sabato, marzo 30, 2019

THE DRUMMER AND THE KEEPER


The Drummer and The Keeper
di Nick Kelly
con Dermot Murphy, Jacob McCarthy
Irlanda, 2017
genere, commedia, drammatico
durata, 92


In un festival che si appresta a cominciare, il film di apertura rappresenta un momento a se stante rispetto al resto del programma. Anche laddove si volesse individuare una continuità tematica presente nelle opere selezionate, il lungometraggio incaricato di inaugurare una manifestazione di solito se ne distacca, avendo lo scopo di introdurre alla visione senza troppo impegno, stimolando l’emotività dello spettatore quel tanto che basta per renderlo pronto all’imminente maratona cinematografica. Da questo punto di vista The Drummer and the Keeper, dell’esordiente Nick Kelly, ha le carte in regola per soddisfare queste premesse, non solo per l’appartenenza a un genere come la commedia, che fa dell’empatia e dell’immediatezza i suoi cavalli di battaglia, ma soprattutto perché nel caso specifico a farla da padrone è uno di quegli argomenti di fronte al quale anche i duri di cuore sono costretti a capitolare.
The Drummer and the Keeper racconta per l’appunto l’amicizia di una “strana coppia” di adolescenti, segnati dalle rispettive condizioni: Gabriel (Dermot Murphy, il Bob Geldof di Bohemian Rhapsody) è infatti un batterista affetto da disturbo bipolare che ne sabota le prospettive di carriera, mentre Christopher, affidato a un istituto riabilitativo, è un diciassettenne colpito dalla sindrome di Asperger. A farli incontrare è una partita di calcio alla quale partecipano per scopi terapeutici; a decidere le sorti del loro rapporto è, invece, come spesso succede in questo genere di film, un’incompatibilità di carattere, destinata ancora una volta a fare da premessa al più inscindibile dei sodalizi amicali.


Titolare della sceneggiatura, Kelly evita di fare dei disturbi di cui soffrono i protagonisti materia per un ritratto sociologico della malattia. Al contrario la diversità di Gabriel e Christopher ben si sposa con il ribellismo tipico dell’età giovanile (resa anche attraverso i pezzi di musica rock suonati dalla band di Gabriel) e con i dubbi e le paure di chi ancora deve trovare il proprio posto nel mondo. Da cui la coerenza di una messinscena che, nella necessità di corrispondere al saliscendi umorale dei protagonisti, fa dell’alternanza dei toni, a volte drammatici, altre leggeri, la misura di una verosimiglianza da romanzo di formazione. Nella sua spudorata spontaneità (vedasi la sequenza che precede i titoli di testa), The Drummer and the Keeper è un film appassionante e gradevole, di quelli che, se fatti a Hollywood, attirerebbero l’attenzione di giornali e televisioni. Per fortuna c’è l’Irish Film Festa a farcene partecipi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

  

giovedì, marzo 28, 2019

Preview: Fratelli nemici - Close Enemies

Fratelli nemici - Close Enemies
di David Oelhoffen
con Matthias Schoenaerts e Reda. Kateb
Francia, Belgio, 2019
genere, thriller, drammatico
durata, 111' 



Appena usciti dalla proiezione di Fratelli nemici - Close Enemies ci si chiede il motivo per cui all'ultimo festival di Venezia - dov'era inserito nel concorso ufficiale - sia stato liquidato in fretta e furia. In confronto alle Crime Story hollywoodiane quella diretta di David Oelhoffen si distingue per verosimiglianza del contesto ambientale e secchezza della direzione attoriale. Evitando la tentazione del resoconto sociologico, stimolato dalle pulsioni di morte della banlieu parigina, il film non si dimentica della spettatore, tenendolo attaccato alle sorti - inique - e al sacrificio senza redazione dei suoi protagonisti, interpretati fino all’ultimo respiro da Matthias Schoenaerts e Reda Kateb.
Carlo Cerofolini

mercoledì, marzo 27, 2019

TRIPLE FRONTIER


Triple Frontier

di J.C. Chandor
con Ben Affleck, Charlie Hunnam e Pedro Pascal
USA, 2019
genere, azione
durata, 125’


Il regista e sceneggiatore J.C. Chandor – visto in precedenza dietro la cinepresa di “Margin Call” con il quale è stato candidato agli oscar nel 2011 per la migliore sceneggiatura – torna sul grande schermo con l’opera d’azione “Triple Frontier”.
Ok, è vero. In attesa di aggiornare il vocabolario del cinema con una definizione ad hoc per internet, tecnicamente questa affermazione potrebbe far storcere il naso a qualcuno trattandosi di un film prodotto e distribuito sulla piattaforma Netflix. Quello che però mette d’accordo tutti è sicuramente il budget della pellicola, con la società di streaming americana che non ha di certo badato a spese per il cast stellare a disposizione del regista: Ben Affleck (servono presentazioni?), Charlie Hunnam (Jacks di “Sons of Anarchy”, Oscar Isaac (“A proposito di Davis”, “Star Wars”, …), Pedro Pascal (l’agente Pena di “Narcos)”… tutti nomi importanti coinvolti in quello che molto probabilmente è il titolo di punta della programmazione di marzo.

