domenica, novembre 12, 2023

TE L'AVEVO DETTO

Te l’avevo detto

di Ginevra Elkann

con Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Alba Rohrwacher

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 100’

Uscito nel 2023, ambientato più o meno intorno a quest’anno, ma col sapore di qualcosa di ben più datato.

Alla sua seconda prova alla regia Ginevra Elkann con il suo “Te l’avevo detto” prova a ripartire più o meno da dove era rimasta con “Magari”.

Qui allarga la questione a più personaggi, trasformando il film in un dramma corale dove non c’è un protagonista assoluto, se non si considera l’agire in maniera scontata e prevedibile, come il titolo stesso anticipa. A intrecciarsi sono più storie e più dinamiche, tutte con lo stesso filo conduttore. Abbiamo la donna che vuole vendicarsi del tradimento del defunto marito con una pornostar, ma viene ostacolata dalla figlia bulimica. Abbiamo il sacerdote drogato che deve fare i conti con il suo passato che riaffiora quando la sorella americana arriva a Roma con le ceneri della madre. E abbiamo l’alcolizzata che ha perso la possibilità di prendersi cura del figlio, affidato al padre, che cerca di tenerli lontani.

Il tutto all’interno di una Roma che, pur preparandosi al Natale, soffre una condizione climatica estrema con picchi di calore mai percepiti prima. Ed è proprio in questo scenario apocalittico che si dipana la vicenda di tutti questi personaggi che si ritrovano quasi per inerzia ad agire come previsto e prevedibile. I colpi di scena sono solo quelli sulla modalità.

Come il titolo stesso (pre)annuncia, gli impliciti "te l'avevo detto" sono alla base dell'intera vicenda, o meglio del susseguirsi degli eventi che sembrano vagare al pari dei personaggi stessi.

Immersi (e persi) nella "nebbia" asfissiante di una Roma troppo calda, tutti i personaggi agiscono per il proprio interesse, senza tenere conto di ciò che succede loro intorno. L'egoismo è ciò che sembra prevalere e avere la meglio in un film che non racconta, ma semplicemente mostra una serie di avvenimenti che hanno il medesimo scenario e la medesima conclusione. Collegati soltanto da questo elemento, gli eventi scorrono sullo schermo cercando un guizzo che non arriva per non andare contro la logica nella quale è inserito il film stesso.

Modalità fin troppo prevedibili che non portano a una vera conclusione. O probabilmente cercano di suscitare nel pubblico una reazione, una riflessione, facendosi “aiutare” anche dall’incompletezza dei vari quadri “familiari”. Non c’è una vera connessione tra loro, fatta eccezione per il meteo e per lo sviluppo delle dinamiche.

Personaggi al limite del grottesco, del sopra le righe che, però, restano in superficie senza essere davvero approfonditi come, invece, avrebbero potuto.

Che Ginevra Elkann abbia voluto dirci che, comunque si agisca, si finisce sempre con il cadere nei "tranelli" che la vita ci confeziona? Nonostante i personaggi provino a trovare una via d'uscita e a evolvere, le strade sembrano senza sfondo. Come lo è la nebbia che li attanaglia e che li ingloba.

E che rischia di inglobare anche lo spettatore.


Veronica Ranocchi

sabato, novembre 11, 2023

LA ZONA DI INTERESSE

La zona di interesse

di Jonathan Glazer

con Christian Friedel, Sandra Huller

UK, Polonia, 2023

genere: drammatico

durata: 106’

In un'epoca in cui la crisi delle sale e la disaffezione delle generazioni più giovani ha spinto anche chi si professa cinefilo a rispolverare i discorsi sulla morte del cinema, dubitando sulla capacità di incidere nelle nostre esistenze rivelandone le complessità meno evidenti, un film come "La zona d'interesse" riporta indietro le lancette della Storia mettendo in qualche modo lo spettatore nella stessa condizione di quei fortunati che si trovarono ad assistere alle proiezioni dei primi cortometraggi dei Fratelli Lumière. In un tempo di sensi anestetizzati e coscienze sopite il film di Jonathan Glazer prende in contropiede la vista e lo stomaco, raccontando l'Olocausto come ancora non si era mai visto sullo schermo. Lungi dall'essere un esercizio di stile "La zona d'interesse" restituisce alla forma la sua caratteristica principale, ovvero quella di accrescere il senso del contenuto.

Abbracciando il concetto di indicibile relativo alla tragedia della Shoah, Glazer fa la cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile, celando il misfatto agli occhi dello spettatore e in parte a quelli degli stessi personaggi, attraverso il muro di cinta che separa il campo di concentramento di Auschwitz dallo spazio famigliare in cui la famiglia del comandante della guarnigione vive come niente fosse, assorbita dalla bellezza bucolica del paesaggio e viziata dai privilegi di una posizione lavorativa di prestigio, quella del colonnello Rudolf Höss, in cui lo sterminio non implica nessuna questione morale e dove l'unico problema è quello di elevare al massimo l'efficienza dei carnefici e dello loro procedure logistico-matematiche.

Per mettere in scena l'orrore Glazer non spreca neanche un minuto dei 105 a sua disposizione. Prova ne siano i titoli di testa, rappresentati in toto dall'intestazione del film, destinata a scomparire un poco per volta dallo schermo, sopraffatta dai rumori della "morte al lavoro" e assorbita dal buio di una dissolvenza in nero che, insieme al finale altrettanto astratto, dominato com'è dall'improvviso presagio della fine che assale Höss, inchioda l'incoscienza dei personaggi all'abisso delle proprie anime.

La differenza fra bene e male diventa così una questione legata alla dicotomia dello sguardo, laddove l'invisibile smette di essere tale quando si rivolge alla vita del carnefice, immersa in una fotografia surreale, tanto nitida e pulita quanto monocorde e glaciale, capace com'è di far diventare la bellezza vuota e piatta della sua illuminazione sinonimo della crudele prosaicità di cui si colora il quotidiano della famiglia Höss predisposta per natura a non farsi toccare da quanto accade al di là del muro.

Scegliendo di raccontare gli aguzzini e non le loro vittime Glazer fa una scelta di campo che riguarda l'oggi, ragionando sulla banalità del male attraverso un identikit in cui il paradosso della famiglia tedesca, incurante dell'abominio che le sta accanto, moltiplica all'ennesima potenza quello dell'Occidente nei confronti delle guerre che del tutto o in parte ha contribuito ad accendere.

