mercoledì, febbraio 27, 2019

UN VALZER TRA GLI SCAFFALI


Un valzer tra gli scaffali
di thomas Stuber
con Sandra Hüller, Peter Kurth, Franz Rogowski
Germania 
genere, drammatico
durata, 125'


Distribuito circa un anno dopo dalla sua anteprima, avvenuta al Festival di Berlino della scorsa edizione, Un valzer tra gli scaffali si presenta al pubblico italiano facendo leva sulla garanzia offerta dal fatto di essere stato selezionato per il concorso della kermesse tedesca. Un collegamento, questo, che però non deve trarre in inganno, poiché, diversamente da ciò che si potrebbe pensare, il lungometraggio in questione è tutto fuorché un’opera complicata e priva d’empatia. La trama, infatti, racconta le giornate di un gruppo di impiegati di un supermercato alla periferia di una cittadina della Germania dell’Est attraverso le vicissitudini di uno di loro, il neo assunto Christian, il quale, nel pieno dell’apprendistato, trova modo di innamorarsi di Marion, collega a lui interessata ma comunque reticente quando si tratta di approfondirne la conoscenza.

Aprendo con una sequenza a metà tra favola e sogno, in cui le note de Il bel Danubio blu e l’uso del rallenti bastano al regista per trasformare la ricognizione notturna tra i corridoi del magazzino in un ballo di gala da ultimo dell’anno, Un valzer tra gli scaffali getta le basi per l’avventura esistenziale dei protagonisti, i quali, immersi nelle faccende quotidiane, coincidenti con le mansioni svolte sul posto di lavoro, trovano nella prossimità dei colleghi il modo per risollevarsi dal peso delle proprie sventure. Sovvertendo le coordinate del reale, come pure le traiettorie su cui si muove l’immaginario di un certo cinema d’autore, Thomas Stuber fa a meno della dimensione politica presente in alcuni dei titoli di riferimento del cinema “operaio e militante”, quali Risorse Umane di Laurent Cantet, La legge del mercato e In guerra di Stephane Brizè e, non ultimo, Le nostre battaglie, tuttora nelle sale, trasformando la fabbrica e i suoi addentellati in una sorta di zona franca, distante dalla visione opprimente e meccanicista raccontata dai film menzionati e, invece, intesa come contraltare positivo alla disumanità del mondo esterno.

Lungi dall’essere una rappresentazione idealizzata e monocorde dei rapporti umani e della vita, l’universo raccontato dal regista non è privo di difficoltà e contraddizioni, arrivando a consumare misfatti e tragedie annunciati attraverso una serie di campi lunghi in cui la lontananza dal punto di osservazione diventa misura di una solitudine difficile da colmare. Interpretato nei ruoli principali da due degli attori più “caldi” del cinema tedesco, nella fattispecie Franz Rogowski (Christian), protagonista de La moglie dello scrittore, e Sandra Huller (Marion), vista in Vi presento Toni Erdman, Un valzer tra gli scaffali non perde un colpo neanche quando si tratta di raccontare “le vite degli altri” attraverso il Bruno di Peter Kurth, nostalgico dell’ex DDR e personaggio secondario solo in termini di battute. Sorprendente e imperdibile, stiamo parlando di uno dei migliori film tedeschi degli ultimi anni.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

COPIA ORIGINALE

Copia originale
di Marielle Heller
con Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells
Stati Uniti, 2019
genere, biografico, drammatico, commedia
durata, 106’


1991. Lee Israel, una biografa molto brava, ma con un pessimo carattere, si ritrova a dover far fronte a problemi economici non indifferenti. A seguito di un licenziamento dovuto a un bicchiere di troppo che l’ha portata a inveire contro i colleghi, Lee Israel deve trovare una nuova occupazione per poter pagare l’affitto di casa, fornire le cure necessarie al proprio gatto e condurre una vita più o meno dignitosa. Le sue biografie sembrano non interessare più a nessuno, nemmeno alla sua editrice, ma la donna riuscirà a sfruttare le sue qualità e la sua abilità di scrittrice in altro modo. Grazie a due lettere di Fanny Brice, trovate per caso nel libro di una biblioteca e dalle quali riesce ad ottenere 75 dollari, ha l’illuminazione. Inizia, cioè, a scrivere lettere false di autori famosi, impreziosendole come lei ben sa fare, in modo tale che il loro valore cresca sempre più. In questa losca operazione criminale trova l’appoggio di un vecchio amico, Jack Hock, e tutto sembra andare per il meglio fino a che qualcuno non si accorge dei falsi e inizia ad insospettirsi.
Tratto da una storia vera, “Copia originale” altri non è che il riadattamento del romanzo (autobiografico) di Lee Israel, che, alla sua morte, era più famosa per la sua condotta criminale che per quella di scrittrice e giornalista. La regista Marielle Heller, con quest’opera, riesce a mostrare al pubblico, non tanto la storia, in parte assurda, di una scrittrice che diventa criminale, ma a mostrare la vita quotidiana di una donna che, inizialmente, non sa come reagire ai problemi che la vita le pone di fronte. Sembra quasi che Lee si nasconda dietro a delle maschere, non solo quelle degli autori che decide di impersonare, ma anche quelle di burbera e solitaria. Solo con Jack riesce quasi del tutto ad essere se stessa (e lui con lei) come davanti ad uno specchio.

