giovedì, gennaio 27, 2022

IL POTERE DEL CANE

Il potere del cane

di Jane Campion

con Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Kodi Smit-McPhee

Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Canada, 2021

genere: drammatico, western, thriller

durata: 126’

Vincitore del leone d’argento alla miglior regia alla Mostra del cinema di Venezia e ben tre Golden Globes, tra cui anche quello di miglior film drammatico. Sono questi, per il momento, i premi che è riuscito a portare a casa “Il potere del cane”, il film di Jane Campion, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage.

Un western, disponibile su Netflix, che, nonostante faccia riferimento a un romanzo del 1967, è più attuale di quanto possa sembrare, portando sullo schermo tematiche, personaggi e situazioni che, oltre a essere contemporanei, strizzano l’occhio ad altri titoli della settima arte.

Sarebbe, però, riduttivo definire “Il potere del cane” solo come un film western. Il film di Jane Campion è, infatti, anche altro. Un film d’amore e un thriller.

La storia è ambientata nel 1925 in Montana e vede protagonisti i due fratelli Phil e George Burbank, ricchi proprietari di un ranch. La loro, apparentemente monotona, vita cambia nel momento in cui George si innamora della vedova locandiera Rose Gordon. La donna ha un figlio, Peter, che la aiuta nella locanda e che viene subito preso di mira da Phil, urtato dagli interessi, a detta sua, troppo femminili del giovane.

Quando Rose e George decidono di sposarsi all’insaputa di Phil, questi si trova costretto a convivere con la donna e, durante l’estate, anche con Peter che torna al ranch per le vacanze dal college nel quale studia medicina e chirurgia. Con questi, dopo un primo momento, inizia a instaurare un rapporto, ma non tutto è come sembra e le “sorprese” sono sempre in agguato.

Il film della Campion, più che una storia con degli eventi che si susseguono, cerca di raccontare la storia dei vari personaggi. Seppur non tutti pienamente tratteggiati, la regista si sofferma sull’evoluzione e sul cambiamento, reale o presunto, dei quattro personaggi centrali. Nonostante Kirsten Dunst e Jesse Plemons siano una coppia anche nella vita reale, e non solo davanti alla macchina da presa della Campion, non riescono a fare emergere quella chimica necessaria per far apprezzare completamente i loro personaggi e far scaturire l’intrinseca bontà degli stessi. A salire alla ribalta sono indubbiamente Benedict Cumberbatch, nel complesso e tormentato ruolo di Phil, alle prese con un’accettazione di sé, del mondo e degli altri, e Kodi Smit-McPhee, interprete di Peter, non a caso vincitore del Golden Globe come miglior attore non protagonista.

La voce narrante e il vero protagonista della storia è Peter, anche se rimane nascosto al pubblico, alla narrazione e agli altri personaggi per gran parte del lungometraggio. Ma è proprio questo suo agire nell’ombra che ha ripercussioni sulla storia e sulle scelte dei personaggi.

A tutto questo va aggiunta una regia impeccabile che, accompagnata da una maestosa fotografia con campi lunghi che mostrano lande desolate e associano gli spazi alle tribolazioni dei personaggi, fa da cornice a una storia che poteva dire ancora di più. Se il comparto tecnico raggiunge praticamente un livello di perfezione (apprezzabile ancora di più sul grande schermo), non si può dire altrettanto di una sceneggiatura che, forse complice la scelta di dare più risalto ad alcuni aspetti, non colpisce visibilmente. Tralasciando qualche intuizione e qualche apparente colpo di scena, “Il potere del cane” non ha il guizzo che ci si potrebbe aspettare da un film del genere.

Forse a differenza del film di Ang Lee, “I segreti di Brokeback Mountain”, quello della Campion ha la possibilità di sfruttare l’elemento del thriller e dell’indagine, non solo psicologica, che coinvolge sia lo spettatore che i personaggi stessi. E che funziona, con richiami al vero e proprio western, anche se in chiave diversa: un esempio, a tal proposito, è la sfida a suon di musica tra Phil e Rose. La sfida, elemento e momento onnipresente nel genere, è qui mostrato in una chiave diversa, ma pur sempre reale.

