sabato, settembre 29, 2018

UNA STORIA SENZA NOME


Una storia senza nome
di Roberto Andò
con Micaela Ramazzotti, Renato Carpentieri, Alessandro Gassmann, Laura Morante
Italia, Francia, 2018
genere, drammatico
durata, 110'


Una delle trovate più interessanti de "Una storia senza nome" di Roberto Andò consiste nel rendere manifesti i segreti che i vari personaggi del film nascondono dentro di sé. La storia senza nome menzionata nel titolo è quella relativa ai misteri scaturiti dal furto della Natività del Caravaggio dall'oratorio di San Lorenzo, avvenuta nell'ottobre del 1969 e diventa nel corso degli anni leggendaria per l'impossibilità di identificare i colpevoli e, soprattutto, di rintracciare la preziosa refurtiva. Nel rievocarla Andò sceglie la tesi che attribuisce il colpo alla mafia palermitana, sposando una narrazione che tiene conto delle ipotesi accumulatesi nel corso degli anni durante i quali l'incolumità del quadro, o la sua definitiva compromissione, sono state a varie riprese messe in discussione. Lungi dal farne una cronaca di costume o di prendere a pretesto i fatti per metterne in scena la ricostruzione storica dell'accaduto, "Una storia senza nome", attraverso un processo d'astrazione proprio della Settima arte, ne attualizza i significati facendo della vicenda in questione il surrogato di ciò che è realmente accaduto all'inizio degli anni Novanta con la cosiddetta trattativa tra Stato e Mafia.



Nella sceneggiatura, redatta dallo stesso Andò insieme ad Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti, a scoprire l'inghippo è dunque Valeria (Micaela Ramazzotti), timida segretaria della casa di produzione dove lavora Alessandro (Alessandro Gassmann), sceneggiatore in crisi d'ispirazione di cui la donna è da sempre innamorata e per il quale scrive, sotto mentite spoglie, i copioni che l'altro non riesce neanche più a cominciare. A trasformarla in novella investigatrice è l'incontro con il super poliziotto interpretato da Renato Carpentieri e soprattutto le conseguenze scatenate dalla sceneggiatura della ragazza, rimaneggiata sulla base delle indagini svolte dall'uomo a proposito del tentativo da parte di uomini di governo e dei servizi segreti di ritornare in possesso del dipinto rubato, scendendo a patti con la malavita organizzata. Come si diceva all'inizio, il regista, pur mettendo in scena una commedia sofisticata con venature thriller, rinuncia fin da subito alla componente mystery connessa con le caratteristiche tipiche del genere, rendendo fin da subito partecipe lo spettatore degli intrighi e della lotta di potere tra gli opposti schieramenti. Avvantaggiandosi del fatto che non sempre la protagonista e anche il resto dei personaggi sono a conoscenza dei fatti e non lesinando a quest'ultima, e pure al pubblico, qualche sorpresa dal punto di vista affettivo (della quale ovviamente non si può dare anticipazione), 

Andò enfatizza la natura cinematografica del racconto, con una libertà che accumula citazioni (da Hitchcock al W. S. Van Dyke di "The Thin Man") e sovrappone piani spazio/temporali (al punto di farci confonderci tra la realtà della vicenda e quella del film che si sta girando) all'insegna del divertimento e della fantasia. E se il fatto di giocare allo scoperto con i generi fa dei personaggi secondari delle maschere degne della migliore commedia italiana (basti pensare che a prestargli corpi e volto sono, tra gli altri, Antonio Catania, Gaetano Bruno e Renato Scarpa), la cui mimica sembra fatta apposta per entrare in collisione con quella sofisticata e rigorosa di Carpentieri e della Morante (qui nei panni della mamma di Valeria), per non dire del contrasto di caratteri della coppia Ramazzotti/Gassmann, lei algida e fragile come una vera femme fatale (basti pensare alle scena della seduzione portata avanti dall'attrice con strepitoso trasformismo), lui cialtrone e smargiasso in una maniera che sembra omaggiare certi tipi umani portati sugli schermi dal celebre genitore, ciò non toglie che "Una storia senza nome" continui sulla scia dei precedenti "Viva la libertà" (2013) e "Le confessioni" (2015) a parlare dello stato delle cose dell'Italia, viste attraverso i continui accostamenti tra cultura alta e bassa, qui rappresentata dalla maestosità del quadro di Caravaggio e dalla popolarità di un contenitore che in certi momenti ricorda quella di un Italia da soliti ignoti monicelliani (così sembra la scena del furto dell'opera, sebbene con ben altri risultati di quelli raggiunti da Totò e soci).

