I meriti de "Il divo" vanno ricercati nella forma con cui il regista è riuscito a raccontare un personaggio tra i più controversi della nostra storia recente. E’ singolare come tutti i film appena presentati a Cannes, siano uniti da un medesimo processo interpretativo che si serve della realtà come un impalcatura necessaria, ma la supera, cercando di coglierne la verità con gli strumenti che solo il cinema può offrire a chi le sa sfruttare. E di questa opzione Sorrentino rappresenta il miglior interprete, non solo per la qualità del suo linguaggio cinematografico ma per la volontà di concepire il film in quanto tale, senza l’intervento di mezzi o scorciatoie che appartengono ad altre forme di espressione. Un patto con se stesso che equivale nella cinematografia del regista all’impatto che Pulp Fiction ebbe nella carriera di Quentin Tarantino; una sorta di otto e mezzo post moderno dove confluisce tutto il meglio (tanto) ed il peggio (poco) di un artista che continua a plasmare la forma del suo cinema.
Ancora una volta il centro della scena è occupato da un personaggio Faustiano, costruito a partire da un evidenza fisica, che sembrebbe definirlo, per la preponderanza della fisognomica rispetto a tutto il resto, e poi quasi senza che c’è ne accorgiamo inizia l’autopsia, in cui la cinepresa ed i suoni diventano il bisturi di una ricerca che affonda e distingue sui motivi di quell’esistenza. Il paragone è avvalorato una staticità quasi post-mortem che avvolge i personaggi e che sembra dare a Sorrentino l’impulso necessario per scandagliare l’ogetto della sua osservazione. Andreotti, è solo l’ultimo arrivato in una galleria di personaggi, inquieti ed inquietanti, ma sembra riassumerili tutti per la sua capacità camaleontica di assumere, seppur con variazioni impercettibili, una delle tante facce del suo poliedrico carattere. Inoltre, la caratteristica di occupare il guado che divide il sacro dal profano, gli permette di rivestire situazioni di per se rappresentanti della massima espressione della nostra civiltà con un corredo che pesca a piene mani da un immaginario che si ciba di cultura popolare, con le canzoni di Renato Zero ed i riferimenti all’artigianato cinematografico dei 70’, per poi passare a quella più impegnata ed impegnativa, in cui il lato grottesco ed onirico ha la meglio sull’immediatezza del dato cronachistico o sul memoriale storico, ed in cui svolge un ruolo fondamentale l’apparato dei suoni, veri e propri vettori di questa esperienza sensoriale e capace di tenere insieme le differenti componenti. Il divo è un opera rock,alla pari di certi film psichedelici, ma anche una liturgia, dove al posto dei prelati prende posto una galleria di freak che sembra il remake del famoso capolavoro del cinema muto. I movimenti di macchina hanno la forza di certi pugni ben assestati da cui è difficile riprendersi ed è quasi un bene che nella seconda parte, quella in cui il film deve incominciare a tirare le fila ed in cui Sorrentino, costretto ad abbassare i ritmi finisce quasi per imballarsi, si abbia il tempo di fare un po’ d’ordine ed avviarsi alla fatidica “10 ripresa”. La reticenza del politico, abituato a parlare per anedotti e l’insondabilità del versante privato di cui esiste poco e niente (a parte la gestualità ridotta delle mani che sono il segno di noia o simpatia verso l’interlocutore di turno) costringono Sorrentino ad una ricostruzione immaginata, che talvolta diventa inevitabilmente didascalica per chi è ha conoscenza dei fatti, quando deve introdurre o circoscrivere personaggi ed eventi. Lì il cinema di sorrentino arretra, diventando qualcosa di simile alle filippiche di Travaglio, che appassionano per carità ma sono distanti dall’estetica del film.
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