Insomma un film indubbiamente pronto a dire la sua anche alle prossime kermesse.


Veronica Ranocchi

lunedì, gennaio 17, 2022

AMERICA LATINA

America Latina

dei fratelli D’Innocenzo

con Elio Germano, Maurizio Lastrico, Sara Ciocca

Italia, Francia, 2021

genere: thriller

durata: 90’

Presentato a Venezia, “America Latina” è il più recente film dei fratelli D’Innocenzo. Si tratta di un film che segue la scia dei precedenti lavori dei gemelli che danno, qui, l’ennesima dimostrazione di saper tenere al cinema e soprattutto al proprio cinema.

“America Latina” è la storia di un dentista, Massimo (un Elio Germano sul quale poggia l’intera narrazione), che sembra condurre una vita apparentemente tranquilla e “monotona” con una moglie e due figlie in una bella casa un po’ isolata. La sua routine è, però, sconvolta improvvisamente dal ritrovamento di una ragazzina nascosta nella sua cantina. A quel punto la domanda sorge spontanea: chi è? E come mai si trova lì? Ma soprattutto la domanda principale che attanaglia lo spettatore e il protagonista stesso è: chi è davvero Massimo?

Ecco che iniziano i dubbi e le domande ed ecco che la storia comincia ad andare in una determinata direzione (che poi è la stessa direzione intrapresa dai registi nella loro filmografia).

Ogni scena e ogni inquadratura nasconde qualcosa e pone le basi per un disvelamento finale, in parte “scontato” e in parte inaspettato.

Sulla scia dei precedenti film, i due fratelli decidono di restringere la propria attenzione a un microcosmo, quello di un’abitazione, perché, fatta eccezione per alcune brevi sequenze, tutta l’azione si svolge all’interno della grande e, in parte, dispersiva, villa di Massimo. Ma, al tempo stesso, non è solo il microcosmo dell’abitazione a essere protagonista, ma è il microcosmo della persona di Massimo e, più precisamente, della mente di quest’ultimo. “America Latina” è, infatti, un viaggio. Un viaggio che il protagonista (e lo spettatore con lui) compie nella propria vita e nella propria esistenza. Tanti i segnali che preannunciano il finale, ma ognuno calibrato nel giusto modo e concesso allo spettatore a piccole dosi, per metterlo davanti a quella che risulta, alla fine dei conti e a prescindere da tutto, una realtà distorta. Ed è distorta nella scelta dei colori, nella partecipazione di pochi, pochissimi personaggi e soprattutto nelle inquadrature, sempre attente a mostrarci la storia da un certo punto di vista e in un certo modo. Dal carrello iniziale con mancata messa a fuoco alla scena “verde” di Massimo sotto la doccia che sembra appartenere a un altro mondo.

Un’altra caratteristica importante e centrale nel film dei fratelli D’Innocenzo è anche l’insistenza sui primi piani che cercano di scavare dentro lo sguardo e la mente dei personaggi e, al contempo, sembrano seguirli pedissequamente, impossessandosi quasi dei loro esseri.

Un Elio Germano imponente nella creazione di un personaggio dilaniato dai dubbi che, con il tempo, viene letteralmente mangiato dalla propria paura e insicurezza.

Molto più in linea con il precedente “Favolacce”, con “America Latina” i fratelli D’Innocenzo iniziano a rendere più visibile la strada e il percorso che hanno cominciato a tracciare già con il primissimo lavoro. Continuerà questa direzione che ormai li contraddistingue? Per il momento sicuramente continuano a dare vita alla loro idea personale di cinema, riuscendo nell’intento.


