sabato, giugno 29, 2024

'SEI NELL'ANIMA': CONVERSAZIONE CON LETIZIA TONI

Prodotto da Indiana Production e diretto da Cinzia TH Torrini, Sei nell’anima racconta la storia di Gianna Nannini, con Letizia Toni nei panni dell’icona del rock femminile italiano.

Dal 2 maggio disponibile su Netflix.

Come attrice Sei nell’anima era un progetto particolare per il fatto di essere un biopic su un personaggio, Gianna Nannini, ancora sulla cresta dell’onda. Sullo schermo il tuo rappresentava (anche) una sorta di doppio della cantante senese.

Infatti esisteva in me il timore del confronto con il modello originale e con la responsabilità di una rappresentazione che fosse credibile sia per lei sia per i suoi fan. In realtà mentre la studiavo ho avuto la possibilità di passare del tempo con lei e questo mi ha permesso di far venire meno la paura iniziale. Con Gianna ho stabilito un rapporto così familiare da far cadere la distanza che si ha quando ci si confronta con un mito. Da lì in poi mi sono sentita libera di trovare le diverse strade per interpretare le varie fasi della sua vita. L’aver constatato che si ritrovava in quello che facevo mi ha dato enorme fiducia. Se c’era qualcosa che non le tornava me lo diceva, ma sempre con quel modo gentile e costruttivo, utile ad arricchire l’interpretazione, ma senza diminuire il mio lavoro.

Questo ti ha permesso di eliminare il doppio rappresentato dalla sua immagine pubblica per concentrarti sul nocciolo esistenziale da cui nasce la sua musica.

Sì, alla fine ho avuto modo di confrontarmi con la persona e non con il personaggio. D’altronde per arrivare alla grande rockstar dovevo per forza passare da quello che c’è prima e dunque conoscere la bambina e l’adolescente che a diciassette anni scappa di casa con una chitarra in mano per andare a Milano portandosi dietro le paure e le incognite del caso.

Non a caso Sei nell’anima si sofferma soprattutto sul privato della cantante evitando di dare conto, se non come conseguenza, al lato pubblico del suo successo artistico.

Esatto, nel film si parla soprattutto della vicenda umana tratta dalla biografia Cazzi miei. Ci siamo soffermati su quella fase della vita in cui la fatica era quella di tirare fuori la sua vocazione. Parliamo di un percorso con un messaggio pazzesco per i giovani in un momento in cui questi faticano a trovare speranza nel futuro.

Tenendo conto che Gianna Nannini è stata giovane in un periodo come gli anni ’80 in cui le prospettive erano molto più rosee di quelle di oggi.

Sì, per i ragazzi di oggi è molto più difficile iniziare a fare qualcosa anche perché è già stato inventato tutto. Però le difficoltà di Gianna da giovane sono le stesse che possono avere i suoi coetanei di oggi. Il suo essere un personaggio famoso può concorrere a portarne alla luce il percorso di dolore e di difficoltà, ma soprattutto il suo superamento.

Penso che il principio del tuo lavoro sia stato quello di mescolare gli aspetti meno conosciuti del privato con la necessità di mantenere quelli che fanno parte della sua riconoscibilità agli occhi del pubblico. Si trattava di creare un equilibrio tra creare e ricreare.

Il mio percorso è stato anche quello di arrivare a riprodurre tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti e gestualità che le appartenevano. Per arrivarci ho dato precedenza alla sfera psicologica rispetto alla somiglianza esteriore. Avendo a che fare con un carattere molto forte e con un personaggio ben delineato, se avessi fatto il contrario, iniziando dalla componente fisiognomica, avrei rischiato di esagerare dando vita a una macchietta. È stata una direzione che ho abbandonato da subito per dedicarmi agli aspetti interiori. È da lì che ho fatto emergere le espressioni e i tic che fanno parte della sua persona.

In questo rapporto tra arte e vita tu come ti sei posta? Voglio dire in che modo il tuo percorso personale e artistico è entrato a far parte del personaggio?

Per certi versi c’è stata una vera e propria sovrapposizione perché le dinamiche che ha vissuto lei mi sono molto familiari. Penso al fatto di non essere mai accettata dalla famiglia per il lavoro che si vuole intraprendere. Quando recitavo la condizione di chi sembra andare a perdere tempo nei concorsi di musica, ho ripensato a come venivo guardata mentre frequentavo le scuole di recitazione. Quindi per me si è trattato di recuperare sensazioni che ho vissuto per poi sovrapporle a Gianna dando vita a una specie di sdoppiamento.

Per rispondere alla tua domanda diciamo che a un certo punto arte e vita si fondono in una sola cosa. Gianna non esiste senza la sua musica così come Letizia senza la sua recitazione.

In effetti il percorso di emancipazione artistica della protagonista passa inevitabilmente da quello esistenziale in un movimento dall’interno all’esterno che è lo stesso da te fatto per entrare nel personaggio. Peraltro la condizione che avevi mentre giravi il film era la stessa di quella della Nannini. Entrambe vi trovavate, tu nella realtà, alle prese con il primo grande ruolo da protagonista, lei nella fiction, a vivere il punto di svolta, sia privato che artistico.

Ho usato ogni cosa. In ciò che di mio ho messo nell’interpretazione c’era persino lo stress per il caldo che avevamo mentre giravamo. Anche quello è entrato nello stato d’animo del personaggio. D’altronde è così che fanno gli attori, portano in scena tutto ciò che è a portata di mano.

Come Gianna nel film si trova a produrre il disco decisivo per l’inizio della sua carriera così tu avevi una chance molto importante per entrare nel cinema che conta. Penso che questo ti abbia aiutato a entrare nella dimensione del racconto.

Sì, come Gianna mi dicevo che non dovevo sbagliare.

La tua è sicuramente una performance all’americana in cui suoni, balli e canti con una postura da cantante rock. D’altro canto hai avuto a che fare con un percorso umano che attraversa l’intera gamma affettiva e sentimentale. In Sei nell’anima la tua è stata una performance tanto fisica quanto interiore.

È stato importantissimo aver avuto il tempo necessario per preparala. Questo mi ha permesso di entrare in ogni minimo dettaglio. Ho preso lezione e in generale mi sono fatta permeare dalle cose come se le avessi vissute in prima persona. Se non avessi avuto nove mesi a disposizione sarebbe stato impossibile farlo.

Anche perché la maggior parte dei tuoi colleghi si lamenta che, a differenza delle produzioni americane, quelle italiane non prevedono granché in termini di preparazione.

Sì, perché si consumano storie come al fast food. Per un attore non si tratta solo di entrare in contatto con un numero altissimo di informazioni e sensazioni, quanto di avere il tempo per metabolizzarle, di farle entrare dentro la pelle. La maggior parte delle volte non hai il tempo per approfondire così tanto come capita ai colleghi americani.

Nella tua performance vocale per esempio non c’era solo la ricerca del giusto accento, ma anche quello di saper riprodurre le doti canori della cantante.