Come "Il figlio di Saul" anche il film di Glazer fa del fuoricampo un elemento fondante. A differenza di László Nemes, però, Glazer sceglie un punto di vista opposto. Tanto quello del regista ungherese era il risultato di una ricognizione interna al personaggio, tanto quello del regista inglese è il risultato di un'osservazione isolata ed esterna al contesto. Se "Il figlio di Saul" traeva forza da una narrazione febbrile e allucinatoria "La zona d'interesse" propone allo spettatore un'osservazione raggelata ed entomologica, capace di resistere all'impassibilità dei personaggi per cogliere l'attimo in cui la normalità diventa affezione patologica. Debitore nei temi e nella forma del Michael Haneke de "Il nastro bianco", "La zona d'interesse" deve parte della sua riuscita a un dispositivo che da qui in avanti potrebbe costituire un compendio pratico da mostrare agli studenti per far comprendere la bellezza e la potenza del linguaggio cinematografico. Valga per tutti il modo in cui Glazer restituisce dignità a campo e controcampo, altrove segnale di povertà registica (lo aveva già fatto Paul Thomas Anderson con "Licorice Pizza"), qui determinante nel restituire la vertigine derivata dall'orrore del quotidiano, quando, dopo una serie di sequenze girate secondo un unico punto di vista e volte a introdurci nell'ovattata quotidianità della famiglia Höss, a spalancare le porte dell'inferno è l'uso improvviso del campo opposto all'immagine precedente, mostrandoci la prospettiva della fornace del campo di concentramento, visibile in tutta la sua atroce abiezione dietro le spalle del padrone di casa. È la prima volta che succede e tanto basta a cambiare la storia del film che da quel momento non potrà più mondarsi dal peccato originale di quell'immagine.

Adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 2014 scritto da Martin Amis, "La zona d'interesse" è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Prodotto dalla A24, il film di Glazer è atteso nelle sale il 25 gennaio 2024, distribuito da I Wonder Pictures. Da vedere e rivedere per non dimenticare.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, novembre 10, 2023

ERAVAMO BAMBINI

Eravamo bambini

di Marco Martani

con Alessio Lapice, Lucrezia Guidone, Giancarlo Commare

Italia, 2023

genere: drammatico, thriller

durata: 101’

Facendo leva sul riuscito scritto di Massimiliano Bruno, su un cast corale molto ben assortito e calibrato e su un montaggio che aiuta e dà un tocco ancora più “spaventoso” al tutto, il film di Marco Martani Eravamo bambini racconta una storia dove a prendere vita è il classico modo di dire “la vendetta è un piatto che va servito freddo”. Il film, presentato nell’ambito della Festa del Cinema di Roma ad Alice nella città, nella categoria Panorama Italia, è prodotto da Minerva Pictures, Wildside, Vision Distribution e distribuito da Europictures.

Tutto inizia la notte in cui un giovane trentenne viene arrestato dai carabinieri per essere stato trovato con un coltello con il quale intendeva minacciarli. L’interrogatorio è semplice: il giovane non intende pronunciare neanche una parola. Poi improvvisamente, facendo riferimento ai fuochi d’artificio, comincia lentamente a raccontare qualcosa che appartiene al passato. Un passato che riaffiora anche sullo schermo con un intreccio perfetto costruito e montato con particolare attenzione in modo da non rivelare niente prima del tempo.

Ed ecco che, tramite flashback e dialoghi dai quali trapelano tematiche e dinamiche che dal passato si ripercuotono nel presente, cominciamo a rimettere insieme i pezzi di un puzzle non di semplice “digestione”.

Inizialmente sbalzati da un personaggio all’altro e da una storia all’altra senza capire in che modo esse possano essere collegate, tutto appare chiaro quando i tasselli si avvicinano e ricompongono un insieme che da troppo tempo era rimasto inconcluso.

Eravamo bambini o, in qualche modo, lo siamo ancora?

In parte Martani sembra farci riflettere anche su questo e sulle conseguenze che un avvenimento possa portare nella vita delle persone, anche a distanza di tempo. Ne sono una dimostrazione Gianluca, celerino che non riesce a mantenere troppo autocontrollo soprattutto in situazioni in cui dovrebbe portare equilibrio; Walter, nascosto dietro la maschera del “cantante” Inferno, inglobato dai propri tatuaggi che gli coprono anche il volto e che dimostra di avere sentimenti solo quando è con la figlia; Margherita, l’unica ragazza del gruppo disposta a trovare uno svago dai propri pensieri passando da un uomo all’altro; Andrea, il fratellino di Margherita, con una forte dipendenza dalla droga che spesso lo mette nei guai; Cacasotto, che già dall’emblematico nome, è colui che più di tutti è rimasto ancorato al passato e ai ricordi di un passato fin troppo lontano solo per paura e, infine, Peppino, quello apparentemente più distante e lontano, ma che, come tutti gli altri, ha sofferto e soffre senza nemmeno rendersene conto.

A fare da cornice a questi 5 protagonisti, dei quali sappiamo qualcosa solo grazie ai brevissimi “capitoli” iniziali che li riguardano e alla ricostruzione di un passato che continua ad appartenere loro e a essere tatuato sulla loro pelle, ci sono i genitori. Quegli stessi genitori che sono base e conseguenza della vita e delle scelte di ognuno dei protagonisti, nel bene e nel male. Perché, seppur in maniera più nascosta, un altro tema importante del film di Martani è anche la famiglia e, con lei, le conseguenze che un buono o cattivo rapporto può portare. Continue sfaccettature dello stesso aspetto sono quelle che appaiono nel film, dalle famiglie con genitori e figli dei flashback alla famiglia formata soltanto da Margherita e Andrea, a quella formata da Walter e sua figlia, arrivando a quella che i cinque (sei) protagonisti hanno fatto nascere grazie alla loro amicizia. 

Un film cupo che lascia decidere allo spettatore se quella piccola stradina in mezzo al niente porti dritta all’oscurità o a una speranza che potrebbe sapere di redenzione. 


Veronica Ranocchi

venerdì, ottobre 06, 2023

NATA PER TE

Nata per te

di Fabio Mollo

con Pierluigi Gigante, Teresa Saponangelo, Barbora Bobulova

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 102’

Luca e Alba. Perché alla fine di tutto Fabio Mollo con il suo “Nata per te” vuole dirci proprio questo: Luca e Alba. Niente è più forte, niente è più importante del rapporto e del legame tra queste due anime, disposte a lottare, a sfidare le regole e le convenzioni, ad andare contro tutto e tutti.