E, a questo, non rende giustizia solo il film e la storia, ma anche l’interprete e, di conseguenza, l’interpretazione. Melissa McCarthy, relegata quasi esclusivamente a ruoli comici, convince pienamente nel ruolo, tutt’altro che semplice, di Lee Israel, poiché conferisce al personaggio una chiave di lettura semplice rendendola, innanzitutto umana. Lo spettatore, durante il film, riesce, non tanto ad immedesimarsi in lei, ma a comprenderla e a capire il perché del suo agire. Allo stesso modo anche Richard E. Grant mostra di che pasta è fatto con il suo, più che riuscito, Jack.
Candidatura come miglior sceneggiatura non originale, miglior attore non protagonista e miglior attrice protagonista a questi Oscar 2019. Purtroppo nessuna delle tre nomination si è concretizzata con l’effettivo riconoscimento, ma sono sicuramente un incentivo per vedere un film che, pur non essendo una commedia, permette di sorridere e che, pur non essendo un film drammatico, aiuta a riflettere.
Veronica Ranocchi

sabato, febbraio 23, 2019

UN UOMO TRANQUILLO


Un uomo tranquillo
di Hans Petter Moland
con Liam Neeson e Laura Dern
USA-Canada, 2019
Thriller/Drammatico
durata, 118’



“Un uomo tranquillo” è il film che segna il ritorno sul grande schermo di un sempre molto attivo Liam Neeson. Per l’occasione l’attore nordirlandese indossa di nuovo i panni di un padre desideroso di vendicare l’assassinio degli figlio, per un ruolo che sembra essergli stato cucito addosso nonostante si tratti del remake della pellicola del 2014 “In ordine di sparizione” del medesimo regista (Hans Petter Moland).

Questa volta siamo sulla catena delle Montagne Rocciose del nord America, in un piccolo paesino abbracciato dai promontori innevati dove anche l’uomo che spazza la neve dalle strade può diventare “Cittadino dell’anno”.
Il protagonista della storia infatti è proprio lui, Nelson Coxman, uomo quasi inespressivo e freddo quanto la neve e la temperatura che fa da ambientazione al racconto, ma soprattutto grande lavoratore e padre del giovane Kyle. Ed è la tragica e misteriosa scomparsa di quest’ultimo che porterà Nels a un passo dal suicidio, prima che un collega di lavoro di suo figlio gli riveli come in realtà si sia trattato di un brutale omicidio e non di un caso di overdose come si era cercato di far credere.

Dalla sceneggiatura di “Un uomo a tranquillo” a quella della fortunata saga di “Taken” il passo è breve, e così ancora una volta l’attore Neeson intraprende la sua personale ricerca per smontare a suon di pallottole uno a uno i pezzi che compongono il puzzle di questa intricata vicenda.

In parallelo allo spettatore vengono presentanti altri due filoni narrativi: il difficile rapporto con la moglie (Laura Dern, candidata al premio oscar nel 1991 con “Rosa scompiglio e i suoi amanti” e nel 2014 per “Wilde”) dopo la tragedia subita, e quello inerente invece alle ricerche portate avanti sul caso dall’ufficio di polizia locale. Il primo relegato forse a un ruolo eccessivamente marginale nella storia, mentre il secondo, potenzialmente interessante, viene portato avanti senza mai influire più di tanto positivamente o negativamente nell’azione del protagonista.

Il film ricorda molto - troppo - il prodotto “Taken”, vuoi un po’ per aver usato lo stesso protagonista, vuoi per la scelta della trama del padre/vendicatore solitario. L’innovazione (se così possiamo definirla) sta tutta nel modo di presentare le uccisioni, con i morti usati come capitoli di un macabro indice di un libro dal finale scontato.
Una pellicola senza troppe pretese, in cui Neeson è decisamente il factotum a cui è stato affidato il compito di ravvivarne le sorti nonostante trama e generi già visti. Compito forse troppo arduo per l’occasione.
Lorenzo Governatori

MANDY

Mandy
di, Panos Cosmatos
con, Nicolas Cage, Andrea Riseborough, Linus Roache, Bill Duke, Olwen Fouéré
USA 2018
genere, azione, thriller
durata, 121’

Coprire di scherno la carriera recente di una monade cinematografica come quella incarnata da Nicolas Cage - costruita in toto, ricordiamolo, su un’ottantina di film - può considerarsi per qualcuno esercizio variamente ameno. Sgombrando però il campo e dicendo subito che il buon Nicolas vi ha messo del suo - almeno a partire, un esempio come un altro, da “Il prescelto” di LaBute (2006), se non, addirittura, da certe esagerazioni e/o autoindulgenze recitative (che, magari non a caso, gli sono valse il suo unico Oscar), viste in “Via da Las Vegas” di Figgis (e già risaliamo al 1995), via via attraverso pellicole il cui carattere alimentare è più un indulgente stratagemma dialettico che la constatazione di un più o meno accertato stato di necessità (insistenti si sono inseguite le indiscrezioni che raccontano dell’abuso di uno dei tanti cocktail tossici serviti da Hollywood, quello a base di un tenore di vita tenuto bene al di sopra dei già non comuni standard divistici e un rapporto, mettiamola così, conflittuale col fisco americano, notoriamente assai poco tenero) - nello scavare buona parte della fossa di derisione da cui stenta ancora a uscire, è pure vero, d’altro canto, che tale sorta di deriva o stravagante cupio dissolvi che dir si voglia, una volta incanalata entro una griglia che ne irreggimenta gli eccessi, rendendola di fatto funzionale a un particolare contenuto narrativo o compatibile col personale estro di un autore, finisce per parlare un lingua molto meno scontata di quanto probabilmente si è disposti ad ammettere.