Diciamo che lì c’è stato un avvicinamento della mia voce alla sua. Per quanto riguarda l’accento della parlata mi sono agganciata molto alle nostre radici toscane perché l’intercalare della provincia di Pistoia non è uguale, ma neanche così lontana da quella senese. Ho cercato di replicare il suo modo di spostare la voce, come respira e soprattutto di avvicinarmi al suo tipo di spinta vocale. Lei ha una respirazione molto profonda sul tipo delle cantanti soul e liriche. Ha una potenza propulsiva fortissima. Se la senti dal vivo sembra cantare con il microfono anche quando non lo usa. Vedere accadere tutto questo davanti a me mi ha aiutato davvero tanto.

Nel film le canzoni sembrano scelte per commentare ulteriormente le immagini per cui volevo chiederti se nell’interpretazione del personaggio le hai usate come ulteriore approfondimento della scena che stavi interpretando?

I suoi testi raccontano molto della sua vita però a volte, come dice lei, sono dei paralumi, nel senso che la loro scrittura è il frutto di un’ispirazione momentanea, non per forza collegata a un preciso momento della sua vita. Spesso mi diceva di aver immaginato storie di persone che vedeva davanti a sé e che neanche conosceva. Nel film ci sono delle canzoni che sembra commentino ciò che succede nella storia anche se poi alcuni elementi di questa sono stati romanzati per esigenze cinematografiche.

In un cinema in cui le scene di nudo sono sempre più rare Sei nell’anima esplora anche questo aspetto senza tabù. Una caratteristica, questa, che concorre ad arricchire la tua performance.

Ho sposato il modo in cui era stata scritta la sceneggiatura. Personalmente non ho alcun problema a cimentarmi in scene di intimità. Mi ci avvicino come per le altre scene, cercando di trovarne il senso con la vita del personaggio. 

Tra le tante versioni della Nannini una è quella sul palco dei suoi concerti. Nelle immagini ti vediamo interpretare il personaggio con ogni muscolo del corpo tra pose e ammiccamenti che sono diventati parte integrante delle sue esibizioni. Anche in quel caso immagino ti sia lasciata andare a una totale immersione nel personaggio.

Avendo avuto modo di prepararmi quelle scene sono state meno difficili di quanto si possa pensare, anzi per quanto mi riguarda sono state una figata. Erano la parte più divertente del film e me le sono godute da morire.

Volevo chiederti se nella tua interpretazione sapevi quali canzoni avrebbe utilizzato la regista come colonna sonora?

No, in realtà non lo sapevo, però diciamo che nella musica di Gianna Nannini c’è una chiave che se intercettata è poi facile da applicare all’interno della tua interpretazione. In alcuni punti sapevo quale era la musica, in generale però non è che ci pensassi o che me la mettessero per entrare meglio nella parte. Ero in scena senza musica e il più delle volte non ci pensavo anche perché non è che devi far capire l’esistenza della colonna sonora.

Avevi a che fare con un personaggio come Gianna Nannini che noi conosciamo come persona schietta e scanzonata. Nel film però dovevi interpretarne soprattutto le fragilità.

La forza che lei sprigionava sul palco era direttamente proporzionale alla sua fragilità. Il palco era il posto del suo riscatto, quello in cui poteva esplodere tutto l’amore per la sua vocazione e la voglia di farsi amare che poi era uno dei suoi obiettivi.

Una chiave della riuscita della tua interpretazione è stata l’essere riuscita a far sentire entrambi i lati della sua personalità.

Sì, diciamo che ho cercato di dosare i diversi stati, tenendo conto che sono le fragilità quelle che ti spingono a fare tutto il resto. Se uno sta bene e non ha problemi rischia di non avere motivazioni o quantomeno ha meno necessità di cercare fuori di sé. La fragilità, l’inadeguatezza, la sensazione di non essere abbastanza amati ti spinge a cercare gli altri.

Interpretare Gianna Nannini significa anche proporre un modello femminile ante litteram diventato oggi quanto mai attuale. La sua ricerca di indipendenza passa anche attraverso l’occupazione di uno spazio che allora, ma anche oggi, è per lo più monopolizzato dalla compagine maschile.

A volte sembra che il tempo non sia nemmeno passato. Ci si continua a scandalizzare per nulla certificando la lentezza di questa presunta evoluzione. La Nannini segue molto l’istinto e questo la rende autentica. Il suo tenersi legata all’energia dell’infanzia e allo stupore di quell’età è qualcosa che ancora oggi l’accompagna e le dà un’enorme freschezza. Il suo fare musica non risulta mai annoiato e dietro questo percorso c’è sempre una cultura alla quale si ispira per provare a creare un genere sempre nuovo. Gianna non è mai ferma.

Parliamo del cinema che preferisci.

Mi ispiro molto al cinema americano contemporaneo. Tra i miei attori preferiti c’è Leonardo di Caprio ma anche Joaquin Phoenix e Natalie Portman. In generale mi piace la loro generazione perché è in grado di portare sullo schermo un senso di verità. È vero che andiamo al cinema per prenderci una pausa dalla realtà e per sognare, ma il compito del cinema è quello di raccontare una verità “bella”, senza artificio e cercando di far vivere le emozioni per quello che sono.


Carlo Cerofolini

(già pubblicata su Taxidrivers.it)

giovedì, giugno 27, 2024

'THE ANIMAL KINGDOM': CONVERSAZIONE CON THOMAS CAILLEY

Presentato in anteprima mondiale al 76° Festival di Cannes, scelto per la sezione Crazies del Torino Film Festival 2023 e vincitore di 5 premi César, tra cui Miglior Colonna Sonora per Andrea Laszlo De Simone e Migliori effetti speciali, THE ANIMAL KINGDOM di Thomas Cailley arriverà nei cinema italiani dal 13 giugno distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection. Del film abbiamo conversato con Thomas Cailley.

Le tue storie si svolgono sempre all’interno di un’esistenza minacciata da sconvolgimenti apocalittici. Così succedeva in The Fighter – Addestramento di vita, così accade – anche se più in termini esistenziali che materiali – in The Animal Kingdom.

Diciamo che ho sempre voluto rimanere ancorato alla nostra realtà sociale e territoriale in maniera realistica e contemporanea ma in questo caso è andata in maniera un poco diversa. È vero che in The Figthers c’era stata questa svolta apocalittica in cui si parlava della fine del mondo. Qui invece la storia si focalizza sulla mutazione di esseri umani che si ibridano con gli animali. Una svolta che è la conseguenza del mio interesse peri i legami che ci uniscono come famiglia, società e ambiente.

Considerando l’insieme dei tuoi film come un’unica narrazione mi sembra che The Animal Kingdoom rappresenti un passo in avanti nel tuo percorso poetico e narrativo. In The Fighters c’era l’origine della catastrofe mentre qui si racconta come gli esseri umani sono capaci di adattarsi alle conseguenze di questo sconvolgimento.

Mi piace molto questa interpretazione perché da subito mentre scrivevo The Animal Kingdom ho avuto l’impressione di aver iniziato laddove era finito The Fighters.

Il tuo cinema lavora sui codici mainstream in maniera molto personale. La prima scena ne è un esempio. Il contesto è classico, con la minaccia che si manifesta nel bel mezzo di un ingorgo metropolitano. A fare la differenza rispetto ai film americani è il ribaltamento di prospettiva, con il pericolo che si rivela non essere tale per i protagonisti.

