lunedì, maggio 08, 2023

MON CRIME - LA COLPEVOLE SONO IO

Mon Crime – La colpevole sono io

di François Ozon

con Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Isabelle Huppert

Francia, Belgio, 2023

genere: commedia, giallo

durata: 102’

In parte discostandosi da ciò a cui ci aveva abituati fino a ora, François Ozon ci regala con “Mon Crime – La colpevole sono io” una storia che, seppur datata, ha ancora chiari e forti riferimenti all’oggi.

Tratto da una pièce teatrale ambientata negli anni ’30, il film mostra la storia di due ragazze e della loro “rivalsa” sociale grazie a un astuto escamotage che le due progettano insieme sfruttando un vero e proprio dramma: un omicidio.

Madeleine e Pauline sono due amiche che condividono un appartamento, che faticano a pagare, nella Francia degli anni ’30. La prima è un’aspirante attrice e la seconda un avvocato. La loro vita cambia nel momento in cui Madeleine viene ricevuta da un importante produttore cinematografico, ma subisce da quest’ultimo un’aggressione. La giovane cerca di resistere al tentativo, da parte di lui, di abusare di lei e riesce a fuggire lasciandolo con un pugno di mosche. Passeggia per le vie di Parigi per prender un po’ d’aria prima di rientrare a casa e, una volta nell’appartamento, racconta l’accaduto a Pauline che cerca di consolarla.

Dopo poco, però, le due vengono a conoscenza dell’omicidio del produttore tramite un detective chiamato a indagare, che punta subito il dito contro la giovane Madeleine, essendo stata l’ultima a vederlo in vita.

Inizialmente la protagonista cerca di discolparsi dicendo la verità, cioè che non è l’assassina, ma poi la storia prende una piega inaspettata perché Madeleine si proclama colpevole. Una svolta importante non solo per il film, ma anche e soprattutto per la vita e la carriera della giovane attrice che, così facendo, sale alla ribalta. Una ribalta che è ben descritta da Ozon, un maestro nel saper adattare qualcosa di datato al presente con piccoli elementi in grado di scuotere lo spettatore e, anche solo per poco, fargli quasi dimenticare di star vedendo qualcosa di passato.

Un giallo o una commedia? Forse un ibrido tra i due generi, “Mon Crime – La colpevole sono io” intrattiene, diverte e convince, nonostante alcuni passaggi più lenti e solo apparentemente forzati.

Il cast corale è convincente e in parte anche se talvolta impostato, come una pièce impone, ma mai esageratamente sopra le righe. Anzi da apprezzare le caratteristiche di ogni singolo personaggio: ognuno ha un elemento che lo caratterizza, che lo rende tale e che lo fa entrare in sintonia con il pubblico. Quasi delle macchiette, per certi aspetti, ma capaci di colpire al punto giusto nel momento giusto.

E poi come non menzionare, oltre alle due riuscite protagoniste, la sempreverde Isabelle Huppert in un ruolo che, seppur secondario, resta iconico, sia per l’entrata a effetto, sia per l’eccentrica capigliatura e mise in generale, sia per il ruolo, agli antipodi rispetto alla carriera della grande attrice che ha sempre abituato a performance superbe e intense e che qui si trova costretta a interpretare un’attrice in decadenza (e neanche troppo capace). Un modo per metterci alla prova e anche prendersi in giro, nonostante la fama e l’età. Ma anche un ruolo che, anche se presente solo nella seconda parte, fa parlare di sé.

Girato quasi interamente solo in interni, “Mon Crime – La colpevole sono io” sottolinea ancora una volta la capacità di Ozon di cimentarsi in un genere che, seppur non il più congeniale all’autore, permette di approfondire varie tematiche, alcune delle quali stanno comunque a cuore al regista francese.

“Mon Crime – La colpevole sono io”, infatti, è attuale non tanto per la costruzione, quanto per tanti piccoli aspetti che, a una prima visione, possono anche sfuggire perché ben nascosti, ma che vengono fatti emergere per essere “approfonditi”.

Al di là del cast corale, un aspetto interessante è il fatto che le protagoniste siano delle figure femminili e, per di più, una delle due abbia intrapreso una carriera tutt’altro che semplice e soprattutto “rara” per l’epoca se si pensa alla considerazione della donna. Infatti, nel momento del processo e dell’arringa, è spesso con le spalle al muro proprio perché “in minoranza”.

E il tema della donna e del ruolo di quest’ultima è centrale in tutto e per tutto nella vicenda, dai privilegi che sembra non possedere alla fatica che deve fare per emergere, diventare qualcuno ed eventualmente ricoprire lo stesso ruolo di un uomo. Così come il fatto di essere la prima accusata dell’omicidio solo per il fatto di non aver ceduto a quelle che per la polizia e l’accusa erano solo “avances”.

Una commedia in grado di mostrare una realtà che, seppur lontana, è ancora molto vicina. Il tutto con l’immancabile sorriso di Ozon.


Veronica Ranocchi

sabato, aprile 29, 2023

IL SOL DELL'AVVENIRE

Il sol dell’avvenire

di Nanni Moretti

con Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando

Italia, 2023

genere: commedia, drammatico

durata: 95’

Il ritorno di Nanni Moretti. Poteva essere tranquillamente il sottotitolo di questo intenso, potente e anche divertente film. E invece Moretti ha optato per un avvenire che per essere spiegato deve prima essere avvenuto. Ed ecco la ricerca di un passato che, come ovvio che sia, è passato e non ritornerà più com’era. Può solo tornare nel ricordo, toccante o divertente che sia, in forma di omaggio o di celebrazione, ma non si può più modificare.

Nella sua fatica più recente Nanni Moretti è Giovanni, un regista alle prese con un film che vede protagonisti due personaggi (interpretati da Silvio Orlando e Barbora Bobulova) di una sezione locale del Partito Comunista Italiano impegnati a far fronte alle reazioni a seguito della rivoluzione ungherese del 1956. La storia dei due compagni si intreccia continuamente con la vita di tutti i giorni, nel 2023, di Giovanni e di sua moglie, anche lei inserita nel mondo dello spettacolo come il marito che però non riesce più a tollerare. Tra omaggi e citazioni, più o meno evidenti, Moretti prova a raccontare due (o più) storie… alla Moretti.

Quello che vuole provare, nel senso di sperimentare e dimostrare, il regista è il riuscire a uscire dagli schemi pur rimanendone, in qualche modo ancorato.

