Kusama Infinity
di Heather Lenz
con Yayoi Kusama
USA, 2019
genere, documentario
durata, 100'
A conclusione del documentario dedicato a Yayoi Kusama e prima di lasciare alle parole della protagonista il compito di tracciare un consultivo della propria esistenza, Kusama Infinity si premura di informare come la protagonista sia oggi l’artista vivente di maggior successo. Lungi da qualsiasi ostentazione, peraltro sarebbe fuori luogo al cospetto di una persona tanto schiva quanto lontana dal considerare l’arte come strumento di promozione personale, l’affermazione assume una connotazione quasi catartica rispetto agli episodi che hanno scandito la vita dell’interessata. La qualcosa è tanto più vera se si considera dapprima il fatto che mai come nel caso della Kusama il connubio tra arte e vita è stato così inscindibile, essendo la sopravvivenza della prima indispensabile alla continuazione della seconda e, successivamente, l’ostilità che essa ha ricevuto nel corso degli anni da parte della famiglia, del paese – il Giappone – che le ha dato i natali e di quello d’adozione, gli Stati Uniti in cui l’artista si trasferisce all’inizio degli anni settanta con l’intenzione di continuare un discorso artistico altrove osteggiato.
Dopo ciò che abbiamo detto, sarà più facile capire perché il documentario in questione non sia solo un viaggio nell’universo creativo della protagonista ma anche la storia di un’emancipazione femminile di rara esemplarità, laddove a contatto con il mondo dell’arte americana e con figure quali Jackson Pollock, Andy Warhol e Georgia O’Keefe (che le consigliò “l’avventura americana”) la nostra ebbe a soffrire pregiudizi razziali e di genere che ne rallentarono non poco l’ascesa, gettandola in uno sconforto dal quale riuscì sempre a riprendersi con gli esiti (felici) a cui accennavamo all’inizio.
Se a tutto questo aggiungiamo la manifestazione di disturbi mentali con cui alla maniera del John Nash di A Beautiful Mind l’artista è riuscita a convivere, impedendo agli stessi di diventare un ostacolo alla sua instancabile produttività, stupisce il fatto che Hollywood non abbia mai trovato il modo di realizzare un biopic sulla vita della protagonista. Per nostra fortuna ci ha pensato Heather Lenz, felice nello sviluppo di un percorso narrativo e visuale in grado di scindere l’aspetto artistico da quello privato e, al contempo, di mostrarne l’interazione attraverso una regia a tratti divulgativa (quando si tratta di raccontare aspetti biografici) in altri immersiva (con le opere considerate per il loro effetto sensoriale) in un perfetto equilibrio tra le parti.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
Nessun commento:
Posta un commento