In realtà avevo proprio voglia di fare questo film con l’inizio che hai appena descritto creando però fin da subito una deviazione. Volevo entrare in una storia classica navigando in altre acque, più profonde, più misteriose, evitando di iniziare nel solito modo. Miravo a entrare direttamente in argomento per poi, poi mano a mano, arrivare a una storia più complessa, anche più intimista. La scrittura e anche lo stile del film cambiano man mano che la storia va avanti. Come accade agli esseri umani della mia storia anche il film è destinato a trasformarsi.

Anche il rapporto tra i personaggi di Romain Duris e Adele Exarchopulos è in controtendenza. Nei film americani il loro rapporto avrebbe avuto degli sviluppi sentimentali, in The Animal Kingdom no. Anche qui il tuo film va alla ricerca di qualcosa di più profondo per quanto riguarda i rapporti umani.

Sarebbe stato davvero un gran peccato se il film avesse permesso questo tipo di relazione sentimentale perché avremo perso quello che per me era importante e cioè la ricerca ossessiva della moglie da parte del personaggio di Romain nonostante quest’ultima abbia già subito la mutazione. E poi c’è Adele che entra nella storia con questa sua grande voglia di aiutare. Il romance poteva esserci, ma non c’è stato altrimenti perché non mi interessavano gli schemi classici. Volevo privilegiare la ricerca esistenziale e non una storia d’amore.

A differenza del tuo primo film, caratterizzato anche da toni surreali e da una fotografia iperreale, The Animal Kingdom ha una matrice molto più realistica anche nella natura delle immagini.

Diciamo che la ricerca è quello di un equilibrio. In The Fighters c’era più commedia e un assurdo che arriva quasi a toni burleschi, mentre in The Animal Kingdom l’ipotesi è quella di una fiction in cui io chiedo agli spettatori di credere a qualcosa di assolutamente improbabile e quindi a una sorta di deep realismo dove il fantastico convive con un approccio molto concreto.

Il realismo è rigoroso. Se il regno animale è quello della notte, soprattutto nella seconda parte, il film è immerso in un’oscurità in cui è difficile percepire le figure dei protagonisti.

Diciamo che nel film vediamo la visione che ha Emile, il figlio adolescente del personaggio interpretato da Romain. Le immagini testimoniano il suo sprofondare in un mondo ignoto e misterioso dove avanza un po’ alla cieca. Nel film lo si avverte con l’avanzare della storia quando le brume e la nebbia diventano sempre più presenti. Più le creature sono presenti e più è difficile percepirle e vederle. È come se gli occhi dovessero abituarsi a cercarle in mezzo a buio e oscurità.

Dal punto di vista visivo mantieni intatto il mistero nascondendo allo spettatore il più possibile della mutazione. Ne vediamo gli effetti, non il suo farsi.

Effettivamente le creature non sono mai in primo piano nel senso della mutazione. Se questo esiste è qualcosa di più intimo e sensoriale e più si va avanti nel film e più la presenza delle creature genera meraviglia. Quindi lo sforzo non era quello di far vedere le creature ma di cambiare lo sguardo dello spettatore su di esse, arrivando fino all’empatia.


Carlo Cerofolini

(già pubblicata su Taxidrivers.it)

martedì, giugno 25, 2024

ANOTHER END

Another End

di Piero Messina

con Gael García Bernal, Renate Reinsve, Bérénice Bejo

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 128’

Sarà perché nel cinema esiste l’autoreverse per cui il tempo come successione lineare è solo una delle opzioni date al regista per collegare la successione delle immagini e ancora perché mettendo in scena un presente già passato, la Settima arte è deputata per elezione a raccontare storie di fantasmi (anche quando nella finzione non lo sono), fatto sta che “Another End” di Piero Messina ha le carte in regola per essere considerato un film che il cinema se lo porta dentro per sua stessa natura. Raccontando infatti di un futuro distopico in cui esiste la possibilità di riportare temporaneamente in vita i defunti innestandone i ricordi nel corpo dei “locatori”, Messina non solo fa del backforward (trasfigurato nell’azione di far rivivere i cari estinti e dunque di recuperare il tempo perduto) la premessa teorica della sua narrazione, ma assegna alla reminiscenza e alle relative emozioni il compito di essere simulacro della realtà, attribuendo alla memoria, e quindi a qualcosa che esiste non sul piano fisico ma mentale, la possibilità di percepire uno spettro come qualcosa di vivo e di reale.

Un preludio filosofico di cui però “Another End” non si accontenta, se è vero che in maniera mimetica, ma non per questo meno evidente, il film fa il verso al modo in cui il cinema si mette in scena. Basterebbe prendere come esempio la sequenza in cui Zoe torna in vita nel corpo di Ava, in cui la simulazione operata per creare il ponte tra la vita e la morte, facendo si che il risveglio dei defunti appaia come una continuazione naturale della loro vita e non la conseguenza delle possibilità scientifiche, è organizzata alla stregua di un vero e proprio backstage cinematografico, con la mdp che a un certo punto si apre sull’interno di un hangar, rivelando l’esistenza di una sorta di set cinematografico in cui i tecnici con i loro argani si impegnano a trasmettere alla scocca di una finta ambulanza l’andamento sussultorio di una corsa a sirene spiegate per le vie della città. Oppure considerare che i locatori nel fare del proprio corpo il mezzo per dare vita all’esistenza di terze persone altro non fanno che rimandare al mestiere dell’attore come interprete di vite altrui, ma anche allo sguardo del pubblico che, nel guardare sullo schermo Gabriel Garcia Bernal e Renate Reinsve, crede - almeno durante la visione - che siano Sal e Zoe, così come Sal riconosce nella locatrice colei che è stata la sua compagna.

Se a livello tematico la poetica di “Another End” porta a compimento un altro percorso di amore e morte, di lutto e di elaborazione (già esplorato ne “L’attesa”), declinando la struttura del melò secondo i canoni più classici del genere, dal punto di vista visivo il film immerge lo spettatore in un mondo altro, in cui il futuro (prossimo) ipotizzato dallo scenario avveniristico diventa uno spazio liminale, concreto e allo stesso tempo immaginato, per il fatto di contenere nel medesimo contesto termini opposti come possono esserlo inferno e paradiso, inizio e fine, detto e non detto e soprattutto l’esistenza e il suo contrario, e dove il corpo è insieme limite  e superamento delle cose, chiamato com’è a far da elemento unificatore delle varie dicotomie, regalando coerenza narrativa all’immaginario registico.

In questo senso “Another End” diventa un cinema di corpi scandagliati nello scarto tra contenitore e contenuto, tra carne e anima, su cui il film si basa per immaginare di far tornare in vita i defunti inserendone i ricordi nel corpo ospite. Un concetto evidente fin dalla prima sequenza, in cui l’immobilità del corpo della donna, ripreso di spalle e schiacciato alla parete dalla resa prospettica, lo fanno sembrare svuotato di ogni vitalità e ridotto a semplice involucro. Un pensiero presente anche nella decisione di evidenziare la maggiore grandezza del corpo di Ava rispetto a quello di Sal, avvalorando la persistenza della forma in un contesto umano più votato al “sentire” che al “vedere” (“voglio riuscire a vederla” dice Sal, incapace di riconoscere la propria amata nella donna che le ha prestato il corpo).

