto questo “We Are Your Friends”, da oggi sugli schermi nazionali, che, avendo il loro centro di gravità permanente nel mondo della musica elettronica e in quello di chi aspira a diventare un dj di professione, rispolverano miti e sociologie che del periodo in questione hanno rappresentato una sorta di codice d’identificazione per migliori di teen agers. Detto che il film di Schroeder si sposta progressivamente sul terreno della grande storia e di una tragedia come quella della Shoah, caratteristiche comune dei tre film a parte la musica, sono un impianto narrativo da romanzo di formazione e soprattutto attraverso le vicissitudini dei protagonisti, la volontà di mostrare l’universo di riferimento sotto una luce di complessità esistenziale solitamente negata dalla vacuità e dall’edonismo con cui quel mondo viene solitamente raccontato. Declinazioni che il film di Joseph non ignora ma che anzi enfatizza attraverso un epicureismo visivo fatto di corpi perfettamente levigati, messi in scena con una plasticità che rimanda al sesso mordi e fuggi consumato nelle discoteche e nei party modaioli. 


Uno sballo che inizialmente porta il film dalle parti di certo cinema psichedelico più  o meno recente, con le immersioni sensoriali di titoli come  “Paura e disgusto a Las Vegas” e soprattutto “Spring Breakers”, prese a riferimento quando, nella prima parte, si tratta di mostrare  le conseguenze prodotte dall' abuso di alcool e droga. 



E che però, quando a prendere il sopravvento sono istanze di tipo moralista, diventa il pretesto per imbastire una storia edificante che spinge i personaggi verso un percorso di redenzione, addolcito da una serie di buoni propositi che riescono ad avere la meglio su qualsiasi tipo di trasgressione. Con buona pace delle fan di Zach Efron che, nel ruolo del dj in cerca d'amore e di successo riesce a essere maledetto quanto basta per continuare il percorso di sdoganamento dal cinema per ragazzi, a cui, per il momento, rimane ancora iscritto.

giovedì, settembre 17, 2015

SANGUE DEL MIO SANGUE

Sangue del mio sangue
di Marco Bellocchio
con Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Herlitzka, Alba Rorhewacher, Filippo Timi
Italia, Francia, Svizzera, 2015
genere,  drammatico
durata, 107' 


Il paradosso contemporaneo è tenuto in vita dall'illusione patinata che ci sia ancora qualcosa di ciò che è stato, dimentico che quel "qualcosa" cui si fa cenno è costituito per lo più da macerie. Cosa resta da fare, allora: spremere l'illusione-finché-dura o raccogliere mestamente i frantumi e tentare di riordinarli?

Marco Bellocchio, in "Sangue del mio sangue", sembra evidentemente propendere per la seconda opzione, mettendo a confronto due epoche diverse tra loro - i giorni nostri si contrappongono al diciassettesimo secolo dell'inquisizione stregonesca -. Narrazione, quindi, disseminata  di probabili accostamenti tra le due storie che, se sul piano prettamente drammaturgico restano congetture immaginifiche di chi guarda - creando un effetto quasi allucinatorio, anche grazie al lavoro fotografico di Ciprì, che contrappone inquadrature a mo' di dipinti impressionisti nelle sequenze ambientante nel '600 alla luce aperta e vuota della  farsa contemporanea - trovano invece un riscontro per nulla scontato nella fase di elaborazione della visione. Ed è qui che accade una sorta di miracolo, perché il giustapporre due storie all'apparenza opposte tra loro - dramma in costume la prima, commedia odierna la seconda - si rivela invece essere una sovrapposizione di due livelli che nemmeno troppo paradossalmente combaciano tra loro; accade dunque che l'elemento dominante del grottesco contemporaneo sia il naturale prolungamento nevrotico del fallimento dell'umanità e il "progresso" ci viene mostrato per ciò che è: l'illusione del movimento in una stasi millenaria.