Veronica Ranocchi

giovedì, gennaio 13, 2022

Una famiglia vincente - King Richard

 Una famiglia vincente - King Richard

di Reinaldo Marcus Green

con Will Smith

USA, 2022

genere, drammatico, sportivo


Ai film costruiti per fare incetta di nomination, quelli capaci di cavalcare l’onda senza farsene accorgere, se ne accompagna una tipologia meno conosciuta ma altrettanto efficace, costruita con l’unico obiettivo di far risaltare il personaggio principale e chi lo interpreta.
Da una parte dunque film come “Il potere del cane”, capaci di spalmare la vena autoriale sulle diverse componenti del loro dispositivo, dagli attori alla fotografia, dai costumi alla sceneggiatura e più di tutti a chi ne è “padrone”, dall’altra, prodotti quali “Una famiglia vincente”, in cui tutto sembra ordinato e giustapposto in funzione del mattatore di turno. Nel caso specifico Will Smith, chiamato a interpretare il (famoso) padre delle sorelle più vincenti del tennis, capaci di sommare qualcosa come 123 tornei, Grande Slam compresi.
Imitando la realtà ma neanche troppo (alcuni degli aspetti più controversi della questione vengono lasciati fuori, oppure come si conviene a un film mainstream, accennati in maniera addolcita, King Richard (questo il titolo originale, ndr) ha un unico obiettivo, quello di mettere in risalto non tanto le imprese tennistiche delle sorelle Williams, quanto l’onnipotenza del loro genitore, un vero e proprio desposta quando si tratta di programmare il futuro tennistico ma anche esistenziale delle campionesse in nuce.
Contando sulla planetaria notorietà dell’argomento e sulla gesta di Venus e Serena, ancora attive sui campi da tennis di tutto il mondo, e dunque potendo lasciare ai margini del racconto le immagini del repertorio sportivo senza il rischio di attenuarne la straordinarietà, “Una famiglia vincente” diventa il racconto esistenziale di un sogno americano molto simile a quello con cui Smith aveva sfiorato la vittoria dell’Oscar. Una ricerca della felicità, quella di Richard Williams che appassiona non solo per la caparbietà di portare avanti una scommessa impossibile con metodi di cui lo stesso è rimasto unico antesignano, ma soprattutto per il fatto di trascinarsi dietro l’empatia che da sempre accompagna il riscatto degli umiliati e offesi a cui il nostro apparteneva di diritto.
Per farlo il regista Reinaldo Marcus Green apparecchia uno spettacolo in cui linearità narrativa e montaggio invisibile sono le armi per non togliere il protagonista dalla centralità del quadro, esaltandone le caratteristiche di eccezionalità.
Edificante ed edulcorato quanto basta per non interrompere il feeling con lo spettatore “Una famiglia vincente” ci accompagna senza sussulti ma con grande scioltezza al traguardo finale, non prima di aver fatto fare un figurone al suo primo interprete, artefice di una recitazione manierata ma puntuale nel restituire l’immagine di un uomo controverso ma vincente, almeno per quanto riguarda l’apprendistato della sue bambine. Il film è godibile ma dimenticabile. A parte Will Smith che ricorderemo per aver vinto il suo primo Oscar come migliore attore protagonista. Non è sicuro ma molto probabile.
Carlo Cerofolini

WEST SIDE STORY

West Side Story

di Steven Spielberg

con Rachel Zegler, Ansel Elgort, Ariana DeBose

USA, 2021

genere: musicale, drammatico, sentimentale

durata: 156’

Non era facile riportare sullo schermo uno dei caposaldi del genere musical. Ma lo diventa nel momento in cui alla regia viene scelto un nome come quello di Steven Spielberg, dal quale difficilmente si rimane delusi. E infatti il pluripremiato regista riesce, ancora una volta, a realizzare un’opera degna di rimanere impressa nell’immaginario collettivo.

Il film è tratto dall'omonimo musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents.

