Los Angeles rimane il miglior posto dover ambientare una storia di sbirri corrotti ed angeli caduti. Questo vale soprattutto quando il padrone del vapore è uno sceneggiatore d’eccezione come James Elroy che ha vissuto in prima persona l’imperturbabile presenza e le ammalianti chimere di questa città, trasformando le sue strade in percorsi mentali ed abissi dell’anima.
Nel tentativo di dare carne ai suoi blues letterari l’accompagna un regista che finora si era accontentato di un solo film(Harsh times), peraltro malmenato dalla critica ed ignorato dal pubblico, e di una serie di sceneggiature (S.W.A.T, Fast and Furious, Training days) in cui il tema della diversità (seppur dentro i confini del mainstream hollywoodiano) era raccontato con il dinamismo del cinema videoclip ed attraverso una violenza con parecchi accessori prelevati direttamente dal cinema exploitation degli anni 70. In questo caso però le sirene tentatrici di una città abituata a sedurre con le sue contraddizioni sembrano aver perso le antiche lusinghe a favore di uno scenario che prefigura una nuova età del ferro; la discontinuità della sua topografia, mai ripresa nel suo insieme ma riprodotta in maniera frammentata, con inquadrature che privilegiano l’immobilità degli sfondi e spezzano le linee degli ambienti, l’anonimato degli scorci urbani che seppellisce i santuari del divismo e del successo sotto un inesauribile ripetizione di case prefabbricate e colate di cemento, le nuove gerarchie di potere con i suoi totem e una serie di adoratori deliranti, sono i segni tangibili di un feudalesimo moderno, di una restaurazione primordiale dove la violenza dei gesti è l’unica qualità che permette la sopravvivenza. Un Far West metropolitano insonne e senza pace, in cui la presenza femminile è stata cancellata da un overdose di muscoli pompati e teste appena rasate. Il denaro come valore fondante (nel film i dollari vengono stipati nel muro a doppio fondo della casa di uno dei protagonisti) di una società che non esiste più è il motivo scatenante di una storia costruita a scatole cinesi in cui tutti tradiscono tutti e dove la giustizia è solo un altro modo per instaurare una nuova tirannia. Montaggio invisibile, campo e contro campo, prevalenza di primi piani ed immagini di raccordo ad uso puramente didascalico ( il tramonto che precede l’inizio delle ostilità e poi l’alba che suggella la catarsi della fine sono un esempio di queste esemplificazioni) rappresentano una scelta di campo verso un pubblico che non deve avere nessun dubbio su quello che succede (in controtendenza con le trame complicatissime ed alambiccate dello scrittore) e sulla logica che unisce la successione delle scene, ma che così facendo rende vano il sangue versato sullo schermo. Il regista e lo sceneggiatore fanno fatica ad amalgamare i loro apporti ed il film ne soffre quando deve integrare gli aspetti legati al resoconto di genere, quali sparatorie, inseguimenti e rese dei conti, a quelli prettamente esistenziali, in cui il visibile tende all’essenziale e si apre a nuove dimensioni. Johan Ludlow (Reeves), il detective dell’LPD, è un antieroe che cerca la sofferenza per colmare il vuoto di una moglie che non ha saputo salvare; in segno di espiazione offre il suo corpo ad un padre/padrone che approfitta della situazione e gli offre quanto chiede; un patto scellerato, una legge non scritta (il male genera solo male dice Reeves a proposito del suo lavoro), l’impossibilità del bene ( affermata nella scena finale) sono le tappe di una via Crucis che non riesce a concludersi, condannando il poliziotto ad un esilio esistenziale misurato dall’ultima sequenza, in cui lo sguardo si stacca dagli avvenimenti per contemplare la città, distante ed irraggiungibile come i desideri che non riusciamo a soddisfare.
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