Il nuovo film di Fabio Mollo, già dal titolo, ci presenta il fulcro della storia, ripetuto come un mantra durante il susseguirsi degli eventi: “Alba è nata per te”, per Luca, pronto ad accoglierla fin da subito. Ma andiamo con ordine.

“Nata per te” racconta la storia vera di Luca, giovane ragazzo omosessuale, e di Alba, bambina partorita in ospedale e lì abbandonata, pronta per essere data in affidamento e poi adottata. Apparentemente è una storia normale, se non fosse che Alba ha la sindrome di down, nessuna famiglia è disposta a prendersene cura e Luca, che sarebbe l’unico intenzionato a farlo, non può in quanto single (e omosessuale). O meglio può prenderla in affidamento, ma solo per poco, a discrezione del magistrato al quale è affidato il “caso”. Ma già dal primo, temporaneo, e fin troppo breve, affido scatta qualcosa tra Luca e Alba. I due sembrano destinati a dover vivere insieme.

Una storia che Fabio Mollo decide di raccontare in maniera naturale, lineare e senza pietismi. È veramente la reale e autentica storia di due anime che si incontrano, grazie a un destino che, in questo caso, cerca di fare il possibile per far allineare tutte le congiunzioni astrali. Ad alimentare questo potente legame contribuiscono, cinematograficamente parlando, degli efficaci flashback che il regista inserisce, intervallandoli al presente, anche per aiutarci a comprendere il personaggio di Luca, le sue paure, le sue scelte e la sua crescita nel tempo. Se all’inizio del film ha accanto il fidanzato Lorenzo che sembra intenzionato a diventare padre quasi quanto lui, nei flashback lo vediamo sempre in compagnia di un coetaneo, Rocco, che lo incita a scoprire il mondo e andare oltre. Lo invita a sognare, prendendo come riferimento la possibilità di arrivare su Marte.

Ed è proprio su questo punto che si sviluppa la storia e la crescita di Luca. Anche perché la speranza di riuscire ad arrivare su Marte è il perfetto parallelismo con la speranza di riuscire a ottenere l’affido di Alba. Se l’uomo è riuscito ad arrivare fino al pianeta rosso non sarà così impossibile per un ragazzo single e omosessuale ottenere l’affido di una bambina.

Se da una parte, quindi, Lorenzo cerca di far ragionare Luca, tenendolo con i piedi per terra, per quanto possibile, elencandogli tutta una serie di ostacoli e sottolineando che, a prescindere da tutto, non potranno mai essere una famiglia al pari delle altre, dall’altra parte il protagonista ha già preso il volo, conscio che niente e nessuno potrà fermarlo. Luca è determinato a ottenere ciò che vuole. Anche se Lorenzo continua a ripetergli che, una volta ottenuto l’eventuale affido, Alba, per la legge, sarà solo la figlia di Luca, lui non demorde e continua a testa bassa a puntare il suo obiettivo: quello di dare amore e affetto a una bambina momentaneamente abbandonata e sola al mondo.

Ad aiutare Pierluigi Gigante, che presta il volto a Luca, c’è Teresa Saponangelo nei panni di un’avvocata disposta a tutto pur di affermarsi e soprattutto affermare i diritti di chiunque.

Un film che parla a tutti, mostrando tanti modi per essere e diventare una famiglia. Andando oltre pregiudizi e leggi apparentemente insormontabili, ovunque si può creare un legame talmente forte da dare vita a una famiglia.

In “Nata per te” non c’è solo la famiglia “protagonista”, quella che vogliono formare Luca e Lorenzo insieme, non c’è solo quella che si forma tra Luca e Alba. Ce ne sono tantissime altre, da quella dell’avvocata, che, da sola, cresce i suoi due gemelli, a quella del fratello di Luca, pronta ad allargarsi nuovamente con l’arrivo di una nuova bambina, e tante altre.

Fondamentale, però, è che nessuna sia considerata o pensi di essere più importante dell’altra o con più valore. Perché se c’è una cosa che “Nata per te” vuole insegnare è proprio questo.


Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 03, 2023

THE PALACE

The Palace

di Roman Polanski

con Oliver Masucci, Luca Barbareschi, Mickey Rourke

Svizzera, Italia, Polonia, Francia, 2023

genere: commedia

durata: 100’

Un hotel di lusso per celebrare nel migliore dei modi l’arrivo del nuovo millennio con personaggi che definire stravaganti è dire poco. Questa la premessa del nuovo film di Roman Polanski “The Palace”, già presentato a Venezia, fuori concorso.

Tante personalità di rilievo del cinema, dell’aristocrazia, del mondo dello spettacolo e della politica si incontrano (e scontrano) all’interno di questo enorme edificio posto apparentemente nel nulla e circondato solo e soltanto da neve.

Tutto ha inizio con il manager dell’hotel Hansueli, punto di riferimento per tutti coloro che lavorano e alloggiano nella struttura, che impartisce le ultime dritte e gli ultimi comandi ai suoi sottoposti poco prima che inizi la giornata (e la notte) più importante, e lunga, dell’anno. Tutto deve essere perfetto, tutto deve essere al meglio e tutto deve soddisfare i clienti. Ma ovviamente, come nella migliore delle tradizioni, non tutto andrà come previsto. E lo si capisce subito, non importa aspettare la direzione che prenderà il film. Si possono prendere, come esempio, gli “sberleffi” che i cuochi fanno non appena il manager e il cuoco sono lontani dalla cucina.

Tutto è portato al limite dell’assurdo e del paradossale: dai personaggi, esageratamente macchiettistici e stereotipati, alle assurde gag già viste.

Un film che, se si pensa al grande nome dietro la macchina da presa, fa quasi storcere il naso, ma che ha, indubbiamente e a prescindere da tutto, qualcosa da dire.

I personaggi, forse troppi, affollano l’hotel e il film, creando un effetto quasi dispersivo. Volutamente non troppo definiti, incompleti e a tratti sovrapposti tra loro, contribuiscono a rendere vero e autentico il caos tipico del Capodanno, quel Capodanno vissuto dallo stesso Polanski proprio in un hotel del genere e che, da più di 20 anni si è instillato nella sua mente pronto a venire fuori sotto forma di film.

Se gli unici personaggi che quantomeno provano a mantenere un po’ di dignità sono camerieri, inservienti e personale di servizio in generale, gli ospiti sono a metà strada tra bambini all’asilo e animali allo zoo. Basti pensare a tutta la serie di accadimenti che si susseguono per non fermare mai il ritmo costante e crescente della commedia.