La storia è ambientata nella New York degli anni ’50 e, più precisamente, nel quartiere West Side di Manhattan. Il luogo, però, è conteso da due gang rivali: i Jets, immigrati europei di seconda generazione, e gli Sharks, una banda di immigrati portoricani. Ognuna delle due parti vuole avere il sopravvento sull’altra, nel senso che vorrebbe essere considerata la padrona incontrastata del luogo. Ma alcuni imprevisti si mettono in mezzo, come per esempio l’arrivo da Porto Rico di Maria, la sorella di Bernardo, leader degli Sharks. Il fratello vorrebbe far mettere insieme la giovane insieme al timido Chino e pensa di sfruttare il ballo per farli conoscere di più. Lo stesso ballo, però, vuole essere sfruttato dai Jets per innescare una vera e propria rissa con la gang rivale in modo da imporsi in maniera definitiva. Questo anche perché contano sull’aiuto e l’intervento di Tony, ex fondatore dei Jets, uscito dal carcere dove era stato rinchiuso per aver quasi ucciso un ragazzo in una rissa. Tony, però, sembra aver messo la testa a posto, lavorando da Doc’s e vivendo da Valentina, che gestisce il negozio e che ha dato al giovane una seconda possibilità di vita. Il ragazzo non vuole avere a che fare con gang e risse e cerca di tirarsene fuori. Ciononostante si reca al ballo dove incontra Maria e se ne innamora perdutamente venendo ricambiato. Questo legame, però, non piace a nessuno perché andrebbe a unire le due gang invece di dividerle. Come verrà, quindi, risolta la questione?

Nonostante l’opera originaria fosse già stata riadattata in passato e nonostante quindi, ci fosse il timore di incappare in errori, Spielberg confeziona un’opera più che riuscita, in grado di rendere omaggio e, al tempo stesso, attualizzare e modernizzare il titolo di partenza.

“West Side Story” è l’eterno confronto tra due mondi che sono stati contrapposti in passato e che lo sono anche oggi. Un passato che torna a influenzare il presente e un presente che si specchia in un passato non troppo lontano.

A colpire davvero, però, nel musical di Spielberg sono due aspetti centrali e protagonisti. Il primo è, inevitabilmente, quello della musica, delle canzoni, del ballo, usato come evasione. O meglio Spielberg sembra quasi dirci che la musica, il canto e il ballo sono gli unici elementi in grado di creare un legame e di trovare un punto di incontro tra due realtà così distanti tra loro e incapaci di unirsi. È attraverso il canto che i personaggi si esprimono veramente, si pongono domande, si danno risposte e cercano di comunicare con chi sono impossibilitati a farlo a cose normali. Le più grandi e importanti rivelazioni e comunicazioni del film avvengono, non a caso, attraverso questo “espediente”.

L’altro aspetto è, invece, quello della scenografia. L’ambientazione che circonda i personaggi è un’ambientazione distrutta. Tutto sembra essere ridotto in macerie perché in macerie è il rapporto tra i personaggi. E questo potrebbe anche voler strizzare l’occhio all’attualità e alla situazione americana odierna. Se da una parte il canto unisce, dall’altra le scale da salire e scendere, i cancelli e tutti questi elementi, che ritornano costantemente, dividono e ostacolano i due innamorati, costretti sempre a rincorrersi. Forse uno dei film più politici di Spielberg in assoluto. Ma, al contempo, anche una dedica enorme all’amore e alla forza che un sentimento del genere ha nel cuore e nell’animo di chiunque, nel bene e nel male. Un amore marcato da quel “To Dad” nei titoli di coda, in ricordo del film che sua madre amava e che lui decide di dedicare al padre, quasi raccontandosi al suo pubblico e spiegando loro come quella rottura e quella separazione avvenuta in passato tra i suoi genitori lo abbia, in qualche modo, segnato e continui a farlo ancora oggi.

Un film dove i legami e i rapporti, soprattutto familiari, sono al centro di tutto e rappresentano il vero focus del musical in questione.

Interpreti più che azzeccati, tra i quali spicca in particolare l’esordiente Rachel Zegler che ha già portato a casa un Golden Globe come miglior attrice protagonista e chissà che non possa ampliare ancora di più la propria personale bacheca di premi.


