venerdì, agosto 29, 2008

Film in sala da sabato 30 agosto

sab 30 agosto
The Ten - I dieci comandamenti come non li avete mai visti
regia: David Wain
genere: commedia
prod.: USA

mar 2 settembre
La terra degli uomini rossi - Birdwatchers
regia: Marco Bechis
genere: drammatico
prod. : Italia, Brasile

giovedì, agosto 28, 2008

Film in sala da venerdi' 29 agosto

Kung Fu Panda
regia:Mark Osborne, John Stevenson.
genere: animazione
prod.: USA

Presunta innocenza
regia: Joby Harold
genere: dramamtico
prod.: USA

Doomsday
regia: Neil Marshall
genere: thriller
prod.: Gran Bretagna, USA, Sudafrica

Sex List - Omicidio a tre
regia: Marcel Langenegger
genere: azione
prod.: USA

Animanera
regia: Raffaele Verzillo
genere: dramamtico
prod.: Italia

Deep Water
regia: Louise Osmond, Jerry Rothwell
genere: documentario
prod.: Gran Bretagna

The Hurt Locker
regia: Kathryn Bigelow
genere: drammatico
prod.: USA

Eldorado Road
regia: Bouli Lanners
genere: drammatico
prod.: Francia, Belgio

venerdì, agosto 22, 2008

Film in sala da venerdi' 22 agosto

Denti
regia: Mitchell Lichtenstein.
genere: horror
prod.: USA

Piacere Dave
regia: Brian Robbins
genere: commedia
prod.: USA

Non mi scaricare
regia: Nicholas Stoller.
genere: commedia
prod.: USA

Shrooms - Trip senza ritorno
regia: Paddy Breathnach
genere: horror
prod.: Irlanda

Gli animali innamorati
regia: Laurent Charbonnier.
genere: documentario
prod.: Francia

domenica, agosto 17, 2008

Identikit di un delitto

L'inizio è col botto: le panoramiche di un paesaggio americano desertico e provinciale attraversato da una macchina su cui si sofferma l’attenzione della telecamera si alternano a primi piani dell’uomo che la guida, in fuga o forse all’inseguimento di se stesso prima ancora che degli altri: fermi immagini rapidissimi ed una fotografia sgranata sembrano fatti apposta per lasciar passare una serie di istantanee che si sovrappongono una sull'altra, riproducendo la confusione mentale e le ossessioni del protagonista, un funzionario dello Stato che si occupa della sorveglianza di cittadini schedati per reati di natura sessuale.
Divorato dai sensi di colpa per una morte di cui si crede responsabile, l'uomo sfoga la sua rabbia perseguitando gli insoliti clienti con modi che spaziano dall’insulto verbale all’agguato fisico, che lo stesso realizza con metodica ferocia. Un inferno di solitudine e di rabbia destinato a restare tale se non fosse per quelle scene iniziali in cui si ritrovano i motivi di un film (la sparizione di una ragazza, il contraltare pulito e quasi verginale rappresentato dalla collega del protagonista) che parla di peccato e redenzione, con una storia che si mantiene continuamente a contatto con il lato più oscuro dell’essere umano, alimentandolo con particolari e situazioni che appartengono ad un campionario patologico che sembra non risparmiare nessuno. Rispetto ai modelli del genere quello di Gere appartiene alla schiera degli antieroi, non ultimo il Batman di Nolan, di cui risulta più facile distinguere le analogie più che le differenze con il mondo a cui si oppone; ridotte le distanze con la materia del contendere ed in assenza delle istituzioni civili, punti di riferimento disintegrati in una miriade di interessi e particolarismi, all’individuo non resta che l’iniziativa personale, la crociata portata avanti con una dialettica priva di interlocutori; tutto, anche il sesso, che nel film è sempre legato ad immagini di sofferenza e morte, diventa puro antagonismo, strenua opposizione all’invasione del proprio spazio personale. Fedele al cliché del cinema noir, Lau (Infernal Affair), è più interessato alle atmosfere ed allo sviluppo delle psicologie che al meccanismo dell’indagine, costruita con una linearità che contrasta con lo stile frammentario e l’ambiguità compositiva dell’opera. La difficoltà di interpretare una realtà in continua mutazione, la complessità della natura umana continuamente minacciata dalla sua stessa essenza, ma anche l’eterno contrasto tra bene e male, con quest’ultimo in netta minoranza, sono rese con un andamento sincopato, non solo nel montaggio ma anche nelle dinamiche interne, in cui la sintesi del video clip convive in maniera dinamica con una rappresentazione del tempo soggettiva ed indipendente dallo sviluppo visivo, che infatti si alterna, con tutte le sue potenzialità, su un sottofondo pressoché immutabile di suoni e parole che sono la rappresentazione della vita interiore del protagonista. Richard Gere è efficacissimo nell’interpretazione di un uomo capace di tutto mentre Claire Denis gli tiene testa con una mix di determinazione e vulnerabilità. A differenza di altri colleghi che l’avevano preceduto (vero Wong Kar Wai ?) l’esordio statunitense di Lau riesce ad interpretare il malessere americano senza snaturare il proprio cinema che continua a distinguersi per l’efficacia e la comunicatività dell’espressione visiva.