Capita, infatti, che un regista quantomeno singolare come Panos Cosmatos - figlio del più conosciuto George Pan, artigiano di una qual solidità spettacolare - si appropri di quelle che potremmo definire le prerogative dell’ultimo Cage - il caracollare stanco; la fissità di sguardo spesso affine a quella di un grosso botolo smarrito; l’eloquio lento e talora borbottante; l’inclinazione masochistica o cartoonescamente distruttiva dell’agire; una malinconia arresa, a volte dai tratti quasi infantili - per farne amalgama detonante di un delirio scopertamente anti-naturalistico, lo stesso alla base di questo suo ultimo lavoro, all’interno del quale Cage, qui nei panni di Red, taciturno taglialegna, mena la sua routine muscolare condividendola e addolcendola con la presenza della Mandy del titolo (una strepitosa Riseborough, sorta di proto-femmina di traslucida e sfuggente bellezza, sul modello delle longilinee e pallide creature di Cranach passate al frullatore della moderna rivisitazione della Tradizione, tra richiami al folklore e mercificazione pop; lo sguardo perduto entro insondabili spirali interiori, scrigno vivente di qualunque ipotesi di abbandono e capriccioso mistero), all’apparenza mite disegnatrice/pittrice in t-shirt rock e capigliatura fluente da novella Medusa, gestore di un piccolo emporio nel cuore del bosco non lontano dalla baita in cui abita, in realtà animo inquieto e presago (tra le braccia del suo uomo afferma calma ma risoluta di avere Giove come pianeta preferito, poiché attorno alla superficie gassosa di questo possono formarsi tempeste capaci di durare millenni). Il cortocircuito degli opposti consolidato nell’idillio agreste sembra realizzare, giorno dopo giorno, l’antico sogno libertario di un mondo-fuori-dal-mondo, sennonché la figura eterea ma prepotentemente archetipica di Mandy non può non attirare l’insano desiderio di Jeremiah (un survoltato e lascivo Roache) e della accolta di pazzoidi stregata dal suo culto privato, nonché la brama di sangue di un gruppo di subumani motociclisti di reminiscenza barkeriana, inguainati dalla testa ai piedi in pelle e/o latex, che vaga come un’orda in via ulteriore abbrutita da una leggendaria partita di acido adulterato.


Quantunque lo svolgimento dell’azione contempli una maggiore tendenza allo scavo psicologico - nel senso di allusivo - nella prima parte, quella più suggestiva dal punto di vista delle risonanze espressioni di una dimensione sentimentale stranita eppure in equilibrio sull’utopia di una comunione attingibile e rinnovabile tra spiriti affranti ma solidali e il respiro senza tempo dell’ambiente naturale, restituita secondo le usuali alternanze di sovrapposizioni/giustapposizioni, sfocature e ricercate persistenze dei dettagli in primissimo piano, tra le pienezze cromatiche del blu e del rosso (maniera che, per dire, da Noé a Zombie, passando per Refn, certifica a amplifica l’alterità della percezione), l’incombere del pedaggio pagato all’intrattenimento nella trita forma del cosiddetto revenge movie che, mano mano, fagocita l’impianto del racconto, non implica necessariamente un’abdicazione ai suoi rigidi determinismi (e, a testimonianza di ciò, basterebbe la progressione altrettanto immaginifica e visionaria all’opera nel precedente “Beyond the black rainbow”, esordio per Cosmatos di palese matrice cronenberghian-burroughsiana) ma spesso, anzi, arretra di fronte a un’inerzia che si appoggia su un continuo sforzo di rilancio visuale, figurativo (in un imbuto sensoriale alla cui stabilità contribuiscono tanto inserti animati quanto le partiture sintetico-ominose del compianto Jóhannsson), nell’esaltazione schizofrenica di un crepuscolo degli eventi per la cui improbabile redenzione diventa essenziale proprio la stralunata e debordante fisicità di Cage, la sua furia impassibile di angelo sterminatore nonostante tutto (alla bisogna, si forgia con le proprie mani una specialissima spada-alabarda), pronto all’abiezione non meno dei suoi turpi antagonisti al fine di sanare l’oltraggio perpetrato su Mandy, regalando al contempo al film una sua disturbata coerenza, come la tremenda certezza, figlia di un millenarismo introiettato in primis a mo’ di fuga precipitosa da una contemporaneità ridotta a deforme contenitore di sempre più malate atrocità, per cui un altro mondo è già alle porte, un mondo forse persino più desolato di questo.
TFK

mercoledì, febbraio 20, 2019

LA PARANZA DEI BAMBINI

La paranza dei bambini
di Claudio Giovannesi
con Francesco Di Napoli, Artem TkachuK, Alfredo Turitto, Valentino Vannino
Italia, Francia 2019
genere, drammatico
durata, 111’