Veronica Ranocchi

mercoledì, gennaio 12, 2022

HOUSE OF GUCCI

House of Gucci

di Ridley Scott

con Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino

USA, Italia, 2021

genere: drammatico, biografico, giallo

durata: 157’

C’era indubbiamente grande attesa dietro l’ultimo film di Ridley Scott. Il regista, già premio Oscar, è riuscito a realizzare nel 2021 ben due titoli importanti e imponenti, seppur per aspetti diversi.

Se da una parte “The Last Duel” aveva rievocato alcuni dei grandi titoli del regista, un po’ per le ambientazioni e un po’ per gli intenti, non si può dire la stessa cosa del tanto chiacchierato “House of Gucci”. La storia vera, tratta dall’omonimo romanzo, dell’assassinio di Maurizio Gucci a opera della moglie Patrizia Reggiani è al centro del film di due ore e mezzo con protagonisti Lady Gaga e Adam Driver.

Tutto ha inizio nel momento in cui i due giovani si conoscono e si innamorano. La loro storia fa sì che si intreccino inevitabilmente anche le vicende delle rispettive famiglie e soprattutto quella di Gucci, già all’epoca un nome importante nel panorama nazionale e non solo. Ma la Patrizia Reggiani interpretata da Lady Gaga sembra, fin da subito, ambire a qualcosa di più rispetto alla semplice unione nel vincolo del matrimonio con il consorte. Ed ecco che le dinamiche si fanno più fitte e intense, tra vacanze, figli in arrivo e genitori che vengono meno, in cambio di responsabilità sempre più grandi.

Insomma una storia di cronaca che tutti conoscono e che Ridley Scott tenta di riportare sullo schermo in maniera oggettiva e pulita. E forse anche fin troppo. Perché l’oggettività è superiore a tutto il resto. Sembra quasi che il coinvolgimento dello spettatore nei confronti dei personaggi sia secondario.

La sensazione che emerge dopo aver visto “House of Gucci” è di non essere mai davvero dentro la storia e la psicologia dei personaggi. Oltre alla mancanza di informazioni ben definite che possano aiutare il pubblico a comprendere determinate scelte fatte da Maurizio da una parte e da Patrizia dall’altra, c’è una vera e propria mancanza di reale empatia. Un rischio, in parte, prevedibile considerati i nomi “schierati” dal regista che si avvale di un cast d’eccezione, solo parzialmente sfruttato. I nomi sono di richiamo e cercano di fare il possibile per far emergere l’intero titolo. Ed è così, quindi, che Al Pacino diventa il perfetto Aldo Gucci, ma non è in grado di uscire fuori dal ruolo assegnatogli e portato a compimento in maniera quasi perfetta. Allo stesso modo anche il trasformista Jared Leto e il padre di famiglia Jeremy Irons. E si potrebbe andare avanti citando anche tutti gli altri nomi.

L’unica pedina con la quale Scott decide di giocare la propria partita è Lady Gaga. Regina incontrastata della storia, dello schermo e della scena. Seppur con un accento che di italiano ha ben poco, la star concede al suo pubblico una performance degna di stare al passo con quelle dei suoi colleghi ben più rodati. Certo, il personaggio ben si presta a questo e, anzi, risulta fin troppo buono e malleabile impersonato dalla cantante. Cattura e ipnotizza la sua Patrizia Reggiani, sfoggiando abiti e mise sempre nuovi, sempre all’avanguardia e sempre “pieni di sé” come lei stessa. Ma non bastano per definire “House of Gucci” un film degno di altri splendidi prodotti venuti fuori dalla brillante mente di Ridley Scott.

Impeccabile la scelta dei costumi, veri protagonisti, e una riuscita Lady Gaga che continua a dare prova del suo forte carattere, ma che dovrà lottare con le unghie e con i denti per rubare la scena a tante altre sue “rivali” sullo schermo.


Veronica Ranocchi

sabato, gennaio 08, 2022

LA CROCIATA

La crociata

di Louis Garrel

con Louis Garrel, Laetitia Casta, Joseph Engel

Francia, 2021

genere: commedia

durata: 67’

Prendendo spunto da un’idea di Jean-Claude Carrière, che firma la sua ultima sceneggiatura, Louis Garrel, regista e attore protagonista, realizza una breve commedia che aiuta a riflettere su un problema sempre più attuale e sempre più preoccupante.

