Steven Spielberg è un regista da sempre impegnato a superare i limiti della propria vicenda personale. E’ accaduto da subito in film come "Duel" e "Lo squalo", in cui le forme di una paura archetipa e primordiale mascheravano il tentativo di emanciparsi dai fantasmi di un quotidiano segnato da intolleranza e solitudine, presente nell’atmosfera claustrofobica e minacciosa che caratterizzava quelle storie e linea d’ombra per una riappacificazione personale e collettiva che nel dittico extraterrestre("Incontri ravvicinati" ed "E.T."), si traduceva nell’apertura verso il mondo, inteso come territorio senza confini, patria universale di tutti gli essere, umani e non, e dal punto di vista cinematografico definivano uno sguardo capace di mostrare la straordinaria ricchezza di quella scoperta. La ritrovata fiducia nelle umane sorti, a cui non deve essere stata estranea l’euforia edonistica dei primi anni 80’ sfociò nell’overdose espositiva di Indiana Jones, in cui Spielberg mostra al massimo grado la capacità di fondere memoria ed attualità, di riuscire a collegare la tradizione del cinema classico con le opportunità delle nuove tecniche cinematografiche.
Le capacità di parlare per immagini viene affiancata da una fluidità narrativa che tiene conto delle accelerazioni imposte dalla moda imperante del video clip. In questo senso Indiana Jones rappresentava perfettamente l’euforia di un periodo storico dove la rappresentazione del male scaturiva più dalle capacità di immaginazione che dall’eco di eventi bellici pressochè assenti, e soprattutto il punto di non ritorno di un talento che avrebbe sentito la necessità di allontanarsi da quella giovinezza per lasciare spazio ad opere di impegno storico e civile (Amistad, Shindler’s list, Munich). E’ quindi inevitabile che il quarto episodio della saga, costruito sulla falsa riga dei precedenti, con buoni e cattivi impegnati nella caccia dell’arcano tesoro, mostri tutti i limiti di un aggiornamento che deve fare i conti con un passato che gli ha tolto ogni sorpresa ed una sceneggiatura che non riesce a valorizzare il realismo di un repertorio acrobatico ed effettisticocome sempre all’avanguardia. La capacità di lavorare sul genere “contaminadolo” con i tempi e le battute della slap stick comedy così come il velato erotismo che si accompagnava alla ruvida galanteria dello sciupafemmine dal cuore d’oro lasciano il posto ad uno spettacolo che procede come un video game (le tappe per arrivare al tesoro costituiscono i diversi livelli di difficoltà), di cui il giocatore/spettatore conosce in anticipo le mosse. Anche il sorriso da simpatica canaglia che era stato il marchio di fabbrica dell’attore/personaggio e che da solo costituiva il senso del film, mostra i segni della lunga militanza, mentre il personaggio di Shia Lebouf, la novità che il film vorrebbe proporre anche in vista di un passaggio di consegne che l’ultima scena (di un posticcio quasi imbarazzante) sembrebbe smentire, risulta troppo debole, non solo in termini di scrittura ma anche sotto il profilo della fisicità attoriale, per fare da contraltare all’indomito leone. Una malinconica nostalgia, resa attraverso una fotografia morbida e continuamente inframezzata da ombre che sembrano venire da un epoca lontana, è il sentimento che più di tutti si lega ad una riproposizione di cui francamente non si sentiva la necessità.
1 commento:
non si può trascurare comunque la dimensione del divertimento, presente anche in questo film.
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