Senza dimenticarsi di una lettura della realtà che, pur alleggerita dal tenore scherzoso della messinscena, riesce a dire diverse cose interessanti su alcuni dei temi più scottanti della nostra politica e anche della Settima arte, omaggiata in lungo e in largo ma anche criticata quando si tratta di affermare - attraverso la voce di uno dei personaggi - la sempiterna contiguità tra cinema e malavita. Presentato fuori concorso all'edizione appena conclusasi della Mostra del cinema di Venezia, "Una storia senza nome" sorprende con intelligenza e buon umore.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

MIO FIGLIO


Mio figlio
di Christian Carion
con Guillaume Canet, Melanie Lautent
Francia, Belgio, 2018
durata, 84'



Ambientato in alta montagna e costruito per la maggior parte sulla presenza di un unico personaggio, Mio figlio di Christian Carion è quello che si dice un film fuori dalla norma. Altrove abusata, l’espressione appare per una volta proporzionale alla qualità dei risultati, nonostante un contesto cinematografico e produttivo che almeno in apparenza farebbe pensare al contrario. Accade, infatti, che il regista francese per raccontare l’odissea di un padre alla ricerca di una pista utile a fargli ritrovare il figlio appena rapito organizzi la narrazione attraverso una fitta rete di pedinamenti e depistaggi che oltre a tradurre sul piano pratico l’investigazione messa in piedi dall’uomo rivelano – nella mancanza di un filo conduttore che non sia quello di ritrovare il bambino – il caos interiore che ne accompagna le azioni.


Laddove il cinema hollywoodiano avrebbe trasformato il dolore in spettacolo e la detection nell’occasione per trasformare il protagonista in un eroe da fotoromanzo, Mio figlio fa della normalità il metro con cui ogni elemento del film si deve confrontare, a cominciare dal personaggio principale, chiamato a sopravvivere a una situazione più grande di lui senza venire meno a uno status iniziale che lo non lo fa essere essere differente dallo spettatore seduto in platea.


In questo modo, l’ansia e la tensione trasmessi dalla storia non derivano dalla somma inconsulta degli elementi narrativi, scenografici e visivi messi a disposizione del regista quanto piuttosto da un processo di sottrazione (delle risorse) che lascia come unico riferimento possibile quello di ritrovarsi a contatto con la realtà vissuta dal protagonista, impegnato per tutto il tempo a lottare nella speranza di strappare il figlio a un destino già scritto. 

E qui veniamo all’eccezionalità del lavoro compiuto da Carion, poiché la credibilità dell’operazione e l’assoluta verosimiglianza di ciò che vediamo dipendono dalla flessibilità di un dispositivo capace di filmare in tempi brevissimi (la sinossi parla di sei giorni di riprese) sulla base di una sceneggiatura ridotto all’osso e con il bravo Guillaume Canet (affiancato in qualche scena dalla “moglie” Melanie Laurent) lasciato all’oscuro di ciò che lo avrebbe aspettato sul set e, dunque costretto a reagire senza poter utilizzare gli artifici del mestiere. In tempi in cui la tecnica e i soldi la fanno da padrone, un film come Nostro figlio si propone allo spettatore con un’essenzialità che sembrava perduta. Da vedere!
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

TERNI POP FILM FESTIVAL: ANNUNCIATO UN FILM SULLA VITA DI BUD SPENCER

FESTIVAL DEL CINEMA POPOLARE
27 – 30 settembre 2018


Largo S. Falchi n°3, 05100 Terni



La vita di Bud Spencer diventerà presto un film, al momento si sta lavorando alla sceneggiatura che ripercorrerà la vita di Bud prima del suo debutto nel mondo dello spettacolo. Questo l’annuncio che è stato fatto ieri sera da Giuseppe Pedersoli, figlio di Carlo Pedersoli, durante la cerimonia d’apertura del Terni Pop Film Fest – Festival del Cinema Popolare che ha voluto inaugurare la manifestazione ricordando uno dei volti più simbolici del cinema popolare.

Non potevamo non cominciare con lui” – hanno spiegato i direttori artistici Simone Isola e Antonio Valerio Spera – “visto che i suoi film hanno segnato quattro generazioni”.

La filmografia dell’artista, infatti, ha saputo travalicare i confini nazionali, rendendo la figura di Bud Spencer una vera e propria icona scolpita nel tempo: “Per noi è quasi come non se ne fosse mai andato” – ha spiegato Giuseppe Pedersoli – “abbiamo riscontrato, anche aprendo una pagina Facebook in suo ricordo, come la gente da tutto il mondo lo senta come uno di famiglia. Lui diceva sempre di non essere un attore, dopo molti anni ho capito il senso di quella frase. Lui sul set non interpretava nessun personaggio, era esattamente come era nella vita”.

venerdì, settembre 28, 2018

LOCARNO 71 - BLACKKKLANSMAN


BlacKkKlansman
di Spike Lee
con Adam Driver, John David Washington, Laura Harrier
USA, 2017
genere, biografico, thriller, commedia, drammatico, giallo, poliziesco
durata, 128'


Come si sa, la presenza a Locarno nella sezione Piazza Grande di "BlacKkKlansman" non è un'anteprima assoluta poiché nel Maggio scorso il film di Lee è passato nel concorso ufficiale del festival di Cannes, portandosi a casa il premio per la miglior regia. Le notizie della buona accoglienza ricevuta dal film e la vittoria di un premio importante non sono però sufficienti a restituire la qualità del lavoro messa in campo per l'occasione dal regista americano, il quale da un po' di tempo sembrava aver perso l'ispirazione, fiaccata dalle polemiche che da sempre contraddistinguono i rapporti del regista con lo show business americano e dalla scelta di progetti che, almeno per quanto riguarda il cinema di finzione, erano apparsi quanto meno discutili (su tutti il remake di "Oldboy" per la scarsa attinenza con l'identità della sua filmografia). Al contrario, la prima cosa che emerge in "BlacKkKlansman" è la volontà di recuperare il tempo perduto ripristinando il paesaggio poetico e sociale presente nelle opere migliori. La prova ci viene dall'utilizzo della trama, poiché la vicenda del poliziotto di colore che si infiltrata nelle file del Ku Klux Klan non risolve le sue prerogative nella fabbricazione dell'indagine dei poliziotti determinati a smascherare le nefandezze della famigerata organizzazione, tantomeno nell'avallo della matrice razzista della Nazione americana raccontata attraverso fatti (storici) realmente accaduti.