Come pure nella dialettica tra spazi esterni e interni, con la città presente fintanto che la solitudine non viene sostituita dalla pienezza dell’amore, destinata a far scomparire lo spazio presente nei campi lunghi della città a favore di un cinema che si fa tutt’uno con i corpi nella volontà di restituirli dall’interno, corrispondendo - nella seconda parte - all’avvenuta presa di coscienza di Sal, capace di riconoscere il “contenuto” nella “forma”. Con la sequenza in cui Sal e Ava entrano nella sala dentro la stanza dei ricordi a far da spartiacque del film, spostando la storia su un livello di percezione che sembra in scena l’inconscio dei personaggi e con esso i loro sentimenti.

“Another End” diventa così la cartina di tornasole di un talento, quello di Piero Messina, in grado di accompagnare la bellezza dell’immagine con una visione del cinema a trecentosessanta gradi, quella che gli permette (non avendo a disposizione i capitoli di una saga per farlo) di compensare l’alto numero di informazioni necessarie a creare il supposto narrativo del film e del suo mondo, e dunque il rischio di avere a che fare con un film molto parlato, lasciando alle suggestioni più che alla messinscena il compito di raccontarli allo spettatore. A completare l’eccellenza del quadro concorre la direzione degli attori, ancora una volta orientata a un cast internazionale e a un parterre di interpreti a cui Messina offre la possibilità di una performance capace di rivaleggiare con le migliori delle rispettive carriere. Come succede nel caso di Renate Reinsve, brava nel dare anima e corpo (da modella) a un personaggio che sembra omaggiare la Kim Novak de “La donna che visse due volte” e che soprattutto nella scena del night club ha echi della Nastassia Kinski de “Un sogno lungo un giorno”. Presentato in anteprima e in concorso all’ultima edizione del Festival di Berlino, “Another End” è uno dei film più belli visti in questa prima parte di stagione.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, giugno 24, 2024

INSIDE OUT 2

Inside out 2

di Kelsey Mann

USA, 2024

genere: animazione

durata: 96’

C’è sempre un po’ di timore quando si parla di sequel. Se poi il sequel in questione va a toccare uno dei film di maggiore successo la paura si fa ancora più concreta. Non è, però, il caso di “Inside out 2” che, a distanza di 9 anni, torna sul grande schermo per scavare ancora di più nella mente (dello spettatore e della “piccola” Riley) tirando fuori dal cilindro nuove emozioni pronte a fornire ulteriori sfaccettature alla protagonista e a tutti coloro che la circondano. E, infatti, “Inside out 2” complica ancora di più le dinamiche della nostra mente, aggiungendo complessità e difficoltà anche e soprattutto nelle azioni e nelle situazioni apparentemente più semplici.

Ritroviamo Riley, in piena adolescenza, che, all’età di 13 anni, viene scelta, insieme alle sue due migliori amiche, per un campus speciale di tre giorni in quello che potrebbe diventare il suo futuro college. Qui deve dare prova di sé e dimostrare alla coach che l’ha selezionata e alle eventuali future compagne di squadra di essere all’altezza delle aspettative.

In parallelo, ad aiutarla, e, talvolta, a metterle i bastoni tra le ruote, ci sono Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Le cinque emozioni primarie sono convinte di aver trovato un equilibrio perfetto e la chiave giusta per “governare” Riley. Non hanno, però, fatto i conti con le nuove emozioni che si sviluppano durante la pubertà: Ansia, Invidia, Imbarazzo, Ennui (“quella che voi chiamate Noia”) e, con qualche sporadica apparizione, anche Nostalgia.

La convivenza tra le emozioni primarie e secondarie diventa il fulcro di questo secondo capitolo che, pur viaggiando sugli stessi binari del primo e riprendendone, almeno in parte, la struttura, complica il tutto creando legami (di amicizia e distacco) tra i vari personaggi. Sono le emozioni, così come nel primo film, le protagoniste a tutti gli effetti. Emozioni, come sempre, ben caratterizzate con un’attenzione maniacale ai dettagli, dai colori, alle espressioni, passando per le parole usate e per il modo di rapportarsi.

La mente di Riley si apre sempre più e si fa più complessa con tante zone nascoste, sconosciute, ancora inesplorate, ma che verranno varcate e, in qualche modo, contaminate dalle emozioni che cercheranno di riportare la giovanissima sulla retta via.

Come tutti i film Pixar, e come soprattutto “Inside Out” ha insegnato, non c’è una formula ben precisa o sempre uguale che possa fornire la soluzione corretta. Le uniche cose certe sono collaborare, unire le forze e provare a mettersi l’uno nei panni dell’altro in modo da arrivare a una conclusione che possa mettere d’accordo tutti e fare il meglio per il diretto/la diretta interessato/a.

Una formula ormai consolidata nell’universo Pixar e che, anche la Disney, ha preso in prestito negli ultimi anni, un po’ cavalcando l’onda del politicamente corretto, cercando di togliersi di dosso la maschera della classicità che prevedeva il salvataggio della fanciulla da parte dell’eroe. E se anche “Frozen”, tanto per dirne uno, punta sulla forza delle sorelle, “Inside out 2” punta sulla forza e sull’eterogeneità del gruppo, addirittura pronto ad accogliere eventuali nuove e ulteriori novità.

A far storcere il naso, però, c’è il “problema” che purtroppo le emozioni secondarie sembrano essere solo e soltanto negative. La riflessione che emerge, quindi, è quella di una pubertà come evoluzione negativa dell’infanzia. Perché di fatto i nuovi protagonisti sembrano essere gli antagonisti del solido gruppo già formato. È vero che il campo adolescenziale è talmente vasto che una direzione andava presa, a discapito di altre importanti allo stesso modo, ma indirizzare il tutto solo e soltanto su questo versante significa convincere i più piccoli, ma non del tutto i più grandi.

Tra Easter Eggs, citazioni e richiami (dai videogiochi ai cartoni animati, passando anche per i cult del cinema), il secondo capitolo del film Pixar, stavolta diretto da Kelsey Mann, va ancora più a fondo nella mente della ragazzina protagonista, ma non scava nei meandri di quello che, come detto, è forse il periodo più complesso e denso di sfaccettature in generale: l’adolescenza. Ed è forse proprio questa complessità a tarpare le ali al film. Un film che potrebbe librarsi tranquillamente in aria, è, in parte, troppo ancorato a terra e, forse per la materia trattata o per l’incredibile cura nei dettagli o per entrambe le cose, dimentica di sviluppare alcuni aspetti (o magari ha intenzione di farlo in un terzo capitolo?). Se con l’avanzare dell’età le emozioni aumentano e la mente si fa sempre più complessa e piena di sfaccettature, perché gli unici adulti dei quali vediamo le emozioni (i genitori di Riley) hanno solo le emozioni primarie? Forse perché si adattano alla situazione del momento e, dovendo parlare con un’adolescente, nascondono e, quasi, reprimono quelle emozioni che complicherebbero ancora di più le carte in tavola e il rapporto che vorrebbero creare con la figlia? Magari questo potrà essere uno degli aspetti sui quali incentrare un terzo capitolo per il quale si aprono davvero tanti scenari.