X-FILES: voglio crederci

Quando Skully entra nella casa/ufficio di Mulder, una specie di ectoplasma schiacciato dalla solita galleria di fantasmi personali, supplicandolo a rientrare in servizio per risolvere l'immancabile mistero (indagare sulla scomparsa di un agente dell'FBI che vediamo sparire per mano di due loschi individui) ci siamo detti: "meno male che l'ha fatto"...che l'affascinante patologa,ormai restituita alla sua professione, sia riuscita a buttarsi indietro un passato doloroso e complicatissimo per tornare dall'uomo che ama e ricominciare dove tutto era finito; ed invece con il passare dei minuti ci si rende conto che Mulder aveva ragione; che la sua voglia di farla finita con la caccia alle streghe nasceva dalla consapevolezza di non poter aggiugere nulla di nuovo rispetto a quanto già detto in precedenza; che la necessità di credere nelle realtà alternative (I WANT TO BELIEVE recita il famoso poster con l'UFO in primo piano) stava diventando una favola nera capace di ingurgitarlo in una spirale infinita di ossessioni ed emarginazione.
Peccato che nessuno abbia voluto credere alla sua voglia di solitudine, costringendolo nuovamente in una dimensione di protagonismo che non gli appartiene più e soprattutto peccato che il mitico Chris Carter si sia convertito a mammona ed abbia messso in piedi questo spettacolo raffazzonato e senza mordente, per lucrare ancora qualche soldo alle spalle del mitico duo. A mancare, oltre alle idee, è la voglia di continuare a stupire e la stanchezza di una coppia, di attori e di personaggi, costretta a frequentarsi dentro e fuori dal set per almeno una decade. Nonostante le buone intenzioni, almeno da parte dei due protagonisti(a Carter non possiamo concedere nessuna scusante)che al di fuori del successo televisivo non hanno lasciato memoria sugli schermi cinematografici e magari tentano il loro asso nella manica con un rilancio in grande stile, e la benevola predisposizione degli aficioandos, disposti a chiudere un occhio sul valore della paerformance, il nuovo capitolo di X-FILES non riesce a portare a casa il risultato. Il rinnovato connubio non produce le variazioni chimiche necessarie a rinvigorire una storia che sposta la detection dal mistery al realismo cronachistico, con una serie di riferimenti che rilanciano in maniera scontata alcuni temi di strettissima attualità (il contrasto tra scienza e fede,la biogenetica, la sperimentazione medica ed anche la politica in senso stretto con il faccione di Bush ripreso in primo piano mentre il tema musicale della serie lo propone in maniera grottesca come il nemico pubblico della nazione americana)ma fiaccano il meccanismo della suspence, riducendo il racconto a pura routine televisiva. Il paesaggio della provincia americana immerso nella neve sullo stile di FARGO, le facce monocordi dei due protagonisti e una tensione erotica tutta mentale, eternamente giocata sul contrasto di orizzonti diversi eppure uguali, una serie di situazioni che sembrano appartenere al campionario del cinema WEIRDO (ad un certo punto vediamo un cane con due teste e poi, in uno scenario da Frankestein de noantri, assemblaggi tra teste maschili e corpi femminili) sono gli ingredienti di un performance che non riesce a soddisfare tanta attesa.

L'uomo che amava le donne

Una delle cose migliori che ci possa capitare in questo sito è che qualcuno accetti di scrivere le sue impressioni su un film che ha amato; la cosa è ancora più lieta quando chi lo fà, come nel caso del nostro odierno recensore, è una persona che condivide le coordinate esistenziali della nostra esistenza. L'augurio che possiamo farci è che queste considerazioni siano foriere di successive frequentazioni..e perchè no di nuove passioni cinematografiche.
NICKOFTIME

L’uomo che amava le donne

(di Marcello)
Sono stato sollecitato a scrivere queste brevi considerazioni su “L’uomo che amava le donne” da un caro amico, appassionato di cinema, il quale vuol forse prendersi gioco di me e della mia inadeguatezza nel ruolo di critico del grande schermo; dopo una iniziale esitazione ho tuttavia deciso di stare al gioco ed ecco, senza ordine e soprattutto senza alcuna velleità di giudizio, alcune impressioni sul lavoro di Truffaut.
Nel film il passaggio da una scena all’altra è repentino, talora così brusco da disorientare chi si aspetta il fluido dipanarsi di una curiosa vicenda umana. Dinanzi a ciò che sembra l’incompleto montaggio delle riprese rinvenute in uno dei cassetti di Betrand all’indomani della sua morte, l’attenzione dello spettatore è attratta ancor più dalle immagini che, si presume, manchino all’appello. Charles Denner si muove in uno sfondo caratterizzato da una luce opaca, con tonalità che paiono sfumare verso toni del giallo e del verde e che avvalorano l’ipotesi del filmato amatoriale. Egli non è alla ricerca di una stabilità sentimentale e rifugge tanto dal menage familiare quanto dalla chiassosa compagnia degli amici: l’equilibrio che è costretto a studiare con i modellini di aereo in laboratorio, Bertrand lo ritrova nella vita privata, alla guida della sua Alfa Romeo, alla ricerca di un nuovo paio di belle gambe da aggiungere alla sua collezione.

Il fascino delle donne di Bertrand è accresciuto dall’autenticità dei loro corpi, da quei piccoli difetti che ne esaltano il sex-appeal allontanandole dallo stereotipo di bellezze irraggiungibili. Dinanzi alla loro femminilità qualunque uomo, almeno per una volta, vorrebbe essere Bertrand, vivere una stagione di sregolatezza con la quale allontanare lo spettro di un’esistenza ordinata, composta, ma proprio per questo terribilmente grigia.

Mi sono chiesto se Bertrand sia stato felice e sono giunto alla conclusione che sicuramente non è stato più infelice di altri: non solo ha fatto ed ottenuto ciò che cercava, ma gli è stato risparmiato il decadimento che lo avrebbe prima o poi trasformato in un riprovevole vecchio vizioso. Il protagonista abbandona la scena prematuramente, ma da eroe, alla vigilia di un’ennesima “battuta di caccia”. Per lui l’onore delle armi da parte di un’interminabile corteo di donne, fra di loro assai diverse, ma accomunate dal rimpianto nei confronti di chi, cambiando la compagna ogni sera, ha dimostrato un amore commovente e smisurato verso il genere femminile.