Storia ambiziosa, regista giovane ma esperto al tempo stesso (e già notato dall’Academy), super cast e libera fruizione su Netflix: tutti ottimi ingredienti che fanno di “Triple Frontier” un piacevolissimo lungometraggio di azione, intelligente, che punta più sul lato umano (e le relative debolezze) dei personaggi piuttosto che su sparatorie ed esplosione Hollywoodiane.
La trama forse non è delle più originali è vero, ma è la narrazione ancora una volta a far la differenza; i protagonisti per l’occasione sono degli ex commilitoni ora in congedo, stanchi della vita monotona che trascorrono rincorrendo bollette e attirati da un piano apparentemente senza rischi per tornare in azione e arrotondare qualche dollaro.
La missione è “semplice”: derubare - e perché no, uccidere - uno degli uomini più ricchi e ricercati del sud America all’interno della propria casa/cassaforte nel bel mezzo della foresta amazzonica. Le azioni del team innescheranno una serie di eventi le cui conseguenze non sempre sono state preventivate dal piano, mettendo i protagonisti difronte a delle scelte che in qualsiasi caso cambieranno il corso del loro destino.

La pellicola è veloce e gli attori bravi ad immergere lo spettatore all’interno della storia che finisce inevitabilmente per immedesimarsi nei personaggi. In perfetto stile Netflix poi, il film lascia ampio spazio per un sequel che certamente non si farà attendere.
Esperimento riuscito: si può fare cinema d’azione puntando sulla qualità e non solo sull’esplosivo.
Lorenzo Governatori

martedì, marzo 26, 2019

LA CONSEGUENZA



La conseguenza
con Keira Knightley, Alexander Skarsgård, Jason Clarke
USA, Gran Bretagna, 2019
genere: drammatico, guerra, sentimentale
durata, 108’


E’ Keira Knightley la protagonista de “La conseguenza”, nuovo film di James Kent.
Ambientato quattro mesi dopo la seconda guerra mondiale, il film si apre con i coniugi Morgan che si trasferiscono in Germania. Fin dal primo istante si percepisce che qualcosa nel loro rapporto non sembra funzionare, ma il regista lascia solo intendere ciò senza dare spiegazioni, almeno per il momento. Visto il prestigio e considerata la carica che Lewis Morgan ricopre, in quanto alto comandante dell’esercito inglese, gli viene affidata una dimora di gran lusso: quella appartenuta a Stefan Lubert, un architetto tedesco che, a causa della sconfitta della Germania in guerra, adesso è costretto a vivere lavorando come operaio. Nonostante ciò Lewis decide di essere clemente e invita il vecchio proprietario della casa a vivere con loro sotto lo stesso tetto. Una decisione che non piacerà a Rachael Morgan, ma con la quale dovrà coesistere e che porterà alla prima fatidica conseguenza alla quale accenna il titolo. A questa si somma anche il comportamento di Freda, la figlia di Lubert, orfana di madre, che non accetta l’esproprio da parte della famiglia inglese e che, proprio per questo, prende delle decisioni delle quali sarà poi costretta a pentirsi.
Un film forse fin troppo prevedibile nelle varie decisioni dei personaggi, ma che, nonostante ciò, funziona e arriva dritto a colpire lo spettatore. Gran parte del merito va, sicuramente, alle interpretazioni molto efficaci dei tre protagonisti che vengono fatti alternare saggiamente sulla scena.
Oltre alle prove attoriali, un altro elemento interessante è l’attenzione che Kent riserva alle ambientazioni, specialmente agli interni lussuosi di villa Lubert. Il pianoforte, posto al centro della sala, ad esempio, rappresenta una parte integrante della vicenda, dal momento che, oltre che scenograficamente, è importante anche dal punto di vista dalla trama poiché funge da collante in più di una situazione. Anzi, sembra addirittura essere l’elemento che, legando alcune situazioni, fa scaturire più di una conseguenza. Al lusso sfrenato dell’ambiente interno si contrappongono, però, le macerie di una Germania distrutta, in tutto e per tutto, dalla guerra, ma che cerca comunque di rialzarsi e che, per una volta, non appare come il male assoluto, ma, anzi, sembra essere qualcosa da salvare.

Il ritmo, perfettamente bilanciato tra prevedibilità e suspense, contribuisce ad alimentare l’interesse del pubblico che, nonostante sappia, per gran parte, cosa aspettarsi dalla vicenda, si preoccupa, così come fanno i personaggi.
Alla fine, quindi, non si tratta solo di un dramma legato al periodo storico, ma anche di una storia d’amore che va al di là di ogni barriera, fisica, morale, sociale e che pone degli interrogativi interessanti allo spettatore facendolo riflettere sul fatto che ogni azione e ogni pensiero, sia esso positivo o negativo, porta inevitabilmente a una conseguenza.
Veronica Ranocchi

domenica, marzo 24, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard (Belgio, Francia 2012)

INVISIBILI: BOKEH


Bokeh
di, Geoffrey Orthswein, Andrew Sullivan
con, Matt O’Leary, Maika Monroe, Arnar Jónsson
USA 2017 
genere, drammatico, fantascienza
durata, 93’




The sun shines out of our behinds
No, it’s not like any other love
This one is different because it’s us
- The Smiths -


Se, oggi come oggi, il punto non è - come ci è stato accortamente suggerito - cosa possiamo fare noi con la Tecnica, bensì cosa la Tecnica può fare di noi - dove si arriverebbe, allargando in via ulteriore i confini di questo assunto già radicale, qualora dovessimo prendere in considerazione l’ipotesi di interrogarci circa il nostro stesso destino su un pianeta che ci vede unici esponenti del genere sapiens ? E’ l’esatto dilemma che in parte provano a sciogliere Riley/O’Leary e Jenai/(la Monroe di “The 5th wave” e “It follows”) al momento di fare la sconcertante scoperta di essere letteralmente e irrimediabilmente soli al mondo. 

