lunedì, luglio 31, 2023

BARBIE

Barbie

di Greta Gerwig

con Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera

USA, UK, 2023

genere: commedia, fantastico, avventura

durata: 114’

È il fenomeno del momento. Il titolo che ha riportato in sala un enorme numero di persone (tutte rigorosamente vestite di rosa per l’occasione). È il film, il personaggio e la regista del nuovo record. È Barbie!

C’è chi lo ha definito nuova icona del femminismo, chi il film del secolo destinato a inserirsi tra i grandi cult. Indubbiamente è un film che ha fatto parlare di sé e continua a farlo e, già solo per questo, riesce nell’intento di attirare e incuriosire.

Parlare, però, del fenomeno Barbie, partorito dalle menti di Greta Gerwig (e Noah Baumbach) non è così semplice come si possa pensare. Il film, indubbiamente ben costruito sotto tutti (o quasi) i punti di vista, è pieno di spunti e riflessioni. Dagli ambienti ai colori passando naturalmente per i numerosi personaggi e temi che vengono sviluppati.

La storia è semplice: Barbie non è più Barbie.

La “versione” di Barbie protagonista (quella interpretata da Margot Robbie) è Barbie stereotipo, vive a Barbieland, circondata da tantissime altre versioni di Barbie e altrettanti Ken (oltre a un Alan). Un giorno, però, all’improvviso tutto cambia e la protagonista comincia ad avere pensieri di morte che si sommano a eventi unici come il non riuscire più a compiere azioni naturali per una Barbie: tenere il piede come se dovesse indossare sempre tacchi, scendere di casa “fluttuando” nell’aria e così via. Ecco che si trova costretta a rivolgersi a Barbie stramba che le spiega che si è aperto un varco di collegamento tra Barbieland e il mondo reale e l’unico modo per chiuderlo è andare sulla terra e trovare la proprietaria della “bambola” bionda. Barbie parte, quindi, insieme al fidato (e divertentissimo) Ken alla volta del mondo reale dove scoprirà che tutto è al “contrario” di come dovrebbe essere.

E il film diretto da Greta Gerwig gioca proprio su questo “contrario”, facendo ricorso a esagerazioni e prese in giro per ironizzare sulla netta ed evidente contrapposizione dei due mondi e soprattutto dei ruoli delle persone all’interno di questi due mondi.

Spalleggiata da un ottimo Ken, sia grazie alla costruzione del personaggio, sia all’interpretazione di un Ryan Gosling in forma smagliante, Barbie riesce a capire come agire per ristabilire l’ordine a Barbieland, sperando, in questo modo, di ristabilirlo anche sulla terra.

Se la prima parte del film funziona e diverte il pubblico, mostrando le varianti di Barbie e giocando sugli stereotipi che la “bambola” bionda ha trasmesso di generazione in generazione, a non convincere del tutto è la seconda parte, fin troppo didascalica.

Il lungo monologo di America Ferrera sul ruolo delle donne poteva essere sufficiente per dare la giusta sterzata a un film che come scopo principale ha quello di divertire e intrattenere. La necessità di fornire spiegazioni e cercare di dare un finale come quello che il film della Gerwig ha sono probabilmente gli elementi che fanno storcere il naso ai detrattori di “Barbie”. Un film come questo, ben congegnato e studiato, attento a tutti i particolari, da quelli più banali (ma che richiamano l’immaginario collettivo) a quelli che diventano essenziali per lo sviluppo della storia (la scelta tra le scarpe con il tacco e le ciabatte, tanto per citarne uno), risulta, in conclusione, una grande astronave di nozioni che “deve” piacere al grande pubblico.

Da sempre portatrice di donne di spessore sullo schermo, Greta Gerwig ha dimostrato, nel corso della sua carriera, di non lasciare niente al caso, come dimostrano gli astuti dialoghi e le pungenti battute che ha fatto pronunciare ai suoi personaggi più riusciti, da “Lady Bird” a “Frances Ha”, da “Piccole Donne” a “Barbie”. Ma se nei primi titoli il film erano le parole l’emblema del personaggio e della storia, qui avviene il contrario. Per andare incontro alle esigenze del grande pubblico la Gerwig punta più sui dettagli, sulla messa in scena, su questo onnipresente rosa, inserendo momenti che attraggono, come le musiche e i balli, gli accessori di Barbie, i richiami all’infanzia di chiunque. Tutto talmente accurato che probabilmente non basta una visione per ricordare tutto.

