martedì, maggio 31, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: MARGUERITE E JULIEN

Marguerite e Julien: Gli Amanti impossibili
di Valérie Donzelli
con Anais Demoustier, Jeremie Elkaim, Samy Frey
Francia, 20316
genere, drammatico
durata, 103'



                                                               che cosa siamo?
                qualcosa che non esiste 
   allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo
                                                                            Marguerite e Julien

Le cronache riferiscono che "Marguerite e Julien" in un primo momento doveva essere un lungometraggio realizzato dal grande Francois Truffaut interessato a realizzare il film basato sulla storia (vera) dell'amore incestuoso tra un fratello e una sorella perseguitati dai pregiudizi della società del proprio tempo e costretti a darsi alla fuga per evitare di finire sotto processo a causa della loro relazione. 

Se la scabrosità del tema aveva suggerito al maestro della nouvelle vague di occuparsi d’altro e' possibile che la stessa ragione sia questa volta alla base della decisione  di Valerie Donzelli di realizzare una versione cinematografica del copione scritto a suo tempo dallo sceneggiatore Jean Gruault. Al di là delle reminiscenze nei confronti di una stagione del cinema francese a cui la regista ha più volte dichiarato di ispirarsi per i suoi lavori, crediamo che i motivi di interesse nei riguardi del testo incriminato siano da rintracciare con i rimandi all'intolleranza che ancora oggi viene esercitata nei confronti della diversità sessuali e più in generale verso comportamenti considerati al di fuori delle consuetudini comuni.


Fatto sta che l'originalità di "Margherite e Julien" non risiede tanto nella possibile oscenità dell'incipit; ne, tanto meno, nell'ardire della sua rappresentazione che rimane (ad eccezione di una sequenza in campo lungo in cui vediamo i corpi dei due giovani voluttuosamente avvinghiati) comunque all'insegna di una passione più ideale che concreta, vissuta secondo codici che potrebbero essere quelli dell’amor cortese professato nelle corti provenzali. A suscitare interesse piuttosto è la cornice scenografica utilizzata dalla Donzelli, la quale, assecondando i  toni favolistici e la matrice letteraria (tra citazioni poetiche e voce fuori campo, le immagini sono la trasposizione del libro letto da un'istitutrice ai suoi bambini) del narrato immagina un universo che mette insieme passato e presente in cui non di rado può capitare di vedere uno scorcio di paesaggio medievale attraversato da un elicottero impegnato a perlustrare il territorio. L'effetto è a dir poco straniante e gli attori protagonisti - tra cui spicca Anais Demoustier già vista in questa stagione in "Una nuova amica" di Francois Ozon - sono davvero bravi nel vestire i panni degli amanti impossibili ma la perfezione formale di "Marguerite e Julien" è senza dubbio una delle cause del mancato coinvolgimento dello spettatore nei riguardi di una vicenda che, contrariamente a quanto evocato in fase di premessa, è più un piacere per la mente che per il cuore

lunedì, maggio 30, 2016

FIORE

Fiore
di Claudio Giovannesi
con Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Valerio Mastandrea
Italia, 2016
genere, drammatico
durata, 109'



Titolare di una filmografia ancora giovane con solo tre film all'attivo Claudio Giovannesi è comunque riuscito a imprimere al suo cinema un forte senso di identità  che trova riscontro negli incipit dei suoi due ultimi lavori. In "Alì ha gli occhi azzurri" distribuito nel  2012 la storia si apre con il protagonista impegnato insieme a un amico in una rapina ai danni di un negozio. Dovrebbe essere lui a puntare la pistola in faccia al titolare, poi le sue titubanze suggeriscono al compagno di prendere in mano la situazione lasciando Alì a fare il palo con il motorino acceso pronto a partire. In "Fiore", il film appena uscito nelle sale, il contesto è più o meno simile perché la sequenza incriminata ci mostra una coppia di ragazzine munite di coltello che aspettano il momento buono per impossessarsi dei cellulari di due coetanei. Detto che nel primo caso l'episodio non ha conseguenze immediate per le parti in causa ed è usato più che altro in funzione introduttiva mentre per quanto riguarda il secondo ciò che vediamo fa da preludio all'arresto di Daphne e al successivo internamento in un istituto di detenzione minorile, ciò che conta in questa sede è sottolineare l'esistenza di un peccato originale che condiziona l'esistenza dei personaggi raccontati da Giovannesi, il quale, partendo dalla negazione di una normalità che dovrebbe essere condizione indispensabile della giovinezza di Alì e di Daphne, procede in maniera binaria: da una parte preoccupandosi di dare un quadro esatto dell'ambiente che ha prodotto il danno; dall'altra raccontando il tentativo dei protagonisti di ribellarsi a un destino già scritto anteponendo la vitalità tipica dei loro anni al darwinismo sociale che li vorrebbe ad oltranza nel ruolo di umiliati e offesi.
 
Da questo punto di vista "Fiore" sembra voler stringere le fila del discorso perché il carcere, con  le sue regole restringenti e con i suoi spazi limitati offre al regista la possibilità di mostrare con maggior efficacia l'interazione tra l'individuo e il mondo circostante, soprattutto quando si tratta di mostrare il rapporto di causa effetto tra la mancanza d'empatia rispetto ai bisogni del singolo, uniformati a principi di ordine e disciplinamento destinati a rimanere all'esterno delle cose, e la rabbia di Daphne, per niente disposta a mettere da parte la propria personalità tanto con le compagne di cella quanto con le educatrici che si alternano davanti al suo cospetto. Con la differenza che rispetto alla bruciante attualità di "Alì ha gli occhi azzurri", in cui le difficoltà incontrate da Alì nel suo percorso d'integrazione permettevano al film di entrare nel merito di quello scontro di culture messo in circolo dal flusso migratorio di cui è oggetto il nostro paese, "Fiore" si colloca nella realtà con una prospettiva che privilegia la dimensione più intima dei personaggi, descrivendo a cuore aperto e a nervi scoperti il bisogno d'amore della protagonista. In questo senso, fatti i dovuti distinguo, il lungometraggio di Giovannesi potrebbe considerarsi una sorta d'antidoto alle espressioni più retrive di quel cinema mainstream che troppo spesso svilisce il tema dell'amore giovanile.
 