Intanto non resta che godersi questo secondo capitolo, nuovamente campione di incassi, che con l’imbarazzo di essere dimenticato dopo 9 anni, l’invidia, in quanto sequel, di replicare il successo del primo, è tutt’altro che annoiato o noioso, ma in costante e perenne ansia da prestazione, così come la nuova “co-protagonista” arancione che ha conquistato chiunque fin dal primo istante, oltre a essere colei che dà origine a una delle sequenze più spaventose, ma allo stesso tempo magnifiche, di “Inside Out 2”, spiega a piccoli e grandi cosa vuol dire “provare emozioni”.


Veronica Ranocchi

domenica, maggio 19, 2024

'UNA SPIEGAZIONE PER TUTTO': CONVERSAZIONE CON GABOR REISZ

Vincitore del premio per il miglior film nella Sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, “Una spiegazione per tutto” di Gabor Reisz racconta l’Ungheria dei nostri giorni con una cinematografia che fa della forma la chiave per capire il senso delle immagini. Del film e dei suoi temi abbiamo parlato con il regista Gabor Reisz.
Una spiegazione per tutto è nelle sale, distribuito da I Wonder Pictures.

Nel prologo che introduce Una spiegazione per tutto le sequenze iniziali mescolano tempo, luoghi e persone senza spiegarci nulla. Ad andare in scena sono tranche de vie in cui a emergere è l’indecifrabilità del reale. 

Anche se messe all’inizio del film le sequenze di cui parli sono state le ultime scritte in fase di sceneggiatura perché, a un certo punto, abbiamo capito di aver bisogno di qualcosa che fosse utile a presentare la generazione più giovane, quella vittima della Storia. Abbiamo finito il film con i giovani, per cui volevamo farli comparire anche all’inizio. Mi rendo conto, com’è successo agli spettatori non ungheresi, che non è facile capire il contesto di quei frammenti. Si riferiscono alla tradizione ungherese per cui gli studenti delle scuole superiori la sera prima degli esami vanno a trovare i professori, bevono con loro, cantano per le strade.

Si tratta di una narrazione molto frammentata in cui anche l’utilizzo di diversi format rimanda all’incomunicabilità tra generazioni diverse. La discontinuità della forma traduce la confusione di significato presente nel linguaggio utilizzato dai personaggi.  

Per quanto riguarda la forma a me interessava usare uno stile molto realistico. Tra le altre cose abbiamo girato anche con la fotocamera dell’Iphone dando il cellulare in mano agli studenti. Molte scene le hanno girate loro e mescolate a quelle realizzate dal nostro cameraman hanno dato vita a un bel mix caotico. Anche se il risultato non rientra nella struttura tradizionale dei film ho pensato che rendesse bene la diversità del linguaggio giovanile.

Peraltro il fatto che i personaggi si muovono senza una direzione precisa coglie con efficacia la mancanza di riferimenti e la ricerca d’identità tipica delle generazioni giovani. Una caratteristica, quella di far dialogare la forma con i contenuti, tipica del cinema ungherese. 

Tenendo conto che certe soluzioni vengono d’istinto, sono concorde con la tua analisi. Non ci avevo pensato prima, ma ragionandoci a posteriori penso sia proprio così.

In Una spiegazione per tutto l’incomunicabilità esiste tra padre e figlio, tra alunni e professori e si ritrova anche all’interno di gruppi omogenei: per esempio tra i compagni di scuola di Abel, come pure tra militanti dello stesso partito politico. Esemplare in questo senso è la sequenza dell’intervista, con l’epilogo all’insegna di una frattura insanabile. Sei d’accordo nel dire che l’incomunicabilità è uno dei temi del film?

Completamente! È uno dei temi principali del film e pure della mia esperienza personale. In Ungheria a un certo punto abbiamo iniziato a perdere la vera comunicazione tra le diverse generazioni e tra le persone comuni a causa della politica e della troppa pressione causata dalle aspettative sociali, anch’esse di matrice politica.

Si tratta di una condizione che genera fantasmi a cominciare da quelli presenti nella politica. Lo sono quelli del passato che impediscono ai personaggi di interpretare il presente con le categorie contemporanee. Lo sono in maniera più classica quelli legati alla sfera affettiva e sentimentale, con Abel e Janka innamorati dell’idea dell’altro e dunque incapaci di vedere chi hanno veramente davanti. 

Sì, tra Janka e Abel la mancanza di comunicazione è dovuta al fatto che per loro si tratta della prima storia d’amore, dunque di una dimensione in cui tutto è molto confuso. Cuore e sentimenti vanno per conto proprio quindi è difficile riconoscere cosa provi. La fine dell’adolescenza è molto strana per i giovani. Il contesto degli esami finali l’ho scelto proprio per questa ragione. Alla fine delle scuole superiori, per la prima volta, devi prendere delle decisioni importanti per la tua vita, un po’ come succede quando per la prima volta inizi a provare qualcosa per qualcuno. In entrambi i casi si tratta di un periodo della tua vita completamente caotico. Per quanto riguarda l’insegnate di Abel, anche con lui volevo rappresentare i diversi modi attraverso i quali le persone perdono la capacità di comunicare.

Rappresenti la tensione tra padre e figlio senza stacchi, ma muovendo nervosamente la macchina da uno all’altro durante le loro conversazioni. A differenza del campo e controcampo questa continuità rende al meglio il sentimento di Abel, prigioniero delle aspettative del padre allo stesso modo in cui lo è del legame stabilito dal movimento della mdp.

Per quanto riguarda il lavoro fotografico sono state prese diverse decisioni, specialmente nella prima parte del film in cui ci siamo concentrati sui personaggi principali dei vari capitoli. Li abbiamo seguiti cercando di identificarci con loro.

Dal punto di vista visivo il legame stabilito dalla mdp di cui parlavamo sopra dà ancora più senso a due sequenze di tenore opposto perché la corsa in bicicletta di Abel prima e quella sulle acque del mare poi sono una reazione a tale costrizione. Si tratta di movimenti che non hanno una meta precisa se non quella di esprimere il desiderio di una libertà conquistata almeno in parte. 

È così. Attraverso il personaggio di Abel volevo ragionare sul concetto di libertà in un momento in cui non sei ufficialmente adulto perché vivi ancora con i genitori e non hai iniziato l’università o un lavoro. Insomma nell’ultimo momento della vita in cui, essendo ancora ragazzo, e in questo caso figlio, puoi sentire completamente la libertà. La corsa notturna in bicicletta mi dava modo di esprimere questo sentimento in un’unica inquadratura. La mancanza di tagli lo rendeva ancora più forte.

Dopo essere stato girato in modo molto realistico l’ultima sequenza del film… non lo è. La sua eccezionalità sta anche nel fatto che è l’unica ripresa dall’alto e che la corsa nell’acqua è realizzata senza nascondere il possibile utilizzo di effetti digitali. Ciò ti permette di esprimere il concetto di libertà a livello metafisico rendendo ancora più profondo il senso di liberazione del giovane protagonista. 