Non a caso Giovanni capisce determinate cose solo nel momento in cui gli equilibri si spezzano. E proprio da questo nasce il senso, anche di inadeguatezza, de “Il sol dell’avvenire”. Certe prese di posizione, certi schemi rigidi impartiti e forzati non fanno che mettere a dura prova Giovanni (e Nanni con lui) che si ritrova come ingabbiato in un mondo che quasi non gli appartiene più. Se da una parte c’è il regista che dice “è così perché io sono il regista, il film è mio e si fa come dico io”, dall’altra parte c’è l’altro, quello più libero, ma solo sotto certi aspetti, che può decidere, per esempio, di diffondere il proprio film a più di 190 paesi, come quelli ai quali sono destinati i prodotti Netflix.

Quindi è vero che nel primo caso si è in qualche modo incatenati, non solo a dei principi e a delle rigide regole, ma anche e soprattutto alla storia e al passato che, come detto, non si può cambiare. Ma, allo stesso tempo, si è anche più liberi perché si può ricorrere all’immaginazione e alla forza che essa porta con sé.

Nonostante ciò c’è comunque un importante e centrale filo conduttore: la musica. Una musica che non è mai messa a caso e che al pubblico meno attento può sembrare semplicemente una pausa tra una scena e un’altra. In realtà è il filo conduttore dell’intero film, quello che lega dei personaggi così apparentemente distanti tra loro e che infonde loro il coraggio e la forza necessaria per perseguire i propri scopi e i propri obiettivi. Non è solamente il ritornello di canzoni celebri che ben conosciamo e che ci fanno sorridere quando e se cantate da Moretti con un’intonazione che sembra essere anni luce lontana da quella dell’interprete effettivo della canzone. La musica è piuttosto una sorta di “medicina”; è ciò che Moretti usa per salvarsi. Lui ricorre alla musica nel momento in cui comincia a sentirsi oppresso da ciò che lo circonda, siano le problematiche sul set, i diverbi familiari o l’incapacità di portare avanti la propria storia. La musica è quella terapia alla quale lui ricorre e si aggrappa come un disperato.

Sicuramente, però, “Il sol dell’avvenire” è l’essenza stessa di Moretti che si concede (a sé stesso e al pubblico) di essere ancora una volta Moretti. Si cita e si prende in giro, si omaggia e si preoccupa di trovare un punto alle sue storie e al suo cinema. E forse lo trova davvero. In attesa di capire cosa troveranno gli spettatori di Cannes.


Veronica Ranocchi

martedì, aprile 25, 2023

L'ESORCISTA DEL PAPA

L’esorcista del papa

di Julius Avery

con Russel Crowe, Daniel Zovatto, Alex Essoe

USA, 2023

genere: horror, thriller, biografico

durata: 103’

Russel Crowe fa ritorno nella sua amata Roma. Stavolta, però, non lo fa, seppur sempre “accompagnato” dalla calda e potente voce di Luca Ward, all’interno dell’imponente Colosseo combattendo materialmente contro chiunque per far valere la propria forza bruta. Torna in una veste completamente nuova: quella di padre Gabriele Amorth, esorcista della diocesi di Roma.

Il film, diretto da Julius Avery, è un horror (a tinte, però, talmente assurde in alcuni frangenti da arrivare a toccare quasi il comico) ambientato alla fine degli anni ’80. Padre Amorth è inviato in Spagna per cercare di sconfiggere il male che si è impossessato di un ragazzino temporaneamente trasferitosi, insieme alla madre e alla sorella, in una chiesa che deve essere ristrutturata. A seguito della scomparsa del padre del giovane, la famiglia ha deciso di intraprendere i lavori di ristrutturazione e rifacimento dell’edificio in modo da metterla, poi, in vendita e cederla al miglior offerente. Tutto questo se non fosse che quello è uno dei cosiddetti luoghi dimenticati da Dio.

Ed ecco che inizia il viaggio, prima fisico e poi spirituale, di padre Amorth che, su indicazioni del Santo Padre, si reca in Spagna (inspiegabilmente a bordo della sua vespa) per tentare di scacciare il demonio. Per farlo, oltre a cercare di capire il nome del male che si è impossessato del ragazzino, avrà bisogno di tutta la concentrazione, di tutta la forza e di tutto l’aiuto possibile.

Quello che sulla carta dovrebbe essere un horror a tutti gli effetti e che, per la realizzazione, si è avvalso degli autentici libri di Padre Amorth, alla fine è in realtà qualcosa di diverso, qualcosa che va oltre. E questo, in gran parte, grazie a un Russel Crowe in splendida forma che plasma completamente il personaggio facendolo suo.

Innanzitutto c’è da considerare il fatto che venga scelto un vero esorcista come protagonista del film che, da una parte, tende a dare credibilità alla storia che viene mostrata sullo schermo. Un fattore, però, che, al tempo stesso, avrebbe anche potuto scatenare problematiche proprio sulla base della veridicità. Invece il mescolamento di un fattore reale, come la presenza di padre Amorth, con tutto quello che vediamo e il modo in cui la pratica dell’esorcismo avviene (arrivando a unire sogno e realtà) è il punto di forza di un film che riesce, nonostante tutto, a dire qualcosa di diverso rispetto agli altri “simili”.

Quello di Crowe è un padre Amorth che va contro le regole, contro tutto e tutti. E lo si vede chiaramente dalla scena iniziale, in grado di catturare e assorbire completamente l’attenzione dello spettatore che, solo in un secondo momento, capisce di essere di fronte solo a un’introduzione della storia e del personaggio. Ma anche dopo, tutti i modi di fare dell’esorcista, dalle affermazioni al modo di comportarsi, lo etichettano come un “diverso”, ma, da un certo punto di vista, inteso come sovversivo. L’unico davvero in grado di rovesciare tutto e avere sempre la meglio, anche quando tutto sembra destinato a finire in un certo modo, anche quando il destino sembra già scritto e tutti sembrano ormai spacciati. Ed è una potenza che deriva non solo dal personaggio (in questo caso reale), ma dall’interpretazione, a tratti quasi buffonesca e pittoresca, di Russel Crowe che riesce a gestire al meglio i momenti di massimo climax emotivo con dialoghi più frivoli e divertenti (una su tutti l’iconica battuta sulla Francia campione del mondo di calcio).

Un padre Amorth forse non così diverso, per spirito e forza di volontà, da quello che è effettivamente stato. Ma un padre Amorth in grado di catturare, oltre al male, anche l’attenzione dello spettatore, anche di quello più scettico o più facilmente impressionabile.

Ma sarà davvero l’ultimo esorcismo del padre Amorth di Russel Crowe?


Veronica Ranocchi

lunedì, aprile 24, 2023

AIR - LA STORIA DEL GRANDE SALTO

AIR- La storia del grande salto

di Ben Affleck

con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman

USA, 2023

genere: biografico, drammatico

durata: 112’

Un convincente Ben Affleck arriva al cuore del pubblico prestandosi quasi interamente al suo film “AIR – La storia del grande salto”, nel quale è regista e attore.