Premio per la miglior sceneggiatura al 69esimo Festival di Berlino, “La paranza dei bambini”, del regista Claudio Giovannesi, mette sullo schermo le vicende narrate nell’omonimo libro di Roberto Saviano.
Come ci suggerisce il titolo, la storia mostra dei bambini che diventano i veri protagonisti della vicenda, ritrovandosi faccia a faccia con una realtà molto più grande di loro nella quale vorrebbero imporsi, ma, proprio a causa della giovane età, non riescono. La paranza, nel gergo camorristico, può indicare un gruppo di barche per il trasporto di merci di contrabbando e, anche se non sono presenti barche, è proprio questa la funzione che assumono Nicola, il protagonista, e i suoi amici.
Il giovanissimo ragazzo, insieme alla sua banda di amici, cerca di imporsi e di riportare una sorta di pace e tranquillità nel proprio quartiere. Inizialmente lo fa a parole, poi capisce che l’unico modo è utilizzare le armi che sono il solo mezzo in grado di spaventare veramente. In questo modo, e con la protezione di un boss, inizia a far regnare una pseudo pace, riuscendo a conciliare tutto questo con gli amici, la famiglia (mamma e fratellino) e l’amore, Letizia. Questo finché qualcosa non va storto e tutto sembra andare, a poco a poco, in pezzi.
Al di là dei cambiamenti, più o meno evidenti, rispetto al libro, l’opera di Giovannesi riesce nell’intento di mostrare una sfaccettatura diversa di quello che è l’ambiente della malavita napoletana, dando maggiore risalto alle emozioni e alla psicologia dei personaggi. L’importante scelta di utilizzare, in larga parte, piani sequenza ha permesso di rendere al meglio sia i pensieri dei giovani, sia, soprattutto, la loro innocenza. 

Primo fra tutti, la scelta di Francesco Di Napoli (il giovane Nicola), molto abile nel rendere i vari punti di vista del personaggio. Il suo volto, tutt’altro che legato all’iconografia classica del criminale, ha reso il tutto più semplice e naturale. In generale tutti i ragazzi coinvolti riescono a far trapelare una spontaneità non scontata che sembra quasi strizzare l’occhio al pubblico, in bilico tra realtà e finzione.
Il punto di forza del film, oltre che nei ragazzi, spontanei, genuini e semplici, sta nelle scelte adoperate dal regista che non si limita a mettere sullo schermo ciò che Saviano ha scritto, ma sembra quasi reinterpretarlo, conferendo maggiore veridicità e staccandosi dall’opera più importante dell’autore partenopeo.
Alla fine, quindi, il film ha il compito di mostrare che degli apparentemente innocenti bambini passano dall’essere vittime di un sistema che li costringe a compiere determinate azioni a diventare i carnefici. Il tutto non sapendo assolutamente a cosa andranno incontro. E proprio questo è il perno centrale della narrazione: quello che inizia come un gioco si trasforma in qualcosa di troppo grande da gestire.
Veronica Ranocchi

CHI SCRIVERA' LA NOSTRA STORIA


Chi scriverà la nostra storia
di Roberta Grossman
USA, 2019
documentario, 2019
durata, 95' 



Si diceva, a margine dell’intervista realizzata con Roberta Grossman, di come la necessità di scrivere la propria storia sia fisiologica di ogni comunità socialmente organizzata. Ciò non toglie che il caso verificatosi all’interno del Ghetto di Varsavia durante l’occupazione nazista rimanga ancora oggi più unico che raro. Successe infatti che, nell’orizzonte di esistenza segnata dallo spettro della cosiddetta soluzione finale, un gruppo di uomini, per lo più storici, giornalisti e ricercatori trovasse la forza e il coraggio di organizzarsi in un comitato segreto, denominato Oyneg Shabes, incaricato di collezionare testimonianze scritte sulla vita del Ghetto per sconfessare le imposture della propaganda nazista, attraverso la costruzione di un archivio che avrebbe dovuto – come poi è successo – sopravvivere alla scomparsa di chi se ne occupava. Una mole di materiale sufficiente a farci conoscere non solo la vita quotidiana di uomini, donne e bambini (le statistiche parlano di 450 mila ebrei) costellata di stenti e afflizioni causate, soprattutto, dalla costante mancanza di cibo ma, come dicevamo, a fornire una rappresentazione diversa da quella resa dagli occupanti, bisognosi di giustificare le proprie atrocità costruendo un’immagine distorta e negativa delle loro vittime.

Per parlarcene l’autrice costruisce una narrazione che alterna cinema e documentario, durante la quale le interviste e gli inserti di repertorio si intersecano con parti recitate da attori incaricati di far rivivere parole, pensieri e situazioni contenute nel libro dello storico Samuel Kassov, dal cui titolo il film prende il nome. Un po’ grazie all’accuratezza della ricostruzione ambientale, un po’ grazie alla verosimiglianza della messinscena e – perché no – per l’emozione suscitata dal tragico calvario dei protagonisti, non solo quelli di cui sappiamo il nome (su tutti il direttore del comitato e Rachel Auerbach, storica e giornalista, voci narranti della vicenda), ma soprattutto dell’anonima moltitudine di visi e corpi che scorrono davanti agli occhi, Chi scriverà la nostra storia è una forma di conoscenza totalizzante e immersiva che si fatica a dimenticare. Inutile dire che la sua visione è fortemente consigliata.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, febbraio 19, 2019

OGNUNO HA DIRITTO AD AMARE - TOUCH ME NOT


Ognuno ha diritto ad amare: touch me not
di Adina Pintille
con Laura Benson, Tómas Lemarquis, Christian Bayerlein
Romania, 2018
genere, drammatico
durata, 125’