Giunti a suo tempo in Islanda per una settimana di vacanza, i due dapprima si dedicano alla routine turistica che accomuna qualunque coppia di giovani innamorati. A dire: visitano cittadine, partecipano a escursioni, saggiano le celebri piscine alimentate da sorgenti calde, osservano stupefatti le meraviglie naturali di lande ancora in grado di emettere una vibrazione primordiale, cenano in ristoranti caratteristici, fanno acquisti, scattano molte fotografie (Riley è un professionista del ramo, uno di quelli che preferisce utilizzare apparecchi pre-digitali)… Sennonché alle 03,24 di una notte che l’estate artica fa somigliare a un eterno pomeriggio Jenai si sveglia, sbircia dalla finestra e per qualche secondo vede un muto bagliore stendersi all’orizzonte. Perplessa, più che turbata, torna a dormire. Il giorno seguente, insieme a un Riley che pare ignaro dell’accaduto, è pronta per un nuovo giro di giostra ma, in città, non c’è anima viva. L’iniziale apprensione diventa ansia e quindi angoscia quando i notiziari spariscono dai palinsesti per oscurarsi assieme agli altri programmi, nessuno risponde alle chiamate via telefono, dalla Rete rimbalzano immagini di luoghi silenziosi e deserti. 

In un contesto che, almeno all’inizio, l’inerzia tecnologica mantiene in funzione come una sorta di gigantesco motore al minimo, cosa fare, allora ? Riley possibilista e più incline ad adattarsi via via volge l’ovvio smarrimento in un ingenuo seppur cauto ottimismo, l’intento quello di cercare il modo più indolore per ricominciare, bene o male, a vivere. Jenai, combattuta tra ambivalenti spinte interiori e non rassegnandosi mai del tutto all’impossibilità di fare ritorno a casa, prende a dare sfogo a crucci spirituali inerenti la volontà divina la quale, e nello specifico attraverso il sovvertimento di ogni parametro esistenziale, avrebbe sottoposto lei e il suo compagno a una fatidica prova. In mezzo, la desolazione, talmente totale, unanime e onnicomprensiva da fornire presto il destro all’unica euforia concessa all’animale umano moderno, quella da esercitare sugli oggetti, meglio ancora se in forma gratuita e indiscriminata. Ecco, allora, spoliazioni sfrenate nei supermercati e nei centri commerciali; abiti indossati e rubati solo per il brivido di poterlo fare impunemente; colazioni e pasti consumati in esercizi di cui si sa essere gli unici avventori; automobili a disposizione ai lati di ogni strada; appartamenti da visitare (e abitare) assecondando l’estro del momento, all’interno di scorci urbani mai così incongrui e indifesi, et… a sovrapporre la trepidazione deferente e la sudditanza irriflessa della contemporaneità verso il moloch delle Merci a una reminiscenza giocosamente ludico-dissipativa tipica, per dire, delle teen comedy anni ’80. Aspetto in quanto tale di scarso rilievo, il predetto, se non risaltasse, per contrasto e non isolatamente, entro un tessuto drammaturgico per lo più improntato - nonostante le sottolineature e le diversioni imposte da una colonna sonora tanto insinuante quanto, a volte, fin troppo evocativa - alla registrazione, sovente puntuale (in particolare quando è affidata all’amarezza disarmata di uno sguardo o a un gesto accolto o frainteso), del disgregarsi progressivo del legame tra Riley e Jenai, della difficoltà destinata a farsi insormontabile e a stagnare poi nel disgusto e nel rimpianto, di rimettere a fuoco (il bokeh del titolo allude appunto alle sezioni fuori fuoco di un’immagine fotografica) le coordinate fisiche ed emotive di un rapporto le cui risonanze esulano dai rispettivi universi personali proprio in ragione del fatto di abbracciare per intero, date le circostanze, i presupposti fondamentali e l’eventuale nuovo senso da cementare intorno a vite che, private di qualunque termine di paragone compatibile, necessitano di una vera e propria riformulazione ontologica (non viene mostrato a integrazione della fugace visione iniziale di Jenai alcun elemento tale da inquadrare la corrente fine-dei-tempi in un ambito razionale, scientifico o metafisico), in un sistematico ribaltamento delle prospettive per cui, quando a prevalere - ossia, di nuovo, a stare a fuoco - è, mettiamo, la fiducia quasi adolescenziale di Riley o la sempre più cupa nostalgia di Jenai o, anche, l’attrito come somma difettosa dell’incontro fra tali opposte istanze, il paesaggio materiale (teniamo a mente che parliamo dell’Islanda, terra eternamente vergine appunto perché scrigno di forze originarie che ne rimodellano senza posa la fisionomia) retrocede a fondale occasionale, se non a quinta cartolinesca; parimenti, quando la magnificenza della Natura s’impone allo sguardo, davvero l’impressione è quella di spiare un pianeta appena stabilizzato in cui la presenza umana non è contemplata e probabilmente nemmeno necessaria, a testimonianza di un equilibrio tra Uomo e Mondo che con umiltà e dedizione deve essere ricostruito da zero, se lo scopo è quello di ritagliarsi una possibilità autentica di sopravvivenza.