Come il sottotitolo italiano spiega molto bene, il film non è altro che la storia della genesi, intesa sia come idea che come creazione materiale, delle celebri scarpe AIR Jordan.

Il film inizia nella metà degli anni ’80, periodo in cui in America il basket vive i suoi anni d’oro come ascesa di quello che sarà, poi, a tutti gli effetti, un vero e proprio fenomeno di massa. Accanto allo sport nazionale per eccellenza, però, è onnipresente la “sfida” a suon di nuove creazioni, ma soprattutto di grandi talenti che prestano il proprio volto per le campagne pubblicitarie, tra tre grandi marchi: Adidas, Converse e Nike. Ed è su quest’ultimo che si concentra il film di Ben Affleck e, in particolare, su un attento e caparbio lavoratore: il manager Sonny Vaccaro interpretato da Matt Damon. Alla ricerca di nuovi talenti a cui proporre un contratto di sponsorizzazione per rilanciare il marchio che, all’epoca, stava risentendo molto del “contrasto” con Adidas e Converse, Vaccaro, in quanto grande appassionato ed esperto di basket, è il primo a notare il talento dell’allora semisconosciuto Michael Jordan, riconoscendone le qualità e la stoffa per diventare un ottimo campione.

Disposto a tutto, Sonny Vaccaro decide di investire tutto il budget messo a disposizione dalla dirigenza per chiudere un contratto con la stella emergente. E la sua determinazione lo porta a prendere contatti direttamente con la madre, che teneva le redini della famiglia e del destino del figlio, facendo breccia nella mente e nel cuore di un giovanissimo attratto, fino a quel momento, dagli altri due celebri marchi.

Un’impresa titanica quella di Vaccaro, ma che ha permesso fin da subito, e con gli anni ancora di più, non solo di blindare uno degli sportivi più forti e amati di sempre, ma anche di diventare uno dei nomi di riferimento nel campo del basket (e non solo).

Con il film di Ben Affleck riusciamo proprio a vivere, insieme a Vaccaro, queste sensazioni e questa ansia continua che porta a chiedersi se Michael Jordan accetterà davvero la proposta.

La costruzione che il regista sceglie per mostrare una storia, per certi versi, “tipicamente” americana, è il mezzo che permette, nonostante la semplicità, di far apprezzare davvero “Air” al pubblico.

Da un Matt Damon che, pur rimanendo fedele a se stesso e ai suoi ruoli, riesce a tirar fuori il coniglio dal cilindro trasformandosi completamente in Sonny Vaccaro e regalando anche scene memorabili, come la divertente telefonata con il manager di Jordan o l’iconica scena finale.

A fare da “spalla”, come in un perfetto duo comico, c’è un Ben Affleck in splendida forma che, non solo confeziona un riuscito film, non scontato considerando la storia che tratta, ma fa presente la sua capacità comica che, seppur labile, è in grado di alleggerire notevolmente il lungometraggio e intervallare i momenti di massima tensione con dei sorrisi.

Efficace anche il modo in cui è sviluppata l’intuizione della scarpa e il procedimento che porta alla creazione vera e propria.

Così come è degna di menzione, anche se non è una novità, Viola Davis, nei panni della madre che non perde un colpo e supervisiona a 360° la vita del suo “piccolo” e talentuoso figlio. La prima, forse, a credere davvero in lui e a investire forze ed energie. Questa sua caparbietà è resa in maniera importante dall’attrice premio Oscar che, seppur con un ruolo minore, si impone al pari degli altri personaggi. E fa quasi dimenticare che nel 90% dei momenti in cui lei è in scena e parla dovrebbe esserci anche Michael Jordan. Ammaliati dalla sua bravura riusciamo a far passare in secondo piano il fatto che Michael Jordan, anche se nominato, è di fatto assente in un film che ha lui al centro. Nei pochi momenti in cui è fisicamente presente, il regista ricorre a degli escamotage per non farlo né vedere né parlare. Questo nonostante la sua importanza sotto tutti i punti di vista: basti pensare, per esempio, che Viola Davis è stata voluta proprio da lui che l’ha indicata come la più adatta al ruolo di sua madre.

Non un film perfetto, ma sicuramente una storia apprezzabile e da conoscere, raccontata in maniera semplici e pulita.

Nonostante la “non presenza” di Michael Jordan, che in alcuni momenti catalizza l’attenzione più del dialogo o dell’azione centrale, e la scelta di non seguire in maniera “ordinata” le regole della Nike che sembrano fungere da titoli dei vari capitoli, “Air” è davvero un grande salto che prova addirittura a spiccare il volo!


Veronica Ranocchi

martedì, marzo 07, 2023

INCASTRATI (S. 1-2)

Incastrati (s. 1-2)

di Ficarra e Picone

con Ficarra, Picone, Leo Gullotta, Tony Sperandeo

Italia, 2022-2023

genere: commedia, giallo, poliziesco

durata: 2 stagioni, 12 episodi, 30-40’ a episodio

È possibile far ridere e far riflettere allo stesso modo e con la stessa intensità trattando argomenti che di comico hanno ben poco? Evidentemente se vi chiamate Ficarra e Picone la risposta è sì.

Sì, perché il duo comico siciliano è riuscito ad avere successo anche nel mondo della serialità. Cimentatisi con un prodotto completamente nuovo rispetto a quelli che li avevano visti protagonisti precedentemente, sono riusciti a creare qualcosa di riuscito, divertente e riflessivo.

Su Netflix sono, infatti, disponibili le due stagioni della serie “Incastrati”, una sorta di giallo, crime in chiave comica.

Salvo e Valentino sono i due protagonisti di una vicenda che definire bizzarra è dire poco. Ma, allo stesso tempo, risulta più verosimile di molte altre. I due sono tecnici tv che, per una coincidenza, nemmeno troppo casuale, si ritrovano su una scena del delitto. Nell’appartamento nel quale avrebbero dovuto fare una riparazione trovano il cadavere del proprietario. Invece di chiamare la polizia e dire la verità, forti delle numerose serie tv poliziesche che guardano (soprattutto Salvo), decidono di nascondere le prove della loro presenza nell’appartamento e fare finta di niente. Ma naturalmente niente andrà come sperato e tantissimi legami e situazioni talmente ridicole da risultare quasi veritiere si intersecheranno tra di loro per dare vita a un “mafia-movie” davvero spassoso con continue sorprese e colpi di scena.

Questa la base per la prima stagione, terminata con un cliffhanger degno dei più memorabili titoli seriali. Ecco, quindi, che la seconda stagione era d’obbligo, anche per far tornare tutti i tasselli al proprio posto e dimostrare che, nonostante le stramberie, ciò che viene raccontato all’interno di “Incastrati” si avvicina in maniera spaventosa alla realtà.