Che l’intento di Polanski fosse (anche) quello di omaggiare i cinepanettoni vanziniani? Possibile, vista la struttura del film, ma è difficile pensare che lo scopo finale fosse soltanto questo. Anche perché di omaggi e riferimenti il film è pieno. Tra quelli più evidenti a quelli più nascosti Polanski non si tira indietro all’idea prima di tutto di divertirsi e far divertire e, poi, di presentare sullo schermo un mix di tanti titoli, più o meno noti. Dalle gemelline che arrivano in un hotel e che richiamano, nonostante la commedia, lo spaventoso capolavoro di Kubrick, alla dipartita improvvisa di uno degli ospiti che si trasforma nella perfetta occasione per mettere in scena alcuni dei più riusciti momenti dell’esilarante “Weekend col morto”. Insomma i richiami non mancano, nemmeno nei personaggi stessi, da un Barbareschi a metà strada tra il Christian De Sica dei cinepanettoni e Rocco Siffredi, a un Mickey Rourke che, estremizzato in tutto e per tutto, lotta contro chiunque, sfidando il millenium bug.

Ma la genialità del regista sta anche nel riuscire a inserire e bilanciare con la commedia fatti realmente accaduti. Ed ecco comparire sullo schermo di una tv la figura di Vladimir Putin, realmente salito al governo a cavallo del nuovo millennio, che, se inizialmente crea un minimo interesse da parte dei magnati russi in vacanza, viene, poi, immediatamente dimenticato, passando in secondo piano. E a far sorridere è il “legame” tra il suo discorso, che fa intendere privazioni di libertà e diritti, e la dissolutezza portata avanti dai giovani che lo stanno vedendo in tv che decidono di divertirsi, tra alcool e belle donne.

Il “The Palace” di Roman Polanski, dunque, regala leggerezza e divertimento in modo forse troppo “semplicistico” riuscendo quasi a far dimenticare per un’ora e mezzo che il regista dietro la macchina da presa è un premio Oscar.

L’omaggio, però, ai cinepanettoni italiani, e a uno scanzonato e sano divertimento, non solo per chi guarda, ma anche per chi crea l’opera, se questo era l’intento, è riuscito.


Veronica Ranocchi

martedì, settembre 26, 2023

ASSASSINIO A VENEZIA

Assassinio a Venezia

di Kenneth Branagh

con Kenneth Branagh, Kelly Reilly, Michelle Yeoh

USA, 2023

genere: giallo, thriller

durata: 103’

Le atmosfere più cupe, scure, a tratti orrorifiche del nuovo capitolo dell’Hercule Poirot di Kenneth Branagh non spengono l’entusiasmo per l’ennesimo riuscito giallo alla Agatha Christie.

Il regista inglese torna a dirigere e impersonare il celebre detective, ma stavolta lo fa in terra italiana, più precisamente a Venezia.

Poirot, “sorvegliato” continuamente da una guardia del corpo da lui stesso assoldata (un Riccardo Scamarcio che cerca di mimetizzarsi accanto agli attori internazionali), si vede costretto a interrompere la sua quotidiana routine per seguire un caso suggeritogli da una sua vecchia amica e scrittrice di gialli, alla ricerca di nuovi spunti per i suoi romanzi. Il detective partecipa, quindi, a una festa di Halloween al palazzo dell’ex cantante lirica Rowena Drake. La festa viene, però, scombussolata da un’infermiera medium che cerca di mettere in contatto Rowena con la figlia defunta precedentemente. A Poirot lo spettacolo non va a genio e lo smaschera subito salvo poi scoprire l’assassinio della medium stessa e trovarsi costretto a indagare su questo, sul delitto che ruota attorno alla figlia di Rowena, apparentemente morta suicida, e a molto altro ancora.

Come anche nei precedenti capitoli, la storia, più che efficace, creata dalla penna di Agatha Christie, si va a fondere perfettamente con la struttura del film. Branagh, anche in questo caso, riesce a conferire la giusta dose di mistero ed enigma. Continua a non essere tutto chiaro e semplice fin dall’inizio, anzi anche noi procediamo per deduzioni insieme al detective. Quasi preso alla sprovvista dalle strane reazioni che il suo corpo ha, Poirot sembra perso e appare, inizialmente, quasi come sconfitto e sopraffatto dal susseguirsi degli eventi. Vorrebbe agire in un certo modo, ma il suo corpo sembra opporsi e andare sempre nella direzione opposta.

Geniali, e in pieno stile con il personaggio, alcune trovate, come quella di dare un background autentico a tutti i personaggi, ma soprattutto quella di contrapporre all’oggettività delle indagini e delle soluzioni (corredate da prove concrete) la religione e tutto il “mistero” che essa porta con sé da secoli. Una “differenza” resa in maniera evidente dalla seduta della medium che cerca di far credere di poter davvero contattare le persone defunte, ma che viene frenata dall’astuzia e dall’intelligenza del detective. Quello che il personaggio di Joyce Reynolds, la medium, sembra affermare è che il soprannaturale esiste e, “strizzando l’occhio” a Poirot che non sempre per risolvere un caso ci si deve affidare a delle indagini, delle supposizioni e delle prove concrete.

Il rapporto tra concreto e astratto fa, quindi, comunque un po’ da fil rouge per l’intera vicenda, tornando prepotentemente alla ribalta nel momento in cui Poirot cerca la soluzione, “combattendo” con ciò che vede, sente e prova.

Una soluzione quella a cui ci conduce il detective che, rispetto ai precedenti capitoli, sembra fare più fatica a emergere anche a causa dei variegati personaggi coinvolti. Come nei più classici gialli, tutti hanno sempre qualcosa da nascondere e qui, ancora più che negli altri due capitoli, non siamo in grado di fidarci di nessuno. Come il protagonista, anche noi, fin dall’inizio, oltre a tentare di risolvere il caso, cerchiamo di individuare quella persona sulla quale poter contare e della quale fidarci. Persona assente in questo terzo capitolo nel quale il riferimento unico sembra essere Poirot.

Infine ad alimentare un giallo che altrimenti avrebbe avuto troppi richiami e similitudini con tanti altri ci pensano alcuni momenti più “spaventosi” che, mescolati a un sapiente uso di luci e ombre, creano la giusta atmosfera per un’indagine.

Perché Halloween e delitto vanno spesso a braccetto sul grande schermo. E Branagh prova a sfruttare proprio questa perfetta equazione.


