Distribuito da Piper Film è in sala 30 notti con il mio ex, film diretto da Guido Chiesa con protagonisti Edoardo Leo e Micaela Ramazzotti. Del film abbiamo conversato con il regista Guido Chiesa.
Si è sempre detto di come la commedia
francese abbia saputo raccontare la malattia con leggerezza e insieme
profondità. 30 notti con il mio ex persegue con successo lo stesso
intendimento di titoli come Quasi Amici e La Famiglia Bellier
raccontando tra dramma e commedia un tema delicato come quello della malattia
mentale.
Prima di tutto ti ringrazio perché comunque fa piacere
sentire queste parole. Sì, è vero, in anni recenti la commedia francese, nel
passato quella americana con Billy Wilder e la nostra con Risi e
Monicelli, hanno avuto la capacità di mescolare i generi. Oggi è diventato
difficile perché anche sui media esiste la necessità di catalogare i
lungometraggi in generi molto rigidi. Da questo punto di vista siamo tornati un
po’ indietro: un film deve essere classificato in modo rigido, non esiste
complessità. Devi essere una commedia o un thriller o un horror, e via
discorrendo. Tutt’al più un dramma anche se poi come si fa a non dire che un
thriller è anche drammatico? Questo inevitabilmente costituisce un limite,
specialmente in questa fase in cui, per come è strutturato lo streaming, c’è la
necessità di presentare subito i film divisi per categorie. Quando vai sulla
pagina principale di Netflix o Amazon o Disney+ te ne accorgi subito. Se il
film non ricade in contenitori ben precisi, lo spettatore fatica a
identificarlo. Anche se non c’è scritto da nessuna parte che un film possa
essere drammatico e allo stesso tempo far ridere.
Così capita nel tuo film. In alcuni
momenti infatti 30 notti con il mio ex è attraversato da una ruvidezza
assai rara. Penso per esempio al rapporto tra Bruno (Edoardo Leo, ndr) e la
figlia. In alcuni momenti la conflittualità verbale della ragazza è scandita da
parole anche dure nei confronti del padre.
Sia nel rapporto tra padre e figlia che nei confronti
della malattia mentale abbiamo sempre cercato di mantenere un impianto
realista, in cui le cose che accadono non sono inventate per necessità di
scrittura. Gli episodi che abbiamo messo nel film hanno sempre un legame con la
realtà della patologia psichiatrica. Nel caso della figlia, io e Nicoletta
Micheli, in quanto marito e moglie, abbiamo attinto anche al rapporto
con i nostri figli, con cui ci sono momenti di grande amore e altri in cui ci
diciamo le cose in maniera esagerata e pesante, come credo succeda in molte
famiglie. Lo stesso abbiamo fatto con la malattia mentale, evitando di
rappresentarla in maniera solamente drammatica, come succede troppo spesso in
una certa cinematografia, e al contrario di ciò che accadeva nel meraviglioso Qualcuno
volò sul nido del cuculo in cui dramma e risate trovavano coerenza nella
peculiarità dei personaggi e dove uno straordinario Jack Nicholson
riusciva a farti piangere e divertire. Come dicevi tu, credo che oggi, in
particolare in Italia, ci sia un pregiudizio verso la commedia, considerata
come un genere minore. In generale i grandi autori italiani non hanno mai
voluto frequentarla, per questo capita che un regista come Pietro Germi
venga considerato meno dei suoi colleghi “duri e puri”.
Nella parte di una donna affetta da
disturbi mentali Micaela Ramazzotti correva il rischio di scadere nella
retorica della malattia. Al contrario i primi piani dei suoi occhi sono la
sintesi di una sofferenza che non manca di aprirsi a uno spiraglio di luce.
Verissimo. Micaela non avrebbe fatto il film se
l’avessi portata a ripercorrere le strade di film che aveva già fatto. Penso
non solo a La Pazza Gioia, ma anche a Felicità. Ha scelto di fare
30 notti con il mio ex perché metteva in luce gli aspetti anche
più divertenti e leggeri della malattia mentale. In questa prospettiva abbiamo
scelto una patologia che ci permettesse anche di poter essere leggeri. Gli
uditori di voci come Terry, il nome del personaggio interpretato da Micaela,
una volta erano considerati schizofrenici, mentre oggi vengono trattati come
affetti da una patologia curabile o perlomeno gestibile da parte del paziente.