venerdì, agosto 15, 2008

Film in sala venerdi' 15 agosto

Identikit di un delitto
regia: Andrew Lau
genere: azione
prod.: USA

lunedì, agosto 11, 2008

Il treno per il Dajerleeng

Il treno per il Dajerleeng è un film di opposte tendenze non solo nelle immagini che alternano momenti di stasi, emblematicamente rappresentate dallo sguardo tenero ed un po’ catatonico dei tre protagonisti a quelle del movimento, con il treno colorato come uno yellow submarine che ne costituisce una costante, presente fin dal titolo e poi all’interno della storia dall’uso continuo dei rallenti che ne enfatizzano la componente catartica e liberatoria, ma anche nel paradigma di essere o non essere che caratterizza i personaggi e le loro azioni: chiamati a recitare un ruolo che non gli appartiene – il patriarca, il padre, il marito, i tre personaggi reagiscono dando vita ad una serie di piccole fughe e micidiali ritorni, a cui contribuiscono in egual misura gli incidenti della vita e quelli messi in atto con l’aiuto delle miscele di alcool e barbiturici che i tre ingollano a cadenza regolare.
Il padre, la madre, la fiducia, l’amicizia, i legami parentali sono segni di valenza opposta, presenze e assenze che agiscono in un continuo divenire dove la vita e la morte appartengono ad un processo di consapevolezza e di definizione di sé che no finisce mai. E come in un 68 parigino a cui alludono i riferimenti culturali e musicali (la Francia nelle musiche e nel prologo ma anche i riferimenti all’altrove indiano) ma soprattutto il progressivo smarcamento dalle figure parentali i tre fratelli realizzeranno un percorso di emancipazione in cui non mancheranno delusioni e dolore ma anche la vitalità scanzonata di chi ha fatto pace con se stesso. La pop art cinematografica di Andersonn si conferma all’altezza delle attese colorando la tela delle immagini con lo stile surreale delle sue composizioni, in cui losballo psichedelico delle immagini si unisce alla stravaganza picareresca dei suoi personaggi, dando vita ad un mondo in cui i riferimenti reali perdono il loro significato primario per diventare gli strumenti dello sberleffo e del non sense che si oppongono alla crudezza della vita. In questo senso l’India, per il suo tripudio di colori ma anche per le sue contraddizioni, impossibili ma reali, è lo scenario ideale di un opera in cui la fluidità visiva (sintetizzata dalla sequenza finale del treno in movimento) e l’inconsistenza del suo tessuto narrativo rappresentano insieme la forza ed il punto debole di questo film.

Interview

Interview è il titolo della famosa rivista americana creata da Andy Warhol per dare voce alle icone del mondo dello spettacolo americano. Uno spazio immaginifico eppure reale dove l’immaginario popolare concepito sulla metrica di quello mediatico e spettacolare si legava a quello personale e privato delle “Star di consumo”. Interview è anche un primo film di una trilogia scritta e diretta da Teo Van Gogh, l’iconoclasta regista olandese, ucciso da un militante islamico per la sua presunta irriverenza nei confronti della religione coranica. Infine Interview, ultimo atto di questo breve excursus monotematico è insieme il remake del film olandese, diretto ed interpretato (insiema a Sienna Miller) da Steve Buscemi ed anche la sintesi tra la frivolezza del modello cartaceo menzionato all’inizio dell’esposizione, in cui l’intervista era l’occasione di un ulteriore spettacolo e quello militante (e perciò serio) del cineasta europeo. Paradossalmente il doppione americano, oltre a garantire una notorietà inaspettata e forse una nuova vita alle opere dell’artista defunto ( è ancora una volta lo strumento mediatico a leggittimare l’esistenza degli oggetti) conferisce alla storia un surplus di significato che amplifica la sovrapposizione tra cio che vediamo e cio che è.
Se infatti lo strapotere dello strumento tecnologico e mediatico, facitore di senso ma anche simbolo di un umanità incapace di rapportarsi con se stessa senza la presenza di un agente esterno (nel film i protagonisti sembrano derivare da qualcos’altro: una telecamera, una persona, un computer, la televisione, una soap opera, il cellulare) non puo trovare migliore rappresentazione nella realtà americana, lo stesso accade anche per l’icona divistico e sessuale che Sienna Miller si porta con sé e che sembra corrispondere fino all’ultimo al suo corrispettivo filmico, un attrice con un successo da rotocalchi e film commerciali, impegnata a promuovere se stessa sulle pagine impegnate del giornale per cui lavora il riluttante giornalista (il suo direttore gli ha assegnato l’incarico dopo aver scoperto che i suoi articoli di politica internazionale erano gonfiati con dettagli inesistenti) che la deve intervistare.. Tutto sembrebbe scontato ma gli stereotipi iniziali- lei bella e stupida/lui colto ed intelligente saranno ribaltati nel corso di una nottata (l’iniziale distacco tra le parti in causa si trasformerà in un momento esperienziale che assomiglierà ad un resoconto psicanalitico) che sembrerebbe riconfermare il relativismo del motto “nulla è come sembra”. Simile al teatro, che il film ricalca nel rispetto delle sue dinamiche interne (unità di luogo/tempo/spazio) Interview diventa puro cinema quando la cinepresa si incolla alle figure che occupano la scena per restituire al corpo la sua posizione di privilegio e relegando il resto (i discorsi, le argomentazioni, le prese di posizione) ad un essenzialità completare ma non necessaria. Di fronte al fascino seducente ed al corpo peccaminoso della bella protagonista non esiste alternativa se non assumersi il rischio di venirne surclassato. Un ultimo tango a New Jork che ci ferma sul più bello per dispensarci una visione del mondo dove non c’è posto per i teneri di cuore.

In amore niente regole

"Letherheads" è il titolo originale di questa commedia dai toni farseschi che prende a prestito un background sportivo e tutto maschile come quello legato alle vicissitudini di una squadra di Football americano agli arbori del nascente sistema professionistico, per rinverdire un genere caro all’Hollywood dei tempi d’oro come quello della "guerra dei Sessi" aggiornando la mitica coppia Tracy/Hepburn con la meno carismatica per colpa di lei Clooney/Zelwegger e dando vita ad una storia che vede lo smaliziato ed ormai maturo Jack e lo sbarbino sulla cresta dell’onda, uniti da un maschilismo bambinesco ed un po’ ottuso, ma separati da una carriera che scorre su binari diversi, impegnati a contendersi, a suon di swing e scazzottate, l’amore della bisbetica giornalista che li segue per immortalare le imprese del giovane fenomeno, diventato una leggenda per un impresa guerresca di incredibile coraggio.
Se la classicità del Clooney attore è fuor di discussione per un telento così naturale da farci dimenticare che il cinema è innanzitutto finzione, così non accade per il suo alter ego registico che al terzo tentativo, forse il più difficile per le distanze antropologiche che ci separano da quegli indimenticabili prototipi, riesce a restituire la superficie sofisticata ed a tratti anche la spensieratezza della grande commedia americana, ma fallisce nel tentativo di penetrare i meccanismi che l’anno resa indimeticabile: i dialoghi fitti di umorismo ed intelligenza, la voglia di trasgredire con il sorriso sulle labbra ma soprattutto la capacità di trasformare un ensemble eterogeneo in un meccanismo ad orologeria lasciano il posto ad un film che è più attento al rispetto filologico ed alla mimesi delle sue componenti piuttosto che all’incarnazione di quegli stilemi. Ad aumentare i rimpianti ci si mette anche la scelta di un corrispettivo femmile che sembra più dettata da motivi di amicizia che artistici. In definitiva “In amore niente regole” si mantiene coerente con le scelte personali ed anticommerciali del suo autore, ma si prende una pausa dal rigore cinematografico che aveva caratterizzato le sue ultime apparizioni.