Con ciò non vogliamo dire che "Fiore", raccontando dell'amore di Dahne nei confronti di Josh - anche lui
impegnato a scontare i propri errori di gioventù - venga meno alle sue funzioni di opera impegnata, comunque assicurate da una  messa in scena che rasenta il vero sia nella ricostruzione degli aspetti ambientali quanto, e soprattutto, nella scelta di utilizzare attori sociali che, fatta eccezione per Valerio Mastandrea (in un ruolo, quello del padre di Daphne che sembra uscito da un film di Ken Loach) hanno sperimentato in prima persona le vicissitudini materiali e/o psicologiche dei loro personaggi. Quello che invece preme evidenziare è che Giovannesi, alla maniera di certi registi americani degli anni settanta, riesce nell'intento di intrattenere il pubblico senza rinunciare a fornire spunti di riflessione rispetto al dinamismo e perché no della bellezza anche estetica (la fotografia è di Daniele Ciprì) del narrato. Come pure è importante far notare come la scelta di Daphne Scoccia - splendidamente ferina dentro e fuori lesbarre della sua giovane vita - si collochi sulla scia di una serie di attrici che dall'Alba Rorhwacher de "Vergine giurata" alla Roberta Mattei di "Non essere cattivo", e senza dimenticarsi dell'Emanuela Cescon di "Primo amore", rientri nella prerogativa di certo cinema d'autore che nell'androginia filiforme e nervosa del corpo femminile sembra rimandare al malessere esistenziale e alla solitudine rintracciabile nella nostra contemporaneità. Con un tocco di speranza per un futuro migliore che l'ultima sequenza di "Fiore" ci regala, a conclusione di una prova di sicuro valore.  
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, maggio 29, 2016

FRAULEIN - UNA FIABA D'INVERNO

Fräulein- una fiaba d'inverno
di Caterina Carone
con Christian De Sica, Lucia Mascino, Therese Hämer 
Italia, 2016
genere, commedia
durata, 90'

Fräulein, la signorina, è il soprannome che il paese ha affibbiato alla quarantenne Regina, per sottolineare il suo status di "zitellona", anche se non si sa se sia diventata così dura e mascolina da guadagnarsi il nomignolo, qui usato in modo dispregiativo, o se si sia adattata ad uno stereotipo che il paese le avrebbe assegnato comunque, con quella compulsione ad etichettare tutti che hanno le piccole comunità. Fräulein vive nel suo albergo dismesso con la sola compagna di una gallina bianca, Marylin, l'ospite più manifestamente femminile del consesso, per il resto disabitato. Conduce questa vita fino a quando non si presenta alla porta uno sconosciuto che vuole a tutti i costi soggiornare all'Hotel Regina: Walter arriva da lontano e sembra determinato a vincere la riluttanza di Fräulein a intrattenere rapporti col resto del genere umano, soprattutto con l'universo maschile.
Il racconto comincia con "C'era una volta", classificando subito Fräulein come una fiaba contemporanea, ambientata in Sud Tirolo, che sembra la location classica per una favola tradizionale. Mascino e De Sica tradiscono le aspettative generate dalla loro presenza scenica: l'esile ed eterea Lucia si trasforma nella massiccia e pragmatica Regina, abbassando il tono di voce e mettendosi al volante di un'Ape; Christian De Sica, invece, abbandona il ruolo dello sbruffone arrogante per diventare un uomo fragile e spaesato. E proprio il suo personaggio sarà all'origine dello scongelamento progressivo di Regina, che avverrà mentre i media annunciano l'arrivo di una tempesta solare che spinge le persone ad assumere comportamenti imprevedibili.
Caterina Carone debutta alla regia con questa commedia delicata, da lei stessa scritta, che ha come punti di forza l'originalità dei personaggi e il desiderio di raccontare la solitudine in modo inconsueto. L'impegno profuso nell'affrontare temi delicati, però, ha fatto dimenticare alla regista lo sviluppo della storia, che resta in bilico tra la commedia e i toni sfumati del racconto fiabesco. C'è una cura evidente nella composizione, nei dettagli e nella ricerca di un'estetica non scontata, ma la trama è esile e la regia esitante. Sicuramente, in futuro la Carone potrà dimostrare in modo più incisivo le sue innegabili doti.
Riccardo Supino

LA FOTO DELLA SETTIMANA
























The Neon Demon, di Nicolas Winding Refn (USA, Francia, Danimarca 2016)

sabato, maggio 28, 2016

Su Marte non c'è il mare: intervista a Lucio Laugelli


In un paio di occasioni vi abbiamo parlato di "Su Marte non c'è il mare", la nuova mini-serie alessandrina ad opera di Lucio Laugelli. Pubblichiamo qui un'intervista che è il risultato di una chiacchierata con lui e parte del suo team: il direttore della fotografia e la scenografa.
Buona lettura!

"Su Marte non c'è il mare": un titolo molto originale. Cosa lo ha ispirato.
Lo ha ispirato la mia autoradio: guidavo pensando agli affari miei e ad un certo punto, in sottofondo, sento qualcuno che parla dell’acqua su Marte (era il periodo, mesi fa), allora ho fatto una semplice constatazione: se anche conquistassimo il pianeta rosso, un domani, non potremmo comunque fermarci a bere una birra lungo mare. Perché su Marte non c’è il mare. Lo so, ora sarai perplesso sul continuare o meno l’intervista (ndr. ride).

Niente affatto. Questa risposta mi ha dato la conferma dell'affascinante semplicità del tuo lavoro, ben costruito, nonostante non credo disponeste dei mezzi dei grandi registi e non tutti gli attori fossero professionisti. A questo proposito, loro come si sono preparati, e tu, quali comportamenti hai adottato per coordinare un gruppo così variegato.
La maggior parte degli attori aveva alle spalle numerose esperienze teatrali e/o altri corti/lavori indipendenti. Pochi erano alla primissima esperienza. Ci siamo preparati, semplicemente, provando: ci ritrovavamo in studio da me, sceneggiatura alla mano e via. Prove e ancora prove. Ho coordinato il gruppo come mi capita di fare ogni volta che ho a che fare con gruppi di persone: penso alle cose che non sopporto quando sono dall’altra parte (e vengo, a mia volta, coordinato/diretto da qualcun altro) e cerco, non sempre riuscendoci, di evitar tutti gli atteggiamenti che non sopporto in un regista, in un direttore di produzione o, semplicemente, nel “superiore” di turno.

La vostra è una mini-serie destinata al web. Qual è il modello di riferimento.
Non avevo modelli di riferimento, a dirti la verità: ho cercato di scrivere la storia nel modo più sincero possibile cercando di rimanere con i piedi per terra (visti i tempi e il budget). Il soggetto scritto con Valerio Gaglione era intrigante ma, allo stesso tempo, era anche molto facile cadere nel già visto. Decideranno gli spettatori se ci sono riuscito o meno ad evitare la banalità.