Una scelta precisa quella della regista che è molto abile e attenta a mescolare realtà e finzione, ma anche il cinema stesso con numerosi richiami, riferimenti e citazioni (a partire dalla prima iconica sequenza), invitando lo spettatore a trovare tutti i famigerati “easter eggs” nascosti all’interno.

Alla fine, quindi, è la realtà o la finzione ad avere la meglio? Quel che è certo è che il vero vincitore di questa storia è il “just Ken” di un Gosling che dà vita a una delle performance più divertenti e, al tempo stesso, convincenti della sua carriera. Impossibile non canticchiare la canzone che lo relega sempre al secondo posto.


Veronica Ranocchi

mercoledì, luglio 19, 2023

RAPITO: INTERVISTA A BARBARA RONCHI

Vincitrice del David di Donatello 2023 come migliore attrice protagonista con Settembre Barbara Ronchi bissa il risultato con il Nastro d’Argento vinto per il ruolo di Marianna Mortara in Rapito. Partendo dal lavoro di Rapito con Marco Bellocchio la conversazione con Barbara Ronchi è stata l’occasione per esplorare il suo universo d’attrice.

Barbara Ronchi sarà madrina del Pigneto Film Festival che a partire dal 18 fino al 24 giugno accoglierà gli appassionati in cinque diverse location del quartiere del Pigneto di Roma.

Da una parte la vittoria del David di Donatello, dall’altra l’opportunità di dimostrare un eclettismo che ti permette di essere credibile in due film così diversi tra loro come Settembre e Rapito.

Innanzitutto ti ringrazio. È stato bello nello stesso anno poter interpretare il ruolo di Francesca nell’opera prima di Giulia Steigerwalt e il ruolo di Marianna in Rapito di Marco Bellocchio. Non c’era niente di programmato, ma questi due ruoli così agli antipodi in due film così importanti sicuramente raccontano tanto di quello che mi piacerebbe fare come attrice: riuscire a spaziare dai toni della commedia a quelli del dramma, se si riesce a farlo nello stesso film sono ancora più felice.

Ciò detto la vittoria del David di Donatello e l’uscita del film di Marco Bellocchio certificano un talento capace di esprimersi con toni e in generi diversi.

Diciamo che mi piace mettermi al servizio di una storia e dunque del regista con cui sto girando. Il mio tono cambia anche a seconda di chi mi dirige. Penso sia molto bello per un attore avere la possibilità di portare sullo schermo una versione sempre differente di sé.

Come in Fai bei sogni anche Rapito ti vede ancora una volta nel ruolo di madre con un personaggio di segno opposto rispetto al film del 2016. Se allora era stato il tuo personaggio a venir meno, in qualche modo, al rapporto con il figlio, in Rapito succede l’esatto contrario.

In Fai bei sogni ero una madre che viveva nei ricordi del bambino. Ero una ragazza, leggera, divertente di cui il figlio ogni tanto intravedeva momenti di tristezza. In generale quel personaggio rimandava a un momento molto leggero e felice della sua vita quindi la sua era una figura anche idealizzata. Al contrario in Rapito la madre è assolutamente terrena. Marianna Mortara vive in prima persona tutto quello che le sta capitando. La tragedia della sua famiglia l’assume completamente su di sé, diventando una madre ferina, arrabbiata per il fatto di averle tolto la cosa più importante della sua vita. Di fronte a un destino tanto iniquo lei risponde con altrettanta dignità. Incontrare Marco in due momenti così diversi della mia vita è stato molto importante come attrice. All’epoca di Fai bei sogni ero una ragazza appena uscita dall’Accademia che ha avuto la fortuna di intraprendere un’educazione sentimentale al cinema con un grande maestro come lui. Incontrarlo oggi, significa farlo con un altro tipo di maturità artistica e umana, quella più adatta a interpretare il ruolo di Marianna.