Il tentativo della coppia Orthswein e Sullivan si concentra quindi - a partire da un canovaccio narrativo assai frequentato, tanto da costituire oramai quasi un genere a sé - nello sforzo di imprimere al film un respiro sia meditativo che vagamente trascendentale (impronta, questa, che funziona meno all’interno di una struttura di suo già piuttosto caratterizzata, come vieppiù appesantita dalla liminare e sporadica apparizione di un terzo interlocutore - Nils/Jónsson - incaricato di diluire la malinconia inquieta del racconto con scampoli di sentenzioso fatalismo), un passo a tratti cerebrale e anti-spettacolare che dia conto tanto dei mai pacificati fantasmi millenaristici a spasso nello sfinito subconscio di massa, quanto dei confini comuni a ogni sentimento passionale che presume di tarare solo sulla propria esclusività la fondatezza di una adesione armonica alla realtà. L’esito è, come accennato, un insieme di suggestioni (forse) fatalmente contraddittorie, eppure talora felici e non di rado invitanti dal punto di vista strettamente visuale, in specie quando a muoverle è l’impazienza dei corpi - la parziale o totale nudità come liberazione estrema ma, ahimè, tardiva - che sembra scalfire la millenaria indifferenza dell’azzurro e delle pietre; o l’abbandono nervoso che il vento esige e a cui la malìa sovrumana dei rari fiori invita, per accordarsi al “battito cardiaco del mondo”, prima che il solito, velenoso impasto di irresolutezza e recriminazioni trasformi la magia di istanti promettenti nel rammarico per un futuro passato.
TFK

RICORDI?


Ricordi?
di Valerio Mieli
con Luca Marinelli, Linda Caridi, Giovanni Anzaldo
Italia, Francia 2019
genere, drammatico
durata, 106'



Il tempo è l'elemento portante del cinema di Valerio Mieli. Lo si vede innanzitutto dalla cadenza delle sue produzioni, distanziate una ("Dieci inverni", 2009) dall'altra ("Ricordi?", 2018) di circa nove anni. E poi dalle caratteristiche delle storie narrate: la prima, nella quale la possibilità di essere una coppia da parte di Camilla e Silvestro viene testata con cadenza stagionale secondo le indicazioni del titolo, l'altra, anch'essa relativa alle difficoltà sentimentali di una giovane coppia, costruita a specchio della precedente, con la rilettura a ritroso di esperienze richiamate alla memoria da chi ne è stato protagonista. 

Simile per umori, contesto e presenza umana "Ricordi?", a differenza del film d'esordio, non è articolato su una progressione narrativa riconoscibile e lineare, ma costruisce la propria specificità su una logica che risponde esclusivamente al tempo interiore dei personaggi, convinti che nella rievocazione dei loro trascorsi sia possibile trovare risposta ai problemi del presente. Se una cosa del genere è tutt'altro che nuova nel nostro cinema, e basterebbe ricordare "Un amore" di Gianluca Maria Tavarelli per non avere esitazioni nello scriverne, è però vero che nella regia di Mieli il testo subisce una trasfigurazione che lo fa essere altro: sullo schermo a manifestarsi non è la vita reale della coppia, ma piuttosto quella (ideale) derivata dal collage di immagini che Mieli raccoglie, unificando i vari piani temporali e procedendo nella direzione suggerita dal mood dei protagonisti. Se, in altri casi, soluzioni di questo tipo consentivano comunque allo spettatore di ordinare gli eventi, in "Ricordi?", specialmente nella prima parte, Mieli sottrae a chi guarda ogni riferimento esterno alla coppia, costringendo lo spettatore a lasciarsi andare e, dunque, a perdersi all'interno del flusso di coscienza. 


In realtà ciò che interessa in un film come questo non è tanto la concatenazione dei fatti, ridotti al minimo indispensabile e comunque non così articolati per impedire alla trama di trasformarsi nel diario intimo della coppia, quanto piuttosto la presenza del pathos necessario a farci vivere l'esperienza dei personaggi. Per raggiungere lo scopo Mieli lavora sulla forma del film, in special modo su quella delle immagini: da una parte, facendo degli amanti l'unico punto di riferimento dell'intreccio, ricettori o emissari dell'intera gamma sentimentale, e per questo cartina di tornasole per capire la direzione che sta prendendo la storia; dall'altra, sfoderando un linguaggio complesso, nel quale i primi piani ravvicinati non escludono aperture e profondità di campo ottenute con un posizionamento della mdp - dall'alto, dal basso e sott'acqua - che spezzano l'unità del paesaggio naturale, rimandandoci a quello mentale dei protagonisti. Senza considerare inoltre le contaminazioni con il cinema di maestri come Bergman (ripreso quando si tratta di mostrare nella medesima scena il personaggio di Marinelli che osserva se stesso bambino) e del Malick di "The Tree of Life" (si pensi all'espediente di non far sentire l'audio delle conversazioni e per l'accavallamento di suoni appartenenti ad altra scena) presenti in alcune sequenze di ambientazione famigliare dove sembra farsi largo il tema del Paradiso perduto, e cioè dell'attimo in cui il seme della discordia spezza l'armonia del sodalizio familiare, condannandolo ad eterna infelicità. 