Laura non sopporta di essere toccata. Prova anche con un giovane che si prostituisce: non riesce comunque a superare il suo problema. Christian soffre di una disabilità grave e parla con grande sincerità dei propri desideri in campo sessuale e dell'amore per la sua compagna. I due partecipano a un workshop in cui sono presenti persone di età diverse e a cui partecipa anche Tudor, che appare molto vulnerabile ma accetterà di condividere le proprie sensazioni.
Fin dal titolo intuiamo la volontà di provocare dell’esordiente, che gioca costantemente, anche nelle sue dichiarazioni, su quanto il film sia un documentario, quindi realtà, ma anche messa in scena. “Dimmi come hai amato, così che possa capire come amare”, dice all’inizio del film una voce, quando ci viene svelata una donna cinquantenne alle prese con un suo percorso di recupero del piacere, mentre una regista sfonda la quarta parete e si rivolge allo spettatore mentre prepara una macchina da presa.
L’intimità, per definizione “la sfera dei sentimenti e degli affetti più gelosamente custodita contro la curiosità e l’indiscrezione altrui”, qui viene violata dalla presenza costantemente ribadita di un terzo sguardo, quello della messa in scena stessa, che fa perdere senso e immedesimazione, con cinica freddezza, alla serie di tentativi della donna in questione, e poi di altri personaggi, di provare un piacere di cui, però, hanno anche molta paura. Il tutto, ci ricorda la regista, “per violare meccanismi di difesa e tabù, per essere finalmente liberi”.
Non si capisce quale sarebbe questa libertà mancata, né il senso del percorso che la Pintilie costringe lo spettatore a subire, come un’installazione modaiola di video arte, fra esibizione di nudità, utilizzo ambiguo e morboso di deformità fisiche, sotto la bandiera dello spinta sempre all’eccesso e del cambiamento del nostro concetto di bellezza. La malizia sembra così palese, in una banalizzazione della bellezza, ridotta a un catalogo estetizzante tanto e quanto nelle omologazioni che vorrebbe denunciare.
Una specie di work in progress, a cui la regista lavora da oltre dieci anni, un esperimento con cavie umane, ingrandite come insetti al microscopio da una camera che si muove in un laboratorio bianco vivido, sempre ambiguo e ridondante, che minaccia di dare un seguito a queste due ore già sufficientemente sgradevoli, colonna sonora cacofonica inclusa.
Riccardo Supino


domenica, febbraio 17, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

SYNONYMES di Nadav Lapid, Orso D'oro 69th Festival di Berlino

LE NOSTRE BATTAGLIE


Le nostre battaglie
regia, Guillaume Senez
con, Romain Duris, Laure Calarny
Belgio, Francia, 2019
genere, drammatico
durata, 98’

Ad anticipare gli avvenimenti di queste ore, con il movimento dei cosiddetti gilet gialli a farsi portavoce del malcontento della popolazione meno abbiente, sia il cinema francese che quello belga da tempo hanno messo la questione del lavoro e della classe operaia al centro del loro interesse, al punto da raccontare le vicissitudini in un genere a se stante. Dal seminale Risorse umane di Laurent Cantet a Due giorni e una notte dei fratelli Dardenne, al dittico de La legge del mercato e In guerra, firmati da Stephane Brizè, la lotta sindacale e la difesa del salario appartengono parimenti a Le nostre battaglie di Guillaume Senez, in cui la precarietà della vita in fabbrica si riversa sulla famiglia del protagonista, messa a dura prova dall’improvvisa scomparsa della moglie, fuggita da un’esistenza priva di felicità. Senza fare sconti alla realtà che racconta, Le nostre battaglie si ritaglia motivi di interesse nella capacità di non farsi prendere la mano dalle tante situazioni in cui le avversità del destino nei confronti dei personaggi presterebbe il fianco a retorica e sentimentalismi. In questo senso è esemplare la misura di Romain Duris nel mettere in scena il mix di determinazione e fragilità in un ruolo che per certi versi ne fa la versione proletaria del Dustin Hoffman di Kramer contro Kramer. 
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

69 FESTIVAL DI BERLINO: GRÂCE À DIEU

Grâce à dieu

regia, François Ozon

con, Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud, Bernard Verley
Francia, 2019
genere, drammatico
durata, 137’




Fedele a se stesso e al proprio cinema, Francois Ozon si rende artefice dell’ennesima mutazione presentandosi alla Berlinale con un lavoro per certi versi spiazzante anche per chi, da sempre, è affezionato spettatore del regista francese. La novità principale di Grace à Dieu è rappresentata dal dispositivo utilizzato da Ozon, il quale pur non rinunciando alle provocazioni a cui ci ha abituato questa volta decide di trasferirle dalla scabrosità dei contenuti alla modalità della messinscena. Consapevole dell’emotività, ma anche della facile presa insita nella storia (vera) che ispira il film, e cioè dello scandalo occorso a Lione nel 2016 a seguito della denuncia di un sacerdote francese accusato di aver abusato di oltre settanta ragazzini, Ozon sceglie di raccontarne le vicende attraverso il vasto repertorio documentale messo in piedi dalle vittime per costringere le istituzione statali ed ecclesiastiche a occuparsi del caso dopo diversi tentativi di insabbiare le indagini da parte delle gerarchie religiose. Rispetto alla realtà dei fatti e alla loro cronaca Ozon compie la stessa operazione effettuata da Mike Leigh con Peterloo, costruendo un film a doppio fondo, in cui a una prima parte. in cui le immagini svolgono un compito essenzialmente documentario, per il fatto di riportare con precisione burocratica i contatti, le comunicazioni e le procedure legali intercorse tra le parti in causa, ne segue una seconda nella quale la narrazione, liberata dall’esigenza testimoniale, si riappropria della consueta narrazione.