L'ambizione di Lee questa volta è diversa: l'afflato militante e le irridenti provocazioni che ne hanno contraddistinto le regie assumono in "BlaKkKlansman" le forme di un vero e proprio sit in cinematografico in cui "la chiamata alle armi" della comunità afroamericana subisce un'accelerazione che la porta a inglobare dentro di sé quello che fin qui è stato l'intero corso estetico, formale e contenutistico dell'autore. In questo senso nella carriera del regista "BlaKkKlansman" potrebbe figurare come una versione personalizzata dell' "8 e 1/2" felliniano in cui le modalità di infiltrazione, i mascheramenti e le indagini svolte dall'eccentrica squadra di poliziotti per entrare nel cuore del famigerato sodalizio vengono scandite da una serie di inserti in cui la condizione sociale e politica della popolazione nera degli anni Settanta (epoca in cui si colloca la vicenda) viene raccontata attraverso le passioni personali e cinematografiche del regista, di volta in volta declinate in vari tipi di forme e generi: della partita, dunque, fanno inevitabilmente parte il pamphlet politico, condensato soprattutto nella sequenza iniziale preceduta dall'inquietante arringa di Alec Baldwin, la commedia stand-up, utilizzata quando si tratta di confezionare l'esilarante sequenza della telefonata con cui Ron Stalworth (John David Washington) si finge uno sbirro bianco e razzista per farsi reclutare all'interno del Klan e, ancora, il tourbillon di generi (il thriller e il poliziesco già frequentati in altre circostanze), di toni (divertiti, divertenti e grotteschi) e di stili di recitazione (da quella compassata e laconica di uno straordinario Adam Driver alle esasperate e quasi caricaturali performance di chi da vita ai personaggi più viscidi e cattivi) per non dire della presenza di altrettanti miti della cultura afroamericana (dalla Blaxploitation ad Harry Belafonte, chiamato a parlare di razzismo e intolleranza davanti a simpatizzanti del movimento rivoluzionario delle Pantere Nere). 


La bravura di Lee (e del suo montatore) è quella di riuscire a far coesistere teorizzazione (si pensi alla presa di posizione nei confronti di "La nascita di una nazione") e pratiche cinematografiche in un contenitore perfettamente coerente e per nulla appesantito dal volume di materiale che vi converge. Vi si aggiunga, poi, la capacità di sfruttare il doppio canale costituto dal dare parola ai personaggi razzisti e a quelli che fingono di esserlo per sottolineare con ancora più veemenza il ridicolo su cui si basano le motivazioni dell'odio razziale. Il tutto con gli anni Settanta presi ad esempio per parlare dell'oggi e per evidenziare con tono polemico quanto poco sia cambiato rispetto a quegli anni in termini di diritti civili e di eguaglianza sociale.

La sequenza conclusiva con le drammatiche immagini degli incidenti avvenuti a Charlottesville nell'agosto del 2017 contrapposte all'imbarazzante commento del presidente Trump sono esemplari nel dirci che Lee ha ancora voglia di combattere e di farlo attraverso nuovi proseliti come per certi versi lo sono Jordan Peele ("Scappa - Get Out") e, un po' a sorpresa visto il target della compagnia di Jason Blum, la Blumhouse Productions, produttori del film.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì, settembre 26, 2018

THE NUN - LA VOCAZIONE DEL MALE


The Nun - La vocazione del male
di Corin Hardy
con Demián Bichir, Taissa Farmiga e Jonas Bloquet
USA, 2018
horror
durata, 96'
In molti lo stavano aspettando con ansia da mesi; in tanti fremevano dalla voglia di conoscere qualcosa di più sul demone Valak e sulla sua re-incarnazione in tunica nera; ma praticamente tutti non riusciranno a trovare nel film qualcosa che vada aldilà del semplice show-business.
La nuova pelliccola diretta da Corin Hardy che ha come protagonista l’inquietante suora nata del genio di James Wan (“saw-l’enigmista”, i due “insidious”, “fast and furious 7”, …) è soltanto un lontano parente di quel “The Conjuring 2” che ha tenuto incollati sulla poltrona - per lo meno durante la prima parte del film- milioni di appassionati dell’horror che finalmente avevano trovato qualcosa di diverso dall’oceano di “jump scare movies” che invade il panorama da tempo.

Chi si aspettava uno spin-off degno delle attese è rimasto profondamente deluso: “the Nun” è soltanto il frutto commerciale di un personaggio ideato bene ma che funziona in un contesto totalmente diverso da questo…un’ottima dichiarazione d’intenti lasciati in compiuta. Niente più allora indagini dei Warren o quadri inquietanti che si animano, ma solo spaventi di basso profilo e riferimenti biblici alquanto improbabili.