La trama è stata pensata da subito per essere contenuta in questo formato? Si sarebbe potuta adattare anche a un lungometraggio destinato al cinema o alla TV, trasmesso in una sola serata. E ancora da cosa deriva la scelta di dividerla in quattro puntate.
Ho cercato di scrivere una sceneggiatura che potesse essere sfruttata in più modi: sia nella forma di un lungometraggio, per i festival, sia nella forma della mini-serie, per il web. Sapendo che la distribuzione nelle sale, con la struttura e con i soldi a disposizione, era un miraggio, mi sono concentrato su un prodotto audiovideo multi-piattaforma che potesse, appunto, essere il più elastico possibile.

Quali accorgimenti hai adottato, come regista, per costruire una trama così duttile.
Mentre giravo non ho adottato accorgimenti particolari, in questo senso: più che altro in fase di scrittura ho cercato, come ti dicevo prima, di pensare alla struttura in modo “jolly”: sia in blocco unico che divisa in più venerdì.
Ho cercato di adottare una messa in scena lineare, semplice…e ovviamente ho fatto i miei errori per colpa della troppa fretta. 52 scene in 10 giorni sono davvero troppe.

Sentiamo il parere dei tuoi collaboratori, cominciando dalla scenografa, Francesca Grassano: volevo chiederti se ti sei trovata a tuo agio con questo formato e se dal tuo punto di vista sarebbe stato più semplice lavorare a un lungometraggio.
Il fatto che fosse una web serie in 4 episodi, piuttosto che un film destinato a un'unica proiezione, non mi ha creato problemi; è stato abbastanza semplice organizzarsi, perchè la sceneggiatura era ben definita dal ritmo dei "venerdì" che si susseguivano.

Infine una domanda per il direttore della fotografia: come hai affrontato il tuo compito. Ci
saranno, immagino, inquadrature studiate appositamente per essere inserite in una mini-serie.
La suddivisione in puntate mi ha portato a creare delle connotazioni tonali e cromatiche più marcate rispetto a un lungometraggio. Questo perchè lo spettatore, da una puntata all'altra, può far passare anche una settimana, ed è quindi normale che la fotografia debba "aiutarlo" nell'associazione luoghi/persone con l'ausilio di espedienti cromatici. Così, la casa di Marco ha sempre toni morbidi, quasi da sit-com, mentre il bar dove i ragazzi si incontrano ed escono insieme ha delle ombre più marcate e toni molto caldi.

Gli accorgimenti in fase di ripresa sono stati poi riportati anche in post-produzione, per proseguire il ragionamento fatto a priori insieme al regista.
Riccardo Supino

venerdì, maggio 27, 2016

JULIETA

Julieta
di Pedro Almodovar.
con Adriana Ugarte, Emma Suarez, Rossy De Palma
Spagna, 2016
genere, melò
durata, 96'


Film, letteratura, arte, design, moda, musica e molto altro trova posto nel pantheon cinematografico di Pedro Almodovar. Ma a pensare bene se c’è una cosa che non manca mai nei fotogrammi del regista spagnolo è proprio la vita; quella degli altri e soprattutto la sua, riversata sullo schermo assecondando ricordi e stati d’animo che abbiamo imparato a condividere attraverso le protagoniste delle sue storie. E il fatto che ognuna delle sue chicas sia la rappresentazione del modo di essere dell’autore più che il ritratto di un personaggio vero e proprio trova conferma nella sproporzione tra la complessità emotiva di Julieta, la protagonista da cui il film prende il nome e, per contro, la flebile consistenza del materiale narrativo, ricavato mettendo insieme tre racconti delle scrittrice Alice Munro. Se, infatti, nel cercare di dire la nostra a proposito di “Julieta” ci appellassimo alla creatività dell’autore rischieremmo di rimanere delusi perché, in questo caso, la fantasia prodotta dalle infinite variazioni di un nucleo centrale forte e ben individuato lascia il posto a una progressione a rebours, in cui ad andare in scena sono i dolorosi eventi che hanno mandato in pezzi l’esistenza della donna, passati in rassegna come lo si farebbe sfogliando le pagine di un album fotografico. Così, se lo scopo della protagonista consiste nel riappropriarsi della parte più dolorosa della propria esistenza, un tempo rimossa ma ora necessaria a fronteggiare la notizia della ricomparsa della figlia Antìa, fuggita anni prima senza lasciare traccia, quello del film è di circoscrivere un ritratto femminile - quello di Julieta - in grado di contenere l’universo poetico ed il sentire del regista. Che, dopo la parentesi ridanciana de “Gli amanti passeggeri” torna alle forme del melodramma e del thriller (esistenziale) per tuffarsi in quell’introspezione, malinconica e intimista, che in “Volver” e la “La mala educacion” era servita per scandagliare il passato dello stesso Almodovar, presente dietro la deformazione del racconto cinematografico.



Rispetto a questi modelli “Julieta” aumenta lo scarto rispetto al cinema spensierato e barocco della prima parte di carriera, quello che procedeva di pari passo con i cambiamenti sociali e di costume della neonata democrazia spagnola. Lontano dal quel clima, appena rintracciabile in qualche eccesso di colore scenografico (l’interno della cabina del treno sulla quale viaggia Julieta  all’inizio del film) e nell’ambiguità sessuale a cui rimanda la mise alla Marlene Dietrich delle ragazze inquadrate di sfuggita nella scena in cui Julieta parla con l’amica di Antìa, a rimanere intatto è il diapason che permette ad un pur esangue e monocorde Almodovar di sincronizzarsi sulle frequenze di un universo femminile che, in assenza di controparti, diventa qui più che altrove la misura delle cose. E dunque dell'amore a cui nonostante il destino avverso Julieta non rinuncia, grazie a una natura che le permette di declinarlo in tutte le forme in cui è possibile donarlo. Il manierismo e la  sovraesposizione che ne derivano più che un difetto sono la legittima conseguenza di tanto prodigarsi. E pazienza se “Julieta” non è all’altezza dei film migliori del regista.   

mercoledì, maggio 25, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: THE NICE GUYS

The Nice Guys
di, Shane Black
con, Russel Crowe, Ryan Gosling, Angourie Rice
Usa, 2016
genere, commedia
durata, 93'