Prosciugato della sua estetica finzionale dalla volontà di restituire uno sguardo il più possibile oggettivo rispetto alla drammaticità dell’argomento, Grace à Dieu tiene a bada enfasi e retorica, puntando soprattutto a smascherare il gioco della parti, instauratosi non tanto tra le vittime e il carnefice (superato dal fatto che fin dall’inizio il colpevole ammette le sue nefandezze, addebitandole, peraltro a una vera e propria malattia) ma teso a evidenziare l’ipocrisia e le contraddizioni delle convezioni sociali e del perbenismo disposto a tutto pur di salvaguardare il sistema e il suo status quo, rappresentato nello specifico dalle istituzione ecclesiastiche, sostenute in primis di dai genitori dei bambini, chiamati in causa in prima persona per non aver risposto al grido d’aiuto dei propri figli.

L’effetto è spiazzante soprattutto per chi, conoscitore dei lavori del regista francese, lo ritrova sul grande schermo in una forma inedita ma non per questo meno efficace. Un cambiamento, questo, che ha conseguenze soprattutto sul piano della resa interpretativa, per la prima volta in un film di Ozon, subordinata alla storia e perciò non in grado di fornire agli attori l’occasione per rimanere nella memoria dello spettatore con ruoli totalizzanti. Ciò detto Grace à Dieù si candida fin da adesso tra i favoriti per la vittoria dell’Orso d’Oro come miglior film.
Carlo Cerofolini

(pubblicato su taxidrivers.it)




giovedì, febbraio 14, 2019

VELVET BUZZSAW


Velvet Buzzsaw
di Dan Gilroy
con Jake Gyllenhaal, Natalia Dyer e John Malkovich
USA, 2019
Thriller
durata, 109’


Completo blu scuro, andatura ondeggiante ma sicura, pochette floreale, taglio caschetto per essere sempre impeccabile in poco tempo. e occhiali spessi e neri che danno quel tocco di intelligenza in più - non necessario naturalmente – che ci aspetta da un personaggio come Morf Vandewalt.
Parlare di stereotipo in questo caso è forse anche troppo riduttivo: Morf (interpretato da Jake Gyllenhaal su cui Netflix per l’occasione ha decisamente puntato tutti i riflettori) è un eccentrico critico d’arte omosessuale, alle prese con una vita privata e lavorativa che si intrecciano sempre più ed una sessualità messa a dura prova da una sua amica che sembrerebbe avergli rapito il cuore.

Il film, come avrete già capito, è incentrato interamente nel mondo dell’arte e sugli intrecci ed operazioni tipiche di questo mercato e degli artisti o galleristi che lo popolano. Pur essendo Morf e i suoi colleghi i veri protagonisti, la svolta che avvia la narrazione è data involontariamente da Vetril Dease, pittore amatoriale scoperto per caso dalla sua vicinata di casa e aspirante gallerista Josephina in occasione del ritrovamento del suo corpo esamine nel pianerottolo del condominio.
Le opere di questo artista scoperto postumo sono tanto affascinanti quanto pericolose: chiunque ne entri in possesso finisce inevitabilmente per essere inghiottito nella violenza e nella desolazione della trama che avvolge i dipinti. E così, uno ad uno, i personaggi dovranno liberarsi dall’ossessione innescata da nuova questa scoperta (e nuova fonte di guadagno) per cercare di salvarsi e scampare a questa specie di maledizione che li perseguita.


Da segnalare la decisamente positiva interpretazione dell’ambiziosa Josephina, affidata per l’occasione all’attrice semi-esordiente Zawe Ashton, capace di trasferire allo spettatore le emozioni di un personaggio complesso ed introverso come quello della gallerista.
Per il resto la pellicola è Gyllenhaal e poco più. Idee già viste per un connubio arte-horror che stanca ancor prima della visione: davvero poca cosa.
Lorenzo Governatori

COPPERMAN

Copperman
di Eros Puglielli
con Luca Argentero, Antonia Truppo, Galatea Ranzi
Italia, 2019
genere, commedia, drammatico

durata, 95’

“Sugar free”! E’ questo il motto di Anselmo, o meglio di Copperman, l’uomo di rame.
Anselmo è un bambino (e poi un uomo) molto particolare che vive la vita in un modo tutto suo, con una grandissima passione per i colori, fatta eccezione per il giallo, e per i cerchi (che riescono addirittura a calmarlo in determinate situazioni). Vive con la madre che, per il bene del figlio, mente dicendogli che il padre è un supereroe in missione per salvare il mondo (quando in realtà li ha semplicemente abbandonati, forse a causa del “disturbo” di Anselmo). Prendendo spunto da questo racconto della madre e da una serie di fumetti che tiene gelosamente custoditi in un baule, matura in lui l’idea di diventare un vero e proprio supereroe, quasi come per seguire le orme del padre. Con l’aiuto di un amico di famiglia, che gli fabbrica una vera e propria divisa pronta ad ogni evenienza, diventa Copperman. Agisce di notte, in segreto e cerca (riuscendoci), nel suo piccolo, di salvare coloro che sono in pericolo o hanno bisogno di aiuto, costruendosi, in questo modo, una fama, non solo tra gli amici, ma anche tra gli sconosciuti. Se a tutto questo sommiamo l’interesse che si tramuta fin da subito in amore nei confronti di Titti, una bambina conosciuta all’asilo, ma dalla quale è costretto ad allontanarsi per volere del violento padre di quest’ultima, troviamo la formula perfetta per un film ben costruito che fa emozionare.
Eros Puglielli realizza un’opera interessante che nella prima parte getta le basi di quella che è una storia semplice e “quotidiana”, ma che, nella seconda parte, decolla definitivamente, quasi trasformando anche il pubblico in un supereroe.
L’elemento che colpisce e che si può apprezzare totalmente è la possibilità di immedesimarsi nei personaggi che sono esseri umani comuni, come chiunque. A differenza della classica idea di supereroe, Copperman è un ragazzo semplice che non ha nulla di speciale, se non questo grande sogno che riesce a trasformare in qualcosa in più. Il supereroe (e di conseguenza i suoi eventuali poteri) sono solo degli espedienti che il regista utilizza per poter descrivere quella che è una vita normale. Non c’è niente di ultraterreno. E’ solo un sogno, un desiderio che Anselmo (o chiunque) utilizza per far fronte ai suoi problemi e dare libero sfogo alla sua fantasia.