La storia è ambientata in Romania ed il film si apre con un misterioso suicidio in un convento di suore di clausura che tutti in città sembrano far finta di nascondere. A far luce sul mistero viene chiamato da Roma Padre Burke (Demián Bichir), esorcista dal passato misterioso che insieme alla novizia Suor Irene (Taissa Farmiga) ed al giovane contadino locale conosciuto come “il Francese” (Jonas Bloquet), tenteranno di capire cosa abbia mai portato una sorella a compiere un gesto così grave.

Se le premesse possono sembrare pertinenti o per lo meno potenzialmente interessati, il resto della pellicola è un susseguirsi continuo di scene difficilmente comprensibili e di dubbio gusto, dove spesso viene dimenticato anche quale sia il vero fine ultimo dell’opera: far conoscere allo spettatore come il demone Valak abbiamo raggiunto Lorraine e la famiglia Hodgson nel sobborgo londinese di Enfield.

E proprio il fatto di sapere già come idealmente il film potrebbe finire (in dubbio la forma. ma sicuramente non il risultato) è forse il peso che il giovane regista di “The Hallow” non riesce a reggere: un lungometraggio dalla forte eredità che avrebbe potuto far accrescere ancora di più l’aura misteriosa attorno al personaggio inquietante del demone, ma che di fatto fa mettere in secondo piano quanto di buono visto in precedenza.
L’unico momento degno di nota è forse il collegamento finale con il quale l’autore si lega e anticipa di fatto gli avvenimenti narranti in “The Conjuring 2”. Veramente insufficiente per un film che avrebbe potuto consacrare la saga dei Warren e consegnare alla storia dell’horror il loro antagonista “di punta”.
Lorenzo Governatori

MARCO RENDA E IL CINEMA CHE SA ANDARE LONTANO: INTERVISTA AL REGISTA DI EDHEL




Uno dei luoghi comuni del cinema italiano è quello di una produzione appiattita su scelte scontate e poco rischiose. In realtà, seppur piccola, esiste una categoria di registi che esordisce con operazioni coraggiose come la tua che tra l’altro affronta con capitali indipendenti un genere come quello del fantasy per nulla frequentato in Italia. Una cosa del genere era accaduta anche a Gipi con L’ultimo terrestre ma la fantascienza come sappiamo può fare a meno degli spazi e dell’apparato iconografico necessari alla categoria cui appartiene il tuo film. Da dove viene la decisione di confrontarsi con un genere come quello di Edhel
Sono molto legato a questo universo, quando ero piccolo mi sono cibato di questo tipo di film andando al cinema con mio padre quindi una motivazione è di tipo personale avendo io una predilezione per questo genere di film. Poi c’è il desiderio di realizzare un cinema in grado di creare mondi che non esistono e di interpretare i disagi in un modo tutto nuovo, senza limitarmi nel racconto della realtà, ma anzi di andare oltre. Inoltre credo che se le leggende nordiche e il fantasy medievale trovano le loro radici nel nord Europa, ciò non esclude che sia qualcosa che non possa appartenerci. Soprattutto non capisco perché quando qualcuno vuole cimentarsi in questo tipo di film lo debba sempre fare territorializzando la storia. Io non volevo raccontare ne Roma, ne Napoli, la città dove sono nato, quanto piuttosto narrare una storia attraverso gli archetipi, magari facendolo in maniera ingenua e semplicistica perché ovviamente è stata dura girarla. Volevo raccontare dei concetti assoluti di male e di bene, non legati  – per me che sono napoletano – necessariamente alla malavita, insomma  evitando di riferirmi a qualcosa legato al mio territorio. Avverto che c’è una sorta di pregiudizio nei confronti di chi non affronta le difficoltà rispetto al territorio. Mi è stato offerto di fare film sulla malavita campana ma io mi chiedo perché non possa andare lontano se il cinema mi permette di farlo.

Tra l’altro lavorando per astrazione e arrivando a parlare della contemporaneità in termini assoluti e universali come hai fatto tu.
Non sono interessato a fare certe cose e volevo rispettare i miei desideri. Mi sono voluto bene facendo ciò che volevo fare, al di là delle mode e dei limiti impostimi dal budget.


A proposito di limiti, gli illustratori di fumetti riescono a creare le loro storie in estrema libertà perché la mancanza di budget consente loro di non autocensurarsi dal punto di vista artistico. Mi chiedevo quindi se la decisione di Silvano, che è appunto un disegnatore, sia un modo per far entrare nella storia la fantasia tipica del suo modo di vedere il mondo. 
Non è casuale. Se ti ricordi nel film Silvano dice che il padre gli bruciava i disegni. Dunque lui è l’emblema dell’individuo al quale il sistema non permette di esprimersi e, che, laddove riesca a farlo viene comunque emarginato. Capita a lui come a Edhel che riesce a stemperare le difficoltà rifugiandosi   nella fantasia.

Quindi tu riconosci al fumetto e in generale all’universo del cosiddetto cinema “disegnato” questa libertà d’ispirazione.
Senza alcun dubbio. Guarda cosa è riuscito a fare Rack, il mio compaesano, il quale con Gatta cenerentola ha messo in pratica la libertà di cui dicevamo senza porsi alcuna limitazione e con risultati per me straordinari.