E, come solo poche volte accade, ogni pezzo del grande puzzle della divertente serie va davvero al proprio posto in una sconcertante e attuale narrazione che raccoglie, tra citazioni e riferimenti, elementi da ogni angolo (cinematografico, televisivo, cronachistico e molto altro).

In primis c’è la Sicilia che, oltre a essere la terra natia dei due registi, sceneggiatori e interpreti protagonisti, è anche il luogo che permette loro di sbizzarrirsi offrendo panorami anche e soprattutto stereotipati e giocando proprio su questo. Conoscendo a menadito il territorio i due sguazzano letteralmente da un luogo all’altro, giocando tranquillamente in casa e scherzando e prendendosi anche ripetutamente in giro, consci di essere i primi a potersi prendere gioco di se stessi.

Al paesaggio, non solo visivo, della Sicilia, vanno aggiunti, come in una ricetta che ha bisogno di tutti i suoi ingredienti migliori, interpreti convincenti e mai sopra le righe, per quanto possibile trattandosi di una serie che gioca proprio sull’andare sopra le righe. Dai due mattatori Ficarra e Picone, l’uno la spalla perfetta dell’altro, con tempi comici giusti, battute argute e pungenti sempre nel momento in cui meno ci si aspetta, ai comprimari che vanno dalle “dolci metà” alle nuove aggiunte della seconda stagione, come il piccolo e arguto Robertino. Ma a non passare inosservati, soprattutto in una seconda stagione che rischiava di lasciarsi oscurare dall’originalità della prima, sono Tony Sperandeo nel ruolo di Cosa Inutile, braccio destro del “temibile” boss Padre Santissimo, che balbetta tutte le volte che si trova a dire una bugia, e Leo Gullotta, un procuratore Nicolosi da medaglia al valore che, con un monologo che è un chiaro e ben congegnato omaggio, riesce a far emozionare e anche commuovere. Cosa non di poco conto dal momento che si tratta di una serie comica.

Ma le lacrime di commozione tornano subito a mescolarsi con quelle di gioia e di divertimento e, insieme al mitico Sergione, unica e sola fonte attendibile di informazioni, lo spettatore si lascia abbracciare e cullare da 12 episodi in totale nella speranza che ciò che si vede sullo schermo possa essere visto anche sullo schermo della quotidianità. Da rewatch immediato! 


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 03, 2023

GLI SPIRITI DELL'ISOLA

Gli spiriti dell’isola

di Martin McDonagh

con Colin Farrell, Brendan Gleeson, Barry Keoghan

USA, UK, Irlanda, 2022

genere: drammatico, commedia

durata: 114’

In un concorso ufficiale che mai come quest’anno ha segnato il predominio di narrazioni incentrate sulla natura conflittuale dell’essere umano, facendo del privato l’incubazione delle grandi contese della nostra epoca, la presenza di un film come “Gli spiriti dell’isola”, traduzione italiana dell’originale “The Banshees of Inisherin”, non si può considerare una sorpresa. Ad esserlo piuttosto è lo scenario in cui si svolge la vicenda, l’Irlanda del 1923, e il suo paesaggio, un'anonima isola del suo arcipelago, per la distanza spazio-temporale del nuovo film di Martin McDonagh con l’America di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. A ben vedere infatti è proprio da tale constatazione che bisogna partire per cercare di intercettare le coordinate del cinema del regista e commediografo britannico, oramai uso nel prendere un immaginario da cartolina, di quelli che si pensano sempre uguali a se stessi, per poi divertirsi a rovesciarlo con l’innesto di un fattore imprevisto e destabilizzante.

Succedeva con “In Bruges”, dove lo sfondo della famosa cittadina belga si tingeva di nero per dare seguito a una drammatica caccia all’uomo; capitava in “Tre manifesti” in cui toccava alla madre coraggio interpretata da Frances McDormand il compito di togliere l’iniziativa alla controparte maschile, facendo della connotazione da cinema western una questione tutta femminile. “Gli spiriti dell’isola” non è da meno, confermando quanto meno l’ipotesi che il punto di partenza delle storie del nostro autore sia legato alle caratteristiche dei luoghi, essendo quelli a generare - anche per opposizione - i personaggi e non viceversa.

Nel nuovo film, infatti, ancora una volta, il paesaggio non è semplice orpello scenografico ma piuttosto qualcosa che si impone sulle vite dei personaggi attraverso un’immutabilità intesa non solo in quanto rispetto di consuetudini e tradizioni ma pure come schema mentale e psicologico: quello al quale si deve imputare l’esordiente narrativo che scatena la contesa, ovvero le rimostranze di Pádraic (Colin Farrell) di fronte alla volontà di Colm (Brendan Gleeson) di interrompere la loro amicizia.

Abituati a vivere immersi in una realtà inalterabile, quella dei cicli naturali tipici del mondo rurale, Pádraic, con la sua opposizione al cambiamento e Colm, desideroso di provare l’ebrezza dell’infinito, diventano metafora dell’eterno dissidio tra progresso e conservazione, tra carne e spirito. In questo senso la decisione di Colm di mutilarsi le dita che gli consentono di suonare la sua musica ogni volta che l’ex amico tornerà a disturbarne l’ispirazione, diventa espressione della consapevolezza che vita e arte siano soprattutto una questione di sensibilità d’animo e di predisposizione interiore.

Se la trama de “Gli spiriti dell’isola” si sviluppa in maniera semplice e lineare, costruita com’è sulla faida prodotta dall’insistenza con la quale Pádraic tenta di far cambiare idea all’amico, a creare lo scarto tra quello che poteva essere un prodotto di intrattenimento e che invece diventa un’opera di rielaborazione della realtà è il valore simbolico assegnato da McDonagh alla messa in scena.

Basti pensare all’idea di assegnare alla collocazione delle case dei due contendenti il compito di rifletterne la personalità: in pianura e affacciata sul mare quella di Colm, a segnalare il bisogno di allargare gli orizzonti rispetto a quelli angusti e routinari del suo avversario (non a caso ripreso nei suoi spostamenti con scene sempre uguali), arroccato sulle proprie abitudini e dunque relegato nell’asperità collinare, quella più refrattaria alle influenze esterne tipiche delle zone costiere. Oppure si pensi all’intuizione di far intravedere in lontananza gli echi della guerra civile per stimolare il confronto con il deterioramento dei rapporti umani all’interno dell’isola e dunque ragionare sui fantasmi dell’animo umano e sulla vocazione autodistruttiva della sua natura.

Consideriamo che qui più che in altri film di McDonagh tutto assume una valenza archetipica: dall’essenzialità scenografica volta a far risaltare la connotazione ancestrale del paesaggio, e dunque a giustificare il manifestarsi di un sentire quasi primordiale, alla presenza di personaggi senza passato e di volta in volta pronti a identificarsi con gli archetipi della condizione umana.