Oltremodo folle nel demolire le istanze del cinema d’azione classico, The Nice Guys diviene il fiero paladino di uno stile, quello identificativo del suo regista, complesso nella sua apparente semplicità. Lo svolgersi di un plot serrato, ricco in dialoghi che si susseguono a ‘mo di proiettili, sferzando l’immobilismo in cui si sarebbe rischiati di incedere riportando in vita un periodo così particolare (quello dei ‘70s), costringe i due sceneggiatori ad imperniare l’intera vicenda sui due, prorompenti, protagonisti. Nice Guys è il proseguimento di un’ideale di cinema che Shane Black rincorre sin dai primordi, esemplificato in particolar modo in Kiss Kiss Bang Bang, il quale condivide con la sua nuova opera l’impostazione binaria della sceneggiatura. Russel Crowe, gigioneggiante nella ridicola serietà del suo ruolo, sembra avvicinarsi sempre più alla corporeità del caratterista John Goodman – pur limitandosi, per esigenze di copione, nell’inventiva mimica, contrariamente al suo collega Gosling, avulso da ogni pragmatismo, immerso nella follia di una condizione lavorativa miserrima, vissuta con lucidità ed apparente ottimismo. Il loro incontro/scontro fortuito li trascinerà in una corsa che riserverà una buona dose di dinamismo e originalità, intralciati nel loro cammino da un parterre figurativo dall’incisività ridotta, eccezion fatta per Angourie Rice, la giovane interprete che da il volto al comprimario maggiormente caratterizzante. Frenetico nelle adrenaliniche scene d’azione, sapientemente calibrato negli ingredienti registici, con un’attenzione particolare all’atmosfera ricreata ad hoc per immergerci con totalità nella Los Angeles dei settanta, il film si discosta notevolmente dalla mole materica di patinati ed insulsi tentativi puramente ricreativi sommergenti le sale nostrane in tali mesi dell’anno, contagiandoci in una risata collettiva difficilmente obliabile e mai urticante. Il reale moto innovativo della pellicola resta, difatti, l’ironia che serpeggia, latente o più spesso in superficie, e sovente si muta in cinismo, mai scaturente dal trucido, neppure una volta scatologico o fine a sé stesso. 

Lo humour Blackiano si discosta totalmente dal pacchiano, non è kitsch come le ambientazioni in cui viene perpetrato, si insinua nel sottopelle spettatoriale, lasciandosi dietro una piccola scia che comporterà, con ovvia necessità, un rilascio graduale ma inesorabilmente sfociante nel riso più godurioso. La sequenza ambientata all’interno dell’ascensore sarà valevole come dimostrazione dell’intento irrisorio perpetrato dal regista nei confronti di un genere risultante spesso stucchevole nel suo  volersi eccessivamente prendere sul serio, dimenticando la funzione di goliardia ed intrattenimento dello stesso: in un turbinio di acrobazie fuor di logica, giochi di visto-non-visto al limite del parodico, e sapiente misura di sguardi e gesti – il tutto condito da una colonna sonora non altisonante, utile a sottolineare i momenti  adrenalinici e mai realmente troppo invasiva, Black risolve in maniera lampante una sequenza che, in altre mani, avrebbe fruttato un risultato fuor di dubbio aberrante nella sua pochezza, ricorrendo ad inquadrature particolareggiate che pongono al centro dell’attenzione i due protagonisti, pur riuscendo nell’intento difficoltoso di non oscurare mai lo sfondo, luogo privilegiato per l’azione comica. 

Perché se nello sfondo, come la commedia classica e il genere parodistico ci insegnano, si viene a creare un mondo altro, più spinto nella propria irrisione rispetto al proscenio, in primo piano si muove la vicenda dei due semi-improvvisati investigatori, sorretta da un impianto solido, con il piede costantemente premuto sull’acceleratore del sarcasmo. Black decreta così la presenza di una piccola, spesso oscurata, anomalia nel campo hollywoodiano dell’action, e sviluppa uno stile così riconoscibile, in un genere pronto a fruttare, si spera, nuove sorprese.
Alessandro Sisti

martedì, maggio 24, 2016

NOVITA' HOMEVIDEO: STEVE JOBS

Steve Jobs
di Danny Boyle
con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen
Usa, 2015
genere, drammatico, biografico
durata, 133'



Quando, a margine della scorsa edizione della Festa di Roma, avevamo avuto l'opportunità di incontrare Alex Gibney ("Armstrong Lie", "Going Clear - Scientology e la prigione della fede") che del nuovo documentario è uno dei massimi esponenti, non c'era parso vero di approfondire con lui il rapporto tra cinema e realtà e di chiedergli, in particolare, un parere sul fatto che proprio il suo lavoro e quello della collega Laura Poitras ("Citizenfour"), grazie alla forza drammaturgica e alle innovazioni ontologiche presenti nei loro lungometraggi, avessero aperto in maniera ufficiale la crisi di un genere, il biopic, che, paradossalmente, proprio in quel momento circolava con massima diffusione e popolarità grazie a film come "La teoria del tutto" e "The Imitation Game" che, a nostro parere, denunciavano i propri limiti nella struttura stessa della loro messa in scena, accurata quanto si vuole ma proprio per questo incapace di centrare la personalità dei loro personaggi.

Al di là delle considerazioni emerse nel corso della chiaccherata, espresse con la cautela che di solito accompagna il giudizio sul lavoro altrui, appariva chiara la curiosità di Gibney nei confronti di "Steve Jobs", il nuovo film del regista di " Trainspotting" e di "The Millionaire" che, come il suo, avrebbe portato sullo schermo la vita e le opere di uno degli uomini più importanti del nostro secolo. Oggi, avendo usufruito della possibilità di valutare il film di Danny Boyle dopo aver apprezzato quello del regista americano, ancora inedito nelle nostre sale e significativamente intitolato "Steve Jobs: the Man in the Machine", siamo pronti a sostituire i diretti interessati nel tentare di rispondere alla questione a cui abbiamo appena accennato, e cioè di capire attraverso l'analisi del film di Boyle, se la forma del biopic , così come viene intesa nel mainstream contemporaneo, disponga ancora degli strumenti necessari a raccontare i talenti e le contraddizioni degli uomini che hanno fatto la storia.


La risposta (affermativa), ricavata dall'analisi di "Steve Jobs", non può prescindere dalla constatazione della qualità assoluta delle singole componenti, di molto superiore a quelle messe in campo in questo tipo di operazioni. A parte Boyle, qui si poteva contare sulla solidità degli interpreti chiamati a recitare le parti di primo piano, e in special misura, sull'apporto in sede di sceneggiatura di quell'Aaron Sorkin, titolare di alcune degli script più sorprendenti degli ultimi tempi. Non è dunque una coincidenza che anche in quest'occasione sia proprio la scrittura a fare la differenza in ragione di un copione che trasforma i dialoghi nello spazio in cui tutto si compie, e che affida alle parole il compito di restituire il mondo dei personaggi, di fatto - come già capitava in "Codice d'onore" e ne "L'arte di vincere" dove la guerra e ilbaseball rimangono sempre fuori campo - sottratto ai luoghi della loro normale rappresentazione. Come qui succede, nel momento in cui il curriculum vitae del protagonista s'inserisce all'interno di una cornice che, nei tre atti in cui il film si divide, riesce a isolare altrettante cesure esistenziali - ognuna delle quali scandite da una tappa fondamentale nell'ascesa professionale di Jobs - dove le cose (i computer dellaApple nelle loro diverse evoluzioni), i fatti e le persone appaiono, nella sostanziale mancanza di riferimenti con cui vengono introdotti allo spettatore, come il riflesso del conflitto interiore del protagonista, letteralmente scisso tra la visionarietà del genio e la miopia di un uomo isolato e irrisolto.

