Sanguepazzo è un film che non passa inosservato non solo per una presenza divista (Bellucci e zingaretti), che, per quanto discutibile ed in parte derivata da fortune extracinematografiche, è fisicamente debordante e quasi fisiologica ad un informazione specializzata sempre più attratta dal luccichio della confezione, ma soprattutto per il coraggio di ritornare a parlare di un periodo che oggigiorno tutti sembrano aver dimenticato, per la superficialità o la convenienza con cui quegli avvenimenti vengono manipolati, ed ancora una volta stravolti, a favore delle situazioni contingenti. Uomini ed idee che sembrano non appartenere più a nessuno, tanta è la voglia di dimenticare o di ricordare nella maniera meno sconveniente, e che qui ci vengono riproposti con quelle contraddizioni che sono tipiche innanzitutto degli esseri umani e poi, forse delle ideologie che si scelgono. La storia di Luigi Valenti e della Ferida, massimi interpreti di un divismo cinematografico che a dire il vero non lascio opere memorabili, sono i protagonisti di un film che ha una duplice lettura.
La prima fa riferimento ad un genere cinematografico come il melodramma che trova nella biografia dei due protagonisti, la cui reciproca dipendenza (molto più forte e mortifera di quella provocata dall’abuso di droghe e psicofarmaci, di cui i due furono sfrenati consumatori), va vista quasi a ribadire i codici di questi film nella reciproca attrazione per le caratteristiche di segno opposto, il soggetto ideale a cui applicare gli umori discontinui ed appassionati, gli slanci e le cadute, le fughe e gli eterni ritorni che sono da sempre le caratteristiche dell’amor fou. La seconda invece si rivolge alla storia, cercando di ricostruire il ventennio, attraverso una sintesi dei momenti più significativi che tiene conto del punto di vista di personaggi ed in questo senso ci offre una prospettiva della guerra che si allontana dalle normali rappresentazioni: lontani dai campi di battaglia, ma anche dalle contrapposizioni politiche, Valenti e la Ferida vissero quei momenti attraverso la lente deformante del loro successo e di un mondo che , nonostante tutto continuava a farli sentire immuni dalla tragedia che si stava compiendo. Giordana traduce queste due componenti, privilegiando gli aspetti melodrammatici, resi attraverso una luminosità contrastata, in cui i colori accesi delle figure si contrappongono alle oscurità dei contorni, per dare vita ad un immaginario barocco che si riallaccia a Visconti, ma anche a Fassbinder, per non tralasciare il cinema americano di Powell e Pressburger, ed imperniati su una recitazione di ottimo livello, soprattutto per la Bellucci che riesce a farsi dimenticare per assumere una pietas tutta femminile, che neanche una morte annunciata riesce a far desistere, che vale anche per i ruoli di supporto, con Alessio Boni visibilmente dimagrito, e finalmente capace di una performance che si sottrae ai soliti isterismi. Giordana gira pensando al cinema e non alla televisione (l’opera è una produzione Rai), e lo sottolinea non solo nel background in cui si svolge la vicenda (cinecittà e successivamente, con la Repubblica di Salò, Venezia con la sua mostra del cinema) e nella grandiosità delle atmosfere, che hanno bisogno dei silenzi senza luce della sala per essere apprezzati, ma anche nella scena che apre e chiude il film, con quella pellicola che continua a scorrere attraverso la bicicletta dei due ragazzini che l’hanno raccolta e la trascinano con sè tra le macerie della città bombardata, a testimonianza della forza di raccontare che il cinema continua ad esprimere con inesauribile vitalità.
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