Ma le ambizioni del film non si fermano qui poiché ad alzare la posta in palio è la corrispondenza tra il sottotesto narrativo volto a teorizzare le possibili funzioni svolte dai ricordi ("Il ricordo mente - dice lui - abbellisce le cose che così come sono sarebbero insostenibili per un essere umano"; mentre per lei: "Sono già belle da sole e non hanno bisogno di alcun intervento da parte della memoria") e la disponibilità dei personaggi a verificare sul campo la validità o meno delle varie ipotesi. Inserito nelle Giornate degli autori, "Ricordi?" si avvale delle belle interpretazioni di Luca Marinelli, ancora una volta nel ruolo di bello e tormentato, e soprattutto di Linda Caridi, disinvolta quanto basta per affrontare un personaggio sospeso tra cielo e terra.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)


giovedì, marzo 21, 2019

SOFIA

Sofia
di Meryem Benm’Barek
con Maha Alemi, Sarah Perles, Lubna Azabal
Francia, Qatar, Belgio, 2019
genere: drammatico
durata, 85’



Sofia è una ragazza marocchina di vent’anni che vive a Casablanca. Purtroppo (o per fortuna) rappresenta la pecora nera della famiglia benestante nella quale è nata, cresciuta e continua a vivere. A differenza della madre e della zia, signore eleganti della società, e della cugina, dai lineamenti più delicati e dai modi di vivere completamente diversi, Sofia è solamente ricca. Non ha nessun tratto che la possa distinguere o mettere particolarmente in luce in maniera positiva. Questo finché non arriva sotto i riflettori a seguito di una gravidanza della quale nessuno era al corrente. Durante un pranzo, Sofia è costretta a farsi visitare dalla cugina Lena, che studia medicina, perché avverte un forte dolore. Questa percepisce subito qualcosa che diventa più che evidente nel momento in cui a Sofia si rompono le acque. Le due, senza proferire parola con i rispettivi genitori, si dirigono in ospedale dove la protagonista riesce a partorire una bambina. A causa, però, delle rigide leggi marocchine che prevedono condanne fino ad un anno di carcere per relazioni sessuali fuori dal matrimonio, le ragazze sono costrette a rintracciare il padre, un tale Omar, che vive in un quartiere popolare. L’unica soluzione, a questo punto, sembra essere un matrimonio tra i due che permetta una riparazione di quanto avvenuto e che rappresenta anche un matrimonio di convenienza perché permetterebbe a Sofia e alla sua famiglia di salvare l’onore e a Omar e alla sua famiglia di riscattarsi 
socialmente.


Si tratta indubbiamente di un film molto intenso, premiato al Festival di Cannes, che mostra una realtà a noi distante, ma che, nonostante ciò, fa riflettere su molti aspetti. A livello di tematiche, infatti, la regista Meryem Benm’Barek porta davanti allo spettatore la realtà nuda e cruda nella quale determinate persone sono costrette a vivere quotidianamente. Ciò che emerge è una visione del mondo nella quale la donna, nonostante si possa considerare, per certi versi, l’anello debole, è, in realtà, colei che possiede la forza per ribellarsi ad un sistema troppo stretto e rappresenta, quindi, un futuro, neanche troppo lontano, nel quale potersi, forse un giorno, rifugiare. Non a caso le figure maschili della vicenda appaiono sporadicamente e il loro ruolo sembra essere di gran lunga inferiore a quello delle rispettive mogli, madri o figlie.
A rendere perfettamente la sofferenza e il continuo contrasto tra ciò che Sofia realmente prova e ciò che fa finta di sentire per compiacere gli altri ci pensa l’attrice Maha Alemi, perfettamente calata nei panni della giovane protagonista che, solamente con uno sguardo, riesce a far trapelare ogni sensazione (emblematico, a tal proposito, lo sguardo in continuo mutamento nella scena finale).
Come già accennato, uno dei punti di forza della storia è anche il susseguirsi continuo di contrasti, tra gli sguardi, tra le luci e tra i personaggi stessi: quello più evidente è sicuramente il rapporto tra le cugine, una all’opposto dell’altra.
Non esiste un equilibrio tra modernità e tradizione, tra vita privata e vita pubblica in “Sofia” ed è proprio su questo che punta il dito Benm’Barek.
Veronica Ranocchi

mercoledì, marzo 20, 2019

DAFNE


Dafne
di Federico Bondi
con Carolina Raspanti, Antonio Piovanelli
Italia, 2019
genere, drammatico
durata, 94'