Rispetto ad altri colleghi il tuo esordio è anche un’occasione per vedere all’opera una troupe di professionisti pressoché esordiente a questi livelli. Edhel funziona quindi anche come vetrina di nuovi talenti.
Alcune di queste persone hanno frequentato l’accademia di cinema insieme a me. Con molti di loro ho realizzato negli ultimi 15 anni decine di cortometraggi. Tra i novizi c’è anche Niccolò Alaimo, che interpreta Silvano e  che voglio menzionare perché gli ho assegnato un ruolo di una difficoltà inaudita, anche per il fatto di aver girato in 18 giorni. A proposito dei problemi che si possono incontrare nella realizzazione di un lungometraggio, ho un esempio che mi sostiene da anni e che risponde al nome di George Lucas. Non mi riferisco tanto a “Guerre stellari” che è, e resta, un capolavoro. A ispirarmi è la sua esperienza  umana,  il modo con cui ha affrontato le difficoltà di un’opera che va oltre le linee previste. Noi ci rivediamo molto nell’equipe del 77 che realizzò quel film memorabile. Ovviamente il mio non otterrà gli stessi risultati però voglio dire, lo spirito è lo stesso.

Considerato che il tuo budget era lontano anni luce da quelli dei tuoi colleghi americani, volevo chiederti qual’è stato il punto di partenza per arrivare a creare il magico mondo della protagonista.
Di sicuro Il labirinto del fauno, il mio film di riferimento, dove, se ricordi, esisteva il doppio binario costituito dall’intreccio tra realtà e fantasia. Una dialettica che per ragioni produttive in Edhel doveva essere più morbida. Non potevo permettermi un doppio binario così ricco come quello di Del Toro. Il gioco quindi è stato semplice, e simile a quello utilizzato da Spielberg ne Lo squalo, dove la soggettiva della creatura permetteva di ovviare alle limitazioni dovute al malfunzionamento del modello meccanico. Di questo Spielberg ha fatto una cifra stilistica. Ebbene, io ho giocato nello stesso modo, facendo di necessità virtù ma anche scelta, perché in ogni caso  non avrei voluto filmare eserciti di Elfi e cose di questo genere. Pur tenendo conto che non avevo molti soldi, il film è nato comunque per avere un tono minimalista. Poi il coraggio è stato della produzione. La Vinians ha avuto la forza e l’audacia di sostenermi laddove altri non l’avrebbero fatto.

Il tuo lavoro sul fuori campo consente allo spettatore di credere alla possibilità di un mondo alternativo, simile a quello raccontato da Tolkien nel suo Silmarillion. In questo senso la capacità di guardare agli elementi della nostra quotidianità, alternandone l’abituale significato, mi ha ricordato l’approccio avuto da M Night Shyamalan in E venne il giorno. Secondo te è possibile fare dei paragoni tra il tuo lavoro e quello del regista americano.
Naturalmente si tratta di un autore che conosco e apprezzo. E’ vero quello che dici a proposito di E venne il giorno ma devo dirti che quest’ultimo non mi ha fatto impazzire. Anche per quello che mi chiedevi preferisco citare The Signs, in cui il l’invasione extra terrestre è vissuta dallo spettatore attraverso gli occhi della famiglia chiusa dentro la casa.



Parlando dello stile del film, mi piace il fatto che tu suggerisca certi significati, facendoli scaturire spesso da oggetti inanimati. L’esempio lampante è quello di una delle prime sequenze, in cui il soffermarti sulla sedia vuota, quella dell’ipotetico capotavola, rimanda alla scomparsa del padre di Edhel. Per non parlare della scena introduttiva in cui la sparizione del genitore viene evocata dall’immagine dell’ostacolo che cade a terra insieme al cavallo. Immagino dunque che gli aspetti legati alla pre-visualizzazione del film siano stati decisivi per ottenere questi risultati.
Lo confermo. Io utilizzo sempre il camera script, non improvviso mai, non mi piace. Al di là dell’intuizione dell’ultimo minuto, ho comunque necessità di preparare le sequenze in anticipo attraverso questo strumento  che da noi non è così diffuso. Un’eccezione è rappresentata da Sorrentino che ne fa uso. Adorando la  precisione, questa procedura mi permette di raggiungerla. Ciononostante, in alcune scene non sono riuscito a ottenere ciò che avevo in mente per mancanza di tempo. Laddove hai visto qualcosa di bello è perché avevo più tempo e quindi modo di realizzare ciò che avevo pianificato, come per esempio il piano sequenza di 4’ e 50’ relativo alla festa di compleanno a cui partecipa Edhel. L’inquadratura di cui mi parli è molto importante per me poiché, avendo perso mio padre un mese prima dell’inizio delle riprese, l’ho vissuta sulla mia pelle. Anche se, devo dire, il film lo avevo scritto prima che ciò succedesse.

Nel film si instaura una dialettica tra inquadrature che riprendono la protagonista alternativamente dal basso e dall’alto. Era un modo per suggerire l’esistenza di un mondo alternativo a quello quotidiano.
Le riprese dall’alto mi servivano per comunicare un senso di impotenza, per rendere la sensazione di quanto la protagonista fosse schiacciata dagli eventi. In genere lo si fa con focali corte come succede nella scena in cui Edhel si rifugia nel bagno, inquadratura che per me deve rendere il malessere e l’isolamento in cui è piombata in quel momento. Quelle dal basso, invece, dovevano trasferire sullo schermo  la speranza e le aperture verso l’altro. In questo senso io ad altezza uomo non filmo quasi mai, non giro ad altezza fiction (ride).