“La crociata”, in concorso al Festival di Cannes e presentato anche ad Alice nella città, è il nuovo lungometraggio, anche se la durata è di poco superiore a un’ora, del figlio d’arte francese, ma amante dell’Italia. Il marito di Laetitia Casta, insieme alla consorte, è il protagonista di una commedia familiare che poi diventa, in qualche modo, universale.

Abel e Marianne sono i genitori del piccolo Joseph e sembrano condurre una vita abitudinaria come tante altre famiglie. Questo finché un giorno Abel non si accorge che il figlio non è più in possesso del proprio monopattino. Dopo avergli chiesto spiegazioni i genitori vengono a sapere (e a scoprire) che il ragazzino ha venduto alcuni dei loro averi in modo da ottenere soldi per pagarsi un viaggio in Africa da sostenere insieme ad altri suoi coetanei, provenienti da tutto il mondo e non solo dalla Francia, con lo scopo di salvare il pianeta. O almeno tentare di farlo. Il loro obiettivo iniziale è quello di creare un mare nel deserto del Sahara. Riusciranno a compiere questa enorme impresa?

Una commedia che, come dichiarato dallo stesso Garrel, nasce prima di tutto il movimento mediatico che la problematica ha avuto e sta avendo in quest’ultimo periodo grazie alla dedizione, alla forza di volontà e al coraggio di Greta Thunberg. Nonostante ciò, però, il regista ha deciso comunque di inserire la presenza dell’attivista svedese nella propria opera per dare credibilità e attualizzare ancora di più la vicenda.

A emergere, al di là della forte tematica centrale, è anche la dinamica familiare e i rapporti tra i personaggi. Da una parte il rapporto tra Abel e Marianne e il diverso approccio dei due alla vita che li circonda e nei confronti del figlio. Se il primo sembra più apparentemente lontano, la madre è quella che lo segue, lo aiuta e lo incentiva. Dall’altra parte c’è il rapporto del piccolo Joseph (un eccellente Joseph Engel degno di essere considerato, a ragione, il vero e unico protagonista indiscusso della vicenda) sia con i genitori che con gli amici (e le amiche). Interessante sviscerare il diverso atteggiamento che si viene a creare in base alla persona con la quale si rapporta e in base alla situazione che si viene a creare. Se con i genitori è più restio a parlare, con i suoi coetanei, pur non essendo il leader del gruppo, appare più sicuro di sé. E fa riflettere molto il fatto che la sua giovanissima età “stoni”, in qualche modo, con le azioni che compie o che vengono solo accennate. Sembra quasi paradossale che un bambino (perché è quello che un qualsiasi spettatore vede sullo schermo) possa, in realtà, essere maturo a tal punto da indurre a riflettere i propri genitori, da creare dinamiche ben più che adolescenziali con i suoi coetanei e soprattutto con le sue coetanee. Ma non è sicuramente “troppo” il fatto che un bambino della sua età (anche se non viene mai specificata) possa interessarsi a tematiche come quella della salvaguardia del pianeta. Come, appunto, Greta Thunberg ha insegnato in quest’ultimo periodo.

E forse è proprio su questo che Garrel ci invita a riflettere e lo fa nel modo appropriato, indirizzandosi a grandi e piccoli nel giusto modo, nel giusto tono (con una commedia, spezzando spesso la drammaticità e la serietà dell’azione) e nella giusta durata (un’ora è la “misura” perfetta per condensare le informazioni e divulgarle a un pubblico più eterogeneo e vasto possibile).