Bellocchio è uno di quei registi a cui il passare del tempo non toglie la voglia di sperimentare, tant’è che oggi il suo cinema è una perfetta sintesi tra colto e popolare. Come lo hai ritrovato ad anni di distanza dalla tua prima volta?

Il Marco Bellocchio che ho conosciuto io è un regista che ama così tanto gli attori da dirti le cose all’orecchio perché non vuole farti perdere la concentrazione con le sue indicazioni. Prima ci sono gli attori, poi tutto il resto. Lui sa che siamo anime fragili e che stiamo forzando il nostro cuore. In questo la sua attenzione verso gli attori non è mai cambiata, anzi è aumentata.

L’ultimo cinema di Bellocchio predilige attori di provenienza teatrale, nella ricerca di una presenza scenica che sia evocativa anche dal punto di vista delle interpretazioni. Ne avevo già parlato con Fausto Russo Alesi per cui mi interessa sapere anche la tua idea.

Bellocchio dà molta importanza alla parola oltre che all’immagine: anche al tempo che uno si prende per immagazzinarla, per dirla a qualcuno. Mi ha molto colpito quando, durante il tour di presentazione di Rapito, ha detto che lavorare con persone con cui aveva già collaborato l’ha fatto sentire al sicuro. Per lui era come se fossimo una compagnia teatrale, ovvero una comunità di persone che aveva lo stesso codice. Io, per esempio, la prima volta che ho recitato con Fausto Russo Alesi ho avuto l’impressione che lo avessi fatto da non so quante tournée. Avevamo lo stesso modo di rapportarci al testo, molte esperienze in comune. È stato lo stesso anche per l’ascolto che avevamo l’uno per l’altro. Guardando Rapito sembra che abbiamo girato tutti insieme mentre in realtà tanti di noi non si sono mai incontrati. Nonostante questo la cifra del film rimane la stessa. Marco lavora con gli attori in maniera delicata, ma tale da farci arrivare sul set ognuno con una proposta ben precisa. La magia è stata di accordarla con quella degli altri e grazie ai suoi occhi siamo riusciti a leggere il film nello stesso modo.

Guardando Rapito – ma lo stesso vale per Settembre – si capisce come sia stato importante l’ascolto reciproco tra te e i tuoi partner. Quanto conta avere accanto colleghi bravi e generosi come Russo Alesi e Thony?

Per me recitare è qualcosa che si fa insieme. È impossibile farlo da soli. È sempre un rapporto che si va formando. L’attore migliore con cui posso recitare è quello che ascolta, che pensa più al compagno di scena che a se stesso. Solo così si può generare una risposta sincera a una domanda sincera. Quando Thony si rivolgeva a me era come se volesse trapassarmi alla ricerca ogni volta di qualcosa di più autentico. Fin da subito tra di noi c’è stata l’intesa di chiederci qualcosa che andava oltre le parole e questo lo percepisci solo se ti metti davvero in ascolto di quello che l’altro vuole da te. È come giocare con persone che conosci benissimo anche se è la prima volta che le incontri.

Sia in Settembre che in Rapito costruisci le tue performance anche come un incontro di corpi. Per arrivare a tanta intimità c’è bisogno di raggiungere una grande confidenza con i tuoi partner. Succede in Settembre ma anche in Rapito, dove gli sguardi tra te e Fausto hanno a che fare con una realtà altrettanta materica e carnale.

Io parto sempre da domande piuttosto semplici, chiedendomi cosa sta succedendo al mio personaggio e qual è il cambiamento che sta avvenendo dentro di lui. Per quanto riguarda Settembre il motore della storia di Francesca è la scoperta di essersi innamorata. Per lei quello è più importante della malattia e dei problemi con il marito, per cui ho cercato di togliere tutto rimanendo concentrata sulla questione amorosa. Da lì mi sono chiesta che tipo di trasformazioni anche fisiche queste cosa poteva avere su di me. Perché poi, quando ti innamori, ti succede qualcosa. Hai anche la paura di essere respinta, però al tempo stesso ti godi tutto quello che di meraviglioso ti sta accadendo. Anche se lo provi solo quel sentimento, anche se non sei ricambiata, perché la sensazione di essere innamorata di qualcuno ti accende. Poi trovare una partner come Thony, in totale ascolto, è stato fondamentale. Tra noi c’è stato uno scambio reciproco tale da far crescere all’unisono il nostro innamoramento. Volevamo cercare di essere il più possibile oneste e questo penso si sia visto sullo schermo.

