Il cinema di Susan Blier ha una costituzione fortemente carnale. Il corpo è il codice imprescindibile a cui far risalire l’intera esperienza umana ed i suoi film c’è lo mostrano senza sprecarne un solo centimetro: figure intere di una plasticità sfumata e quasi impalpabile si alternano ad improvvise esplosioni del dettaglio anatomico in cui il corpo, tolto dal suo contesto abituale ed osservato come fosse al microcoscopio smette di rappresentare se stesso per diventare il veicolo di un emozione o di uno stato d’animo; pause emotive che interrompono il ritmo del flusso filmico e lo portano nelle zone del cuore, dove la parola parola si libera del suo scheletro vocale per diventare l'essenza di quel concetto.
Dietro la spontaneità dogmatica, si individua un metodo conoscitivo che procede per scomposizioni successive, arrivando a delineare un quadro di assoluta coerenza. Partendo dalla scena iniziale, con il protagonista che guarda la propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, e poi continuando con inquadrature che privilegiano la fisognomica del volto ed in particolare quello dell’occhio, la cinepresa ricostruisce il ritorno alla vita di un ex avvocato distrutto dalla droga e di una donna che ha appena perso il marito. La superficie corporea diventa lo spazio privilegiato della comunicazione: i pori della pelle sono i vasi comunicanti di un malessere che si ciba di notti insonni e decibel musicali. Seguendo l’esempio del miglior cinema scandinavo e proseguendo un discorso personale che si sposta in avanti , non solo dal punto di vista geografico, per la capacità di destreggiarsi anche all’interno di uno starsystem che sottomette il talento alle necessità produttive, ma anche artistico, adattando la sua poetica alle coordinate di un mondo che non ha bisogno del senso di colpa per giustificare le sue azioni, la Blier abbandona le atmosfere raffreddate e le asprezze che avevano contraddistinto i lavori precedenti, accentuando sfumature e mezzi toni, privilegiando le morbidezze crepuscolari ed i colori autunnali di un direttore della fotografia come Tom Stern(Mystic River, Million dollar baby), la cui arte essenziale ed appassionata viene somatizzata nelle immagini di quieta disperazione che attraversano lo schermo. Seppur con leggere varianti la regista ci offre un altra storia di legami parentali in cui la famiglia, intesa non solo dal punto di vista istituzionale ma anche come luogo privilegiato degli affetti, è lo specchio di un equilibrio personale al di fuori del quale è impossibile vivere: la donna in difficoltà che il marito si ferma ad aiutare esponendosi all’imprevedibile reazione dell’uomo che la stava malmenando, così come la tendenza autodistruttiva del personaggio di Del Toro causata dall’inevitabile nevrosi lavorativa ed anche il tentativo del vicino di casa desideroso di divorziare da una moglie che lo tiranneggia sono spinte centripete che pur rispondendo a motivazioni diverse ed in fin dei conti giustificabili, sono le premesse del caos e della disperazione. Benicio Del Toro sottrae peso e volume al suo corpo debordante con un linguaggio gestuale ed espressivo che ci fa credere quello che vuole. La dipendenza (sia chimica che affettiva), pur presente con i suoi rituali di cadute e redenzione rimane marginale rispetto alle priorità dell’essere umano che vuole riappropriarsi della propria dignità. Halle Berry, non gli è da meno, in un ruolo che richiede determinazione e sensibilità ed a cui l’attrice si presta con la solita empatia.
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