Boyle, da par suo, ha l'intelligenza di mettersi al servizio del testo, costruendo un impianto visivo che, alla maniera dell'Inarritu di "Birdman", astrae il personaggio dagli imperativi della propria immagine e dal contesto ambientale che l'ha formata per collocarlo in una zona neutra, fatta di non luoghi (le stanze, i corridoi e le hall degli alberghi in cui Jobs presenta alla comunità i suoi gioielli ) e di movimento ipercinetico - quello di Jobs che si sposta da un'habitat all'altro - che sembrano individuare i percorsi mentali del suo pensiero. Un sentore che diventa conferma con la scelta di mostrarci il protagonista nel backstage del cerimoniale e mai sul palco, a suggerire che quello che stiamo guardando è ciò che sta dietro al personaggio e dentro la sua mente. Così come di fornire a Michael Fassbender, ancora una volta (dopo "Macbeth") alle prese con un ruolo titanico e insieme teatrale ("sono come Giulio Cesare circondato dai nemici" farà dire al suo personaggio) ed a Kate Winslet, chiamata a impersonare il braccio destro del capo, Johanna Hoffman, gli strumenti per inserirsi nello spazio che separa il corpo divistico, proprio delle star mediatiche, da quello sociale, di cui invece si nutre il film di Gibney attraverso il materiale d'archivio che permette a Jobs di resuscitare dall'oblio. 


Detto che, in sede di assegnazione degli Oscar ognuno di questi meriterebbe di monopolizzare l'attenzione dei votanti, quello che a noi interessa è l'anomalia di un film che aderendo alle incertezze della materia narrata ha il coraggio di mettere in scena i propri limiti che sono quelli di un genere costretto a confrontarsi con gli abissi dello spirito. Sarà forse per questa ragione che tra le tante cine biografie le sole che ci rimangono in mente sono quelle che si perdono all'interno dei loro personaggi finendo per raccontarne l'inafferrabilità. Era capitato così con il Mark Zuckerberg di "The Social Network" (anch'esso scritto da Aaron Sorkin) capita così con lo Steve Jobs firmato da un Danny Boyle, il quale dopo un lungo periodo d'involuzione si attesta su livelli di eccellenza mai raggiunti prima d'ora, realizzando la sua opera più matura.
(pubblicato su ondacinema.it)

NELLA SOCIETA' DELLO SPETTACOLO: MONEY MONSTER


  


Si può ancora rimanere sorpresi dalla visione egocentrica con cui Hollywood si misura con i problemi della contemporaneità? Conoscendo la vocazione della parte in causa certamente no perché, oltre ai soldi, se c’è una cosa che sta a cuore alla mecca del cinema è proprio quella di concepire i film come un mezzo per alimentare il proprio mito, anche a costo di sacrificare la verosimiglianza e la plausibilità delle sue storie. Eppure il potere affabulatorio e la retorica dei buoni sentimenti che ne costituiscono l’architettura narrativa è talvolta così persuasiva da farci abbassare la guardia rispetto alla reale natura dei suoi prodotti che, in alcuni casi, appare sinceramente interessato al destino delle persone comuni e più in generale alle sorti dell’intera umanità. “Money Monster”, diretto da Jodie Foster e interpretato da due star planetarie come George Clooney e Julia Roberts costituisce il perfetto esempio di questa mimesi cinematografica. A fare la differenza in questo caso non è la corretta applicazione dei fondamenti del genere thriller che la Foster, memore dei trascorsi sul set de “Il silenzio degli innocenti”, dimostra di saper governare sia in termini di ritmo che di tensione. 

Perché il rapimento della star di uno show televisivo dedicato all’economia, tenuto in ostaggio all’interno dello studio di registrazione dall’uomo che lo ritiene responsabili delle sue disavventure finanziarie, si muove sullo sfondo del paesaggio che incorniciava le vicende di ”Margin Call” e de “La grande scommessa”, affrontando, uno dei temi più scottanti del nostro secolo. A differenza di altre volte però, ed è questo il nocciolo della questione , le disfunzioni del sistema e le sue ricadute all'interno della società  vengono raccontate per la prima volta dal punto di vista di chi e' escluso dalle stanze dei bottoni. E quindi non  solo di quella di Kyle, il giovane disperato che vuole denunciare pubblicamente e attraverso le telecamere del programma presentato da Lee Gates, che più o meno direttamente lo ha indotto a sbagliare consigliandogli di investire sul pacchetto azionario difettoso, ma anche degli spettatori, catapultati in veste di risparmiatori in un contesto che li riguarda da vicino. 

Nella volontà di dimostrarsi sincero il film si gioca le sue carte in termini di sceneggiatura attraverso il mea culpa di Gates, il cinico conduttore impersonato da Clooney che, prima per paura e poi per convinzione, decide di aiutare il suo persecutore nel tentativo di incastrare l'autore del misfatto; affidando a Clooney  e alla  sua immagine d’attore socialmente impegnato  il compito di farsi testimonial del messaggio promulgato dal film. La coerenza del percorso psicologico dei personaggi combinato al carisma di attori e regista fanno il resto per un quadro complessivo che funzionerebbe a meraviglia se non ci fosse da fare i conti con la decisione di inserire l’epilogo in cui ritroviamo i personaggi di Clooney e della Roberts ancora sottosopra per la tragica conclusione della vicenda ma comunque pronti a mettersi tutto alle spalle e a ricominciare a lavorare come se nulla fosse successo. Pur breve, la scena ha un peso decisivo nell’economia del film in virtù di un lieto fine che, rispondendo unicamente alle ragione del box-office, sconfessa in un sol colpo i sentimenti di solidarietà e di misericordia fin lì manifestati, facendo nascere il dubbio che le invettive anti-capitalistiche e l’antagonismo a tutto campo altro non erano che un motivo per fare spettacolo e per tacitare le ansie dello spettatore,  normalmente tranquillizzato dalla visione delle disgrazie altrui. A riguardo qualcuno potrebbe obbiettare che la scena in questione è troppo corta (non più di qualche minuto) per congelare la valenza delle immagini che l’hanno preceduta ma qui non si tratta di mettere in forse l’efficienza della macchina filmica quanto piuttosto di smascherare le ragioni di un’ urgenza più fittizia che reale, legata al contingente per l’opportunità offerte dalla popolarità dell’argomento. Il motto è sempre quello: The Show Must Go On. A Hollywood come nel resto del mondo.

lunedì, maggio 23, 2016

INVISIBILI: COP CAR

Cop Car
di Jon Watts.
con Kevin Bacon, James Freedson-Jackson, Hays Wellford, Shea Whigham.
USA 2015
thriller
durata, 88'

Se l'America è anche quel luogo (non solo geografico) dove magari non vorresti essere ma non riesci a smettere d'immaginare, ciò è dovuto, con buona approssimazione, al fatto che le numerose e spesso feroci antinomie che lo percorrono esercitano una seduzione non meno persuasiva delle sue altrettante e non meno feroci peculiarità. Invano, infatti, si cercherebbe altrove il medesimo coinvolgimento che scaturisce da una singolare commistione di naturalezza e impudenza, torpida passività e insospettabile determinazione, ingenuità e scaltrezza, amalgama che il corpo americano secerne e diffonde come il ritmo stesso del suo enorme respiro.