Nel caso di Rapito invece ho dovuto forzare un po’ il mio cuore. È stato più che altro un lavoro di immaginazione non volendo neanche per un attimo mettermi nella condizione di una madre a cui portano via il figlio. Io ne ho uno che ha quasi la stessa età di Edgardo e non volevo per nessuna ragione rifarmi al mio lato privato e personale. Quindi ho fatto anche un lavoro di distanza da quello stato d’animo. Ho pensato a cosa ti rimane quando come madre ti tolgono la cosa più importante giungendo alla conclusione che a Marianna rimaneva la dignità della propria fede e della propria storia. Anche di fronte ai propri carcerieri. Anche fingendo che quella non fosse la cosa più importante. Non so, ho cercato di fare un lavoro al contrario.

Dunque davanti alla mdp si arriva a un certo punto in cui ci si lascia andare. Quanto è difficile riprendersi la proprio vita una volta terminato il film? Attori come Daniel Day Lewis facevano grande fatica a uscire dal personaggio. Per te come funziona?

Guarda, ti racconto questa cosa molto strana. Prima di girare le scene di Rapito mi mettevo da una parte e piangevo tutte le mie lacrime. Volevo evitare di piangere in scena, davanti alle persone che mi avevano portato via mio figlio. Non volevo che vedessero la mia debolezza. Quando poi mi sono rivista sullo schermo ho visto lacrime che non ricordavo di aver versato. Per me erano acqua, scendevano da sole. So di aver fatto tanta resistenza, ma evidentemente il mio corpo e la mia testa andavano da sole. Era come se fossi da un’altra parte.

Per quanto riguarda l’immedesimazione, cerco di staccare appena posso. Noi attori siamo veramente degli atleti dell’anima, quindi per non rischiare di non avere una vita piena e felice cerco di prendere subito le distanze dal mio lavoro. Per me tutto finisce sul set e tutto ricomincia da lì.

Nel corso della storia appari consunta dal dolore. Essendo vestita di tutto punto, la condizione fisica del tuo personaggio emerge dalla tensione del suo viso, ma anche dagli occhi, in cui, come nel cinema muto, senza proferire parola, fai convergere tutte le tue energie.

Penso che a un certo punto il mio personaggio non abbia più parole. Usa solo quelle necessarie, come se non potesse sprecare energie, considerando che lei ha già capito tutto. Sa che il suo bambino non tornerà mai più a casa mentre Edgardo non capisce quello che gli sta succedendo, sta pensando solo a sopravvivere. Il padre è convinto che ci possa essere una via legale, che i tempi siano maturi perché il bambino gli venga restituito. Marianna sa che non è così e i suoi occhi lo raccontano. Sembra che si stia spegnendo, se non ci fosse il colpo di grazia di Bellocchio, che a un certo punto li fa riaccendere per raccontarti anche di una donna che non vuole perdere la memoria di se stessa.

Nel film il tema della conversione perde fin da subito i suoi connotati metafisici diventando la messa in scena di un’oppressione materiale.

Sì, perché quello che succede è assolutamente reale. Non siamo in un’altra dimensione ma nell’Italia del 1858 in un momento storico in cui esisteva ancora la figura del Papa Re. Oggi sembra incredibile ma allora c’era un Papa che aveva gli stessi poteri di un Re. C’era uno Stato Pontificio di cui la città di Bologna faceva parte. In quel contesto di leggi fatte dagli uomini per gli uomini anche il Papa vi rimane ingabbiato, confessando di non poter tornare più indietro “perché la legge è questa”. Tutti i personaggi finiscono intrappolati in questa regola di fede che si sono dati. Il titolo iniziale era La Conversione. Poi Bellocchio ha pensato che fosse un titolo troppo dolce, come se il bambino avesse potuto decidere in maniera spontanea di scegliere un’altra fede. Rapito ci ricorda che a monte della vicenda c’è una costrizione.