Giunti all'epilogo, si ripropone la stessa questione iniziale: cosa resta? Bellocchio, con l'ultimo dei tanti slanci visionari del film, ci lascia con un corpo di donna a camminare leggiadro sui nostri cadaveri.
Antonio Romagnoli

mercoledì, settembre 16, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: AMY

Amy: The Girl Behind the Scene
di Asif Kapedia
UK, 2015
genere, documentario
durata, 128'



La grandezza di un personaggio la si potrebbe misurare, tra le altre cose,  dalla qualità dell'opera che si assume il compito di raccontarlo. In questo caso stiamo  parlando di Amy Winehouse e di "Amy The Girl Behind the Name" di Asif Kapadia, e cioè della protagonista del film in questione e del suo regista, uniti, almeno per quanto abbiamo avuto modo di vedere in  questo film, da un talento che fa sembrare tutto facile. Perché se è vero che il tema della storia si promuove da solo, e che “Amy” dal punto di vista narrativo si “limita” ad allineare in modo cronologico i tasselli della parabola umana e artistica della diva inglese, è altrettanto certo che le sensazioni di confidenza e famigliarità con cui lo spettatore si ritrova a seguire l’excursus esistenziale non sono solo il risultato dell’empatia con cui la protagonista si rivolge all’occhio del mezzo che la riprende (molte immagini sono rubate a filmati privati, realizzati con mezzi di “fortuna”) e dell’emozione che scaturisce dalla visione sul grande schermo delle sue inimitabili performance canore. Perché “Amy” è tale, anche in virtù di una forma cinematografica che non sembra il risultato di un’elaborazione a lungo pensata, (dal regista e dal team di sempre, formato dal montatore Chris King e dal produttore James Gay-Rees) e che può contare sul rapporto di fiducia che Kapadia è riuscito a stabilire con le persone (le amiche del cuore, il primo produttore e persino la guardia del corpo) che furono più vicine alla cantante e che, conquistate dalle intenzione del regista, hanno deciso, per la prima volta, di esternare una versione dei fatti inedita e struggente. E ancora di più, per il fatto di fornire un resoconto che assume le sembianze di una confessione a cuore aperto, con la Winehouse perennemente in empatia con la dimensione più intima dello spettatore. 



L’apparente mancanza di filtro, conseguente all’assenza di una voce narrante e alla sovrapposizione tra immagini e parole, e quindi senza la presenza delle classiche interviste, produce un’immediatezza pregnante di significati. A far scattare l’applauso invece, ci pensa la musica, declinata nelle molteplici circostanze in cui la cantante ebbe modo di esibirsi; durante i concerti e nelle registrazioni in studio, ma soprattutto nei momenti privati, quelli che maggiormente sono in grado di mostrare la naturalezza della sua arte. Alla fine le ragioni della fine, peraltro documentate da  sequenze piuttosto esplicite, cedono il passo al sentimemto. Si vorrebbe trattenerla, Amy; magari aiutandola a colmare quel senso di vuoto che la spinse verso il basso. Tra le mani, purtroppo o per fortuna, ci rimane questo splendido film

martedì, settembre 15, 2015

NON ESSERE CATTIVO

Non essere cattivo
di Claudio Caligari.
con: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Roberta Mattei, Silvia D'Amico
Italia, 2015
genere, drammatico
durata,100'




"Nun te piacerebbe annattene da 'sta mmerda ?".
"E pe' anna' dove ?".
"Già, dove".
- da "Non essere cattivo" -



"Per trent'anni m'e' stato impedito di girare, nel silenzio generale. Una cosa incredibile. Evidentemente do fastidio. Non solo a livello produttivo ma anche agli altri registi, agli altri autori". A quasi quattro lustri dall'ultima prova dietro la mdp e a qualche mese dalla scomparsa, torna al cospetto dei nostri occhi un'opera di Claudio Caligari, regista la cui traiettoria cinematografica somiglia più ad una via crucis silenziosa e negletta che ad un più routinario susseguirsi di alti e bassi professionali.

Entro una forzata continuità, allora, gli stessi itinerari già segnati dei miserabili cabotaggi di Cesare/Marinelli e Vittorio/Borghi (entrambi assai convincenti), nel niente-di-niente con vista sul mare di Ostia, costola storta della Città Eterna, a meta' anni '90, riecheggiano da subito, e a tratti, tanto gli sbattimenti stralunati dei disperati di "Amore tossico", (1983), quanto le esplosioni di furia frenetica dei balordi de "L'odore della notte", (1998), a formare una sorta di trilogia ideale - e purtroppo definitiva - in cui, ormai, le reazioni psicologiche ad una realtà diventata coi decenni sempre più incomprensibile e, a pelle, malevola, si sono vieppiù incarognite; gli sbocchi possibili si sono cristallizzati in finte scelte umilianti o deprimenti; la capacita' e la voglia d'interrogarsi e di mettere insieme risposte, s'è quasi del tutto chiusa in un mutismo disilluso e rabbioso o s'è tradotta in un'agitazione senza domani.