Stavolta l'attenzione è catturata dall'asincrono rifiato in sedicesimo emesso da Harrison/H.Wellford e Travis/J.Freedson-Jackson, ragazzini più o meno decenni, occhi e mimica di chi ha già visto e subìto troppo da non desiderar che andarsene, fosse pure a zonzo nel niente-sempre-all'erta delle idle lands di una piccola contea del nord-est del Texas - tra grano a perdita d'occhio ed ettari residuali lasciati a se stessi, con, in lontananza, morbidi rilievi a fungere da involontari punti di riferimento - intaccando il silenzio a colpi di turpiloquio alternato, almeno fino a quando, giunti ad argomentare attorno al fatidico "fuck", ecco che un moto di perplessità ("No. Questa è eccessiva") prelude al più strambo degl'imprevisti: l'avvistamento, al centro di una radura ai margini di un boschetto isolato, di quella che - almeno in apparenza - ha tutte le caratteristiche di un'auto della Polizia abbandonata. Sembra la cuccagna. Per un volta, il gioco e la possibilità dell'avventura hanno la meglio in un sol colpo sull'avvilimento precoce e sul grigiore. Pia illusione, in verità. Neanche a dirlo, l'incanto durerà poco perché, al solito, le apparenze ingannano...

Scritto assieme al fido C.Ford (con cui il nostro aveva già sceneggiato il proprio esordio ad alta tensione, "Clown", del 2014), "Cop car", di Jon Watts, ribadisce (intorno ad un intreccio che in parte strizza l'occhio alle atmosfere stranite e capricciose di Lansdale; per altro - sebbene in trasparenza - si affianca ai fasti archetipici dell'iniziazione alla vita a stelle e strisce che rimonta - con ben altra spensieratezza, a ben vedere - ai vagabondaggi picareschi di Twain, per disgregarsi, via via, di disillusione in disillusione - e per tornare al Cinema - nei modi e nelle forme delle quasi coetanee angustie viste di recente in lavori come "Mud" di Nichols o "Joe" di Gordon Green), un certo numero d'interessanti scremature: messinscena all'osso, in primis (spazi aperti muti quanto vigili; interstatali allusivamente sgombre; agglomerati umani devitalizzati come vesciche incongrue nella desolazione); fraseggio laconico e funzionale. E aspri e fulminei glissando ad interporsi a lentezze e momenti morti i quali, non fosse per un'impertinente brezza di mezza stagione, renderebbero del tutto irrecuperabile il gelo dell'unanime inerzia emotiva, persino nel cuore di una terra calda per antonomasia. Quadro che l'autore completa - recuperando in coerenza ciò che, per altri versi, smarrisce in originalità - con l'apporto d'interpretazioni intessute col filo d'un empatia tanto flebile quanto testarda nel ribadire la propria aderenza fisica al genere sapiens (si fa per dire), insieme vittima e complice di una sorta d'ineluttabile circolarità.

Travis ed Harrison, ad esempio ed in altre parole, per l'appunto tale resilienza oppongono alla perfida retorica dello Sceriffo Kretzer - crudele gaglioffo animato dalla consueta asciuttezza inquieta di Kevin Bacon - anche se, sottolinea Watts, siffatta strategia delinea solo e daccapo, con ogni probabilità, il percorso obbligato della strada di casa, ossia la certezza illusoria di simulacri sfiniti (famiglie distrutte o difettose), al cospetto della quale le tanto agognate vie di fuga svaniscono ancora, frustrate nella mediocre oscenità di un ininfluente salvare-il-salvabile. Non c'è più Twain, allora. Sparito pure l'indomito Thoreau. Da quel dì che 9 è tornato 6.
TFK

domenica, maggio 22, 2016

sabato, maggio 21, 2016

LA PAZZA GIOIA

La pazza gioia
di Paolo Virzì 
con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Camelutti
Italia, 2016
genere: commedia
durata: 118'


Beatrice Morandini Valdirana ha tutti i tratti della mitomane dalla loquela inarrestabile. Donatella Morelli è una giovane madre tatuata e psicologicamente fragile a cui è stato tolto il figlio, per darlo in adozione. Sono entrambe pazienti della Villa Biondi, un istituto terapeutico per donne oggetto di sentenza da parte di un tribunale e che devono sottostare a una terapia di recupero. È qui che si incontrano e fanno amicizia, nonostante l'estrema diversità dei loro caratteri. Un giorno, approfittando di una falla nell'organizzazione, decidono di prendersi una vacanza e di darsi alla pazza gioia.
Paolo Virzì, con la collaborazione di Francesca Archibugi alla scrittura, ha lasciato il freddo Nord de "Il capitale umano" per tornare nell'amata Toscana, che gli consente di fondere ironia, buonumore e dramma, muovendosi tra le diverse temperature emotive con una sensibilità che si è fatta, nei film del regista, sempre più acuta e partecipe delle sorti dei personaggi che porta sullo schermo. Al capitale di autore, Virzì, erede della commedia all'italiana anni '70, aggiunge la sua capacità di sguardo sul mondo femminile, inusuale in un cinema diretto da uomini. Qui ha scelto bene le sue interpreti: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti sono straordinarie, ognuna a suo modo, nello scavare in personaggi non facili da rendere tenendo la retorica a dovuta distanza. Nel film si avverte l'attenzione partecipata ad ogni singolo dettaglio, emerge chiaramente che anche l'ultima comparsa si è sentita parte di un progetto condiviso. Lo scopo è porre in evidenza le difficili condizioni esistenziali di donne condannate a subire le conseguenze di una vita in cui hanno sbagliato e che, nell'affrontarle, possono contare sull'aiuto di terapeuti ed assistenti sociali, che ogni giorno stanno loro accanto e combattono contro le loro patologie, ma anche con inutili sensi di colpa. Paolo Virzì è riuscito a dire tutto questo e molto altro con l'abilità propria dei veri maestri, riuscendo a inserire un tema importante e impegnativo in un contesto divertente.