Senza contare che la decisione di alimentare la drammaticità del contesto con l’involontaria comicità scaturita dall’ingenuità dei personaggi, in particolare quello interpretato da un Farrell mai così in palla, contribuisce a determinare un processo d’astrazione in grado di trasformare la realtà della storia in una specie di fiaba: come suggerisce la presenza tra i personaggi della figura di un’anziana veggente che sembra rispolverare la mitologia della migliore tradizione folcloristica irlandese.   

Meno dinamico dei film precedenti (scelta giustificata dalla necessità di far sentire il peso del tempo nelle vite dei personaggi) ma scandito dalla stessa inaudita ostinazione da parte dei protagonisti, ancora una volta intenzionati a farsi giustizia da soli, “Gli spiriti dell’isola” può contare sull’efficacia dello spartito drammaturgico e sul contributo di attori bravi nello spogliarsi di ogni divismo per diventare parte integrante di un meccanismo a orologeria.

Tra i film in competizione alla Mostra quella di McDonagh è una delle opere più risolte.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Ondacinema.it)

mercoledì, gennaio 25, 2023

L'INNOCENT

L’innocente

di Louis Garrel

con Louis Garrel, Roschdy Zem, Noémie Merlant

Francia, 2022

genere: commedia

durata: 99’

Un Louis Garrel in splendida forma quello che si vede, davanti e dietro la macchina da presa, nella sua ultima “fatica”: “L’innocente”.

La commedia francese diretta e interpretata dall’attore non è solo una commedia, ma un bel mix di generi con i quali, con ironia e astuzia, gioca sapientemente, prendendoli, e a tratti prendendosi, anche in giro.

Al centro della simpatica e riuscita commedia c’è Abel, figlio della sessantenne Sylvie che si sposa con il galeotto Michel. Dopo il matrimonio dei due e dopo la scarcerazione di Michel, avvenuto naturalmente in carcere, i novelli sposi cominciano a vivere la loro vita insieme e fare grandi progetti, tra i quali anche quello di aprire un negozio. Ma Abel non sembra contento della nuova vita della madre ed è convinto che il nuovo patrigno tornerà presto a dedicarsi al crimine. Per questo, spesso insieme all’amica di sempre Clémence, inizia a seguirlo e spiarlo.

Una divertente commedia che mescola le carte a disposizione del figlio d’arte, ma comunque in grado di mantenere alto il proprio nome.

Ma non solo una divertente commedia. “L’innocente”, infatti, porta con sé anche vari elementi propri del dramma che si rispecchiano fin da subito anche nelle immagini che vengono proposte. Le luci e la saturazione del film, per esempio, sono elementi importanti per comprendere quello che si nasconde dietro un’apparente leggerezza. Dalla preoccupazione di Abel per l’ennesimo matrimonio della madre, al quale si oppone, seppur in maniera pacata tanto da ritrovarsi poi costretto, suo malgrado, ad accettarlo così come tutte le conseguenze che ne derivano, al grande lutto che aleggia sulla sua persona e del quale veniamo a conoscenza solo in un secondo momento. Ma si tratta di un lutto e di una perdita che ha contribuito a formarlo e renderlo quello che è. Ecco perché il suo atteggiamento nei confronti di situazioni apparentemente normali diventa esagerato, quasi al limite dell’assurdo. Ed è proprio questo suo modo di fare, che talvolta si può leggere come un senso di inadeguatezza, che rende la commedia una vera commedia. Invece di reagire a determinate situazioni e determinati frangenti come reagirebbe non tanto il personaggio di una commedia, ma quantomeno una persona normale, Abel arriva quasi all’esasperazione, facendo innervosire gli altri, ma facendo “divertire” il pubblico.

E questo si traduce, narrativamente, in una serie di colpi di scena che fanno apprezzare notevolmente la pellicola che non ha la presunzione di ergersi a capolavoro del cinema, ma nonostante questo svolge il suo compito in maniera egregia.

Il giusto dosaggio dei generi e delle caratteristiche principali di essi fanno sì che “L’innocente” non rientri pienamente in nessuna definizione circoscritta. Si va dal divertimento (e “spavento”) iniziale con l’esilarante scena della madre che rivela al figlio l’intenzione di sposarsi alla memorabile scena al ristorante. Una scena nella scena messa a punto con un obiettivo preciso e portata sul metaforico palco da Abel e Clémence, dove, tra detto e non detto, i sentimenti fittizi e “recitati” si mescolano a quelli veri e autentici.

E se l’inizio è, in qualche modo, scoppiettante, quasi stessa sorte spetta al finale che, con un ulteriore colpo di scena, spiazza e convince lo spettatore, già pronto a pensare alla chiusura più scontata.


Veronica Ranocchi

lunedì, gennaio 23, 2023

BABYLON

Babylon

di Damien Chazelle

con Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva

USA, 2022

genere: commedia, storico, drammatico

durata: 189’

Arrivato in Italia sulla scia del flop americano, “Babylon” è forse il film più libero e coraggioso di Damien Chazelle, summa dei temi e delle ossessioni della sua filmografia.

La prima cosa che si nota guardando Babylon è il cambio di registro operato dall’autore. I modi calmi e misurati propri di una classicità di cui Damien Chazelle era stato invocato cantore, qui lasciano il posto all’eccesso delle pulsioni più incontrollate. Le prime sequenze non lasciano dubbi, tanto le immagini risultano un tripudio di istinti disparati. Dall’elefantiaca defecazione che investe l’aspirante attore messicano, metafora di quel lavoro sporco a cui il malcapitato sarà di lì a poco chiamato, all’esaltazione dionisiaca dei corpi avvinghiati uno contro l’altro nell’esclusiva festa hollywoodiana, Babylon si fa da subito manifesto del mondo di cui fa menzione nella consapevolezza di poterlo restituire solo lasciandolo andare.

Abituato a controllare la propria materia cinematografica, Chazelle questa volta sposa il principio opposto, un po’ come fece a suo tempo il grande Michael Herr (Dispacci, ndr), il quale, chiamato a narrare agli americani la guerra del Vietnam si rese conto dell’impossibilità di farlo con la scrittura giornalistica convenzionale. Per raccontare l’Inferno, diceva, bisognava in qualche modo sporcarsi le mani. Così decide di fare Chazelle attraverso i suoi personaggi. Raccontare Hollywood, quella dei ruggenti anni venti, dal loro fulgore fino all’inevitabile declino (ila crisi  relativa al passaggio dal muto al sonoro ricorda quello dalla sala allo streaming), calandosi “anima e corpo” nelle dorate pastoie del suo Star System per seguire le avventure del divo Jack Conrad (Brad Pitt in versione Clark Gable) e di chi, l’ambiziosa Nellie Le Roy (una spregiudicata Margot Robbie) e il suo amico Manuel Torres (il semi esordiente Diego Calva), è disposto a tutto pur di seguirne le orme.