Veronica Ranocchi

giovedì, gennaio 06, 2022

LE CLASSIFICHE DE ICINEMANIACI 2021

 Carlo Cerofolini




1. Il buco (Michelangelo Frammartino)

2. Due donne - Passing (Rebecca Hall)

3. Il collezionista di carte (Paul Schrader)

4. First Cow (Kelly Reichardt)

5. Scompartimento n. 6 (Juho Kuosmanen)

6. Maternal (Maura Delpero) 

7. Nuevo Orden (Michel Franco)

8. Collective (Alexander Nanau) 

9. Ariaferma (Leonardo Di Costanzo) 

10. I giganti (Bonifacio Angius)


 

- miglior regia: Rebecca Hall  (Due donne - Passing)

- miglior attore: Oscar Isaac (Il collezionista di carte)

- miglior attrice: Teresa Saponangelo (Il buco in testa)

- miglior sceneggiatura: Paul Schrader (Il collezionista di carte)

- migliore colonna sonora: Luigi Frassetto (I giganti)

- migliore fotografia: Matteo Cocco (Occhi Blu) 

- miglior montaggio: Walter Fasano (Beckett) 

- miglior opera prima: Due donne - Passing (Rebecca Hall), Occhi Blu (Michela Cescon)

- migliore attore rivelazione: Filippo Scotti (E’ stata la mano di Dio) 



Veronica Ranocchi






1. È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino)

2. Freaks Out (Gabriele Mainetti)

3. Luca (Enrico Catarrosa)

4. Passing (Rebecca Hall)

5. Una donna promettente (Emerald Fennell)

6. Illusioni perdute (Xavier Giannoli)

7. La scelta di Anne- L’événement (Audrey Diwan)

8. Qui rido io (Mario Martone)

9. One second (Zhang Yimou)

10. Il collezionista di carte (Paul Schrader)


 

- miglior regia: Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio)

- miglior attore: Oscar Isaac (Il collezionista di carte)

- miglior attrice: Jodie Comer (The Last Duel)

- miglior sceneggiatura: Gabrlele Mainetti (Freaks Out)

- miglior fotografia: Daria D’Antonio (È stata la mano di Dio)

- miglior montaggio: Giōrgos Lamprinos (The Father – Nulla è come sembra)

- miglior colonna sonora: Steven Price (Last Night in Soho)

- miglior film italiano: È stata la mano di Dio

- miglior inedito: Erasing Frank (Gábor Fabricius)

- miglior serie tv: Strappare lungo i bordi/Only Murders in the building

- miglior film d’animazione: Luca



TFK





1. The Velvet Underground (Todd Haynes)

2. Days (Tsai Ming-liang)

3. First cow (Kelly Reichardt)

4. Titane (Julia Ducournau)

5. Petit maman (Cèline Sciamma)

6. The card counter (Paul Schrader)

7.  No sudden move (Steven Soderbergh)

8. France (Bruno Dumont)

9. Sir Gawain e il Cavaliere Verde (David Lowery)

10. La mappa delle piccole cose perfette (Ian Samuels)




Qualche altra cosa.


Film: "Ham on rye"; "Il colore venuto dallo spazio"; "Better days"; "The suicide squad"; "Adolescentes"; "Un altro giro"; "L'ultimo yakuza"; "Pig"...


Serie tv: "The North water"; "Gentleman Jack"; "Raised by wolves"; "Wandavision"; "La regina degli scacchi"; "Get back"; "Dopesick"; "Two weeks to live"; "The good Lord bird"; "The investigation"...

martedì, gennaio 04, 2022

ILLUSIONI PERDUTE

Illusioni perdute

di Xavier Giannoli

con Benjamin Voisin, Vincent Lacoste, Xavier Dolan

Francia, 2021

genere: storico, commedia, drammatico

durata: 141’

Di una disarmante attualità, il film di Xavier Giannoli, presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia nel 2021, è adesso nelle sale. “Illusioni perdute” è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Honoré de Balzac che ha realizzato un’opera ancora oggi più che contemporanea.