Nel film la conversione ha conseguenze psicanalitiche, rappresentando inconsciamente una reiterazione del male subito. Non a caso Edgardo tenterà fino all’ultimo di convertire la madre, abdicando al rispetto delle coscienze altrui. Peraltro sappiamo che istituzionalizzò la sua predisposizione diventando anch’egli un missionario.

Ovviamente la conversione di Edgardo è la parte più misteriosa di tutto il film. Perché nel momento in cui l’Italia viene liberata con la celebre entrata a Porta Pia non decide di tornare a casa, preferendo di rimanere fedele al Papa? La sua, comunque, non sarà mai una vita facile. Sappiamo che soffrirà di episodi di nevrastenia, e la sua conversione avrà anche dei momenti controversi, raccontati dallo stesso Edgardo nella sua biografia, come quando dice che si lanciò verso il Papa facendolo cadere. Non sapremo mai se era un impeto d’amore o un atto di resistenza.

Edgardo cercò davvero di convertire sua madre: non in punto di morte ma in altri momenti della sua vita. Lo fece sempre a fin di bene perché non voleva perderla, volendola ritrovare nel paradiso cristiano. Divenne missionario, poi negli ultimi anni si ritirò a una vita di clausura. Ciò che successe nella sua testa non lo sapremo mai. È come se non volesse dispiacere nessuno, né il Papa né la sua mamma, e nella scena bellissima del crocifisso è come se, liberando il Cristo, volesse far fare la pace ai cattolici e agli ebrei.

Nel cinema di Marco Bellocchio il rapporto tra madre e figlio è alla base di molte delle sue storie. Qui l’importanza del tuo ruolo è fondamentale, tanto per la narrazione dei fatti, quanto per quello dei significati. Nello specifico la relazione tra Marianna ed Edgardo diventa anche la rappresentazione della lotta interiore tra uomo e fede. Marianna è colei a cui il destino affida la continuità del dogma. È lei che si preoccupa di trasmetterlo al figlio.

La continuità del dogma e della propria storia. I Mortara erano ebrei ma non ortodossi, la preghiera la raccontiamo come un momento privato tra Edgardo e Marianna, sono le favole della buonanotte, il rituale che rimane nella mente del ragazzo come l’ultimo ricordo di sua madre. E quando lei capisce che il figlio sta abbracciando un’altra religione, per lei è come se avesse scelto di vivere con un’altra mamma. So che si potrebbe parlare all’infinito del discorso della fede, ma quello che mi interessava raccontare era l’aspetto privato della vicenda, se il figlio avesse continuato a recitare le loro preghiere avrebbe conservato anche la memoria di lei.

Tra l’altro il tuo ruolo prevede una trasformazione radicale e inaspettata con la quale sei chiamata a recitare anche in relazione al diverso rapporto che il tuo personaggio ha con lo spazio. In mezzo alla ridda di persone sopraggiunte alla tragedia ti perdiamo di vista. Sottomessa alla realtà degli uomini, Marianna all’inizio è quasi una testimone dei fatti. Questo fino a quando è chiamata in causa in prima persona dal rapimento di Edgardo. Da quel momento la sua collocazione all’interno del quadro è centrale. Il viso – in primo piano – non più reclinato e timoroso, diventa sempre più incalzante negli sguardi pieni di rabbia e di dolore. Quello che ingaggi con il personaggio di Fausto Russo Alesi, subito prima di uscire di casa, è esplicativo della mutata condizione di Marianna.

È chiaro che questa è una storia di uomini. Lo è nella contrapposizione dei personaggi così come nella composizione del tribunale che dovrà decidere le sorti di Edgardo. L’unico momento che lei ha per dire le cose al marito è dentro casa. Lì Marianna può essere quella che è, senza aver paura di niente e nessuno. Se avesse potuto, probabilmente quel bambino lo avrebbe rapito. Ho sempre pensato che quando il fratello di Edgardo entra in casa per sottrarre il bambino lei sapesse tutto. Stiamo parlando di una società patriarcale, con delle regole da rispettare. L’unico a cui lei poteva parlare e dire ciò che sentiva era il marito.