Veronica Ranocchi

lunedì, settembre 25, 2023

JEANNE DU BARRY - LA FAVORITA DEL RE

Jeanne du Barry – La favorita del re

di Maïwenn

con Johnny Depp, Maïwenn, Benjamin Lavernhe

Francia, 2023

genere: biografico, drammatico, storico

durata: 113’

Una storia di corte a Corte. “Jeanne du Barry – La favorita del re” ha aperto il Festival di Cannes 2023 permettendo a Johnny Depp di riprendersi il centro del red carpet dopo il processo con la ex moglie. Acclamato come un re, sembra che, con questo film la realtà voglia abbracciare la finzione, dal momento che l’attore presta il volto proprio a un sovrano, più precisamente Luigi XV. Ma, ciononostante, non è lui al centro della vicenda, ma, come anticipato dal titolo, la favorita del re, Jeanne du Barry, appunto, interpretata da Maïwenn, qui nella veste anche di regista.

Di umili origini Jeanne du Barry, sfruttando fascino e intelligenza, riesce a scalare i ranghi della società, facendosi notare dal re in persona che ne richiede la compagnia, inizialmente in segreto. Col tempo lei si affeziona al re in un sentimento condiviso e reciproco, tanto che quest’ultimo, una volta morta la regina consorte, fa sposare Jeanne con il Conte du Barry, per farla salire di rango sociale, invitando poi lei, il marito e il figlio di lui a vivere a Corte.

Se quindi Jeanne diventa a tutti gli effetti la favorita del re, dall’altra parte viene, però, “ostacolata” dalle figlie del sovrano e da tutti coloro che non la ritengono all’altezza a causa delle sue umili origini. Una scalata sociale non completamente riuscita, anche a causa di circostanze non sempre favorevoli.

Quella compiuta da Jeanne du Barry è anche una presa di posizione più che all’avanguardia per l’epoca. Anche se si può leggere il film come orientato a mettere in risalto l’aspetto più frivolo e “carnale”, in realtà ciò che fa Jeanne du Barry è usare a suo vantaggio l’intelligenza e l’astuzia.

Descritta agli occhi di tutti come la giovane di umili origini non degna di stare a fianco del re, in realtà lei dimostra più volte e in più occasioni di essere superiore, per conoscenza, al sovrano e a gran parte delle persone che l’avrebbero voluta lontano da Corte.

Il punto a sfavore in questo da parte della regista è il non essere riuscita a valorizzare appieno questo aspetto che, invece, tra situazioni quasi al limite dell’assurdo, e personaggi fin troppo caricaturali, risulta troppo leggero e non fa comprendere al pubblico più mainstream la forza di una donna che nel XVIII secolo si fa carico di tutto e porta sulle spalle il peso di una personalità scomoda e ingombrante, ma sicuramente all’avanguardia.

Dai modi di fare all’approccio con le persone, Jeanne du Barry si distingue e si fa notare non soltanto per essere arrivata a corte “all’improvviso”. Nonostante molti non la ritengano degna di ricoprire il nuovo ruolo, lei riesce ad andare oltre e imporre, in maniera indiretta e involontaria, un proprio stile di vita. Non è più solo la favorita del re, ma diventa la favorita anche di chi la osserva e, proprio in quanto osservatore esterno, vorrebbe poter intervenire a dare una mano.

Tra risate e serietà, Maïwenn impone il proprio ritmo alla narrazione, così come il personaggio da lei interpretato detta le nuove regole di corte, permettendo al film di trattare svariati temi, compreso anche quello del razzismo in una scena che, senza prendersi troppo sul serio, descrive perfettamente una situazione non così distante nel tempo.

Senza cadere in volgarità e banalizzazioni Maïwenn tratteggia una donna che potrebbe tranquillamente vivere nel 2023.

Un film che fa salire nuovamente alla ribalta Johnny Depp, innalzandolo al ruolo di re, ma che al contempo ne fa un burattino nelle mani di una donna libera e pensante, capace anche di vestirsi da uomo e rompere le regole rigide imposte dal Regno.


Veronica Ranocchi

giovedì, settembre 21, 2023

LUBO

Lubo

di Giorgio Diritti

con Franz Rogowski, Valentina Bellé, Joel Basman

Italia, Germania, 2023

genere: storico, drammatico

durata: 181’

Presentato all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Lubo è uno dei film italiani in concorso, diretto da Giorgio Diritti.

Il film, prodotto da Indiana Production, Aranciafilm, Rai Cinema, hugofilm features, Proxima Milano, è distribuito da 01 Distribution.

Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui. (Fonte: La Biennale)

Un giro (quasi) a vuoto quello che fa Lubo alla disperata ricerca dei propri figli. Ma in realtà una ricerca che va oltre e che va a scavare nell’identità di chiunque, anche nella giustizia.

Forse una lunghezza non del tutto necessaria per raccontare, anche con dovizia di particolari, la vicenda che colpisce Lubo Moser, così come tanti altri, costretti a vedersi sottratti i propri cari e le proprie libertà.

Un artista di strada e, quindi, un’anima destinata a non rimanere confinata in un luogo e in una vita e soprattutto a non seguire rigidamente e meccanicamente delle regole. Da qui parte il racconto di Giorgio Diritti, mostrando una famiglia di artisti che si esibisce, tra musica, colori, applausi e tanto apprezzamento da parte del pubblico. Un tono, sia visivo che sonoro, destinato, però, a cambiate radicalmente già nella sequenza immediatamente successiva con prevalenza di toni scuri e cupi che a malapena fanno vedere i personaggi e le loro azioni. Si fa fatica a riconoscere lo stesso Lubo nel bosco, così come le sue azioni e tutto ciò di cui si impossessa.

Le ombre che si susseguono sullo schermo sono le ombre che lo stesso Lubo porta con sé. Prima ci sono quelle metaforiche a sottolineare la perdita della moglie (e dei figli) e la perdita di quella che è ed era la sua ragione.

Poi, nel momento in cui comincia a elaborare la situazione e capire come poter agire, la scena inizia a farsi più chiara e nitida. Anche lo spettatore si accende con lui e comincia a comprendere le ragioni del suo comportamento, salvo poi perdersi nuovamente in una ricerca quasi vana.

Lo scopo principale di Lubo sembra venire meno dopo i primi momenti, quando lui decide di compiere un viaggio troppo largo per raggiungere il proprio obiettivo. Inesorabilmente passa in secondo piano la sua volontà e, giunti alla metà del film, viene da interrogarsi sull’intento perseguito.