Lungi dal dimenticare se stesso e le proprie origini, Chazelle si limita a cambiare pelle, tirando fuori il coraggio e la provocazione che altre volte gli era mancata. In questo senso Babylon è al cento per cento un film del suo autore, a cominciare dalla centralità della musica, qui più che altrove motore della storia, per il fatto di essere parte integrante di un dispositivo che equipara le immagini a uno spartito musicale e la narrazione a un’unica meravigliosa Jam Session (lo aveva fatto in maniera altrettanto radicale Paul Thomas Anderson in Ubriaco D’amore). L’esempio più lampante lo si ha nella lunga sequenza che precede i titoli di testa, concepita come una corsa perdifiato – dalla notte fino al mattino -, in cui il ritmo della musica e quello delle parole sono pronti ad alternarsi per dare vita alla vertigine sensoriale vissuta dai protagonisti. Così funziona il montaggio alternato con cui Babylon, poco dopo, mette in scena il cortocircuito tra arte e vita: la seconda chiamata a salvare la prima attraverso la ricerca della mdp necessaria a terminare le riprese del film interpretato dal personaggio di Brad Pitt.

Ma Babylon può anche considerarsi la madre di tutte le ossessioni di cui fin qui si è nutrito il cinema di Chazelle.

La mecca hollywoodiana infatti è il monumento destinato a contenerle tutte: da quella nei confronti del talento artistico, messo alla prova da una realtà quasi mai disposta a riconoscerne il valore, ai tormenti romantico sentimentali destinati a tradire l’amore quando si presenta nella sua forma più pura e gratuita; alla morte – materiale e ideale che sia -, intesa come sacrificio estremo conseguente all’incapacità dell’arte e dell’artista di scendere a compromessi.

Laddove la dimora della festa, ma anche il set cinematografico, sembrano una variante del locale jazz di La La Land, dell’omologo parigino di The Eddy e persino della navicella spaziale di The First Man, universi alternativi e ancora, spazi di una diversità che la Villa della festa rappresenta al massimo grado: filmata da Chazelle in analogia a quella di Norman Bates in Psycho, per avvalorare la doppiezza dei personaggi, disposti a convivere e a fare i conti con l’immagine del proprio alter ego filmico.

Elegante e kitsch come il mondo e i personaggi che racconta, Babylon fa dell’imperfezione un valore aggiunto, risultando più vero dei film che lo hanno preceduto. Troppo colto e scandaloso per compiacere gli standard casalinghi – nonostante l’utilizzo di una rappresentazione a tratti grottesca e parodistica volta a raffreddarne la peccaminosità -, non stupisce di Babylon la notizia del flop casalingo.

In attesa degli Oscar la palla passa ora al pubblico europeo, chiamato a ribaltare le sorti economiche di un film comunque meritevole di essere visto.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Taxidrivers.it)

ANCHE IO

Anche io

di Maria Schrader

con Zoe Kazan, Carey Mulligan, Patricia Clarkson

USA, 2022

genere: drammatico

durata: 129’

Un film d’inchiesta che, sulla scia dei recenti fatti che hanno coinvolto il produttore cinematografico Harvey Weinstein, investiga e scava a fondo sulla faccenda. “Anche io” è il nuovo film di Maria Schrader che vede al centro della vicenda le giornaliste Jodi Kantor e Megan Twohey che indagano per portare alla luce le molestie sessuali commesse dal produttore.

Un’inchiesta prettamente e interamente al femminile, condotta da due donne che danno continuamente prova del loro carattere e della loro testardaggine, proprio in quanto donne.

Jodi Kantor e Megan Twohey sono due giornaliste, due donne, due mamme che fanno del loro essere donne il punto centrale dell’indagine. Provano a mettersi nei panni delle vittime, combattono, insistono, soffrono e lavorano. Non si perdono mai d’animo e non si arrendono mai per scavare in fondo alla verità e provare a raggiungere i loro obiettivi.

In questo, ad aiutare la sceneggiatura e la storia che gran parte del pubblico conosce, trattandosi di eventi piuttosto recenti, ci sono le due attrici protagoniste. Da una parte Zoe Kazan, nel ruolo della determinata Jodi Kantor, e dall’altra una Carey Mulligan in grado di essere davvero l’ago della bilancia della vicenda.

Quella che, all’inizio, sembra solo la pratica di un pervertito uomo di potere ai danni di giovani e promettenti assistenti e attrici si rivela, in realtà, come un vero e proprio sistema che va avanti da decenni e che consiste in violenza fisica e psicologica e abuso da parte non solo di un uomo, ma di qualcosa di più. Un intero sistema in balia di un potente produttore che costringe donne e chiunque altro al silenzio, ma che proprio dalle donne, che tanto brama e tanto teme, è smascherato e portato allo scoperto.

Di film d’inchiesta è pieno il panorama cinematografico, soprattutto quello americano. Piuttosto recenti sono, per esempio, “Il caso Spotlight” e “The Post”, ma sicuramente uno di quelli più emblematici e degni di essere citati nel momento in cui si decide di parlare di “Anche io” (titolo originale “She Said”) è “Tutti gli uomini del presidente”.

Il film della Schrader è, infatti, una sorta di tutti gli uomini, o meglio tutte le donne del presidente che, in questo caso, non è presidente, ma è come se lo fosse considerando i pieni poteri che ha.

Le due donne, rappresentate come donne al 100%, hanno in mano un potere enorme, e cercano di farne l’uso che ne farebbero gli uomini. Ma si trovano a essere infastidite e interrotte dalle circostanze. Il doversi continuamente giustificare e dover lottare il doppio se non addirittura il triplo degli uomini che hanno lo stesso ruolo rende il film ancora più femminile. E porta inevitabilmente a una riflessione importante che va al di là della “semplice” questione Weinstein.


Veronica Ranocchi

martedì, gennaio 17, 2023

LE VELE SCARLATTE

Le vele scarlatte

di Pietro Marcello

con Juliette Jouan, Louis Garrel, Raphaël Thiéry

Francia, Italia, Germania, 2022

genere: drammatico

durata: 99’

Pietro Marcello torna al cinema con un nuovo film che, sulla scia del precedente “Martin Eden” parte dalle pagine di un romanzo.

Quella che attua il regista italiano è una rivisitazione del romanzo “Vele scarlatte” di Aleksandr Grin.

Siamo in Francia nel primo dopoguerra e Juliette è una giovane orfana di madre che vive col padre Raphaël, reduce di guerra. Questi, che conosce la figlia di ritorno dal conflitto, fa l’artigiano per guadagnarsi da vivere, lavorando quotidianamente il legno.