La trasformazione del tuo personaggio passa attraverso due scene altrettanto drammatiche. Nella prima, collocata all’interno della casa di famiglia, la vediamo inizialmente con la testa appoggiata sul tavolo in posizione di riposo. Poi di colpo in piedi, davanti al marito, posseduta da un dolore che la trasforma in una femmina folle. Trasfigurata dalla sofferenza la tua faccia si deforma al punto tale da farti diventare una sorta di Erinni. Questo per dire di quanto la tua performance sia stata difficile dal punto di vista fisico e psicologico.

In alcune scene mi sembrava che Marianna si muovesse come un animale ferito che cerca in tutti i modi di difendersi per non soccombere, anche con le ultime forze che ha, anche se sa che la sua lotta è disperata. Cercavo di ascoltare quello che mi accadeva intorno. Di rispondere a tutte le sollecitazioni, di seguire le indicazioni di Marco, di essere il più dignitosa e discreta possibile in quel dolore insopportabile.

Una delle scene più belle e toccanti è l’incontro tra Marianna ed Edgardo. Essa riassume come meglio non si potrebbe il conflitto tra il tuo ruolo di madre e di credente, tra il sentimento e la ragion di stato. Tutto questo è palesato dalla presenza del precettore cattolico, in qualche modo chiamato a far sì che l’emotività del ricongiungimento familiare si mantenga all’interno di un’ortodossia solo per un istante messa in crisi dallo straziante ricongiungimento tra madre e figlio.

In quella scena ho pensato che la sua paura più grande fosse che il figlio l’avesse dimenticata. Quindi in quel momento c’è il pudore di una donna che si avvicina a un figlio che ha partorito e accudito e amato con tutte le sue forze. Mettendosi nella posizione di essere dimenticata Marianna ci si avvicina piano perché ha troppa paura che il bambino la mandi via. Poi, quando capisce che Edgardo la pensa e che vuole tornare da lei e dai suoi fratelli diventa una leonessa. Non vorrebbe più uscire da quella stanza; non vorrebbe più staccarsi dal bambino. È stato un momento molto toccante anche per noi.

Voi la recitate come fosse un pezzo rubato alle vostre vite.

Scene come quella accadono magicamente. Enea nonostante i suoi sette anni aveva capito che con il padre doveva essere così distante e tranquillo. Invece con me sapeva che si poteva lasciare andare. Quella è stata la stessa scena che io e lui abbiamo fatto anche al provino, quando ancora dovevamo essere scelti. Fu un momento incredibile vedere come questo bambino riusciva a guardarmi negli occhi e a rispondermi con tanta sincerità, lasciandosi andare nella maniera in cui avete visto.

Nella ricostruzione d’epoca Marco Bellocchio attinge tra le altre cose da una serie di fonti pittoriche di cui il regista si serve per ricostruire l’Italia ottocentesca. Volevo chiederti se in fase di ricerca hai utilizzato materiali provenienti dalla cultura visiva?

L’unica immagine che rimane è quella di Marianna Mortara ormai anziana, seduta in mezzo ai due figli. Riccardo vi figura in abiti civili, Edgardo con l’abito talare. La testa della donna è dritta mentre la stortura del corpo dà l’idea che quello fosse il segno del tentativo di tenere insieme due figli così diversi tra loro.

Da una parte Rapito racconta un mondo che non esiste più, dall’altra la storia di Edgardo Mortara ci presenta una società in preda a una follia collettiva molto simile a quella di oggi. Come succede nel conflitto ucraino.

Al termine di una proiezione mi si è avvicinata una signora proveniente dall’Ucraina dicendomi che la storia di Edgardo gli ha ricordato quella di tanti bambini del suo paese rimasti orfani e deportati in Russia. Giusto per confermare la tua domanda.