Esatto, sono molto felice che tu li abbia notati perché mentre giravamo queste scene a volte l’attrice che interpretava Janka mi chiedeva perché non c’erano dialoghi. Mi diceva che i giovani parlano di continuo facendo sempre domande, invece per me quella sequenza si deve immaginare non in termini realistici, ma come la scena di un sogno.

Una spiegazione per tutto analizza il funzionamento distorto dei media e in particolare la capacità delle fake news di rovinare la vita a chi ne è vittima. Anche in questo caso si torna in qualche modo al tema dell’incomunicabilità.

Sì, volevo sottolineare cosa succede in Ungheria con il governo di Viktor Orban in cui questa cosa si trasforma in propaganda. Non so come funziona in altri paesi, ma nei nostri media esiste un certo tipo di manipolazione dietro ogni notizia.

Dal tuo film emerge l’idea che la politica in Ungheria abbia uno spazio molto importante nella vita quotidiana delle persone. Al di là delle generazioni tutti finiscono per parlarne e per esserne influenzati. 

Per me, prima di questo film, non era importante. Dopo la delusione politica vissuta quindici anni fa ho deciso che non ne sarei stato più influenzato. Solo dopo, durante la preparazione del lungometraggio, ho scoperto l’impossibilità di vivere senza alcuna idea su quello che stava accadendo nella nostra politica. L’idea del film nasce in concomitanza con la decisione del governo di riformare l’università delle Arti teatrali e Cinematografiche. Gli studenti dell’università hanno iniziato l’occupazione organizzando diverse dimostrazioni. Io li ho sostenuti e questa è stata la prima volta in quindici anni che ho preso una posizione che non era né di destra né di sinistra. È diventata di sinistra solo perché il governo non era d’accordo con il movimento studentesco e nonostante io non appartenga a quella corrente politica. L’occupazione è durata alcuni mesi ed è stata un momento terribile che, in qualche modo, è entrato a far parte della storia raccontata nel film.

Parliamo del cinema che preferisci.

È molto difficile fare nomi. Nell’ultimo anno ho iniziato a guardare i film di Abbas Kiarostami e l’ho veramente amato come è successo per altre opere iraniane. Ho studiato filmografia e sono una persona appassionata di cinema, interessata a diversi periodici storici. Dalla Hollywood degli anni cinquanta ai giorni nostri. Questo per farti capire i miei gusti e l’impossibilità per me di farti un elenco di film e registi.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, maggio 17, 2024

CONFIDENZA

Confidenza

di Daniele Luchetti

con Elio Germano, Vittoria Puccini, Federica Rosellini

Italia, 2024

genere: drammatico, thriller

durata: 131’

Quanto può costare e durare un segreto? Sembra essere questa la domanda che vuole farci Daniele Luchetti nel suo “Confidenza”. Una domanda che, portandoci a riflettere sul valore di qualcosa piuttosto che sul contenuto ci costringe, come i personaggi della sua storia, a prestare particolare attenzione a ogni singolo dettaglio, ogni singolo movimento, ogni singola azione sperando che possa aiutarci a comprendere qualcosa di più. Talmente abituati a dover comprendere tutto ciò che vediamo, il film di Luchetti può sembrare quasi un pugno nello stomaco in questo senso.

Tra realtà, finzione, sogni e ricordi “Confidenza” è la storia di Pietro Vella, professore umanistico in un liceo di Roma. Qui, negli anni, forma tanti studenti, alcuni più meritevoli, altri meno, ma con l’idea che non ci sia un indirizzo preciso da seguire sempre e comunque se non quello dell’attenzione e della vicinanza nei confronti di chi ha davanti. Tra tutti quelli che siedono sui banchi del liceo di Vella c’è anche Teresa Quadraro, brillante studentessa destinata a una grande carriera, soprattutto in campo matematico. Una conoscenza e un’intelligenza quelli della Quadraro tali da far vacillare anche le certezze del professore che, come una calamita, ne è attratto.

Un tempo e una vita scorrono davanti a lui (e a noi). Si arriva a un apparente equilibrio che verrà, però, scombinato quando l’ormai anziano professore dovrà recarsi al cospetto del Presidente della Repubblica per ritirare un premio.

Fin da subito Luchetti ci fa capire che quello che vedremo non sarà un film di facile comprensione. Il primo elemento con il quale entriamo in contatto è una strada, il vicolo che ci porta verso un’abitazione e poi, subito dopo, vediamo una porta chiusa. A chi spetta il compito di aprirla? Si può aprire? E cosa nasconde? In una costante dicotomia tra i temi centrali della vicenda, amore e paura, “Confidenza”, adattamento dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, si accavalla su sé stesso e si attorciglia, facendo perdere anche a noi spettatori i riferimenti, fatta eccezione per quelli principali o che crediamo tali.

“L’amore non è mai alla pari, è sopraffazione” afferma Teresa Quadraro rivolgendosi a Pietro Vella nella speranza, forse, di fargli comprendere qualcosa che lui vede, invece, solo da una prospettiva limitata. E, infatti, è ben presente il tema della incomunicabilità. Ma non solo tra i due, anche con tutti coloro che, più o meno direttamente, si trovano ad avere a che fare con il protagonista. Un protagonista destinato a crescere ma non a evolversi. Continuamente ancorato al suo passato, Pietro Vella, amato e amante della sua ex studentessa, non riesce mai ad andare oltre quella prigione che lui stesso si è creato dopo “quella confidenza”. Confidenza destinata a rimanere tale, enorme, importante, grave, ma soprattutto segreta.

Chi è davvero, quindi, il “mostro” che lo stesso Vella chiama tormentato e tormentandosi? È lui che non accetta i cambiamenti, le trasformazioni, il tempo che scorre lasciando vincere la paura sull’amore o sono gli altri, incarnati nei due antipodi, eppure così simili, di Teresa e Nadia, la moglie, anche lei professoressa di matematica, quasi copia della prima, come la ex studentessa ha modo di sottolineare in maniera quasi ossessiva? Da una parte la realtà, dall’altra la finzione, il sogno, la speranza. Se Pietro è, o pensa di essere, la parte razionale, Teresa è sicuramente emblema di quella parte irrazionale che, però, sopraggiunge sempre e comunque, anche nei momenti più inaspettati come in un giro vorticoso su sé stessi dove inizio e fine sembrano quasi coincidere.

Quel che è certo è che Daniele Luchetti, con il suo film, torna a mettere al centro le relazioni e la famiglia, seppur in maniera meno usuale del solito e meno lineare, spingendo lo spettatore a compiere un vero e proprio salto nel vuoto.


Veronica Ranocchi

lunedì, maggio 13, 2024

MOTHER'S INSTINCT

Mother’s instinct

di Benoît Delhomme

con Anne Hathaway, Jessica Chastain, Anders Danielsen Lie

USA, 2024

genere: thriller

durata: 94’

Due grandi nomi e due grandi attrici. Da una parte Anne Hathaway, la glaciale Celine; dall’altra Jessica Chastain, l’attenta sognatrice Alice. Insieme per “Mother’s Instinct”, diretto da Benoît Delhomme, film che è remake dell’omonimo di Olivier Masset-Depasse del 2018, entrambi tratti dal romanzo “Oltre la siepe” di Barbara Abel.