Al centro un bravissimo Benjamin Voisin veste i panni del giovane Lucien, innamorato della letteratura e della poesia. Il protagonista, che si ostina a farsi chiamare de Rubempré, nella cornice della Francia della Restaurazione, decide di andare a Parigi insieme alla nobildonna Louise, con la quale ha una relazione segreta, nella speranza di trovare un editore che possa seguirlo e stampare le sue opere. Una volta arrivato nella capitale francese, però, Lucien viene separato da Louise per non destare scalpore e, trovandosi solo e senza un soldo, si mette alla ricerca di un lavoro. Per un caso fortuito incontra un altro scrittore che, non avendo avuto fortuna, si è riciclato come giornalista per uno dei giornali liberali nati nel periodo. I due instaurano un’amicizia che, però, porterà Lucien a dover prendere delle decisioni importanti per la sua vita, il suo futuro e la sua carriera.

Una trasposizione sullo schermo interessante, sotto tutti i punti di vista, da quello tematico a quello tecnico.

L’argomento è di incredibile attualità. Si potrebbe parlare della nascita della società dello spettacolo. Scavando tra le righe, ma nemmeno troppo, Giannoli va a sviscerare il ruolo dello scrittore e del giornalista, cosa che, prima di lui, aveva fatto naturalmente Balzac su carta. Dal modo di approcciarsi alla notizia alla meticolosa analisi della ricerca di quest’ultima e della conseguente attendibilità, il regista apre gli occhi dello spettatore facendolo riflettere sul meccanismo di creazione e diffusione delle informazioni. E sulla loro credibilità.

Aiutato da una voce fuoricampo, a tratti ironica e a tratti seria, “Illusioni perdute” è costruito, in parte, in maniera spettacolare e quasi teatrale. La vita dei personaggi che si intreccia tra la quotidianità e la mondanità, con la presenza abbastanza costante a spettacoli teatrali, va di pari passo con la descrizione degli stessi ambienti che il protagonista e i suoi amici e nemici frequentano. Sembra quasi che lo stesso ambiente diventi protagonista. Non è, infatti, un caso che, fatta eccezione, per pochissime e brevi scene “di transito” che permettono ai personaggi di spostarsi da un luogo a un altro, la quasi totalità della vicenda avvenga negli interni, siano essi abitazioni, teatri, editorie o simili. L’ambiente riesce, in qualche modo, a connotare il personaggio che lo abita e lo vive, conferendogli quel qualcosa di cui lui o lei ha bisogno e che contemporaneamente ricerca. Ed è così che la grande villa di Lucien diventa il luogo simbolico della sua “elevazione” a giornalista.

Facendo, invece, un passo indietro, merita una menzione speciale la voce fuoricampo. Anch’essa è a tutti gli effetti un personaggio della vicenda. Parte integrante di “Illusioni perdute” la voce è ironica e seria al tempo stesso, fornendo informazioni importanti, sia per lo spettatore che per il personaggio, anche se quest’ultimo, naturalmente, non può sentirla, non essendo propriamente la voce della sua coscienza. Ed è forse questa la vera chiave della storia: al contrario di altre analoghe, quella scelta da Giannoli è una voce onnisciente nel vero senso della parola. Si tratta di una voce che sa anche più del personaggio stesso. Aiuta e guida lo spettatore a comprendere certe situazioni, non limitandosi a descrivere quello che si vede, ma collocandolo temporalmente e spazialmente e dandone una motivazione. Al tempo stesso, però, è anche una voce ironica, che prende in giro e si prende gioco dei personaggi e del mondo che li circonda. Lo spettatore è invitato ad andare oltre, a guardare ancora più su, per non cadere nella trappola del fidarsi solo ed esclusivamente di ciò che si vede.

Infine un’attenzione alle interpretazioni. Quella di Voisin su tutte, un giovanissimo che si carica tutto il film sulle spalle con una semplicità unica. Non è mai né troppo, né troppo poco. E accanto a lui tutti diventano maschere perfette dei personaggi che interpretano, da Vincent Lacoste nel ruolo del buon amico, o almeno di quello che tenta di esserlo, a un particolare Xavier Dolan, in grado di mettere costantemente il pubblico (e non solo) sulla difensiva perché non in grado di fidarsi completamente. Ma in fondo chi sono davvero i buoni e i cattivi in questo film e nella vita in generale?


Veronica Ranocchi