Ad accompagnare la ricerca, oltre all’uso simbolico di luci e ombre, ci sono naturalmente la musica e i suoni. Molto silenzio accompagna le azioni del protagonista, soprattutto le più crudeli (ma non per forza violente), rotto spesso da urla o suoni naturali.

E poi c’è il valore simbolico (e quasi catartico) della musica, in modo specifico quella creata da Lubo. In quanto artista, la musica è uno dei suoi elementi e a lei si affida nei momenti più bui. In un primo momento quando deve arruolarsi, rimasto solo e privato di tutto e di tutti trova conforto soltanto nel suo strumento. E sempre lo strumento è ciò che lo rende libero, nonostante la privazione della libertà stessa. Quel momento, seppur breve, che gli viene concesso per dare libero sfogo alla propria musica e, quindi, alla propria arte è motivo di ritrovamento. È stato privato di tutto, non è riuscito a ottenere niente e si è reso conto che la giustizia, invece di aiutarlo, lo ha accusato. L’unica cosa che gli resta è, quindi, la musica. La sua ancora di salvezza.

Su una questione ci interroga il film di Giorgio Diritti: qual è la giustizia? Esiste davvero? La vita e le vicissitudini di Lubo sembrano dire il contrario. Ma sta allo spettatore andare a fondo e capire il vero motivo di questa spasmodica ricerca di un giusto e di uno sbagliato. Da che parte stare? Anche gli esiti, simili eppure così diversi, delle famiglie e dei figli del protagonista sembrano voler sottolineare questa riflessione.

Se la sorte dei primi è in balia del destino e diviene poi palese solo a posteriori, quella dei secondi è più nascosta e dilatata nel tempo. E, quindi, a Lubo non resta che sacrificare i propri ideali per sperare di ottenere quello che ha sempre cercato in vita. Una vita trascorsa tra silenzi e sofferenze, negli anni, indicati dalle didascalie che diventano necessarie per comprendere uno scorrere del tempo visivamente assente.

Ultimo dettaglio da non trascurare la precisione e l’attenzione linguistica che Diritti riserva al film e al protagonista. Oltre a spostarsi geograficamente, il film si sposta anche culturalmente e lo fa facendo parlare lo stesso Lubo in lingue diverse. Se inizialmente ci viene presentato utilizzando il tedesco e lo jenisch, successivamente inizia a parlare in italiano. Non soltanto l’abile Franz Rogowski si cala completamente nel personaggio, ma anche lo stesso Lubo, come una sorta di camaleonte, assorbe tutto quello che lo circonda e cerca di mimetizzarsi nella realtà in cui si trova (costretto) a vivere. Rimasto solo, e nomade per natura, cerca di adattarsi al meglio. E lo fa partendo proprio dalla lingua.

Una vendetta studiata in ogni, fin troppo minimo, dettaglio.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, settembre 20, 2023

IO CAPITANO

Io capitano

di Matteo Garrone

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi

Italia, Belgio, 2023

genere: drammatico

durata: 121’

Presentato in concorso all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Io capitano è il nuovo film di Matteo Garrone.

Il film, prodotto da Archimede, Rai Cinema, Tarantula, Pathé FIlms, sarà distribuito da 01 Distribution.

Un racconto, tematicamente e visivamente, potente.

Io Capitano racconta il viaggio avventuroso di Seydou e Moussa, due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare. (Fonte: La Biennale)

Un tema impegnato e impegnativo quello scelto da Garrone per il suo nuovo film che, per certi versi, sembra tornare alle origini con aspetti che richiamano i suoi primi lavori. Se, in qualche modo, la presenza di Ospiti e Terra di mezzo si vede e si sente, è altrettanto evidente lo scenario dei film più recenti.

Io capitano è il mix perfetto della poetica di un Matteo Garrone in splendida forma, a metà strada tra il documentario e la finzione.

Seydou e Moussa sono due personaggi qualunque, non sono gli eroi, né hanno particolarità che possano renderli tali. Anzi, sono gli emarginati, quelli che hanno bisogno di aiuto e che, per questo, lo ricercano autonomamente. Un po’ come il Marcello di Dogman e anche lo stesso Pinocchio.

Per sapere qualcosa della loro vita quotidiana e familiare al regista bastano pochi istanti: una condizione quasi inconcepibile per l’Occidente che fa scattare subito il senso di protezione nei loro confronti. I bei colori e i canti del posto, mescolati ai sorrisi dei vicini e ai giochi delle sorelline sono, in realtà, velati di tristezza. Una tristezza che i due pensano di poter fermare.

Seydou e Moussa sono cugini. Inseparabili e dipendenti l’uno dall’altro, decidono insieme di partire per questo viaggio, un’Odissea contemporanea che li metterà di fronte a tanti pericoli e ostacoli. Ciononostante, al di là dell’importante forza di volontà e della profonda fiducia l’uno nell’altro, il film di Garrone ha come scopo anche quello di mantenere sempre accesa la luce della speranza.

Proprio il profondo legame tra i due permette di vedere Io capitano in un modo speciale. Senza cadere in pietismi e in retorica, Garrone presenta i fatti, fa empatizzare con i personaggi che, dall’essere i due protagonisti, diventano ben presto due viaggiatori universali. Il loro viaggio è quello compiuto da tanti altri come loro.

La bravura del regista romano, però, risiede nel presentare la tematica e i personaggi in un modo convenzionale e, al tempo stesso, diverso dal solito. È vero che la messa in scena e le scelte registiche sono classiche, pulite, senza sbavature, ma il prodotto finale che arriva allo spettatore è quello di un film che non ha una definizione precisa. Come detto, è a metà strada tra il documentario e il film di finzione. E per fortuna.

Con delle belle panoramiche sull’incredibile vastità dei paesaggi e poi l’insistenza sui primi piani, spesso sofferenti, emaciati e sanguinanti, dei due giovani, Io capitano racconta ed emoziona. Ma soprattutto fornisce speranza a chi guarda e a chi vive il viaggio in prima persona. La sensazione, infatti, non è mai di totale smarrimento. Quella luce in fondo al tunnel accompagna costantemente i personaggi e il pubblico con loro.

In un film come Io capitano la storia parla da sé e qualsiasi elemento stilistico a supporto della narrazione appare quasi superfluo. La storia che vediamo è in soggettiva, dal punto di vista dei due giovani che sperano di compiere un viaggio più grande di loro, ma che li porterà alla terra promessa, quell’Europa che agognano come il luogo dei sogni.