Al centro due donne, forti e deboli allo stesso tempo. Due donne, due vicine di casa, due amiche e soprattutto due madri. Se l’inizio idilliaco in un’America anni ’60 sembra presentarci una storia dai colori pastello, impronta importante del film, con l’andare avanti della storia capiamo che questa palette di colori altro non è che una maschera opaca che cerca di ovattare colori ben più vividi, densi e scuri.

Celine e Alice, due amiche e vicine di casa, sono entrambe madri di due bambini di 9 anni. Max è il figlio di Celine, alla quale lei si dedica anima e corpo, Theo è il figlio di Alice continuamente sorvegliato e tenuto sotto controllo a causa di una forte allergia alimentare che potrebbe causargli danni irreversibili. Se Celine sembra a suo agio e soddisfatta della propria vita, con un marito al suo fianco che non le fa mancare nulla, ma che la vincola ai lavori di casa e a occuparsi del figlio la stessa cosa non si può dire di Alice che, nella stessa situazione di Celine, appare insoddisfatta della propria quotidianità ed è costantemente alla ricerca di un diversivo, di qualcosa che possa rompere e interrompere la sua routine, scandita inesorabilmente dalle stesse azioni. L’equilibrio perfetto delle (e tra le) due famiglie si interrompe, però, bruscamente con il terribile incidente accorso al piccolo Max che, a casa con la febbre, sporgendosi dal balcone, cade e perde la vita sotto gli occhi di Alice che non riesce ad arrivare in tempo per salvarlo. Da quel momento i personaggi subiscono un cambiamento radicale che li trasforma completamente, Celine su tutti.

E proprio da questo incidente viene messo ancora più in evidenza e al centro della scena il rapporto antitetico tra le due protagoniste. Quell’amicizia tanto decantata all’inizio, che porta Alice a recarsi di nascosto in casa dell’amica per organizzarle una festa a sorpresa (azione descritta in maniera, però, molto sospettosa e “pericolosa”), si trasforma in un rapporto continuamente in bilico.

Ho imparato a separare il dolore dalla colpa” confessa Alice in un momento di riappacificazione con l’amica che, dopo il lutto subito, la allontana, quasi come se la ritenesse responsabile di quanto avvenuto. In realtà è una frase emblematica che descrive entrambe allo stesso modo e che, per motivazioni diverse, le inquadra perfettamente al centro della scena.

Un rapporto quello tra le due che, fin dall’inizio, risulta quasi morboso. Un rapporto che cominciamo a comprendere e inquadrare solo dopo le prime scene, nel momento in cui appaiono anche gli altri personaggi, fondamentali per “tirare” entrambe da una parte e dell’altra e per smorzare spesso i toni.

Uno degli interrogativi più grandi del film è quello dell’essere madre. Come lo si può essere nel modo giusto? C’è un modo giusto? Chi è una buona madre e come si comporta? Sono tutte domande che il regista, attraverso i personaggi perfettamente cuciti addosso alla Hathaway e alla Chastain, ci pone. Domande che non trovano una risposta perché, senza anticipare niente, il risultato è che non ci sono vincitori, ma solo vinti. Chi in maniera più evidente e chi meno, chi volontariamente e chi senza la propria volontà, la certezza verso la quale ci indirizza il film è che non c’è una risposta.

Così come non c’è una risposta alla storia, a tinte hitchcockiane, che vede protagoniste Alice e Celine e tutti i comprimari. Ciò che sembra perfetto e appare indistruttibile è in realtà quanto di più fragile esista, al contrario coloro che nutrono dubbi e interrogativi su sé stessi e gli altri sono, forse, alla fine dei conti, i più forti.

Tra deliri di onnipotenza e deliri di oppressione, “Mother’s instinct” ci mostra, seppur in maniera un po’ più opaca di quanto avrebbe potuto fare, che l’istinto di una madre non sbaglia mai, nel bene e nel male.

Il mondo perfetto che Celine si era disegnata forse non era così perfetto così come la tanto agognata libertà di Alice, continuamente imprigionata tra le mura domestiche, costretta a guardare lo scorrere del tempo e della vita da dietro una finestra metafora delle sbarre di una prigione, il cui prezzo era davvero troppo alto.


Veronica Ranocchi

giovedì, maggio 09, 2024

"C'ERA UNA VOLTA IN BHUTAN" COVNERSAZIONE CON PAWO CHOYNING DORJI

Ispirato alla realtà “C’era una volta in Bhutan” trasfigura in maniera poetica e favolistica l’avvento della democrazia nel piccolo stato himalayano. Del film abbiamo parlato con il regista Pawo Choyning Dorji.

Pawo Choyning Dorji è il regista del film “C’era una volta in Bhutan”, in sala dal 30 aprile grazie a Officine Ubu.

“C’era una volta in Bhutan”, il titolo italiano del tuo film, ne coglie la caratteristica principale, quella di essere una sorta di fiaba contemporanea. A legittimarlo è innanzitutto la premessa, e cioè la decisione del Re di concedere al suo popolo la possibilità di eleggere il proprio leader. La scelta di questa struttura formale è dovuta all’intelligibilità di comunicazione oppure al fatto di adattarsi meglio di altre alle tematiche del racconto?

Una delle storie più interessanti del Bhutan è quella relativa al passaggio del paese alla modernità. Nel corso del 900 è stato una delle nazioni più isolate al mondo, una politica autoimposta attuata per salvaguardare la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra sovranità, dopo aver visto paesi simili al nostro, come lo sono il Tibet e lo Sikkim, perdere la loro indipendenza a favore di Cina e India. Probabilmente siamo l’unico paese al mondo che lavora per raggiungere la “felicità nazionale lorda” invece che il prodotto interno lordo. Siamo stati gli ultimi a consentire la televisione e la connessione a Internet e probabilmente l’unico paese al mondo a introdurre la democrazia senza guerra e rivoluzioni.

Come cerco di mostrare nel film per i buthanesi la qualità dell’innocenza è un aspetto molto importante di ciò che siamo. Sentivo che mentre ci aprivamo al mondo esterno nel tentativo di modernizzarci e diventare una democrazia questa bella qualità è stata erroneamente scambiata per “ignoranza”.

Attraverso “C’era una volta in Bhutan” ho cercato di evidenziare l’importanza dell’innocenza in questo periodo di cambiamento. Ho cercato di rimanere fedele a quel periodo. La storia attraversa generi diversi poiché è fedele alla realtà.

La rappresentazione del Bhutan è caratterizzata dalla dolcezza e dalla fantasia tipiche delle fiabe. Elementi che, allo stesso tempo, sembrano appartenere in maniera realistica alle persone e al territorio in cui si svolge la storia. Volevo chiederti del rapporto tra realtà e finzione e di come lo hai introdotto nel film.