Nel frattempo la figlia cresce e, per tutta una serie di motivi, complice anche la sua indole di sognatrice, non è ben vista dagli altri abitanti del villaggio che la considerano una pazza in attesa delle “vele scarlatte” che una maga le predice arriveranno e la aiuteranno ad andare via. Tra le difficoltà economiche che continuano e la passione per la musica, Juliette continua a sperare nella “profezia” della maga finché finalmente un giorno si avvera, più precisamente quando un affascinante aviatore le piove dal cielo.

La rivalsa femminile è uno dei temi fondamentali del film del regista italiano. Juliette è la protagonista indiscussa e l’unica in grado di crescere e maturare. Se tutti gli altri personaggi rimangono letteralmente “intrappolati” nei loro corpi e nelle loro abitudini, Juliette cresce, cambia e si trasforma. È attraverso il suo personaggio e il suo cambiamento che riusciamo a percepire lo scorrere del tempo. Se da una parte può far storcere il naso allo spettatore più preciso e attento ai dettagli, dall’altra parte si può considerare come parte integrante della storia raccontata. L’emancipazione femminile e, più precisamente quella di Juliette, passa anche e soprattutto per questo, come una sorta di “prova concreta”.

Il canto, allo stesso tempo magico e liberatorio, è l’ “arma” di Juliette contro il mondo. Si tratta di qualcosa che, al contempo, la estrania dal resto del villaggio e la fa considerare una “diversa”, ma è anche l’elemento che le permette di raggiungere il proprio obiettivo e arrivare al traguardo tanto agognato delle “vele scarlatte”, metaforicamente incarnate dall’aviatore Jean.

E, a proposito di metafore, c’è da considerare anche quella tra l’aereo che porta con sé il “salvifico” aviatore e la gazza che si avvicina alla finestra di Juliette e alla quale lei si rivolge, quasi invocandola, tornando poi, in qualche modo, sulla questione mentre legge delle poesie e scrive musica.

Quindi cosa sono davvero le vele scarlatte?

Sono il traguardo, ma anche il sogno e l’obiettivo. Quello che Juliette tanto ardentemente attende e che arriva quando meno se lo aspetta. E, come nelle più classiche favole, ecco letteralmente piovere dal cielo ciò che la giovane tanto brama.

A fare da cornice alla storia di formazione (e d’amore) di Juliette c’è anche tutta la costruzione del villaggio e dei personaggi che lo abitano, senza dimenticare la maga, osteggiata da tutti, così come il burbero Raphaël che ha solo la colpa di non parlare e di dedicarsi notte e giorno al lavoro e alla figlia, unica cosa rimastagli. Di pari passo con la crescita di Juliette c’è una crescita delle opere realizzate dalle mani stanche e provate di Raphaël. Da piccoli lavoretti con il legno a giocattoli per la sua bambina fino ad arrivare a decorazioni per una barca. Una decorazione più che simbolica anche e soprattutto per il valore complessivo del film. Un’opera che lo spettatore vede come il traguardo di Raphaël che, probabilmente, nonostante il continuo silenzio e quella che sembra una mancata comunicazione con la figlia, capisce molto più di quanto possa far pensare e si lascia andare, sapendo la sua Juliette al sicuro, pronta non tanto a vedere le vele scarlatte, ma addirittura a salpare sull’agognata nave che viaggia sul mare proprio grazie a esse.


Veronica Ranocchi

lunedì, gennaio 16, 2023

THE PALE BLUE EYE - I DELITTI DI WEST POINT

The Pale Blue Eye – I delitti di West Point

di Scott Cooper

con Christian Bale, Harry Melling, Lucy Boynton

USA, 2022

genere: thriller, horror, giallo, poliziesco

durata: 128’

Alla sua terza collaborazione con Christian Bale, con The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point il regista Scott Cooper mette in scena un’indagine criminale ed esistenziale intorno a un mondo in bilico tra la vita e la morte. Buone le premesse, più discutibili gli esiti nonostante le ottime performance degli interpreti tra cui si distinguono i protagonisti Christian Bale e di Harry Melling nei panni di Edgard Allan Poe.

The Pale Blue Eyes è il nuovo film Netflix di Scott Cooper.

Quello di Scott Cooper è da sempre un cinema sottovalutato. Il giudizio nei suoi confronti non è mai cambiato anche quando alcuni suoi lungometraggi sono stati oggetto di interesse per le grandi interpretazioni degli attori che vi hanno preso parte. Se sono in molti a ricordare quella di Jeff Bridges, vincitore dell’Oscar come migliore interprete maschile nella parte del cantante alcolista di Crazy Heart, meno fortuna hanno avuto, anche presso gli addetti ai lavori, le performance di Christian Bale, a dir poco superlativo in ben due film di Cooper, Out of Furnace e soprattutto Hostiles, ignorate dall’Academy anche in sede di nomination.

Troppo violento e con un’ipotesi di redenzione non così forte da poter compiacere i gusti dell’establishment hollywoodiano, il cinema di Cooper ha il torto di perseguire una classicità che, soprattutto nell’austerità della forma e nell’invisibilità della regia, non riesce a fare breccia tra il pubblico più giovane, quello a cui non può rinunciare qualsiasi progetto con ambizioni commerciali. Da qui la consapevolezza di trovarsi di fronte a un autore al quale si può semmai imputare la mancanza di uno scatto in avanti, capace di far uscire i suoi personaggi dall’ombra di un esistenzialismo che concede poco o nulla al glamour da copertina.

Tormentati e in cerca di riscatto, gli uomini e le donne di Cooper trovano spesso nella vendetta il modo per mettere a tacere i propri demoni, pur sapendo che di lì a poco gli stessi torneranno a farsi vivi.

The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point non fa eccezione, risultando quasi una variazione su temi e personaggi già presenti nel connubio lavorativo di Cooper e Bale, se è vero che anche il detective August Landor si porta dietro una reclusione esistenziale e una dolenza di sguardo frutto di un passato a cui la rivalsa sul male – qui rappresentati dall’assassinio di alcuni cadetti di West Point (siamo nel 1830) e dall’indagine che porterà alla scoperta del colpevole – servirà solo in parte a lenirne le ferite. In realtà The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point fa segnare un passo in avanti nella filmografia del suo autore in un’ottica tutta contemporanea, assemblando generi (dall’horror al thriller, dal dramma in costume al poliziesco) e presentandosi come una sorta di crossover tra cinema e letteratura per la presenza di un giovane Edgard Allan Poe, ancora lontano dalle sue grandi produzioni letterarie, ma già sufficientemente melanconico per figurare come coprotagonista in un racconto gotico come quello messo in piedi da Cooper.