Proprio questa lucidità scabra e sofferta (frutto d'un esperienza diretta e continuativa con gli argomenti trattati) va evidenziata in primis in un lavoro come "Non essere cattivo", all'interno del quale le figure di Cesare e Vittorio (e quelle del piccolo giro che ruota loro attorno) - ragazzi stremati più che emarginati da un Sistema che, ricordiamolo di sfuggita, include solo a partire da un certo livello di consumi; malamente dediti al crimine, in particolare allo spaccio (inefficiente anch'esso, peraltro, in quanto spesso diluito nell'assunzione personale), alle truffe minime, appena un gradino sopra il gioco delle tre carte - si stagliano per ulteriore sottrazione su uno sfondo inesistente (il lavoro, la comunità, le aspirazioni individuali), corroso da decenni di sorti e progressive al tempo arrembanti e cieche nel limitarsi a disporre in senso meramente predatorio delle opportunità create dall'interazione delle attività umane con il potenziale Tecn(olog)ico e a cui e' preclusa pressoché ogni via di fuga o finanche di presa d'atto (il mare, spazio aperto e proiezione di uno slancio al cambiamento per antonomasia, risulta assente o teatro muto e freddo di pietosi traffici) che non siano istanti non schivabili di un dolore indistruttibile (una ragazzina prosciugata da un AIDS ereditato) o la feroce epifania di essere quasi tutto l'uno per l'altro (addirittura struggente l'abbraccio-per-non-arrendersi a cui Vittorio costringe Cesare, manco a dirlo scimmiato).

Inoltre, particolare non di poco conto, il gesto estremo di Caligari, teso e desolato, si caratterizza pure - con una sua triste armonia, si potrebbe dire - per la presenza a fianco di un solido impianto materico, di strappi, di accelerazioni iperrealiste nelle forme, per dire, di certi colori accesi ed espansi che animano notti illusoriamente senza fine; di certi squarci di architetture/macerie parassitarie ai limiti dell'allucinazione e del grottesco (Caligari: "Qui l'ambiente e' ostile, non e' favorevole all'uomo e ai miei protagonisti. Non e' creato a loro misura, ma a vantaggio di altre persone"); di certi sguardi difficile dire se più increduli o terrorizzati di fronte ad un'evidenza al punto irriducibile nella sua crudezza da sterilizzare qualunque paradiso artificiale: e, per contro, di certe tenerezze schive, certe ingenuità inusuali, ad evocare grumi di una qual involontaria purezza. Anche per la coesistenza e la concordanza di tanti e tali aspetti, così, appare pretestuoso - o quanto meno poco plausibile - l'eventuale accostamento delle vicende ad un contesto proletario secondo le direttrici storiche, sociologiche e genericamente intellettuali consegnateci dalla tradizione. I due protagonisti, infatti, non rappresentano ne' il-borghese-che-non-e'-riuscito di celiniana memoria, ne' lo scrigno più o meno intatto di valori arcaici contrario alla massificazione ottundente degli oggetti e all'omologazione dei comportamenti caro - al netto di successive e più severe rivisitazioni - a Pasolini. 

Cesare e Vittorio, in altre parole, sono solo due persone alla deriva in un mondo che quotidianamente fa a meno di loro (consumatori sporadici e/o modici, per di più' asserviti ad un regime di dipendenza chimica di moltiplicata pervasività e distruttivita' operante su scale temporali talmente ridotte da farne utenti poco o punto affidabili), tarato com'è su criteri d'interpretazione (e di sopravvivenza) - il denaro, per primo, e ciò che il denaro può acquistare, oggi come oggi, quasi tutto - i quali non prevedono istanze di riscatto praticabili in quanto di fondo irrilevanti, se non dannose, al consolidamento del fine primario. Aggiunge ancora Caligari: "Dopo l'invasione nelle borgate della droga pesante, arrivano le nuove droghe sintetiche. La causa della fine dei valori pasoliniani e' proprio nel cambio del tipo di droga".

Del resto, la necessita' di superare caratterizzazioni che allo stato attuale dei fatti risulterebbero, come minimo, approssimative, emerge fin dal titolo, beffardo, immune da qualunque risvolto pedagogico/moralistico, persino rivoluzionario, per altri: un sommesso, umanissimo invito a ricominciare daccapo, qui e ora, da noi stessi, per rigettare davvero ciò che siamo, ciò che vogliamo.
TFK