Il senso di scoperta, che è uno dei motivi trainanti della narrazione, viene suggerito dall’uso di carrellate in avanti che si avvicinano alla protagonista come per liberandola dagli ostacoli che ci impediscono di vederla completamente. Volevo chiederti se il movimento di macchina appena citato ti serviva per rendere questo concetto.
Si, tutto nasce dall’esigenza di sottolineare la totale incomunicabilità tra Edhel e la madre. Alcune volte procedevo in maniera graduale, in altre, addirittura evitavo di inquadrare la bambina. Prendi la scena in cui la donna sta facendo i conti ed Edhel gli domanda della chiaroveggenza: lì ho evitato di farla vedere, anzi, l’ho tagliata a metà, equiparando questa sgrammaticatura filmica alla mancanza di rispetto che la madre ha verso la figlia. In quel momento mi sostituisco al personaggio di Roberta Mattei e faccio la stessa cosa, inquadrandola male.

Un’altra caratteristica del tuo stile è l’uso del rallentì. Il cinema indie se n’è servito per enfatizzare gli stati disfunzionale dei personaggi, il loro essere avulsi dal resto delle società, cosa che accade anche nel tuo caso. In più qui mi pare che serva per segnalare le avvisaglie di quel mondo magico a cui si riferiscono Silvano ed Edhel.
Lo utilizzo sia per enfatizzare determinati momenti narrativi, sia per annunciare le soggettive di Edhel. In una di queste, e precisamente nella scena iniziale, vediamo il cavallo disteso, che in qualche modo rappresenta la morte del padre, messa in scena senza che quest’ultimo appaia. Li mi sono ispirato a un’inquadratura di Sorrentino che non centra niente con la mia ma che a livello grammaticale è identica. Se ti ricordi il “Divo”, c’è il rallentì della macchina di Falcone che cade dall’alto. Realisticamente parlando è sbagliata, perché se esplode un auto non cade cosi. Anzi, quella cade già rotta e poi esplode al contatto con la terra. Si tratta di una sequenza surreale che però rende bene il senso ricercato dal regista. La stessa cosa accade nella scena del mio film. Anche se non compare il genitore, le immagini raccontano una caduta, una dipartita, una morte, e lo slow motion mi aiuta a visualizzarla.

Per ritornare al ruolo di Niccolò Alaimo, il suo personaggio svolge un ruolo fondamentale, perché oltre a essere l’unico vero amico di Edhel è anche colui che le rivela la sua vera natura. Prima mi hai detto che hai sviluppato la  storia per archetipi, e allora ti chiedo di dirmi chi è Silvano.
Nonostante la presenza di Ermete, l’istruttore di equitazione (interpretato da Mariano Rigillo) che sembrerebbe svolgere la stessa funzione, Silvano è un vero e proprio Mentore, colui che accompagna la protagonista nel suo percorso di consapevolezza. Inoltre è l’artefice di una cosa meravigliosa. E’ lui, infatti, a far capire a Ginevra quanto le illusioni siano importanti per risolvere le cose reali. Ad un certo punto, quando nessuno riesce a trovarle la bambina, le dice che per cercarla deve credere di poterla trovare. L’illusione diventa dunque una cosa realissima. Silvano è un personaggio chiave in quanto portatore di questo messaggio. Nel film mi esprimo attraverso di lui.

Edhel ha le caratteristiche dei film della Pixar che si rivolgono ai giovani per parlare agli adulti. A questi ultimi il film ricorda le responsabilità del loro ruolo quando mette Ginevra nelle condizioni di ritrovare la propria figlia a patto che sia lei ad avvicinarsi alla ragazzina e non viceversa. Mi riferisco, in particolare, alla scelta di credere in qualche modo ai poteri magici di Caronte, il cavallo che in effetti gli permetterà di riabbracciare la figlia.
Sono contento che tu abbia letto il film in questa maniera perché corrisponde per filo e per segno alla mia idea della storia. Aggiungo solo che per Ginevra avvicinarsi alla figlia attraverso il cavallo rappresenta il superamento di certi blocchi legati all’elaborazione del lutto.

Le tue parole rafforzano la mia convinzione che sia proprio questo processo di ricomposizione famigliare a costituire il centro del film.
Sai una cosa, in realtà questo film sono stati in pochi ad averlo compreso. Cioè, che non sia un fantasy è chiaro, nel senso che utilizzo le convenzioni di genere in maniera tenera. Me ne servo in primis per far vedere come Edhel  per proteggersi dai suoi problemi provi ad affidarsi a qualcosa di diverso che forse non esiste. Anche se, non so se hai notato, quando lei chiede a Ermete se sia a conoscenza dell’esistenza di posti magici, lui fa un piccolo sussulto, come se in realtà sapesse qualcosa. Il dubbio quindi non viene sciolto.

Si, l’impressione è quella che Ermete sappia qualcosa ma preferisca tacere per proteggere la bambina. Come se la volesse preservare da qualcosa per cui non è ancora pronta.
Senza considerare che in questo modo mi sono lasciato aperta la possibilità di sviluppare il film in chiave fantasy attraverso una vera e propria serie. Sempre che riesca a trovare i  soldi.