Di suo Micaela ha aggiunto la capacità di recitare un po’ sopra le righe
senza mai eccedere, scivolando con un sorriso attraverso le situazioni anche
più dolorose. Nel nostro film l’ha fatto in modo quasi inconsapevole, e quindi
ancora più genuino.
In tale contesto il personaggio di Edoardo
Leo è chiamato a fare da parafulmine agli estri dell’esuberanza femminile.
Nell’interpretarlo l’attore romano conferma di vivere in uno stato di grazia
che gli permette di oscillare naturalmente da uno stato d’animo all’altro
mantenendo sempre un understatement che rende credibili e amabili i suoi
personaggi.
Edoardo ha raggiunto un
controllo della sua recitazione davvero notevole. Lui ha sempre avuto una
tecnica eccellente, ma ora, un po’ per l’età, un po’ grazie all’esperienza, ha
imparato a gestire il suo lavoro in un modo veramente consapevole. Prima aveva
meno registri, adesso molti di più. Questo gli permette di oscillare tra
profondità e leggerezza in maniera convincente. Da tempo volevo fare un film
con lui, per cui adesso mi auguro che questo sia il primo di tanti altri.
Purtroppo, in Italia si fa una gran fatica a trovare attori sotto i quaranta in
grado di fare ruoli da protagonista. Se proviamo a proporre storie di trentenni
la prima domanda che ti senti dire è: ma chi lo fa? Il problema dipende anche
da registi e produttori perché delle volte abbiamo paura a prenderne di più
giovani. D’altra parte fare il protagonista di un film non è facile. Una volta
che la generazione dei vari Leo e Giallini, Rossi Stuart
e Germano, Favino o Mastandrea, Gassman e Santamaria,
e via dicendo, inizierà a invecchiare, sarà difficile sostituirli, perché
Borghi e Marinelli non potranno fare tutti i film. Quando si dice che da noi
recitano sempre gli stessi attori non si tiene conto che i film in cui hanno
recitato interpreti più giovani sono andati piuttosto male al botteghino. E
senza incassi, i film semplicemente non si fanno più. Chi finanzia i film vuole
almeno recuperare i propri soldi e purtroppo senza interpreti di grido questo
succede raramente. Al contrario Edoardo appartiene a una generazione
d’attori che ha dimostrato di poter fare dei film di successo. È un grosso
problema che il cinema italiano dovrà affrontare nel prossimo futuro.
Leo e Ramazzotti sono due attori che hanno
un immaginario molto preciso. Il merito del tuo film è stato quello di
diversificarlo all’interno della storia. La via più facile sarebbe stata quella
di metterli in scena e lasciar fare a loro.
Con Edoardo era da tempo che volevamo fare un
film insieme. Quando gli hanno proposto 30 notti con il mio ex lui
ha detto di sì e ragionando su chi fosse stata la persona giusta per dirigerlo
tutti hanno fatto il mio nome e così è andata. Edoardo lo conoscevo bene
non solo come attore, ma anche come amico. Sapevo che lui avrebbe potuto fare
questo personaggio perché è in grado di saper fare qualsiasi personaggio. Con Micaela
invece avevamo fatto Ti presento Sofia per cui insieme a Nicoletta
l’abbiamo proposta pensando che avesse le caratteristiche giuste per
interpretare Terry. Pur non essendo una comica di professione lei ha in
sé una leggerezza capace di portarla in maniera naturale su quei registri, un
po’ come succedeva a Marilyn Monroe. A Edoardo sono stato
io a proporre una certa direzione del personaggio mentre nel caso di Micaela
è stata lei a farlo. Quando hai attori così tutto diventa più semplice. A quel
punto il tuo compito è diventare un po’ il sistema immunologico del film per
evitare di farlo deragliare. In un film così, il mio vero compito diventa
quindi quello di immaginare inizialmente il film – con Nicoletta che è
quella che poi traduce il brainstorming in idee di scene e scrittura – per poi
scegliere le persone giuste per metterlo in scena. Sono poi loro a portarlo
avanti. D’altronde io so poco o nulla di fotografia, costumi o scenografie. A
me spetta far capire agli attori e al resto della troupe la direzione in cui
stiamo andando. E quando questo succede il film difficilmente non funziona. È
successo anche quando ho dovuto scegliere gli attori che dovevano impersonare i
vari pazienti. Conoscendoli sapevo che avevano la qualità adatta a
interpretarli.