Riprendimi

L’incipit iniziale suona quasi come un presagio durante la fruizione del film: d’apprima non ci si bada, cercando di interessarsi alla sua storia, cosa difficilissima per tutti coloro che ogni settimana si dedicano, con volontà autopunitiva alla visione del cinema italiano contemporaneo, caratterizzato come non mai da un overdose nevrotica e sentimentale che alterna in maniera schizzofrenica scenari da romanzo rosa ad impaludamenti pseudo bergmaniani, poi, colti da una noia che si mischia allo stupore per l’insulso sviluppo degli eventi, quella frase sembra l’unica cosa che giustifichi l’operazione.
Infatti non è l’implorazione della protagonista, lasciata su due piedi da un marito stufo della routine familiare ed alla ricerca di qualcosa che torni ad ispirare la sua arte (entrambi lavorano nel cinema: lui fa l’attore lei la montatrice) ma l’atto di riprendere come fosse un “tranche de vie” quella situazione a fornire il senso del film. L’idea del cinema nel cinema corredato da tutto l’apparato metacinematografico così come l’uso di uno stile che oltre a fare il verso alla novelle vague francese, sciorina tutto, ma proprio tutto il campionario del cinema indipendente americano (è la cosa ha funzionato visto che il film è entrato nel prestigioso cartello del festival di Robert Redford) è imbrigliato all’interno di un contenitore fintamente pauperistico ed invece dotato di quell’eleganza piaciona che sicuramente non deluderà l’immaginario consumistico e modaiolo ma avvilisce quasi subito le speranze di una presunta diversità. Se la Negri voleva dimostrarci di conoscere a memoria i manuali dei fratelli Lumiere ci è riuscita. Se invece, e questo noi crediamo, voleva convincerci di averne imparato la lezione “Rimprendimi” non riesce a passare l’esame e rimanda la sua autrice a tentativi meno pretenziosi.

Non pensarci

Torna Andrea Zanasi dopo un decennio di latitanza e almeno due film che ci erano rimasti nel cuore (Nella mischia, A domani) per raccontare ancora una volta una storia di passaggio, una specie di linea d’ombra sentimentale e tragicomica imperniata sulle vicissitudine di uno strampalato ed inconcludente chitarrista, che ha la faccia, o sarebbe meglio dire la maschera di Valerio Mastrandrea, impegnato in un difficile quanto salutare revival familiare. Ed anche questa volta, a dispetto dell’anagrafe e di un evidenza che sembrebbe dire il contrario, Zanasi ci mette di fronte ad un umanità che affronta i problemi della vita con lo stupore, lo smarrimento ma anche la leggerezza dell’universo adolescenziale per tratteggiare un percorso di liberazione e di crescita che assomiglia ad una resa dei conti surreale e per nulla scontata, fatta di alti e bassi, di momenti felici e di occasioni perdute, a volte crudele ma in fin dei conti necessaria alla vita.
Tutto il film è giocato sulle facce e sui corpi dei personaggi; più della trama, che in fin dei conti non dice nulla di nuovo sull’ ipocrisia dei rapporti familiari e sulle solite delusioni generazionali, conta il modo con cui il regista si serve degli attori per rappresentare queste situazioni. E’ dà li, dal contrasto tra le dimensioni pantagrueliche ma vitali del fratello sull’orlo di una crisi di nervi interpretato da Battiston e quello segaligno ed ossuto del protagonista, da quello sensuale e materno della puttana santa di Caterina Murino, a quello androgino ed asessuato di Anita caprioli, una sorella che è una specie di stella polare attorno alla quale ruota il resto della ciurma, che il film prende quota. Ma il film non potrebbe essere tale se non ci fosse la presenza Monstre di Valerio Mastrandrea, interprete perfetto di un simpatico idiota che in qualche modo sembra aggiornare in chiave fumettistica (la sua fisicità è una via di mezzo tra lo Zanardi Pazienziano ed il Lucky Luke Bozzettiano) lo studente perdigiorno di “Tutti giù per terra” grazie ad una recitazione di grande spontaneità. Ed è proprio quest’area da fumetto in carne ed ossa che il film assume dal suo protagonista a rendere “Non pensarci” qualcosa in più di un semplice divertissment, ma anche, e ci verrebbe da dire “meno male” in meno di un film autoriale.