Pur nella sua semplicità, il secondo lungometraggio di Federico Bondi è un progetto di cinema complesso e allo stesso tempo necessario. Nel far coincidere le caratteristiche fisiche della sua interprete con quelle della protagonista, entrambe portatrici di sindrome di Down, il regista si ritrova tra le mani un personaggio già fatto, nel senso che dalle prime immagini si capisce come la vitale simpatia e l’esperienza personale di Carolina Raspanti travasino quasi per intero, nella gestualità e nell’energia messe in campo dalla neo attrice per dare vita a Dafne, il ruolo da cui il film prende il titolo. Una peculiarità, questa, che Biondi valorizza con una trama minimale in cui, fatta eccezione per il drammatico avvenimento con cui si apre la storia, ovvero la morte improvvisa della madre di Dafne, abbiamo a che fare con una successione di sequenze la cui urgenza consiste nel definire l’esistenza della protagonista attraverso il rapporto con gli altri e, quindi, di mettere Dafne nella condizione di partecipare alla vita mediante un continuo scambio di idee e modi di essere. Ad andare in scena, dunque, è una quotidianità priva di eventi che non siano quelli legati all’integrazione della protagonista con il mondo circostante e con le persone che ne fanno parte.

In questo modo, il film esce dall’univocità della sua natura cinematografica, costruendosi una seconda via in cui l’affermazione identitaria della protagonista rispetto alla problematicità del reale diventa una dichiarazioni d’intenti alla quale chiunque – e lo spettatore prima di altri – si può riconoscere e persino  appellare. In apparenza a-problematico per l’ottimismo che la protagonista infonde nelle varie situazioni del film, Dafne, al contrario, non si nasconde dietro facili semplificazioni e, anzi, si dimostra consapevole delle difficoltà implicite nella condizione della protagonista, così come in quelle del suo genitore, presentandole al pubblico, nella seconda parte della storia, quella occupata quasi interamente dal viaggio on the road compiuto da padre e figlia nella campagna toscana. Una cognizione della gioia e del dolore destinata a diventare una riflessione (a tratti anche drammatica) che non si limita a lavorare all’interno dell’inquadratura nella (sua) funzione di tema cardine del film, ma che coinvolge cittadini e società in una considerazione più amplia del problema, partendo dalle toccanti e sofferte scene poste a conclusione della vicenda. Di fronte a un simile messaggio è un peccato che la mancanza di retorica con cui Bondi porta avanti la sua regia non sia accompagnata da una struttura narrativa capace di giustificare l’eccezionalità della protagonista e di ciò che essa racconta, affidandone le gesta a un’aneddotica non sempre all’altezza del presupposto tematico.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

domenica, marzo 17, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA



Soldati a cavallo"/"The horse soldiers", di John Ford - USA 1959 

BOY ERASED - VITE CANCELLATE


Boy erased
di Joel Edgerton
con Nicole Kidman, Lucas Hedges, e Russell Crowe,
USA, 2018
drammatico, biografico
durata, 114’


Jared Eamons è un ragazzo qualunque, uno dei tanti.
Lo siamo stati un po’ tutti Jared Eamons a dir la verità, almeno una volta: noi che tenevamo il braccio fuori dal finestrino in autostrada per giocare con il vento - anche se la mamma ce lo vietava – o che non vedevamo l’ora di prendere la macchina di papà per andare a festeggiare con gli amici una vittoria appena ottenuta con la propria squadra.
Quello che contraddistingue però veramente Jared – che in fin dei conti sarà il vero discriminante della storia – è la sua colpa di essere figlio del reverendo Eamons (Russel Crowe).

Basato su spezzoni di vita reali, “Boy erased” allora è proprio questo: il conflitto fra il mondo del padre - la cui vita è scandita dai dogmi delle fede - e le voglia di libertà del figlio…ma non solo: è la storia di un adolescente che scopre di essere omossessuale, che in una famiglia del genere diventa come una sorta di maledizione inviata dal diavolo in persona.
Costretto dal padre (ma senza presa di posizione reale della madre, Nicole Kidman, che per gran parte del film è solo una bellissima sparring partner) ad entrare una specie di clinica riabilitativa dal nome inquietante “L’amore in azione”, Jared è qui vittima di un percorso il cui unico obiettivo è curare questa sua “malattia mentale” davanti agli occhi di Dio e della propria famiglia.
La vita nell’istituto è molto simile a quella in una caserma militare: tutto catalogato e sequestrato, regole per qualsiasi cosa e contatti umani rigorosamente limitati ad una stretta di mano (breve istante che nell’arco della giornata ricorda loro di essere ancora esseri umani). A far compagnia a Jared però ci sono i suoi compagni di percorso, i quali avranno un ruolo fondamentale nella sua evoluzione.

L’attore protagonista (Lucas Hedges) firma così un altro importante film, dopo l’ottima prestazione in “Manchester by the sea” che gli è valsa la candidatura come migliore attore non protagonista nel 2016. 
Il regista inoltre, Joel Edgerton (regista di “Regali da uno sconosciuto” e attore in numerose è occasioni), è presente anch’egli nella pellicola interpretando il difficile ruolo di Victor Sykes, responsabile e “carismatico” educatore del centro di riabilitazione. Esperimento riuscito a pieni voti.