Se così fosse procederesti mantenendo inalterate le due realtà o propenderesti per sviluppare solo una di queste.
Manterrei entrambe, alla maniera de Il labirinto del fauno. Il lungometraggio di Del Toro è la versione capolavoro del mio. In questo film il regista messicano mostra il mondo fantastico come se fosse vero. Ovviamente i miei non sono paragoni, ma solo dei riferimenti.

Tra l’altro sei stato bravo, perché non ti sei lasciato prendere dalla tentazione di rivelare troppo dell’altrove cui Edhel allude. Da questo punto di vista sarebbe stato più facile guadagnarti i favori del pubblico concedendo qualcosa in termini di spiegazioni o accadimenti.
Molti mi hanno sconsigliato di andare sia in un senso che nell’altro. Alcuni poi mi dicevano che la fatina dorata che si vede verso la fine del film sarebbe stato meglio toglierla perché in Italia una cosa del genere non avrebbe funzionato. Te ne parlo per dire che non condivido questo tipo di atteggiamento in quanto presuppone una mancanza di creatività e d’immaginazione che in realtà sono parte integrante della nostra cultura. Nel 2015 arrivai nella cinquina dei globi d’oro con un corto molto perturbante che raccontava di una ballerina alla maniera di M. Night Shyamalan. Ebbene, era l’unico corto che non puntava sul sociale, tanto per dire quanto sia difficile imporre un linguaggio diverso da quello dominante.

Tra l’altro, a proposito di sociale, Edhel non risparmia attenzione alla problematicità della condizione umana che è ritratta in maniera molto dura. Se la morte non fa sconti neanche all’infanzia e a scuola è il bullismo a farla da padrone, quando il campo di indagine si allarga la situazione diventa anche peggiore: definizioni come quelle fatte a proposito della “gente che parla tanto per non dire mai niente” e la “generazione di perdenti” riferita ai compagni di classe di Edhel non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Il quadro generale non è dei migliori, soprattutto per quanto riguarda le istituzioni, assenti e per lo più incapaci di comprendere. Al di là di questo sono convinto che per fare cinema sociale devi essere un autore preparato e con le spalle larghe. Rispetto a molti miei coetanei sono dell’idea che prima di cimentarsi in film di questo tipo ci voglia la necessaria esperienza.

Senza considerare che avventurarsi in questo territorio implica il rischio di essere ripetitivi per il fatto di non aggiungere nulla a ciò che è stato già detto sulla periferia e sulla vita di borgata.
La scelta di Roberta è stata fatta anche per questo. Lei ha girato Non essere cattivo, uno dei film più belli che abbia mai visto. Volevo metterla in una condizione difficile e farla parlare di elfi e di magia, un terreno opposto a quelli a cui è abituata.

Tu sei il primo che ha dato a Roberta Mattei un ruolo da protagonista, e lo fai con un personaggio non facile da gestire, poiché Ginevra è il punto di equilibrio tra opposti: quelli che risalgono al suo ruolo di genitore, in cui maschile e femminile si alternano nel tentativo di compensare la mancanza della figura paterna, e quelli che stanno alla base della dialettica tra realtà e fantasia attorno cui ruota la storia. È lei l’elemento equilibratore tra fede e miscredenza.
Assolutamente, soprattutto nel finale, quando deve accettare che la figlia sia scappata in un mondo alternativo. In questo connubio tra realtà e immaginazione c’è anche l’augurio che i film neo neo realisti prima o poi possano abbracciare il fantastico. Accettare di farlo da parte di Roberta che fa parte delle nuove grandi leve del cinema italiano meno accomodante mi ha emozionato tanto. E’ un’interprete di grande spessore che stimo infinitamente.

Sei stato bravo a offrirglielo cosi come lei lo è stata ad accettare. Parlavo di valorizzazione di talenti. Lei ha già un nome, ma questo film l’aiuta a uscire fuori da un certo stereotipo con cui alcune produzioni potrebbero considerarla. Come avete lavorato per farle entrare nel ruolo di Ginevra.
Di solito si fa una lunga sessione di prove. Con lei invece abbiamo deciso da subito di trovare il suo personaggio giorno per giorno. Ogni volta pronti a lavorare sulla battuta, cercando di capire cosa tagliare, e cosa invece aggiungere. E’ stato un lavoro minuzioso, ogni parola doveva essere calcolata perché se no si rischiava di esagerare.

Io Roberta ho avuto l’opportunità di intervistarla subito dopo l’uscita di Non essere cattivo, e quindi oltre alla bravura ho potuto apprezzare la meticolosità con cui interpreta i suoi personaggi.
Lei vuole giustamente il controllo di quello che succede, però siamo riusciti ad affrontare assieme ogni situazione che si veniva a creare sul set. Entrambi volevamo la stessa cosa e questa è stata la chiave di volta.

La somiglianza tra Gaia Forte e Roberta Mattei è sorprendente. Sembrano davvero madre e figlia. Come hai fatto a trovare l’interprete di Edhel.
E’ stata una questione di fortuna. Detto questo, sono grato che sia accaduto perché ha reso più verosimile la storia. Gaia l’ho trovata per caso quattro anni fa a seguito dell’annuncio che avevo fatto per  realizzare il trailer che mi serviva per presentare il mio progetto ai potenziali finanziatori.