Poggiando la progressione del racconto sugli esiti dell’indagine e sul conflitto tra ragione e follia, The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point moltiplica i misteri e le sorprese, favorito da un plot in cui la logica è chiamata a confrontarsi con il diabolico e l’occulto. Nel farlo Cooper lavora soprattutto sulla messa in scena, amplificando la dimensione spettrale e la convivenza tra vita e morte (enunciata da Poe in fase di premessa) attraverso una fotografia a lume di candela, in cui il nero della notte è lo stesso degli interni, perennemente immersi in un’oscurità senza fine. A non tornare però è la qualità della scrittura e la precisione del meccanismo che, soprattutto nel genere in questione, avrebbe bisogno, almeno negli snodi decisivi, di arrivare alla svolta con prove probanti, laddove The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point rimane lasco nelle evidenze che tali non sono, provvisto com’è di deduzioni fuori campo di cui allo spettatore rimane solo l’esito finale. Laddove sarebbe chiamato ad affondare il colpo The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point resta sulla superficie dei fatti, riassunti con una serie di forzature il cui unico risultato è quello di far perdere potenza a un’idea di base che ben sviluppata poteva portare ad altri esisti.

Ciò detto The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point è un film che si guarda fino in fondo anche per merito delle interpretazioni di Bale e, nella parte del celebre scrittore, di un ottimo Harry Melling, bravi nell’assecondare l’idea di un’esplorazione esistenziale attorno ai rispettivi personaggi.

Dopo l’uscita tecnica in poche e selezionate sale, dal 6 gennaio The Pale Blue Eyes – I delitti di West Point è visibile su Netflix.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Taxidrivers.it)

AFTERSUN

Aftersun

di Charlotte Wells

con Paul Mescal, Francesca Corio, Celia Rowlson-Hall

UK, USA, 2022

genere: drammatico

durata: 101’

Il debutto alla regia di Charlotte Wells è un toccante racconto di quello che è il rapporto tra un giovanissimo padre e una figlia di undici anni.

Tutto ci viene mostrato, fin dall’inizio, come un ricordo perché di questo si tratta. Addirittura mentre scorrono i titoli di testa, si percepisce il suono di quello che è il ricordo: i clic di quella che può essere una macchina fotografica così come di un apparecchio di registrazione introducono lo spettatore in quello che vedrà sullo schermo. Si tratta del ricordo di Sophie, ormai circa trentenne che ricorda il viaggio fatto in Turchia con il padre quando questi aveva la stessa età che ha lei adesso. E tutto il film è il ricordo di quello che è stato e non potrà più essere, di quella comunicazione che poteva esserci tra loro, ma che di fatto è sempre stata nascosta dal “non detto”.

Una mancanza di comunicazione, ma, al tempo stesso, una riflessione su cosa si sarebbero potuti dire e su come avrebbero potuto confidarsi l’uno nell’altra per capire forse molto di più, anche del futuro.

Questo è contemporaneamente sia la trama che il messaggio che Charlotte Wells vuole dare al suo film che lei stessa ha definito “emotivamente autobiografico”.

A colpire di questo film, oltre alla storia, tremendamente autentica e sincera, è il modo in cui viene “raccontata”. Lo spettatore vede innanzitutto il ricordo come se fosse la realtà presente, ma soprattutto lo vede principalmente attraverso gli occhi di una bambina che, proprio perché ancora piccola, non è in grado di comprendere tutto, anche se si sta “aprendo” al mondo, in qualche modo.

In entrambi i sensi ad aiutare c’è una regia sempre al punto giusto. Una regia che prende per mano lo spettatore e che gli ricorda che quello che sta vedendo è un ricordo continuo, interrotto, saltuariamente, da immagini irrealizzabili che, però, paradossalmente, riportano con i piedi per terra. Una su tutte è la sequenza in discoteca nella quale si “incontrano” il padre, Calum (interpretato da un sorprendente Paul Mescal), e la Sophie adulta. Sequenza irrealizzabile o meglio inverosimile perché la Sophie adulta non può più parlare con il proprio padre né tantomeno avrebbe comunque potuto farlo all’età mostrata.

Per quanto riguarda, invece, l’altro aspetto, inevitabile trattandosi del ricordo della stessa, la Wells riesce, attraverso alcuni geniali escamotage, a farci comprendere la situazione e a far aleggiare su tutti una sensazione di presagio di morte. Lo si vede in alcune scene, quella dell’autobus che, in base a come è girata, sembra riuscire a investire il giovane padre, ma anche quelle in cui la piccola protagonista è come abbandonata in balia di sé stessa.

Sophie (un’eccellente Francesca Corio), nonostante la giovane età, ha capito molto più di quanto si possa pensare e di quanto possa pensare il padre stesso. Si accorge di dettagli, di persone, di situazioni che possono passare inosservati. E lo fa in silenzio, con quello che, solo apparentemente, è lo sguardo di una bambina che ancora non conosce il mondo. Ma Sophie è già grande, i suoi 11 anni sono in realtà molti di più. È costretta a crescere prima del previsto, tanto che nel film arriviamo a vedere invertiti i ruoli di padre-figlia. Se inizialmente è lui a spalmare la crema solare alla figlia, è lui a dirle cosa fare, dove andare, con chi stare e averne cura, con il passare del tempo, è lei che inizia a prendersi cura del genitore, arrivando anche “simbolicamente” a coprirlo con la coperta.

Interessanti, poi, sono altri due aspetti che costituiscono una parte importante dell’intero film: i silenzi e le riprese. Sono tante le scene in cui si percepisce solo e soltanto il respiro dei personaggi che, soli o in compagnia, non pronunciano parole, ma si osservano, pensano, riflettono. Un silenzio che si fa pesante e che diventa più significativo ed emblematico di tante parole.

E, infine, le riprese, un po’ sfocate, un po’ con effetti riconducibili volutamente al passato, oltre a mettere ancora di più in luce il fatto che si tratti di un ricordo che nasce da riprese effettuate da quella che all’epoca era una bambina di 11 anni, mostrano anche la precarietà di tutto questo. Ormai la vacanza in Turchia non è che un ricordo, sempre più lontano e sempre più flebile. Nonostante questo, però, Sophie ricorda momenti e dettagli importanti e fondamentali. E, anche se non si sono parlati apertamente, lei conserva in maniera indelebile il ricordo del padre, a prescindere da quello specifico momento.

Mentre tutto quello che circonda Sophie in quella vacanza è giovane, pieno di vita ed entusiasmo, il padre sembra andare in una direzione completamente opposta, quasi a sfiorire, come nella metaforica scena finale in un lungo e profondo corridoio bianco.

Un film che, nel suo silenzio, nel suo essere “sbiadito” come un ricordo, si impone, invece, contro l’eccesso e l’esagerazione di parole, immagini e molto altro.

“Aftersun” è un film che fa del ricordo un ricordo stesso.


Veronica Ranocchi