Indiana Jones

Steven Spielberg è un regista da sempre impegnato a superare i limiti della propria vicenda personale. E’ accaduto da subito in film come "Duel" e "Lo squalo", in cui le forme di una paura archetipa e primordiale mascheravano il tentativo di emanciparsi dai fantasmi di un quotidiano segnato da intolleranza e solitudine, presente nell’atmosfera claustrofobica e minacciosa che caratterizzava quelle storie e linea d’ombra per una riappacificazione personale e collettiva che nel dittico extraterrestre("Incontri ravvicinati" ed "E.T."), si traduceva nell’apertura verso il mondo, inteso come territorio senza confini, patria universale di tutti gli essere, umani e non, e dal punto di vista cinematografico definivano uno sguardo capace di mostrare la straordinaria ricchezza di quella scoperta. La ritrovata fiducia nelle umane sorti, a cui non deve essere stata estranea l’euforia edonistica dei primi anni 80’ sfociò nell’overdose espositiva di Indiana Jones, in cui Spielberg mostra al massimo grado la capacità di fondere memoria ed attualità, di riuscire a collegare la tradizione del cinema classico con le opportunità delle nuove tecniche cinematografiche.
Le capacità di parlare per immagini viene affiancata da una fluidità narrativa che tiene conto delle accelerazioni imposte dalla moda imperante del video clip. In questo senso Indiana Jones rappresentava perfettamente l’euforia di un periodo storico dove la rappresentazione del male scaturiva più dalle capacità di immaginazione che dall’eco di eventi bellici pressochè assenti, e soprattutto il punto di non ritorno di un talento che avrebbe sentito la necessità di allontanarsi da quella giovinezza per lasciare spazio ad opere di impegno storico e civile (Amistad, Shindler’s list, Munich). E’ quindi inevitabile che il quarto episodio della saga, costruito sulla falsa riga dei precedenti, con buoni e cattivi impegnati nella caccia dell’arcano tesoro, mostri tutti i limiti di un aggiornamento che deve fare i conti con un passato che gli ha tolto ogni sorpresa ed una sceneggiatura che non riesce a valorizzare il realismo di un repertorio acrobatico ed effettisticocome sempre all’avanguardia. La capacità di lavorare sul genere “contaminadolo” con i tempi e le battute della slap stick comedy così come il velato erotismo che si accompagnava alla ruvida galanteria dello sciupafemmine dal cuore d’oro lasciano il posto ad uno spettacolo che procede come un video game (le tappe per arrivare al tesoro costituiscono i diversi livelli di difficoltà), di cui il giocatore/spettatore conosce in anticipo le mosse. Anche il sorriso da simpatica canaglia che era stato il marchio di fabbrica dell’attore/personaggio e che da solo costituiva il senso del film, mostra i segni della lunga militanza, mentre il personaggio di Shia Lebouf, la novità che il film vorrebbe proporre anche in vista di un passaggio di consegne che l’ultima scena (di un posticcio quasi imbarazzante) sembrebbe smentire, risulta troppo debole, non solo in termini di scrittura ma anche sotto il profilo della fisicità attoriale, per fare da contraltare all’indomito leone. Una malinconica nostalgia, resa attraverso una fotografia morbida e continuamente inframezzata da ombre che sembrano venire da un epoca lontana, è il sentimento che più di tutti si lega ad una riproposizione di cui francamente non si sentiva la necessità.

Quando tutto cambia

Il personaggio interpretato da Helen Hunt è quello di una donna arrivata ad un bivio. Da una parte continuare a vivere con un marito adolescente ed incapace di sostenere il suo ruolo coniugale, e dall’altra seguire l’istinto del suo orologio biologico che le impone drastiche decisioni, come quella di restare incinta del figlio che lei desidera sopra ogni cosa, ed in maniera meno velata ma non meno urgente decidere cosa fare della sua vita. La sua faccia, pallida e sciupata ci dice di un esistenza infelice, vissuta in secondo piano rispetto all’umanità che la circonda e di cui si occupa e che sembra ignorarla per via di quel modo di fare contrassegnato da un understatement naturale.
Nel film tutto ciò occupa lo spazio necessario a creare i presupposti di un cambiamento lungo e doloroso, contrassegnato da sorprese insieme belle ma anche dolorose, che la protagonista attraverso dapprima con lo smarrimento e le nevrosi che abbiamo imparato a conoscere nel cinema di Cassavetes (qui punto di riferimento imprescindibile) e poi con la consapevolezza di una pienezza esistenziale finalmente raggiunta. Helen Hunt costruisce la storia in maniera essenziale con un lavoro di sottrazione che investe non solo gli attori, contenuti nei loro estri (la redivivaBetty Midler, simpatica ed insolitamente sobria) così come nella tendenza a mettersi in disparte (Colin Firth finalemente in un ruolo dove deve mostrare un certo temperamento) ma anche gli ambienti, ritagliati sui protagonisti da cui sembrano acquistare una dimensione di lateralità, con quegli scorci della città newjorkese, appartati e lontani dall’iconografia ufficiale, una specie di terra di mezzo illuminata da un sole malato e scandita da ritmi che appartengono all’america di provincia. Dietro la finzione traspare una messa a nudo sofferta ma sincera in cui il riconoscimento delle proprie radici culturali (siamo in pieno yddish newyorkese) convive all’interno di una esperienza personale che rivendica la propria automia. Senza proclami e con un battage pubblicitario ridottissimo la Hunt realizza un viaggio personale e collettivo che ci riguarda da vicino ed in cui ognuno si può ritrovare a patto di riconoscere gli alti e bassi della propria umanità

Sanguepazzo

Sanguepazzo è un film che non passa inosservato non solo per una presenza divista (Bellucci e zingaretti), che, per quanto discutibile ed in parte derivata da fortune extracinematografiche, è fisicamente debordante e quasi fisiologica ad un informazione specializzata sempre più attratta dal luccichio della confezione, ma soprattutto per il coraggio di ritornare a parlare di un periodo che oggigiorno tutti sembrano aver dimenticato, per la superficialità o la convenienza con cui quegli avvenimenti vengono manipolati, ed ancora una volta stravolti, a favore delle situazioni contingenti. Uomini ed idee che sembrano non appartenere più a nessuno, tanta è la voglia di dimenticare o di ricordare nella maniera meno sconveniente, e che qui ci vengono riproposti con quelle contraddizioni che sono tipiche innanzitutto degli esseri umani e poi, forse delle ideologie che si scelgono. La storia di Luigi Valenti e della Ferida, massimi interpreti di un divismo cinematografico che a dire il vero non lascio opere memorabili, sono i protagonisti di un film che ha una duplice lettura.
La prima fa riferimento ad un genere cinematografico come il melodramma che trova nella biografia dei due protagonisti, la cui reciproca dipendenza (molto più forte e mortifera di quella provocata dall’abuso di droghe e psicofarmaci, di cui i due furono sfrenati consumatori), va vista quasi a ribadire i codici di questi film nella reciproca attrazione per le caratteristiche di segno opposto, il soggetto ideale a cui applicare gli umori discontinui ed appassionati, gli slanci e le cadute, le fughe e gli eterni ritorni che sono da sempre le caratteristiche dell’amor fou. La seconda invece si rivolge alla storia, cercando di ricostruire il ventennio, attraverso una sintesi dei momenti più significativi che tiene conto del punto di vista di personaggi ed in questo senso ci offre una prospettiva della guerra che si allontana dalle normali rappresentazioni: lontani dai campi di battaglia, ma anche dalle contrapposizioni politiche, Valenti e la Ferida vissero quei momenti attraverso la lente deformante del loro successo e di un mondo che , nonostante tutto continuava a farli sentire immuni dalla tragedia che si stava compiendo. Giordana traduce queste due componenti, privilegiando gli aspetti melodrammatici, resi attraverso una luminosità contrastata, in cui i colori accesi delle figure si contrappongono alle oscurità dei contorni, per dare vita ad un immaginario barocco che si riallaccia a Visconti, ma anche a Fassbinder, per non tralasciare il cinema americano di Powell e Pressburger, ed imperniati su una recitazione di ottimo livello, soprattutto per la Bellucci che riesce a farsi dimenticare per assumere una pietas tutta femminile, che neanche una morte annunciata riesce a far desistere, che vale anche per i ruoli di supporto, con Alessio Boni visibilmente dimagrito, e finalmente capace di una performance che si sottrae ai soliti isterismi. Giordana gira pensando al cinema e non alla televisione (l’opera è una produzione Rai), e lo sottolinea non solo nel background in cui si svolge la vicenda (cinecittà e successivamente, con la Repubblica di Salò, Venezia con la sua mostra del cinema) e nella grandiosità delle atmosfere, che hanno bisogno dei silenzi senza luce della sala per essere apprezzati, ma anche nella scena che apre e chiude il film, con quella pellicola che continua a scorrere attraverso la bicicletta dei due ragazzini che l’hanno raccolta e la trascinano con sè tra le macerie della città bombardata, a testimonianza della forza di raccontare che il cinema continua ad esprimere con inesauribile vitalità.