Non a caso in questo bilanciamento tra
sorriso e pianto, tra dramma e commedia sono proprio i personaggi che ruotano
attorno a Terry quelli cui spetta di esorcizzare la malattia con l’eccentricità
dei loro comportamenti. In 30 notti con il mio ex riusciamo a sorridere
senza per questo ridurre la portata del dramma che vivono queste persone.
Ti ringrazio per averlo detto così bene. Alle tue
parole aggiungo solo che noi non volevamo ridere delle disgrazie di queste
persone, ma ridere insieme a loro, a cominciare da Terry. Incontrando
vari terapeuti e pazienti, Nicoletta ha scoperto che molte persone
affette da patologie mentali hanno una sorprendente autoironia, derivata dalla
consapevolezza di diventare buffi in certi frangenti, specie ai cosiddetti
“normali”. Loro stessi sanno di essere “particolari” e non si vergognano di
questo. Ovviamente noi abbiamo scelto un contesto terapeutico in cui si lavora
con il dialogo e altre terapie, per fornire ai pazienti gli strumenti per
gestire la loro patologia (e non solo dandogli farmaci). La scelta di chi
doveva interpretarli è stata decisiva. La decisione è caduta su attori che, pur
non essendo comici pure, sapevo essere in grado di capire che cosa significava
essere affetti da una malattia mentale. D’altronde che le persone affette da
questo tipo di disturbi siano i primi a sdrammatizzare la propria condizione
non è una mia scoperta. Succede così anche nel bellissimo documentario di Nicholas
Philibert Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile in
cui i pazienti di un centro diurno collocato su un battello che naviga sulla
Senna scherzano e ridono dimostrando una grande voglia di vivere.
Come altri film anche 30 notti con il mio
ex è l’adattamento di un film straniero. Da una parte questo costituisce una
fonte di informazioni di cui non si può non tenere conto. Dall’altra è come se
avessi a che fare con un’idea originale perché di fatto il pubblico non ha mai
visto il modello originale. Che tipo di approccio comporta un progetto del
genere?
È una domanda interessante. Questi film nascono dalla
volontà della Colorado Film di produrre film a partire da un nucleo narrativo
intrigante, che, quando lo racconti, ti fa venire voglia di sapere come va a
finire. È il cosiddetto high concept. La maggior parte dei remake che ho
diretto proviene da film di origine sudamericana. Da quelle parti, a partire
dagli anni 2000, gli americani hanno investito molto, anche perché negli Stati
Uniti c’era una larga fetta di popolazione latina. Il problema di questi film è
che poi, passando dal concept alla sceneggiatura, perdono di efficacia perché
puntano solo sui meccanismi narrativi e poco sui temi e i personaggi. Nel 30
notti argentino, ad esempio, il personaggio di lui non esiste ed è tutto in
funzione di lei, che tra l’altro è una straordinaria attrice comica. Questo fa
sì che il personaggio maschile, tranne quella di dover ospitare la moglie a
casa sua, non abbia una vera motivazione. Di lui non esiste un reale percorso
di trasformazione che invece credo sia uno dei punti di forza del nostro
approccio. Per noi lo sviluppo dei personaggi in senso realistico è invece
fondamentale. In Italia facciamo molta fatica a lavorare sul concept del film,
a trovare dei concept forti (a parte Paolo Genovese che invece ne
è maestro). Mi è capitato raramente di trovare nelle sceneggiature italiane dei
concept originali, forti e popolari come quelli che ho trovato nei film di cui
ho fatto il remake.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)
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