Prossimamente sarai la madrina del Festival del Pigneto. Ne vogliamo parlare?

Sostenere Festival come quello di Pigneto mi faceva molto piacere. Iniziative simili hanno la grande responsabilità di riportare la gente al cinema: in questo caso un intero quartiere. Roma ne è piena e ognuno fa storia a sé. Le arene estive e i piccoli festival servono a dare respiro alla città e al cinema in generale.

Ti volevo chiedere il titolo di un film che ti è particolarmente piaciuto?

Dopo avere visto Close di Lukas Dhont ho faticato a dormire per più giorni. Mi ha molto colpito, così come lo aveva fatto Girl, film precedente dello stesso autore. Questo però è ancora più bello.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su Taxidrivers.it)

martedì, luglio 18, 2023

L'ESTATE PIU' CALDA

L’estate più calda

di Matteo Pilati

con Gianmarco Saurino, Nino Frassica, Stefania Sandrelli

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 96’

Il classico film per l’estate con lo scopo di divertire, “rinfrescare” e, perché no, dare spazio a determinati interpreti con ruoli, in parte, “inediti” o comunque diversi rispetto a quelli ai quali ci hanno abituato. Questo, in breve, il riassunto de “L’estate più calda”, diretto da Matteo Pilati, disponibile su Prime Video.

Protagonista un Gianmarco Saurino in veste nuova, quella del diacono don Nicola, che arriva improvvisamente a Ragusa, nella parrocchia di un quartiere nel quale sono molto attive Lucia e Valentina, amiche da sempre. Quella che le due stanno per vivere è l’ultima estate insieme, spensierate nel loro paesino dal momento che Lucia andrà poi a Roma per studiare all’università insieme al fidanzato Omar.

Ma proprio quella che doveva essere un’estate come tutte le altre, solo un po’ più speciale e unica è, però, scossa, appunto, dall’arrivo del bel don Nicola del quale Valentina è particolarmente affascinata.

Per conquistarlo chiede aiuto all’amica che cerca di fare il possibile, salvo poi essere “catturata”, anche lei, dal fascino del bel giovane. Il risultato è quello che si può facilmente immaginare, anche se le scelte e le svolte conferite dal regista fanno sì che “L’estate più calda” non sia considerato il classico film estivo a tutti gli effetti. Sicuramente una commedia che utilizza i cliché e gli stereotipi del genere, ma dai quali, in alcuni momenti, se ne discosta anche per cercare di differenziarsi.

Una scelta non unanimemente condivisa quella del finale, ma che, senza fare spoiler, fa riflettere non solo i personaggi, ma anche lo spettatore.

Buona e convincente la prova di Saurino che, spalleggiato dalle due giovani esordienti Nicole Damiani (Lucia) e Alice Angelica (Valentina), alle quali in realtà è lui a fare da spalla, trasmette dubbi e incertezze che sono alla base della fase che sta vivendo il suo personaggio.

Menzione speciale ovviamente per la perpetua (e combinaguai) del paese, interpretata da Stefania Sandrelli, ma soprattutto per il parroco del paese, don Carlo, al quale presta volto e simpatia un perfetto Nino Frassica, adattissimo al ruolo e pungente come solo lui sa essere, portando la propria personalità all’interno di un personaggio che, seppure secondario e più marginale, è in grado di conquistare tutti.

Una sorta di mentore e aiuto, anche attraverso l’ironia e il divertimento, per un don Nicola alle prese con tanti, troppi dubbi.

E poi come non citare la divertente Michela Giraud, sorella coatta del protagonista, agli arresti domiciliari. L’ennesimo contrasto, sempre sul filo dell’ironia, tra giusto e sbagliato, bene e male che Pilati cerca di mostrare nel film.

Se da una parte c’è il caldo della temperatura atmosferica, dall’altra c’è il caldo metaforico che porta sulla scena il personaggio di don Nicola. Se da una parte c’è l’idea della religione e di una vita vissuta in relazione a questa scelta, dall’altra c’è la “libertà” che professano e vivono le due amiche Valentina e Lucia.