Ad alimentare la soggettività ci sono gli enormi e incredibili spazi aperti e sconfinati che si stagliano davanti a Seydou e Moussa, impotenti di fronte a cotanta vastità. Ma subito, per contrasto, ad opprimere questo senso di libertà c’è l’uso delle luci che si fanno sempre cupe nei momenti di massima paura e perdita di fiducia.

Come detto, però, è la speranza che guida il film di Matteo Garrone e i sogni a occhi aperti che il giovane Seydou fa ne sono la dimostrazione pratica. Fantastici e apparentemente scollegati dal resto della narrazione, sono, invece, emblema di una morale e una moralità che il film vuole lasciare allo spettatore.

Forse troppo favolistico o troppo sognatore, ma Io capitano di Garrone ha la forza prorompente di contrastare dei buoni avversari. Un po’ come il grido disperato e liberatorio di Seydou. Perché siamo tutti un po’ capitani.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, settembre 19, 2023

ENEA

Enea

di Pietro Castellitto

con Pietro Castellitto, Sergio Castellitto, Benedetta Porcaroli

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 115’

Consigli per lo spettatore. Al cinema bisogna entrare già caldi e pronti alla visione perché, soprattutto in quello d'autore, ciò che bolle in pentola viene chiarito nelle primissime sequenze, chiamate a funzionare come una sorta di bussola necessaria a orientarsi all'interno del film. "Enea" di Pietro Castellitto ne ha bisogno perché il regista e attore romano fa di tutto per presentare allo spettatore uno spettacolo non preconfezionato, tanto nei significati quanto nella forma, diviso com'è tra alto e basso, tanto nell'esposizione del proprio pensiero quanto nella natura delle immagini.

La possibilità di apprezzare fino in fondo un film come "Enea" dipende anche dalla volontà di sposarne l'assunto relativo a una realtà indecifrabile e sfuggente. Non a caso nella scena incriminata, quella che precede i titoli di testa, assistiamo a una sorta di resa dei conti filosofica, in cui, di fronte alla decadenza del mondo, e dunque alla scelta di rimanere soli o di condividere la propria sorte, il protagonista opta per la seconda, declinandola però attraverso un gruppo più ampio del normale, rispondente al modello clanico.

Il rifiuto della famiglia tradizionale a favore di quella tribale, oltre a costituire una critica alla società borghese, diventa il richiamo a un passato glorioso, quello della città capitolina in cui la storia è collocata, trasfigurato secondo le vestigia dell'antica Roma (anche il nome del protagonista viene da li), idealizzate tanto nel dialogo introduttivo, simile a una sorta di simposio, quanto nel contesto ambientale, immerso in un buio primordiale (una caratteristica destinata a ritornare nel corso del film), con i primi piani di Enea, dell'amico e della madre trasfigurati dalla luce del fuoco. L'assenza della figura paterna, da tempo avulsa dall'agone esistenziale, e la benedizione della sua controparte fanno di Enea il capo della sua ma anche dell'altra famiglia, quella che sulla scia del padrino coppoliano, necessità di un vertice a cui obbedire per poter vivere al di sopra della legge comune.

Se "I predatori" era un film collettivo nel suo essere, il risultato di diverse linee narrative, "Enea" per quanto detto lo è ancora di più. Accanto al filone centrale che vede il protagonista e il suo migliore amico impegnati nel tentativo di tenere per se i ricavi di una grossa partita di droga, fronteggiando la minaccia di chi li vuole recuperare, "Enea" nella volontà di esplorare e mettere in rapporto dialettico temi come quello dell'amore e dell'amicizia, della fedeltà e del tradimento, del potere e della potenza, solo per dirne alcuni, chiama in concorso una comunità umana (i genitori, il fratello, la fidanzata, l'amico del cuore, il boss del quartiere e così via) di cui, in un modo o nell'altro, il protagonista, e con lui il film, si prende cura, preoccupandosi di darne conto.

Un universo che Castellitto sembra mettere in scena prendendo in prestito l'esclamazione del padre di Enea - "In questa casa non si riesce a finire un discorso" -, pronunciata di fronte ai figli e alla moglie, rei di non lasciargli concludere mai un discorso. La battuta diventa così il principio di una rappresentazione volutamente incompiuta, con stacchi di montaggio anticipati e salti spazio temporali volti a riprodurre gli effetti lisergici delle sostanze assunte dai due amici.

Girato dall'interno, "Enea" è un'opera che alza il tiro delle ambizioni del suo autore, rischiando qualche volta di girare a vuoto come capita ai personaggi del film. Ogni volta capace di riprendersi e di confezionare scene come quella finale (che non sveliamo per mantenere l'effetto sorpresa), pronte a stupire attraverso la capacità di inventare cinema con pochi elementi. In concorso all'80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica, "Enea" è atteso nella sale per verificare il suo appeal con il grande pubblico.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, settembre 18, 2023

IL PIU' BEL SECOLO DELLA MIA VITA

Il più bel secolo della mia vita

di Alessandro Bardani

con Sergio Castellitto, Valerio Lundini, Carla Signoris

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 83’

Una commedia dolceamara sul senso della vita e dei rapporti interpersonali. Il film di Alessandro Bardani altro non è che un dramma travestito da commedia per far sorridere lo spettatore nonostante stia guardando sullo schermo un centenario che ribadisce più volte, almeno inizialmente, di non avere troppo tempo a disposizione.

Tutto inizia con una bella sequenza in bianco e nero che sembra proiettare lo spettatore in una certa direzione, quella di un cinema più serio e drammatico, ma che, in realtà, fa solo da preambolo, necessario per comprendere sia il protagonista sia il tema alla base del film.

Conosciamo subito il piccolo Gustavo e la sua indole non troppo docile. Il bianco e nero, che ci aiuta a capire che si tratta soltanto di una parentesi relativa al passato, torna poi anche successivamente con piccoli inserti storici che l’anziano protagonista ricorda. Passa quasi un secolo e ritroviamo Gustavo, ormai centenario, contattato da un’associazione che permette a coloro che riescono ad arrivare alla soglia della tripla cifra, e che non conoscono i genitori, di conoscerli. O meglio di avere informazioni in merito a chi ha dato loro la vita.