Il Divo

I meriti de "Il divo" vanno ricercati nella forma con cui il regista è riuscito a raccontare un personaggio tra i più controversi della nostra storia recente. E’ singolare come tutti i film appena presentati a Cannes, siano uniti da un medesimo processo interpretativo che si serve della realtà come un impalcatura necessaria, ma la supera, cercando di coglierne la verità con gli strumenti che solo il cinema può offrire a chi le sa sfruttare. E di questa opzione Sorrentino rappresenta il miglior interprete, non solo per la qualità del suo linguaggio cinematografico ma per la volontà di concepire il film in quanto tale, senza l’intervento di mezzi o scorciatoie che appartengono ad altre forme di espressione. Un patto con se stesso che equivale nella cinematografia del regista all’impatto che Pulp Fiction ebbe nella carriera di Quentin Tarantino; una sorta di otto e mezzo post moderno dove confluisce tutto il meglio (tanto) ed il peggio (poco) di un artista che continua a plasmare la forma del suo cinema.
Ancora una volta il centro della scena è occupato da un personaggio Faustiano, costruito a partire da un evidenza fisica, che sembrebbe definirlo, per la preponderanza della fisognomica rispetto a tutto il resto, e poi quasi senza che c’è ne accorgiamo inizia l’autopsia, in cui la cinepresa ed i suoni diventano il bisturi di una ricerca che affonda e distingue sui motivi di quell’esistenza. Il paragone è avvalorato una staticità quasi post-mortem che avvolge i personaggi e che sembra dare a Sorrentino l’impulso necessario per scandagliare l’ogetto della sua osservazione. Andreotti, è solo l’ultimo arrivato in una galleria di personaggi, inquieti ed inquietanti, ma sembra riassumerili tutti per la sua capacità camaleontica di assumere, seppur con variazioni impercettibili, una delle tante facce del suo poliedrico carattere. Inoltre, la caratteristica di occupare il guado che divide il sacro dal profano, gli permette di rivestire situazioni di per se rappresentanti della massima espressione della nostra civiltà con un corredo che pesca a piene mani da un immaginario che si ciba di cultura popolare, con le canzoni di Renato Zero ed i riferimenti all’artigianato cinematografico dei 70’, per poi passare a quella più impegnata ed impegnativa, in cui il lato grottesco ed onirico ha la meglio sull’immediatezza del dato cronachistico o sul memoriale storico, ed in cui svolge un ruolo fondamentale l’apparato dei suoni, veri e propri vettori di questa esperienza sensoriale e capace di tenere insieme le differenti componenti. Il divo è un opera rock,alla pari di certi film psichedelici, ma anche una liturgia, dove al posto dei prelati prende posto una galleria di freak che sembra il remake del famoso capolavoro del cinema muto. I movimenti di macchina hanno la forza di certi pugni ben assestati da cui è difficile riprendersi ed è quasi un bene che nella seconda parte, quella in cui il film deve incominciare a tirare le fila ed in cui Sorrentino, costretto ad abbassare i ritmi finisce quasi per imballarsi, si abbia il tempo di fare un po’ d’ordine ed avviarsi alla fatidica “10 ripresa”. La reticenza del politico, abituato a parlare per anedotti e l’insondabilità del versante privato di cui esiste poco e niente (a parte la gestualità ridotta delle mani che sono il segno di noia o simpatia verso l’interlocutore di turno) costringono Sorrentino ad una ricostruzione immaginata, che talvolta diventa inevitabilmente didascalica per chi è ha conoscenza dei fatti, quando deve introdurre o circoscrivere personaggi ed eventi. Lì il cinema di sorrentino arretra, diventando qualcosa di simile alle filippiche di Travaglio, che appassionano per carità ma sono distanti dall’estetica del film.