Non sarà sicuramente un film che entrerà negli annali del cinema, ma è comunque sia un’opera ben organizzata e ben strutturata, realizzato mettendo insieme un bel mix di attori esperti e dove le storyline di tutti i personaggi sono curate e portate avanti fino alla fine. Una pellicola di denuncia sempre attuale che butta benzina sul fuoco del dialogo (soprattutto statunitense) circa il diritto ad esistere di questi rifugi per la gestione dei “disturbi sessuali”.
Lorenzo Governatori

giovedì, marzo 14, 2019

INVISIBILI: BLUE MY MIND

Blue my mind
di, Lisa Brühlmann
con, Luna Wedler, Zoë Pastelle Holthuizen, Regula Grauwiller, Georg Sharegg, Lou Haltinner, Yael Meier.
Svizzera, 2017
genere, drammatico
durata, 95’


Sibili di morte e cerchi di musica sorda
fanno salire, allargarsi e tremare come
uno spettro questo corpo adorato; ferite
scarlatte e nere spiccano sulle carni superbe
- A.Rimbaud -



La solitudine, la rabbia, l’orrore dei volti e degli oggetti, la precoce stanchezza del mondo sono solo alcuni degli stati d’animo in cui s’avvoltola l’adolescenza, crinale durante il quale si rincorrono favolose iniziazioni e atroci disinganni. Gradino dell’esistenza, il predetto che, però, ancora e nonostante tutto, recalcitra di fronte alla sorte che da sempre le squaderna innanzi la regina delle nostre doglianze - Sua Maestà la Modernità - a dire la docile rassegnazione implicita nelle fogge allettanti ma tossiche di ennesima categoria merceologica.

Ne sa qualcosa Mia/Wedler, abbiente liceale da poco trasferitasi in un’anonima riserva residenziale nei sobborghi di Zurigo. Inquieta e riottosa - le chiome lunghe e biondo-ramate, chiari gli occhi, efelidi sparse e incarnato madreperlaceo - stenta a integrarsi nell’ignoto ma solito milieu farcito di coetanei altrettanto se non più agiatamente disadattati. Ciò che più di ogni altra cosa preme, in verità - tra assunzioni massicce di alcool e droghe, scopate occasionali, estemporanei esercizi di taccheggio nei centri commerciali e lunghi istanti di attonita riflessione al caldo torpido di un’estate incipiente - è un ribollire metabolico che non si esaurisce nei previsti scompensi ormonali dell’età ma, piano piano, assume le forme di una vera e propria mutazione. D’altro canto, se le giornate sembrano succedersi tutte uguali - a mollo nella vacuità all’apparenza organizzata dell’istituzione scolastica; nell’inettitudine decorosa ma ipocrita della famiglia pronta, dopo un rimbrotto (“Ma non ti manca nulla, maledizione !”, apostrofa il padre) o uno stupore ottuso, a riproporre il trito schema a base di bastone - regole e ammonimenti, peraltro di continuo infranti - e carota - la nota irresistibilità presunta della douce vie de merde - contrappasso/trappola di tanta borghesia affluente; nell’innocuo ribellismo di una gioventù messa a pascolare negli sgargianti recinti del conformismo consumistico non appena sgravati dai rispettivi lombi materni - è solo da quando il corpo (e questa dimensione prettamente biologica fornisce all’esordio della Brühlmann uno dei suoi punti di forza, di caratura e valenza affine a quello di un’altra opera prima, pressoché coeva - 2016 - “Raw”, della Ducournau, in cui la giovane aspirante veterinaria Justine affronta il nodo della propria autentica natura rivelata dalla brama insopprimibile di carne umana) prende a parlare una lingua inaspettata (la lingua blu dello smarrimento e della rivolta - blu è il tono prevalente del film, nella doppia accezione cromatico/emotiva che irradia di luce contrastata gl’interni o punteggia di piaghe le gambe di Mia; che regola il suo termometro intimo o rievoca ancestrali trascorsi marini, et. -), che, in perfetta corrispondenza, l’incalzare del tempo e il retaggio organico finiscono per modulare la stessa voce che schiude un panorama parimenti sinistro e gravido di conseguenze. Mia, in altre parole, s’avvede, tra tante e varie avvisaglie (tipo, assecondando una furia improvvisa, sgranocchiare qualche pesce direttamente dall’acquario di casa per vomitarlo subito dopo), che due dita di un piede sono fuse l’una nell’altra. Pensare alla sindattilia - quella di tipo 1, detta anche Zigodattilia - è il passo più logico e rassicurante, buono per mettere d’accordo tanto la Medicina che il Senso Comune. Non fosse che il fenomeno futuro non si circoscrive e non si cura. Anzi: presto comincia a coinvolgere gli arti inferiori per intero, desquamandoli, nonché conferendo loro una vivida sfumatura pervinca. Davanti a tale oltraggio che, tra l’altro, come spesso accade, attira e repelle il prossimo (chi sta intorno a Mia, infatti, da consumato perbenista, resta tanto intrigato dalla volubilità dei suoi comportamenti che spesso la inducono a gesti brutali e/o lascivi, da strano ma desiderabile animale, quanto si scopre disgustato dalle stazioni successive che subiscono le sue fattezze), non si pone che l’alternativa della morte o l’estremo ardire nietzschiano di diventare sé stessi, per davvero, anche se ciò comporta assumere le sembianze di una… sirena.