A un certo punto il televisore trasmette una sequenza di Cat People, capolavoro noir di Jacques Tourneur. La citazione non mi sembra casuale. Anche in quel caso siamo di fronte a un personaggio destinato a scoprire la sua vera indole attraverso il confronto con una dimensione magica dell’esistenza. Inoltre vi si ritrova un’idea di regia in cui ciò che non si vede ha forse più importanza di quello che scorre davanti ai nostri occhi.
La scena della piscina dove cade Edhel al termine della festa è nata da quel film. Nell’inserto di Cat People vediamo Simone Simon spaventata dalle ombre della pantera e dal ruggito che si confonde con la frenata dell’autobus. Tutti questi sono elementi che pur ridimensionati si possono ritrovare in Edhel: la voce degli Elfi che parlano alla protagonista e, più in generale, l’ambiguità che non consente allo spettatore di capire se la percezione della bambina sia reale o solamente la reazione alle proprie ansie sono concetti presenti anche nel film di Tourneur.

Per concludere volevo chiederti il titolo di qualche film o regista che preferisci.
Di italiani te ne posso dire ben pochi, tra questi c’è Non essere cattivo. Poi ti sorprenderà, ma uno dei miei film preferiti degli ultimi anni è Shame di Steve McQueen, che per me è un capolavoro. Ancora Il cigno nero e The Wrestler di Darren Aronofsky. In generale sono esterofilo e mi piace il cinema americano più impegnato. Evito di citare i soliti nomi perché è scontato dire Truffaut, Malle etc, perché sono delle pietre miliari della settimana arte.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, settembre 25, 2018

GLI INCREDIBILI 2

Gli incredibili 2
di Brad Bird
con Holly Hunter, Craig T. Nelson, Samuel L. Jackson
USA, 2018
genere, animazione
durata, 118'



Sono passati esattamente 14 anni dal giorno in cui Brad Bird aveva diretto “Gli Incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi”.
Non è passato, invece, neanche un istante per la famiglia Parr, protagonista della vicenda, dal momento che il secondo capitolo riprende esattamente da dove si era interrotto il primo. Bob, Helen e i figli, reduci da una gara di corsa del velocissimo Flash, si ritrovano a dover affrontare l’ennesimo problema da supereroi: un Minatore vuole svaligiare una banca e, per farlo, sta distruggendo tutto ciò che cerca in qualche modo di impedirglielo. La famiglia, con l’aiuto del fidato amico Syberius, riesce a evitare il colpo ordito dal Minatore, ma provoca ingenti danni alla città, agli edifici e a tutto ciò che li circonda, a tal punto da venire arrestati. Dopo essere stati rilasciati e invitati ad abbandonare per sempre la loro carriera da supereroi, viene loro offerta la possibilità di riscattarsi, e tornare ad essere ben visti dalla società senza agire contro la legge, grazie a un certo Winston Deavor che, insieme alla sorella Evelyn, è proprietario di un’azienda di telecomunicazioni. Vengono convocati Elastigirl, Mr Incredibile e Syberius per far si che vengano informati riguardo il piano, ma, tra loro, viene selezionata, inizialmente, solo Elastigirl che avrà il compito di riportare in auge i supereroi grazie ad una microcamera impiantata nella propria tuta in modo tale che tutte le azioni da lei compiute vengano registrate e mostrate, poi, ai cittadini. Mentre Helen sarà, quindi, impegnata in questo nuovo incarico, spetterà a Bob rimanere a casa e seguire i propri figli: dal rapidissimo e brillante Flash, alle pene d’amore dell’adolescente Violetta, alla scoperta dei super poteri incontrollabili di Jack Jack, il più piccolo di casa. Grazie all’aiuto di Syberius e dell’eccentrica Edna, Bob riuscirà a gestire, in qualche modo, i figli, ma cosa succederà quando dovrà correre ad aiutare Helen?


Il ventesimo film Pixar non delude né i più piccoli né i più grandi che hanno atteso così tanto per veder proseguire le avventure di questa famiglia strampalata, ma sempre e comunque unita.
La struttura sembra inizialmente ricalcare il primo film, con la prima sequenza intervallata dai titoli di testa. Ci sono, poi, alcuni riferimenti ad altri film Pixar (“Easter Eggs”), come, ad esempio, la scena della famiglia a tavola che sembra quasi la copia del dialogo tra Riley e i genitori in “Inside Out”.

Al di là dell’evidente miglioramento grafico e tecnico (improntato anche e soprattutto a una visione in 3D), le dinamiche tra e dei personaggi restano invariate fortunatamente (dato che sono proprio quelle che hanno fatto amare il primo film) e la presenza, oltre che dei protagonisti, anche di personaggi secondari, ma altrettanto amati dal pubblico (Edna in primis, grazie anche al ritorno di un’Amanda Lear molto azzeccata come doppiatrice) rende l’opera una storia da non perdere. I tentativi di serietà di Bob si mescolano in maniera efficace alle comiche e involontarie peripezie di Jack Jack, che costituiscono i siparietti più puramente divertenti dell’intera vicenda. E come tutti i film Pixar si tratta di un qualcosa adatto non solo e soltanto ad un pubblico di bambini, ma anche (e forse soprattutto) ad uno più adulto che può meglio comprendere le diverse dinamiche. La domanda di Flash al padre “sarebbe questa l’adolescenza?”, alla vista del comportamento di Violetta, è solo una delle tante.
Veronica Ranocchi