Riccardo Supino

giovedì, maggio 19, 2016

X-MEN: APOCALISSE

X-Men: Apocalisse
di Bryan Singer
con Jennifer Lawrence, James McAvoy e Michael Fassbender
USA, 2016
genere, fantasy, avventura
durata, 143'


Se uno si limitasse a leggere la sceneggiatura dell’ultimo episodio della saga degli X-Men senza avere la possibilità di vederlo vivere sullo schermo, ci sarebbe il rischio di fare confusione e ancor peggio di non capirci nulla. Perché a fronte di una trama che ricalca con poche varianti lo schema principe dalla serie e cioè la difesa dell’umanità  da parte del professor Xavier e dei suoi studenti impegnati a combattere contro i mutanti malvagi intenzionati a distruggerla, “X-Men: Apocalisse” compie l’ennesimo salto temporale collocandosi in un’epoca – l’inizio degli anni ottanta, cronologicamente discontinua rispetto a quella del film precedente, ambientata in un futuro distopico che a sua volta metteva in naftalina gli anni sessanta utilizzati da “X – Men: l’inizio” per l’ennesima rivisitazione delle origini del super gruppo. In più, lo sfortunato lettore si troverebbe a doversi raccapezzare con un restyling che all’insegna della novità a tutti costi mette insieme una squadra nuova di zecca in cui, accanto alle vecchie glorie a farsi largo sono le versioni ringiovanite e corrette di alcuni degli X-Men più conosciuti come Ciclope, Marvel Girl e Tempesta.

In realtà, come sanno bene gli appassionati della Marvel, una delle specialità della casa è proprio quella di non far pesare in termini di comprensibilità le varie licenze poetiche messe insieme dagli sceneggiatori di turno. Così, poco importa l’eterna giovinezza di taluni personaggi (Magneto, per esempio, sopravvissuto ai campi di sterminio e arrivato ai nostri giorni con il volto e il fisico di uno splendido quarantenne), l’instabilità fisiognomica di altri, soggetti al continuo cambio degli attori chiamati a interpretarli, così come l’incongruenza di un cattivo (Apocalisse) costretto a una precarietà che la sua natura divina non dovrebbe contemplare, soprattutto se a provocarla sono eroi comunque mortali. A contare è infatti la capacità di reinventarsi che trova negli elementi mitopoietici della narrazione una qualità che altrove -  vedi gli Avengers – è sostituita da quella serialità di cui invece i mutanti fanno a meno. Synger oltre al mestiere ci mette qualcosa della sua fantasia: guardate la sequenza in cui il regista sulle note della Sweet Dreams cantata dagli Eurythmics organizza un salvataggio a passo zero in cui  Quicksilver mette in salvo il resto della compagnia. Peccato che di scene così c’è ne siano poche perché se così fosse  “X-Men: Apocalisse” sarebbe davvero un capolavoro.

mercoledì, maggio 18, 2016

AL DI LA' DELLE MONTAGNE

Al di là delle montagne
di Jia Zhangke
con Zhao Tao, Yi Zhang, Jing Dong Liang, Zijian Dong
Cina, Giappone, Francia, 
durata, 131'



Al cospetto di un autore tanto importante qual è Jia Zhangke accade di sentirsi spiazzati quando, nella ricerca delle parole più adatte a definire il suo ultimo lavoro, ci si ritrova a pensare che "Al di là delle montagne" sia in parte il risultato di logiche appartenenti al tanto vituperato cinema di genere. Ciononostante nel prendere atto della continuità di interessi e di temi proposti dal regista, come sempre incentrati sulle conseguenze prodotte dalla rivoluzione industriale e dai cambiamenti imposti da sistema di produzione sulle vite dei suoi concittadini, non si può fare a meno di considerarne la valenza attraverso le categorie e gli stilemi che sono tipici del melodramma, filone cinematografico di cui il film è debitore.  Così, se gli smacchi esistenziali derivati dalle differenze di classe e dalla posizione ricoperta dal singolo all’interno della macchina capitalista erano state - in “The Touch of Sin” -  il viatico per esplosioni di violenza omicida, nella storia in questione le ferite, altrettanto letali, vengono inferte soprattutto a livello psicologico dalle scelte di vita intraprese da uomini e donne costrette a fare i conti con gli orizzonti geografici ed esistenziali della Cina contemporanea. In questo senso risulta indicativo il titolo della canzone ballata dal gruppo di giovani nella scena che apre il film, perché l’incitamento ad andare verso ovest scandito da “Go West” dei Pet Shop Boys si traduce da un lato nello sradicamento della famiglia di Tao, la protagonista femminile, sposata ad uno spregiudicato uomo d’affari che dopo averla lasciata per un’altra donna la costringe ad accettare che il figlio parta per l’Australia dove il ragazzo deve ricevere l’istruzione necessaria a farne un perfetto cittadino del mondo globalizzato; dall’altro, nella perdita d’identità di una nazione costretta a guardare altrove e per esempio al continente oceanico (dove la storia si sposterà nell’ultima delle tre sezioni in cui è diviso il film) per comprendere fino in fondo le disfunzioni causate dal leviatano governativo. Da qui le ragioni di un malessere che “Al di là delle montagne” declina attraverso il senso di perdita che in maniera differente ma con le medesime conseguenze affligge i personaggi, costretti, nessuno escluso, a rinunciare alla vicinanza della persona amata. Ciò che colpisce di più nel film del regista cinese è la capacità di far coincidere ricerca estetica e semplicità di comunicazione. Poesia ed emozione regnano sovrane in uno dei capolavori della stagione cinematografica.

martedì, maggio 17, 2016

SU MARTE NON C'E' IL MARE

Su Marte non c'è il mare
di Lucio Laugelli
con Michele Puleio, Maurizio Pellegrino, Christian Bellomo
Italia, 2016
genere, drammatico
durata: 4 puntate da 15' 

Cosa può sconvolgere la vita regolare di un trentenne, circondato da amici fidati, sofferente per una storia d’amore finita male e un lavoro insoddisfacente? Una misteriosa offerta per un immobile lasciato in eredità per una sola serata alla settimana da un perfetto sconosciuto. 
Da questo imprevisto si dipana la vicenda di “Su Marte non c’è il mare?”, l’ultima produzione di Stan Wood Studio, ideata e creata del videomaker alessandrino Lucio Laugelli. La web-serie di 4 puntate vede come attori protagonisti Michele Puleio, Maurizio Pellegrino e Christian Bellomo, tutti alessandrini, a sottolineare la dimensione locale della pellicola. Insieme a loro, infatti, svolge un ruolo di primaria importanza la città, che funge non da sfondo passivo rispetto alla storia, bensì da fonte di ispirazione continua all’interno dell’opera.