Saranno, poi, le scenografie molto suggestive, che rimandano quasi a un’epoca passata, ma, per certi aspetti, indefinita e le buone prove attoriali dei protagonisti che rendono il film veramente un buon prodotto. Luca Argentero riesce a immedesimarsi (e fare immedesimare lo spettatore) in un personaggio “comune”, ma non semplice. Riusciamo a percepire le sue insicurezze, i suoi dubbi, i suoi problemi e capiamo immediatamente quando sta bene e quando no. Allo stesso modo anche Antonia Truppo rende molto bene il personaggio di Titti e la sua frustrazione dovuta a una vita tutt’altro che semplice.
Un buon film che dimostra che basta guardare le cose da una prospettiva diversa per poter comprendere e riflettere.
Veronica Ranocchi

giovedì, febbraio 07, 2019

IL CORRIERE - THE MULE


Il Corriere – The Mule

 Clint Eastwood, 
con Clint Eastwood e Bradley Cooper
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 116’



Se The Old Man and The Gun sarà ricordato per essere stato l’ultimo film interpretato da Robert Redford, Il corriere – The Mule è destinato a passare agli annali per il motivo opposto, considerato che il ritorno davanti alla macchina da presa di Clint Eastwood lo riconsegna a una carriera d’attore che lo stesso aveva deciso di concludere dopo le riprese  di Gran Torino. A riportarlo in scena è la storia di Earl Stone, come il film di Lowry, ispirata a un articolo del New York Times dedicato alle vicissitudini di uomo diventato corriere della droga (di un cartello messicano) per rimediare alle conseguenze di un tracollo economico. Alle prese con una vicenda contaminata da dinamiche e situazioni tipiche di certo cinema thriller, genere ripreso quando si tratta di raccontare le pericolose frequentazioni del protagonista così come gli imprevisti di volta in volta presenti lungo la strada che lo separano dal luogo della consegna, Il corriere è innanzitutto la rappresentazione di un’esistenza divisa tra consuntivo personale e voglia di vivere, ai quali l’autore fa corrispondere sul piano narrativo da una parte il travagliato rapporto di Earl con l’ex moglie e la figlia (da sempre uno dei temi centrali della sua poetica), dall’altra i numerosi momenti di un privato allietato da passatempi e trastulli degni di un’aitante giovanotto.


Baluardo di un mondo – e di un cinema – in via d’estinzione, Eastwood fa ancora una volta del suo universo morale la misura di ogni giudizio, riuscendo come sempre a bilanciare una certa avversione nei confronti della modernità (qui segnalata dai continui rimbrotti nei confronti di internet e del ricorso alla  telefonia) con un umanesimo che pur non cancellando differenze e ostilità serve a renderle più accettabili. Conscio di non avere più niente da dimostrare, Eastwood torna sul grande schermo all’insegna di una libertà che si tocca con mano, tanto nello spirito ludico e nella mancanza di filtri del protagonista, pronto a scherzare o a farsi scherno di temi capitali della società americana quali razzismo e omofobia, ma anche a sorvolare una questione importante come quella della droga (non a caso tornata alla ribalta nel cinema e sui giornali), considerata solo nella sua funzione di espediente narrativo, quanto nel modo di girare, segnato dall’utilizzo di una luce più limpida e meno contrastata rispetto quella impressa nelle immagini di Tom Stern, da cui il regista si separa dopo lunga collaborazione (sostituito dall’Yves Belanger di Lawrence Anyways e Dallas Buyers Club), e supportato da una cinepresa mai così mobile nel tradurre in movimenti di macchina l’irrequietezza dell’ottuagenario signore.

Che poi attraverso Earl Stone il regista altro non faccia che mettere in scena se stesso e il proprio personaggio, in una sovrapposizione tra elementi autobiografici (tratti dalle dicerie vere o presunte del suo conservatorismo politico) e suggestioni che ruotano attorno al suo immaginario cinematografi (per esempio il Western inteso come spazio fisico e genere filmico), è un altro paio di maniche. Altrove minimale, il regista questa volta non riesce a contenere il carisma e la personalità regalata al suo alter ego, destinati, per forza di cose, a fagocitare quelle di coloro che gli stanno attorno, facendo dei personaggi parte di un’aneddotica funzionale allo sviluppo della narrazione. Così come non si può non segnalare, in termini di scrittura e drammaturgia, la meccanicità del cambio di passo che, nelle battute conclusive, riporta il film alle atmosfere più tipiche dell’ultimo Eastwood, quelle in cui il mea culpa del protagonista diventa lo spunto per una ripensamento generale sul senso della vita. In America il film è piaciuto di più al pubblico che alla critica, confermando che uno come Eastwood non passa mai di moda.
Carlo Cerofolini
taxidrivers.it

martedì, febbraio 05, 2019

HOME VIDEO: BLACKkKLANSMAN


DISPONIBILE IN DVD, BLU-RAY™, 4K ULTRA HD E DIGITAL HD

CON UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA




BlacKkKlansman
di Spike Lee
con Adam Driver, John David Washington, Laura Harrier
USA, 2017
genere, biografico, thriller, commedia, drammatico, giallo, poliziesco
durata, 128'