Gustavo (un ben truccato Sergio Castellitto) si scontra quindi con Giovanni (un inedito Valerio Lundini). Uno scontro quasi obbligatorio, considerati carattere e modo di fare di entrambi. Se il primo, nonostante l’età, è molto energico, pieno di vita e di voglia di fare, il secondo è, invece, l’anziano della situazione. E questa dinamica si riflette anche nell’approccio che i due hanno al tema centrale. Gustavo non sembra interessato a conoscere i propri genitori, ha semplicemente colto l’occasione di uscire dalla casa di riposo nella quale era stato confinato. Giovanni, dal canto suo, è intenzionato ad andare fino in fondo, sembra quasi che sia lui a dover cercare i genitori, un’intenzione mascherata da quello che lui afferma essere uno dei momenti più importanti per l’associazione se non quello di svolta che possa permettere poi ad altre persone come Gustavo di conoscere le proprie origini. Lo scopo, infatti, sia dell’associazione che del film stesso è mettere al corrente più persone possibili riguardo l’assurdità di questa legge che non consente di conoscere i genitori fino al compimento dei 100 anni e che, oltre a non permettere un’identità completa, non aiuta nemmeno nel campo della sanità perché, così facendo, non si conoscono eventuali malattie o patologie che possono essere ereditarie.

A convincere, però, sono principalmente due persone, i due interpreti principali che, insieme a una Carla Signoris più che in forma, regalano forti emozioni. Molto ben assortiti ed entrambi in ruoli opposti rispetto al solito e rispetto alla loro persona, si calano perfettamente nei personaggi cucendosi addosso anche ansie e paure. Da una parte un divertito Castellitto si cimenta in qualcosa di raramente visto al cinema, dall’altra Lundini si toglie la maschera del comico per prendere temporaneamente in prestito quella dell’attore, apparentemente già rodato e in grado di dire molto più di quello che si vede.

Due opposti legati tra loro come due calamite che, come nella maggior parte dei casi, insegnano che si può sempre cambiare e migliorarsi.


Veronica Ranocchi

COUP DE CHANCE

Coup de chance

di Woody Allen

con Lou de Laâge, Valérie Lemercier, Melvil Poupaud, Niels Schneider

Francia, UK, 2023

genere: drammatico

durata: 93’

Presentato fuori concorso all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Coup de chance è davvero il colpo di fortuna di questa edizione e del regista americano che si conferma un maestro nel tirare fuori il coniglio dal cilindro nei momenti più inaspettati.

Il film, prodotto da Gravier Productions, sarà distribuito in Italia da Lucky Red.

Coup de Chance parla dell’importante ruolo che il caso e la fortuna giocano nelle nostre vite. Fanny e Jean sembrano la coppia di sposi ideale: sono entrambi realizzati professionalmente, vivono in un meraviglioso appartamento in un quartiere esclusivo di Parigi, e sembrano innamorati come la prima volta che si sono incontrati.

Ma quando Fanny s’imbatte accidentalmente in Alain, un ex compagno di liceo, perde la testa. Presto si rivedono e diventano sempre più intimi... (Fonte: La Biennale)

Coup de chance ruota intorno al destino, alla fortuna e al caso e a come questi possano influenzare di continuo le nostre vite.

Con la sua ultima fatica Allen dimostra di avere ancora voglia di sperimentare e di giocare con lo spettatore senza rinunciare a essere sempre al passo dei tempi rinnovandosi ogni volta di più.

L’inizio girato tra la folla parigina è all’insegna del movimento. Da dietro seguiamo Fanny, la giovane protagonista del film, nel momento in cui viene fermata da un ex compagno di liceo. Con un bel piano sequenza immerso nel brulichio della città non perdiamo mai di vista la centralità della vicenda, ovvero l’inevitabile incontro di due anime destinate a corrispondersi. Tutto è preambolo di ciò che viene dopo, con la giovane donna che, alla stregua di una spada di Damocle, dovrà subire quello che il destino le ha riservato. Con il pubblico destinato a essere il (solo) testimone di quanto avviene, per l’appunto, alle sue spalle.

La domanda al centro del film è inerente al destino. Alain è colui che, prima di tutti, introduce l’elemento nella storia. Ma è anche quello che ne subisce maggiormente gli effetti. In ogni suo dialogo con Fanny il caso, la fortuna e il destino sono presenti, così come nel romanzo che sta scrivendo.

Jean, invece, è l’esempio di chi la fortuna se la crea concorrendo a riflettere sull’accezione del termine e sulle sfaccettature che esso porta con sé. Si tratta davvero di fortuna?

Il francese è la lingua scelta da Woody Allen per il suo 50esimo film. Una prima volta forse coincidente con la decisione di cambiare direzione, allontanandosi dalla coralità dei suoi ultimi film, per interrogarsi sulla vita (e sulla morte) e su cosa essa può riservare all’uomo, chiunque egli sia. Per farlo il regista americano si mette in gioco e disegna quello che, se non si scorgessero i richiami continui alla sua poetica e al suo cinema, potremmo dire essere un perfetto thriller. La differenza con quelli più classici è che, in parte, inaspettato è condito alla Allen con divertimento e ironia. Come i riferimenti ai gialli che la madre di Fanny legge per diletto.

Caricature di sé stessi, i personaggi che Allen mette in scena raccontano molto più di quanto si possa pensare. Se Fanny e Jean apparentemente sono la coppia perfetta, in realtà rappresentano gli antipodi di una visione effettiva del mondo. Da una parte abbiamo la donna trofeo, da esibire alle cene con i colleghi per bellezza e fascino, ma poi relegata a marionetta nelle mani di un marito che, come ribadito, vuole farsi la propria fortuna. Condizione calzante con il paragone del treno che Jean si regala, e che al pari della moglie, è solo l’ultimo tassello necessario a coprire e dare prestigio a una vita sostanzialmente vuota (non è un caso che non lo vediamo mai lavorare). L’uomo pensa di poterla controllare come fa con il suo trenino, ma Fanny cerca di non farsi manipolare, aggrappandosi all’unica speranza che le viene fornita: l’incontro con Alain.

Un destino dal quale si sente attratta, ma al tempo stesso lontana: come dimostra il mancato interesse nei confronti delle ipotesi sospettose della madre.

Ad accentuare questo colpo di fortuna che alimenta l’intero film, oltre alla splendida conclusione confezionata da Woody Allen, c’è anche il rapporto con e tra i personaggi. In una prima parte in cui a farla da padroni sembrano Fanny e Alain con Jean quasi come comparsa, nella seconda parte arriva la rivalsa di quest’ultimo che si prende la scena, insieme alla madre di lei, arrivando quasi a oscurare Fanny. Un modo come un altro per sottolineare ancora una volta questo coup de chance continuo. Anche nell’essere protagonisti o meno della vicenda.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)