Noi due sconosciuti

Il cinema di Susan Blier ha una costituzione fortemente carnale. Il corpo è il codice imprescindibile a cui far risalire l’intera esperienza umana ed i suoi film c’è lo mostrano senza sprecarne un solo centimetro: figure intere di una plasticità sfumata e quasi impalpabile si alternano ad improvvise esplosioni del dettaglio anatomico in cui il corpo, tolto dal suo contesto abituale ed osservato come fosse al microcoscopio smette di rappresentare se stesso per diventare il veicolo di un emozione o di uno stato d’animo; pause emotive che interrompono il ritmo del flusso filmico e lo portano nelle zone del cuore, dove la parola parola si libera del suo scheletro vocale per diventare l'essenza di quel concetto.
Dietro la spontaneità dogmatica, si individua un metodo conoscitivo che procede per scomposizioni successive, arrivando a delineare un quadro di assoluta coerenza. Partendo dalla scena iniziale, con il protagonista che guarda la propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, e poi continuando con inquadrature che privilegiano la fisognomica del volto ed in particolare quello dell’occhio, la cinepresa ricostruisce il ritorno alla vita di un ex avvocato distrutto dalla droga e di una donna che ha appena perso il marito. La superficie corporea diventa lo spazio privilegiato della comunicazione: i pori della pelle sono i vasi comunicanti di un malessere che si ciba di notti insonni e decibel musicali. Seguendo l’esempio del miglior cinema scandinavo e proseguendo un discorso personale che si sposta in avanti , non solo dal punto di vista geografico, per la capacità di destreggiarsi anche all’interno di uno starsystem che sottomette il talento alle necessità produttive, ma anche artistico, adattando la sua poetica alle coordinate di un mondo che non ha bisogno del senso di colpa per giustificare le sue azioni, la Blier abbandona le atmosfere raffreddate e le asprezze che avevano contraddistinto i lavori precedenti, accentuando sfumature e mezzi toni, privilegiando le morbidezze crepuscolari ed i colori autunnali di un direttore della fotografia come Tom Stern(Mystic River, Million dollar baby), la cui arte essenziale ed appassionata viene somatizzata nelle immagini di quieta disperazione che attraversano lo schermo. Seppur con leggere varianti la regista ci offre un altra storia di legami parentali in cui la famiglia, intesa non solo dal punto di vista istituzionale ma anche come luogo privilegiato degli affetti, è lo specchio di un equilibrio personale al di fuori del quale è impossibile vivere: la donna in difficoltà che il marito si ferma ad aiutare esponendosi all’imprevedibile reazione dell’uomo che la stava malmenando, così come la tendenza autodistruttiva del personaggio di Del Toro causata dall’inevitabile nevrosi lavorativa ed anche il tentativo del vicino di casa desideroso di divorziare da una moglie che lo tiranneggia sono spinte centripete che pur rispondendo a motivazioni diverse ed in fin dei conti giustificabili, sono le premesse del caos e della disperazione. Benicio Del Toro sottrae peso e volume al suo corpo debordante con un linguaggio gestuale ed espressivo che ci fa credere quello che vuole. La dipendenza (sia chimica che affettiva), pur presente con i suoi rituali di cadute e redenzione rimane marginale rispetto alle priorità dell’essere umano che vuole riappropriarsi della propria dignità. Halle Berry, non gli è da meno, in un ruolo che richiede determinazione e sensibilità ed a cui l’attrice si presta con la solita empatia.

Go Go Tales

L’inizio del film è strepitoso: in un atmosfera volatile e misteriosa fatta di inquadrature ravvicinate e prospettive che sfidano le leggi di gravità , guardiamo il personaggio di Willem Dafoe adagiato su un divano in uno stato di incosciente dormiveglia (eyes wide shut) mentre sembra osservare o forse sognare le gambe di una graziosa ballerina (Manuela Zero) in calze bianche e tutù rosa. L’assenza del sottofondo acustico si mescola con una fonte luminosa innaturale e metafisica, simile a quella di certi dipinti caravaggeschi, in cui la plasticità dei corpi sembra il frutto di una consistenza senza peso e la dimensione del tempo si cristalizza in un istante in cui sembra dischiudersi la verità del creato. Gli sguardi si incrociano senza vedersi lasciando intendere un legame che contrasta con l’isolamento delle loro figure riprese singolarmente e circondate da un oscurità che potrebbe nascondere distanze siderali.
Un raccoglimento estatico modulato sulle frequenze di un cinema da camera e fortemente introspettivo che si rompe nella scena successiva, in cui sembra riversarsi tutto quello che ci era stato risparmiato in termini di dinamismo cinematografico ed opulenza espressiva, con un primissimo piano di corpi femminili esibiti e scrutati nelle pose lascive di una musica da lap dance, mentre sullo sfondo intravediamo uomini in cerca di un arrapamento a pagamento. E’ l’inizio di un sabba frenetico e sguaiato in cui in rapida successione veniamo a conoscenza dei problemi di denaro che rischiano di far chiudere il Paradise, un gogo club gestito in maniera fin troppo estemporanea da Jack Ruby (Dafoe), eroico e patetico come si conviene a tutti i personaggi Ferrariani, e della variopinta fauna che vi prende parte. Il sogno di una felicità concreta seppur temporanea viene continuamente spezzato dal ritmo sincopato di dialoghi argot al limite del tragicomico e dalla congestione di situazioni tipiche della screw ball comedy che sembrano voler destituire il sogno dell’improbabile impresario. Ed è proprio nell’atmosfera onirica e pierrottesca della seconda parte della storia che riprendere le atmosfere ovattate della sequenza d’apertura per mostrare la vena più poetica del regista, quella in cui il maledettismo tout court lascia il posto alla spontaneità dell’emozione e soprattutto all’amore incontrastato per la messa in scena di quel sogno qualunque esso sia, che il film si ricompatta, riprendendo a ragionare sulla ragioni di un arte che non può essere disgiunta dagli agguati della vita, sempre pronta a riservare sorprese ed incoffessabili segreti. Dopo Mary Ferrara continua la sua esperienza italiana con un'altra opera che sembra rivolta innanzitutto a se stesso, per le componenti autobiografiche su cui è costruita (il mondo dello spettacolo con le sue vicissitudini ma anche le derive della dipendenza) e per la presa di coscienza di una personalità esaltata ed insieme depressa da un umanità debordante ed egotista. GoGoTales è’ un dietro e fuori le quinte sulle dinamiche di un cinema (il Paradise) e di un autore (Jack Ruby) che tracima direttamente dagli alti e bassi della vita. Le Gogogirls, quasi sempre in “abiti da lavoro” e pronte a tutto pur di portare a casa la pagnotta, sono l’elemento che più di altri occupa la scena, ma la loro proposizione continuamente associata a qualcos’altro ed accompagnata da un cabaret che ne disinnesca le pulsioni erotiche diventa il simbolo di una mercificazione del corpo evidente nelle sequenze che alternano in rapida successione i dettagli anatomici delle ballerine e le discussioni intorno alla cronica mancanza di denaro o nel dettaglio delle banconote (false) che ornano mutandine e giarrettiere e che il regista considera, come ha ampiamente dimostrato con una filmografia in cui il feticcio mediatico delle attrici prevale sulla loro sostanza attoriale (su tutte Madonna e Claudia Shiffer), come un arredo del locale, necessario come tutto il resto alla riuscita dell’ impresa. Di fronte al palcoscenico che divide l’arte dalla vita, Ferrara si iscrive al partito di coloro che le considerano momenti inscindibili di un'unica esistenza e ne afferma l’unità evitando movimenti di macchina perentori (la telecamera non da la sensazione di attraversare quello spazio ma di rimanervi sempre di fronte) ma spostando continuamente le prospettive e collegandole attraverso le azioni e gli spostamenti dei protagonisti ed il senso del loro ragionamenti. Un umanesimo ribadito da riprese effettuate ad altezza uomo, per affermare una totale condivisione dell’esperienza in atto, e con una distanza che non comprime i personaggi ma li lascia liberi di agire, di esprimere la loro natura senza alcun giudizio morale. Nulla si sovrappone davanti all’occhio dell’autore e quando questo succede, come nei fotogrammi in cui la realtà è filtrata attraverso gli schermi di un impianto a circuito chiuso, con immagini freddamente sgranate e monocolori, ciò che appare risulta malato ed ambiguo e soprattutto privo di quella vitalità che accompagna ogni momento della pellicola.