Il progetto è nato nell’estate del 2014, quando il regista ha scritto il soggetto. Da questo momento è trascorso un lungo lasso di tempo, utile a rielaborare la sceneggiatura è reperire i fondi necessari, arrivati grazie alla Fondazione CRAL. La produzione ha preso l'avvio verso la metà dello scorso giugno. La gestione del set, che ha visto la troupe impegnata fino a ottobre, è stata abbastanza complicata, in considerazione del gran numero di persone coinvolte: 200 comparse, dalle 30 alle 40 persone attive dietro le quinte, tante ambientazioni diverse tra Alessandria e la provincia di Asti. Nonostante questo, le riprese sono terminate in una decina di giorni, dal 28 ottobre al 6 novembre. Il montaggio è iniziato alla fine di novembre, concludendosi negli ultimi giorni di marzo.
L’idea di  raccontare la storia di una piccola provincia e di alcuni giovani che stanno vivendo gli anni successivi alla laurea avrebbe potuto tradursi in un fallimento, non disponendo dei mezzi dei grandi registi, ma Laugelli ha compiuto almeno due scelte vincenti: il genere e il formato. L'affascinante thriller che sta sullo sfondo di tutta la storia tiene altissima l'attenzione degli spettatori e a questo contribuisce anche l'idea di raccontare la vicenda tramite una web-serie, che, se ben costruita, come in questo caso, porta lo spettatore ad attendere le puntate successive, preso dalla curiosità.
Per sapere come andrà a finire basterà connettersi domani sul sito del quotidiano La stampa per vedere l'ultima puntata delle serie.
Riccardo Supino

WHERE TO INVADE NEXT

Where to invade next
di Michael Moore.
USA 2015
genere, documentario
durata, 120'



Essendo, oggi in particolare, discernere pietanza grama da preparare (nonché da assimilare, a volte), intruppati come siamo in tempi sempre più avvezzi a privilegiare istanze sedicenti salutiste sotto forma di piatti a base di accessibilità e divulgazione - e tralasciando le sempre presenti e inflessibili regole fissate dalla dieta dello spettacolo - non è inusuale imbattersi in menu confezionati all'insegna della sapida leggerezza, della speziata essenzialità che invece, dopo qualche assaggio, si rivelano dispensatori di sapori poco gradevoli, oltreché fin troppo noti al palato. Tra i casi tipici di questa sorta di equivoco nutrizionale, è possibile annoverare l'ultima creazione dello chef M.Moore, alle prese stavolta con una ricognizione - Francia, Italia, Tunisia, Germania, Portogallo, Scandinavia, alcuni dei luoghi sotto osservazione - intrapresa allo scopo di analizzare-per-comparare particolari caratteristiche dei vari modi d'intendere ciò che resta (e già questo Moore pare ignorarlo) del cosiddetto stato sociale con la corrispondente declinazione vigente all'interno del sistema USA. Dalla mensa di una scuola elementare normanna, a quella rigorosamente a trazione mediterranea della Ducati; da un impeccabile liceo finlandese, alla Faber-Castell di Norimberga dove si lavora trenta ore la settimana ma si viene retribuiti per quaranta; dalla depenalizzazione totale delle droghe operata in Portogallo, passando per l'avanguardistica reclusione-a-misura-d'uomo nel modello norvegese e le innovative cliniche della fertilità tunisine, per arrivare al redde rationem islandese col proprio sistema bancario, Moore propone, dietro la consueta andatura da voluminoso americano in gita e l'aria in bilico tra il turista ammirato e l'esponente all'erta del fu ceto-medio-riflessivo, un campionario di esperimenti sociali riusciti (o in costante perfezionamento), pavlovianamente, verrebbe da dire, accostati allo sfascio senza appello della prassi a stelle e strisce "che pur parte di quelle idee aveva ispirato".


Ciò che ne scaturisce è un ritratto del regime di vita moderno tutto in orizzontale, in cui al fatale appiattimento di distanza e  prospettiva non può che corrispondere un resoconto parziale e, a tratti, distorcente delle cose. Nel senso: se, ed è ovvio, nulla pone in discussione la verosimiglianza delle testimonianze raccolte, è pur vero che una contestualizzazione di fondo schematica e frammentaria (che risulta, tra l'altro, andare persino stretta a taluni casi specifici presi in oggetto, nonché sovente incline ad un elementare intento moralistico-pedagogico - seppur qua e là divertito - circa sorti e progressive caparbie e in azione nonostante tutto), rischia spesso di non far oltrepassare al materiale mostrato i confini sicuri di un consolatorio senso/luogo comune in base al quale, per dire, tutti o quasi, al di qua dell'Oceano, sembrano lavorare, mangiare, sorridere, insomma godersi la vita, mentre la contrapposizione, il conflitto - sale teorico di ogni frammento della realtà sul serio significativo e, maggior ragione, di lavori siffatti - viene perlopiù lasciato ad una sorta di vaga inesorabilità planetaria che trova sulle spalle dei responsabili da-prima-pagina magari comoda ma ridotta superficie d'appoggio, in un gioco di specchi reiterato e senza variazioni che alla lunga stimola più l'acquiescenza che l'indignazione. Se a ciò si aggiunge l'impianto dichiaratamente edificante della messinscena, con tanto di mdp che si sofferma e isola, ad esergo di ogni frammento, in primi piani icastici i volti delle donne e degli uomini, artefici normali di un'eccezionalità negletta, ecco che diventa ancora più evidente il processo di consunzione di un itinerario critico passato dalla desolazione industriale di Flint, Michigan (città natale dell'autore, documentata in "Roger and me" - al tempo con affettuosa ironia e occhio polemico - come teatro e laboratorio di tante crisi a venire e palestra di un linguaggio che, tra alti e bassi, avrebbe trovato nella commistione di provocazione allegra e sintesi - anche di parte - delle contraddizioni contemporanee, la sua cifra espressiva di riferimento), dalle derive  psicologiche dei liceali della Columbine, dalla protervia e dallo smarrimento di una nazione intera prima e dopo il settembre fatale (opere, anche queste, tutto sommato non esenti da un certo didascalismo e parimenti segnate dalla presenza a volte eccessiva del loro autore), al ricorso via via sistematico a più che comuni strumenti affabulatori e contropropagandistici, fino alla resa apparente al folklore e ai proclama che, ad esempio, nella forma minima di lepidezze tipo "gli italiani hanno sempre l'aria di aver appena fatto sesso", sembra fare il paio, in veste di beffardo contrappasso e a mo' di polpetta avvelenata, con l'altrettanto pietosa "mission accomplished" del sempre detestato G.W.Bush.
TFK