Insomma mare, risate, amore e non solo nel film di Matteo Pilati che, al suo secondo lungometraggio (aveva già collaborato con Saurino nel suo primo film, “Maschile singolare”, insieme ad Alessandro Guida), nonostante alcuni stereotipi e alcuni personaggi un po’ macchiettistici (più che altro quelli secondari), si lascia guardare.

Anche per la colonna sonora firmata da Francesca Michielin.


Veronica Ranocchi

lunedì, luglio 03, 2023

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO

Indiana Jones e il quadrante del destino

di James Mangold

con Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Mads Mikkelsen

USA, 2023

genere: avventura, azione

durata: 154’

A distanza di 15 anni torna sul grande schermo il mitico, il solo, l’unico e inimitabile Indiana Jones interpretato da Harrison Ford che si mette in gioco e, nonostante la “veneranda” età (ma con l’entusiasmo insito nel personaggio), veste nuovamente i panni del professore archeologo.

In questo quinto capitolo Indiana è alle prese con Helena, la figlia del suo amico Basil Shaw, nonché sua figlioccia che, a causa del suo caratterino e delle sue doti geniali, intraprende una vita, per certi versi, spericolata.

Indirettamente con la scusa di “derubarlo” di un oggetto tanto misterioso quanto costoso, la giovane Helena lancia un grido d’aiuto all’uomo che dovrebbe fare le veci di suo padre Basil, venuto a mancare troppo presto. E Indiana comprende il pericolo nel quale la ragazza sta incappando e decide di aiutarla, salpando insieme a lei e al fidato Teddy, giovanissimo compagno di imprese, verso una nuova entusiasmante avventura guidato dall’ormai iconica colonna sonora.

Un capitolo che, tra citazioni, richiami alle opere precedenti e tanta avventura, segna il ritorno di uno degli eroi più iconici del cinema degli anni ’80-’90, ma non aggiunge niente di nuovo a quello che era stato già abbondantemente portato sullo schermo dal grande maestro Steven Spielberg con i capitoli precedenti.

Una storia che, seppur ricca di avventura, adrenalina, inseguimenti, si appoggia fin troppo sulla CGI e sugli effetti speciali ampiamente usati (e abusati) per cercare di cogliere di sorpresa lo spettatore e fare leva sull’effetto nostalgia.

I primi 20 minuti, infatti, nei quali vediamo un Harrison Ford giovane come ai tempi dei primi capitoli servono per introdurre la tematica e il filo conduttore del film, ma mirano anche a colpire i fan di sempre del professore archeologo, in modo da poter ricordare i tempi d’oro.

Con “Il quadrante del destino” il professore riesce a compiere un’impresa per lui importantissima: quella di poter viaggiare nel tempo. E noi con lui, tornando a celebrare un mito mai davvero dimenticato e sempre nei cuori del pubblico, anche di quello più giovane che si è potuto affacciare alla saga solo in un secondo momento.

Harrison Ford, che non ha bisogno di esercitazioni per il suo Indiana, è una certezza, ma anche le new entry contribuiscono ad arricchire e a non appesantire una storia non perfetta. La Waller-Bridge si conferma un elemento divertente (e imprevedibile), come tutti i suoi personaggi, ma anche Mikkelsen, nel ruolo del cattivo, sembra divertirsi e rimanere in parte.

Nonostante le buone interpretazioni e l’amore praticamente universale per l’eroe e per la saga, “Indiana Jones e il quadrante del destino” chiude il cerchio, ma non in maniera troppo convincente. È come se mancasse sempre qualcosa.

Le corse ci sono, l’adrenalina pure, così come la paura che succeda qualcosa da un momento all’altro o che a uno degli eroi capiti qualcosa, come, da sempre, ci ha abituati la saga, senza risparmiare niente e nessuno. E ci sono anche i momenti più divertenti, spesso legate ai momenti più iconici dei precedenti film, tra serpenti e insetti, ma anche tra spade e armi da fuoco.

Sì, Indiana è tornato e appassiona, ma, tra l’età, gli effetti speciali e la storia troppo “impostata” non riesce ad andare oltre la semplice avventura.


Veronica Ranocchi