La notte non aspetta

Los Angeles rimane il miglior posto dover ambientare una storia di sbirri corrotti ed angeli caduti. Questo vale soprattutto quando il padrone del vapore è uno sceneggiatore d’eccezione come James Elroy che ha vissuto in prima persona l’imperturbabile presenza e le ammalianti chimere di questa città, trasformando le sue strade in percorsi mentali ed abissi dell’anima.
Nel tentativo di dare carne ai suoi blues letterari l’accompagna un regista che finora si era accontentato di un solo film(Harsh times), peraltro malmenato dalla critica ed ignorato dal pubblico, e di una serie di sceneggiature (S.W.A.T, Fast and Furious, Training days) in cui il tema della diversità (seppur dentro i confini del mainstream hollywoodiano) era raccontato con il dinamismo del cinema videoclip ed attraverso una violenza con parecchi accessori prelevati direttamente dal cinema exploitation degli anni 70. In questo caso però le sirene tentatrici di una città abituata a sedurre con le sue contraddizioni sembrano aver perso le antiche lusinghe a favore di uno scenario che prefigura una nuova età del ferro; la discontinuità della sua topografia, mai ripresa nel suo insieme ma riprodotta in maniera frammentata, con inquadrature che privilegiano l’immobilità degli sfondi e spezzano le linee degli ambienti, l’anonimato degli scorci urbani che seppellisce i santuari del divismo e del successo sotto un inesauribile ripetizione di case prefabbricate e colate di cemento, le nuove gerarchie di potere con i suoi totem e una serie di adoratori deliranti, sono i segni tangibili di un feudalesimo moderno, di una restaurazione primordiale dove la violenza dei gesti è l’unica qualità che permette la sopravvivenza. Un Far West metropolitano insonne e senza pace, in cui la presenza femminile è stata cancellata da un overdose di muscoli pompati e teste appena rasate. Il denaro come valore fondante (nel film i dollari vengono stipati nel muro a doppio fondo della casa di uno dei protagonisti) di una società che non esiste più è il motivo scatenante di una storia costruita a scatole cinesi in cui tutti tradiscono tutti e dove la giustizia è solo un altro modo per instaurare una nuova tirannia. Montaggio invisibile, campo e contro campo, prevalenza di primi piani ed immagini di raccordo ad uso puramente didascalico ( il tramonto che precede l’inizio delle ostilità e poi l’alba che suggella la catarsi della fine sono un esempio di queste esemplificazioni) rappresentano una scelta di campo verso un pubblico che non deve avere nessun dubbio su quello che succede (in controtendenza con le trame complicatissime ed alambiccate dello scrittore) e sulla logica che unisce la successione delle scene, ma che così facendo rende vano il sangue versato sullo schermo. Il regista e lo sceneggiatore fanno fatica ad amalgamare i loro apporti ed il film ne soffre quando deve integrare gli aspetti legati al resoconto di genere, quali sparatorie, inseguimenti e rese dei conti, a quelli prettamente esistenziali, in cui il visibile tende all’essenziale e si apre a nuove dimensioni. Johan Ludlow (Reeves), il detective dell’LPD, è un antieroe che cerca la sofferenza per colmare il vuoto di una moglie che non ha saputo salvare; in segno di espiazione offre il suo corpo ad un padre/padrone che approfitta della situazione e gli offre quanto chiede; un patto scellerato, una legge non scritta (il male genera solo male dice Reeves a proposito del suo lavoro), l’impossibilità del bene ( affermata nella scena finale) sono le tappe di una via Crucis che non riesce a concludersi, condannando il poliziotto ad un esilio esistenziale misurato dall’ultima sequenza, in cui lo sguardo si stacca dagli avvenimenti per contemplare la città, distante ed irraggiungibile come i desideri che non riusciamo a soddisfare.

venerdì, agosto 08, 2008

Film in sala giovedi' 8 e giovedi' 14 agosto

8 agosto
Ombre dal passato
regia: Masayuki Ochiai
genere: Horror
prod.: USA

14 ago
Le cronache di Narnia: il Principe Caspian
regia: Andrew Adamson
genere: fantastico
prod.: USA, Gran Bretagna

venerdì, agosto 01, 2008

FIlm in sala da venerdi' 1 agosto

Il nome del mio assassino
regia: Il nome del mio assassino
genere: thriller
prod.: USA

Nella rete del serial killer
regia: Gregory Hoblit
genere: drammatico
prod.: USA

The Love Guru
regia: Marco Schnabel
genere: drammatico
prod.: USA

Il peggior allenatore del mondo
regia: Tom Brady
genere: commedia
prod.: USA

Andersen - Una vita senza amore
regia: Eldar Ryazanov
genere: avventura
prod.: Russia, Italia, Germania

Grace is gone
regia: James C. Strouse
genere: drammatico
prod.: USA