Come regista, sono una persona che trae sempre ispirazione da eventi reali. Sia questo film che il precedente – Lunana: A Yak in the Classroom – derivano dalle mie esperienze nel vedere un paese come il mio, radicato nella cultura, nella tradizione e nella spiritualità, cercare di trasformarsi in una nazione moderna.

Ho cercato di rimanere fedele alla mia esperienza personale, quella avuta nel corso della trasformazione modernista e democratica a cui ci siamo preparati con una “finta elezione” poi vinta dal partito giallo! Anche la costruzione dello Stupa – monumento buddista in cui si contengono reliquie -, è reale, avendola vissuta durante la pandemia: il simbolismo di tutto ciò che era collocato al suo interno mi ha colpito così tanto che ho sentito il bisogno di adattarlo in un film da condividere con il resto dei presenti e del mondo.

Puoi parlarci della difficoltà della popolazione rurale nell’affrontare il processo di trasformazione e le regole della democrazia? Peraltro l’esemplarità della storia raccontata in “C’era una volta in Bhutan” permette di allargare al resto del mondo il discorso riguardo alla cosiddetta esportazione della democrazia. Nonostante la bontà delle premesse, la tradizione e le abitudini di alcuni paesi rendono complesso l’incontro con il sistema democratico. Una riflessione che attraversa il film con risultati a volte divertenti, a volte più seri.

Come ti dicevo prima ho cercato di restare fedele a ciò che è realmente accaduto in Bhutan quando siamo passati dalla monarchia alla democrazia. Per me personalmente questa è stata un’esperienza ancora più avvincente perché durante la fase di democratizzazione studiavo scienze politiche negli Stati Uniti e ho potuto constatare i contenuti della narrazione democratica, quella che considera i paesi governati da un solo individuo bisognosi di essere liberati.

Essere immerso nella cultura degli Stati Uniti, nazione che vede la democrazia come la più grande evoluzione del pensiero politico, un vero e proprio dono per il resto del mondo, e per contro sapere che il mio paese era così riluttante ad accettarlo, mi ha regalato un tipo di narrazione molto particolare da testimoniare. Oltre alla serietà del cambiamento penso che quel processo fosse intriso di umorismo nella maniera che ho cercato di far vedere nel film.

Il Buddismo dice che l’unica costante è il cambiamento. Partendo dall’importanza di questo concetto il film sembra riflettere sulla difficoltà di cambiare anche quando si tratta di andare incontro al bene.

Non esiste Bhutan senza Buddismo. In realtà cambiamento e impermanenza sono gli elementi più importante di questa storia. Penso sia rilevante ricordare che il Bhutan ha deciso di isolarsi e tagliarsi fuori dal resto del mondo per preservare il suo stile di vita. Tuttavia, a metà degli anni 2000, ci siamo di colpo trovati come l’unica entità non moderna in un mondo che lo era in tutto e per tutto. Per rimanere rilevanti siamo stati obbligati a cambiare. Non volevamo farlo, ma ci siamo dovuti adattare al contesto per poter sopravvivere. Il cambiamento è stato inevitabile.

Lo scarto tra la scena iniziale e quella finale oltre a sottolineare il cambiamento esistenziale dei personaggi attraverso la differenza delle stagioni sembra anche alludere al fatto che la modernità del Bhutan dovrà ancora tenere conto dell’importanza del fattore umano e della spiritualità così come nelle tradizioni del paese. Il monaco che attraversa i campi con la bombola del gas sulle spalle afferma la necessità di non perdere il contatto con le proprie radici. Sei d’accordo con questo?

Del tutto d’accordo! La storia inizia con il monaco che attraversa il campo con la bombola e così è anche la fine. Con ciò volevo mostrare che anche attraverso il cambiamento ci sono alcune cose che rimangono costanti. All’inizio, con il riso essiccato, ho cercato di rappresentare il cambiamento imminente; alla fine, con il mare di fiori di grano saraceno, l’incertezza e la speranza per il futuro.

Nella semplicità delle inquadrature, effettuate senza movimenti di macchina particolari e con un tipo di regia invisibile, sembra che tu voglia preservare la centralità della storia e dei personaggi, la loro franchezza e sincerità. Sei d’accordo con questa visione della messa in scena?

La motivazione principale per cui faccio film è preservare le storie del Bhutan attraverso il cinema e condividerle con il resto del mondo. Per fare ciò ho permesso al pubblico di sperimentare veramente cosa significa essere immersi nella cultura bhutanese. Come accennato in precedenza, la qualità dell’innocenza è un aspetto fondamentale di ciò che significa essere bhutanesi. Inoltre, i temi del buddismo sono aspetti essenziali nel raccontare una storia delle mie parti. Penso che queste qualità confluiscano anche nel modo in cui si svolge il film, nel ritmo, nella direzione e, ovviamente, nei movimenti della mdp. Come regista, voglio che il pubblico senta il Bhutan in ogni scena dei film che realizzo.

Nella cultura bhutanese raccontare una storia è così importante che non ha nemmeno una parola. In italiano e in inglese forse si dice “raccontami una storia” ma in Bhutanese se vogliamo che qualcuno lo faccia diciamo: “per favore sciogli un nodo”. Si suppone che il racconto di una storia abbia lo scopo di sciogliere, di liberare.

Patria della democrazia, gli Stati Uniti portano all’interno della storia la contraddizione più evidente, quella di assicurare la democrazia ricorrendo alle armi. La presenza del fucile all’interno del rito religioso era un modo per dire che la prima regola della democrazia sarebbe quella di rinunciare a ogni violenza e aggressività?

In realtà, in tutta la storia, ho voluto fare affidamento sul potere del simbolismo. Il fucile ovviamente è necessario alla fine della storia, ma volevo anche che rappresentasse e simboleggiasse l’avvento della modernità, poiché è un’arma non originaria del Bhutan, ma fabbricata fuori. Come la modernità anche il fucile può essere benefico, ma anche diventare distruttiva.

Agli attori avevo detto di interagire con l’arma in modo innocente, proprio come i bhutanesi locali interagivano con la modernità. Quindi, nel film vedrai la gente del posto tenere il fucile sottosopra, guardare dentro una canna, a volte usandola anche come bastone da passeggio. Poiché l’arma simboleggia l’avvento della modernizzazione, avevo bisogno di qualcos’altro per simboleggiare il contrasto con la cultura bhutanese. Così alla pistola, simbolo di modernizzazione, ho contrapposto il fallo che raffigura la cultura e le tradizioni del Bhutan.

Per concludere volevo chiederti del cinema che preferisci.

Avendo studiato in Europa e negli Stati Uniti ho ricevuto un’educazione occidentale. Tuttavia, maggiore è stata l’influenza straniera che ho avuto, più sono stato propenso a restare in contatto con la mia cultura e con le tradizioni orientali. Per questo nutro molta ammirazione per il cinema asiatico. I primi lavori di Zhang Yimou e Hou Jianqi sono tra i miei preferiti. Lungometraggi di Zhang Yimou come Not One Less e The Road Home hanno avuto un ruolo enorme nell’ispirarmi a realizzare Lunana: A Yak in the Classroom. Anche il regista giapponese Hirokazu Koreeda è uno di quelli i cui film non mancano mai di ispirarmi.