Come si sa, la presenza a Locarno nella sezione Piazza Grande di "BlacKkKlansman" non è un'anteprima assoluta poiché nel Maggio scorso il film di Lee è passato nel concorso ufficiale del festival di Cannes, portandosi a casa il premio per la miglior regia. Le notizie della buona accoglienza ricevuta dal film e la vittoria di un premio importante non sono però sufficienti a restituire la qualità del lavoro messa in campo per l'occasione dal regista americano, il quale da un po' di tempo sembrava aver perso l'ispirazione, fiaccata dalle polemiche che da sempre contraddistinguono i rapporti del regista con lo show business americano e dalla scelta di progetti che, almeno per quanto riguarda il cinema di finzione, erano apparsi quanto meno discutili (su tutti il remake di "Oldboy" per la scarsa attinenza con l'identità della sua filmografia). Al contrario, la prima cosa che emerge in "BlacKkKlansman" è la volontà di recuperare il tempo perduto ripristinando il paesaggio poetico e sociale presente nelle opere migliori. La prova ci viene dall'utilizzo della trama, poiché la vicenda del poliziotto di colore che si infiltrata nelle file del Ku Klux Klan non risolve le sue prerogative nella fabbricazione dell'indagine dei poliziotti determinati a smascherare le nefandezze della famigerata organizzazione, tantomeno nell'avallo della matrice razzista della Nazione americana raccontata attraverso fatti (storici) realmente accaduti.


L'ambizione di Lee questa volta è diversa: l'afflato militante e le irridenti provocazioni che ne hanno contraddistinto le regie assumono in "BlaKkKlansman" le forme di un vero e proprio sit in cinematografico in cui "la chiamata alle armi" della comunità afroamericana subisce un'accelerazione che la porta a inglobare dentro di sé quello che fin qui è stato l'intero corso estetico, formale e contenutistico dell'autore. In questo senso nella carriera del regista "BlaKkKlansman" potrebbe figurare come una versione personalizzata dell' "8 e 1/2" felliniano in cui le modalità di infiltrazione, i mascheramenti e le indagini svolte dall'eccentrica squadra di poliziotti per entrare nel cuore del famigerato sodalizio vengono scandite da una serie di inserti in cui la condizione sociale e politica della popolazione nera degli anni Settanta (epoca in cui si colloca la vicenda) viene raccontata attraverso le passioni personali e cinematografiche del regista, di volta in volta declinate in vari tipi di forme e generi: della partita, dunque, fanno inevitabilmente parte il pamphlet politico, condensato soprattutto nella sequenza iniziale preceduta dall'inquietante arringa di Alec Baldwin, la commedia stand-up, utilizzata quando si tratta di confezionare l'esilarante sequenza della telefonata con cui Ron Stalworth (John David Washington) si finge uno sbirro bianco e razzista per farsi reclutare all'interno del Klan e, ancora, il tourbillon di generi (il thriller e il poliziesco già frequentati in altre circostanze), di toni (divertiti, divertenti e grotteschi) e di stili di recitazione (da quella compassata e laconica di uno straordinario Adam Driver alle esasperate e quasi caricaturali performance di chi da vita ai personaggi più viscidi e cattivi) per non dire della presenza di altrettanti miti della cultura afroamericana (dalla Blaxploitation ad Harry Belafonte, chiamato a parlare di razzismo e intolleranza davanti a simpatizzanti del movimento rivoluzionario delle Pantere Nere). 


La bravura di Lee (e del suo montatore) è quella di riuscire a far coesistere teorizzazione (si pensi alla presa di posizione nei confronti di "La nascita di una nazione") e pratiche cinematografiche in un contenitore perfettamente coerente e per nulla appesantito dal volume di materiale che vi converge. Vi si aggiunga, poi, la capacità di sfruttare il doppio canale costituto dal dare parola ai personaggi razzisti e a quelli che fingono di esserlo per sottolineare con ancora più veemenza il ridicolo su cui si basano le motivazioni dell'odio razziale. Il tutto con gli anni Settanta presi ad esempio per parlare dell'oggi e per evidenziare con tono polemico quanto poco sia cambiato rispetto a quegli anni in termini di diritti civili e di eguaglianza sociale.

La sequenza conclusiva con le drammatiche immagini degli incidenti avvenuti a Charlottesville nell'agosto del 2017 contrapposte all'imbarazzante commento del presidente Trump sono esemplari nel dirci che Lee ha ancora voglia di combattere e di farlo attraverso nuovi proseliti come per certi versi lo sono Jordan Peele ("Scappa - Get Out") e, un po' a sorpresa visto il target della compagnia di Jason Blum, la Blumhouse Productions, produttori del film.
Carlo Cerofolini


(pubblicato su ondacinema.it)