martedì, marzo 12, 2019

CAPTAIN MARVEL


Captain Marvel
di Anna Boden e Ryan Fleck
con Brie Larson, Samuel L Jackson, Barry Mendhelson
USA, 2019
genere, fantascienza, avventura, drammatico
durata, 124'



Tra molte conferme e qualche novità la Marvel prova a mantenersi attaccata all’attualità senza perdere il fiuto per gli affari. Da una parte, dunque, la capacità di cogliere lo spirito del tempo e di farne la sostanza delle proprie storie, dall’altra quella di corrispondere a una legge di mercato che traduce il rischio degli investimenti nella sicurezza del prodotto omologato a modelli di consumo sperimentati e vincenti. In “Captain Marvel” ripetizione e discontinuità convivono nel primo dei film dei Marvel Studios ad avere per protagonista un’eroina femminile, nella fattispecie Carol Danvers, ex pilota della U.S. Air Force destinata ad essere l’ago della bilancia nella lotta tra Kree e Skrull, razze aliene interessate ad usufruire degli straordinari poteri della ragazza per sconfiggere le fazioni nemiche. All’inedito narrativo appena menzionato, “Captain Marvel” ne fa coincidere un altro di tipo produttivo costituito dalle new entry della coppia  formata da Anna Boden e Ryan Fleck, piazzata in cabina di regia e della bionda Brie Larson, chiamata a destreggiarsi e a piroettare davanti alla mdp. Scelte significative non solo per essere inserite in un panorama ampiamente riconoscibile, a partire dall’ubiqua presenza di Samuel L. Jackson/Nick Fury, anche qui sparring partner dell’eroe di turno e soprattutto trait d'union dei tanti filoni messi in circolo dal Marvel Cinematic Universe, ma perché fautrici di quello spirito indipendente che alleggiava sulla riuscita della “Wonder Woman” di Patty Jenkins e che ora si spera di travasare nella regia di Boden e Fleck, così come in quella di Chloe Zhao (“The Riders", in estate sugli schermi italiani), autrice indie, fresca dell’incarico ricevuto per portare sullo schermo la saga cosmica dedicata agli Eterni (“The Eternals”). 

Da questo punto di vista “Captain Marvel” offre se non delle sorprese - impossibili o quasi in un film obbligato a rispettare forme di cinema prestabilite - quantomeno uno scarto rispetto alle premesse di universalità collegate alle origini del personaggio, soprattutto per quanto riguarda la messinscena dello spazio fisico e virtuale. Visivamente concentrati rispetto alle caratteristiche di infinito insite nella sua matrice interstellare, i luoghi frequentati da Captain Marvel sono destinati ad assumere una valenza più interiore che materiale, soprattutto quando si tratta di far corrispondere sul piano delle immagini la scissione della personalità (frutto di una manipolazione operata da un nemico invisibile) e della natura della protagonista (per metà umana e per metà extraterrestre) attraverso la contrapposizione tra cielo e terra e ancor più tra il buio della cosmogonia celeste, dove l’eroina viene addestrata per diventare un’ invincibile macchina da guerra, e la luce accecante della prateria americana, vera e propria frontiera dell’affettività e dell’amicizia ritrovata. In questo senso la sequenza destinata a ristabilire la verità, svelando allo spettatore (come pure alla protagonista) dove finisce la vita di Carol Denvers e inizia quella del suo formidabile alter ego, appare significativa non solo nei contenuti ma pure nella forma per l’arditezza di un montaggio (frenetico ma ragionato) capace di arrivare al nocciolo della questione mantenendo intatta l’ambiguità di cui fin lì si è nutrita l’affabulazione della sceneggiatura.

A contropartita di tanta eccezionalità “Captain Marvel” punta su una narrazione costruita -  nella prima sezione - intorno a uno dei temi cardine del cinema del nuovo millennio, rappresentato dalle caratteristiche di una memoria fallace e da uno stato di amnesia intesa come perenne stato di allucinazione, al quale va ricollegata la messa in discussione dello status del personaggio di matrice classica,  la cui centralità è depotenziata da una linearità d’azione e una chiarezza di pensiero meno evidente di quanto dovrebbe essere, in questo accogliendo (almeno fino alla parte conclusiva, destinata a rientrare nei binari della normalità) echi di certo cinema indie, da sempre votato alla trattazione di protagonisti svuotati delle accezioni che li rendevano i depositari del senso del film. A risultare consuetudinaria è invece la materia relativa al casus belli che mette in moto la vicenda, con l’oppressione dell’impero Kree nei confronti dei Krull a metaforizzare la fobia americana per l’invasione nemica del proprio territorio, senza dimenticare i rimandi alle tragedie della Storia e in particolare a genocidi e diaspore più o meno note riprese nella vicenda dei Krull, sterminati dai loro nemici e costretti a vagare nel cosmo senza fissa dimora. Se poi si avesse voglia di soffermarsi sulle scene d’azione, apparirebbe lampante in più di un caso le citazioni provenienti da Star Wars, ripreso a mani basse nell’inseguimento di astronavi all’interno del canyon terrestre. Con ciò, la decisione di non esasperare l’uso della CG (nonostante il ringiovanimento artificiale di Fury/Jackson, come già detto in altri casi, preparatorio alla sostituzione degli attori originali con la loro versione sintetica), e l’utilizzo di un'attrice “normale” come Brie Larson conferiscono alla storia un surplus di umanità in grado di riscaldare l’asettica perfezione esibita dall’immancabile coreografia di effetti speciali.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

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