Ciò che in prima battuta potrebbe sembrare la descrizione - per quanto fantasiosa - di un calvario personale, si rivela altresì, in questo che, tutto sommato, può definirsi un apologo (per quanto minimale anche negli effetti, mai prevaricatori rispetto al dramma centrale, con i piani di ripresa spesso e volentieri stretti sulla protagonista), come un perentorio percorso di rivelazione interiore se non, persino e volendo, la risposta allergica all’idiozia soddisfatta/tetra dell’ambiente circostante entro cui, falliti gli ordinari apporti del cosiddetto consorzio umano (del tutto assenti o pietosamente irrilevanti quelli del comparto adulto; burocratico/finto-permissivi/indifferenti quelli del sistema), la variabile mostruosa diventa null’altro che l’ulteriore dimensione di una realtà tutta da costruire. Di fatto, è così che Mia, spinta da un nuovo corpo che pulsa di inediti appetiti e soprattutto allude a un diverso (metaforico) mondo, abbandona una consuetudine che, via via, scopre non appartenerle. Non le appartiene in primis la famiglia d’origine, reticente a fornirle informazioni precise sulla sua non comune provenienza. Non si ritrova, poi, nel gruppo di Erinni tascabili che la distraggono ma più che altro la usano: Gianna/Holthuizen, Vivi/Meier e Nelly/Haltinner non possono offrirle, a ben vedere, che un solidarismo sororale utilitaristico. E tantomeno si sente attratta dalla schiatta maschile che, quando non ne approfitta, la umilia. Naturale, allora, che da un’iniziale incertezza venata di ribrezzo (l’evidenza della propria sopraggiunta deformità), la creatura approdi a una coraggiosa e promettente maturità (“Non hai paura ?”, interroga Gianna, prima dell’inevitabile separazione. “No. Non ho paura”, risponde calma Mia), per dire che è sano, è giusto, è vitale quantomeno andare via da questo Continente in cui razzola la follia.

Ah, sparire meravigliosamente !
TFK

C’È TEMPO



C’è tempo
di Walter Veltroni
con Stefano Fresi, Simona Molinari, Giovanni Fuoco
Italia, 2019
genere, commedia
durata, 107’


Walter Veltroni esordisce alla regia di un film di finzione, dopo una serie di documentari, e lo fa con un film fin troppo “buono”. “C’è tempo” è la storia di Stefano, un osservatore di arcobaleni quarantenne che sembra vivere una vita a lui troppo stretta. Oltre all’osservazione degli arcobaleni, è anche il guardiano di uno specchio che riflette i raggi solari illuminando il paesino di Viganella che, altrimenti, sarebbe perennemente al buio, dove lui vive insieme alla moglie. Ma tutto è destinato a cambiare dopo l’incontro con un notaio che lo mette al corrente dell’esistenza di Giovanni, tredicenne figlio del padre di Stefano, quest’ultimo morto in un incidente insieme alla nuova moglie. L’osservatore di arcobaleni, “allergico” ai bambini, si troverà, quindi, a vestire i panni del fratello maggiore e, proprio grazie a Giovanni, capirà che quella che ha vissuto fino a quel momento non era la vita che avrebbe voluto. Sono tante le avventure che i due fratelli compiono insieme, tra un battibecco e un altro (perché non andranno subito d’accordo), ma sarà soprattutto l’incontro con Simona, una cantante in tour, e con la figlia tredicenne di quest’ultima, che aiuterà i due protagonisti a legare ancora di più.

Nonostante le premesse il film non riesce, però, a decollare completamente perché sembra quasi “perdersi” al suo interno. Fin da subito si capisce chiaramente dove si andrà a parare e quali saranno le sorti dei vari personaggi. Anche perché le rare volte nelle quali il film sembra uscire dai binari viene bruscamente ricollocato nella sua posizione originaria: quando la situazione sembra andare in una direzione diversa da quella che ci si aspetterebbe la narrazione subisce una brusca frenata per permettere di rientrare in carreggiata e proseguire seguendo il filone “buonista”. Molto grande è l’interesse di Veltroni per il cinema che ben si percepisce nella sua opera e che vuol cercare di trasmettere anche allo spettatore con continue (e fin troppo presenti) citazioni. Da apprezzare il parallelismo con “I quattrocento colpi” di Truffaut, anche se poteva essere più “velato” (da applausi il cameo di Jean-Pierre Léaud).

Nel complesso il film risulta un buon prodotto con una fotografia interessante e con un valido attore protagonista. Purtroppo, però, al di là del fin troppo ostentato citazionismo, ci sono anche delle scelte non così apprezzabili, come, ad esempio, il balletto sul tavolo di Simona (Molinari) il cui intento rimane ignoto o l’incontro con i carabinieri e il dialogo immediatamente successivo, forse fin troppo stereotipato. Si potrebbe considerare quasi un road movie, dal momento che, di fatto, i due fratelli compiono un lungo viaggio tra l’Emilia Romagna e la Toscana a bordo della mitica Spider di Stefano. Forse un po’ troppo “pilotato”, “C’è tempo” sembra voler strizzare l’occhio a uno spettatore che non va al di là della semplice narrazione fine a se stessa.
Veronica Ranocchia