Presentato in anteprima nel concorso ufficiale dell’ultima edizione del Festival del cinema di Berlino, Gloria! segna l’esordio alla regia di Margherita Vicario con un film in costume capace di dialogare con il pubblico e con il nostro tempo. Di “Gloria!” abbiamo parlato con la regista.
Prodotto da Tempesta, Rai
Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura con il sostegno di
Federal Office of Culture, Ticino Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film
Commission, “Gloria!” di Margherita Vicario è nelle sale italiane dall’11
Aprile 2024.
Detto che “Gloria!” parla
di musica e che di essa si serve per raccontare il mondo in cui si svolge la
storia, volevo soffermarmi sulle sequenze iniziali perché lì il film costruisce
una sorta di genealogia musicale in cui è possibile ricostruire le fasi in cui
il caos sonoro diventa spartito musicale. Dal canto degli uccellini al battito
di mani dei bambini, dalla frenesia delle lavandaie al coro delle orfane
dell’istituto religioso, le immagini testimoniano la progressiva trasformazione
del rumore in suono fino al ballo che conclude l’introduzione, apoteosi pronta
a celebrare la nascita della musica.
Sicuramente è così, nel
senso che volevo aprire il film con i suoni dell’ambiente, con i bambini che
giocano, gli uccellini che cantano, le ragazze impegnate nelle faccende
quotidiane. Nel piccolo prologo che precede la sequenza iniziale ci sono molti
elementi umani caratterizzati da una componente irrazionale come lo è il vagito
della bambina interpretata da mia nipote che all’epoca aveva un anno e mezzo.
Come hai detto, da lì in poi, a cominciare da quell’insieme di suoni presenti
nell’aia, la musica prende piede grazie all’immaginazione di Teresa che la fa
diventare una vera e propria sinfonia.
La sequenza che apre il
film ci dice anche un’altra cosa e cioè che la musica unisce anziché dividere.
L’armonia che lega le ballerine e le persone presenti in scena rilancia questa
propensione, ricordandoci che il risultato finale è frutto di una condivisione
di intenti, di uno sforzo collettivo. Come in effetti succede nell’atto
conclusivo della storia.
Sono d’accordo perché la
musica è conseguenza della giustapposizione di diversi elementi. Nel film c’è
una componente autobiografica perché, come Teresa, io sono un autodidatta e
dunque non so leggere la musica. Come lei anche io nel momento in cui ho messo
le mani sul pianoforte ho avuto il desiderio di sentire suonare le note che
avevo in testa da un’orchestra. E questo, come dici tu, si può fare solo
producendosi in una performance di più elementi, dunque con una propensione
collettiva dell’arte.
A sottolineare come
l’istituto religioso in cui vivono le ragazze sia un mondo chiuso e isolato,
spazio del limite e della costrizione, ci pensa il movimento iniziale,
dall’esterno verso l’interno, con la lunga carrellata laterale che, nella sua
durata, sembra voler dare conto, in senso fisico, dell’isolamento delle
protagoniste. Al contrario del finale, quando l’apertura verso l’esterno,
testimoniata dallo scenario bucolico in cui ritroviamo le ragazze, diventa il
segno di una libertà che è anche creativa oltre che esistenziale.
Sì, questo doppio
movimento faceva parte dell’evoluzione del film e in particolare di quella di
Teresa e di Perlina, il suo antagonista. Tutto parte dal mondo interiore della
ragazza che un poco alla volta si manifesta diventando materiale. Teresa mantiene
intatta la dimensione creativa dandogli seguito in maniera concreta, anche se,
pensandoci bene, la musica è la cosa più immateriale che esista. Però, pur non
vedendosi è in grado di fare grandi cose.
Nella sequenza iniziale
la ripresa a piombo sulle ragazze danzanti traduce l’armonia generale in una
condivisione di spazio. Da lì in poi è come se tutto il film spingesse per
trasformare quell’immagine ideale in un fatto concreto, eliminando un poco alla
volta la separazione esistente anche all’interno dell’istituto tra i diversi
occupanti, e, per esempio, tra Teresa e le altre ragazze; come poi accade nella
sequenza del concerto finale in cui anche i bambini, e persino gli inservienti,
sono chiamati con la presenza in chiesa a testimoniare la caduta delle barriere
sociali.
Assolutamente. La scena
finale ci dice che anche chi non è musicista, attraverso la musica, riesce a
godere della libertà che le ragazze si conquistano attraverso il loro concerto.
Poi, come succede nella vita, anche nel film vediamo che non tutti capiscono
cosa sta succedendo. Tra le persone presenti nella chiesa c’è anche chi non si
lascia andare, rimanendo estraneo al grido di libertà che emerge
dall’eccezionalità dell’avvenimento. “Gloria!” è un film molto istintivo e la
sequenza conclusiva ne è una sorta di manifesto.
Prendo spunto da Martin
Scorsese quando parlava del regista intrattenitore, capace di convogliare nei
generi i codici del racconto. Così fai tu in Gloria! trasfigurando la figura
della donna contemporanea all’interno di una favola che riprende Cenerentola ma
senza principe azzurro poiché oggi le ragazze si salvano da sole.
Nello scrivere il film
con Anita Rivaroli è stata una scelta deliberata quella di rifarsi a dei topoi.
Io sono una grande amante dei film musicali, e ancora di più dei musical veri e
propri che si basano più sul come che sul cosa. Una parte di me aspirava a
realizzare un film pop, quindi con una struttura intuibile in cui ci fosse un
cattivo tout court e un gruppo di ragazze come succede nei teen movie. L’idea
era quella di renderlo volutamente archetipico per poi delegare alla parte
musicale la componente più fantastica e irrazionale.
In realtà “Gloria!” va
oltre il dibattito contemporaneo sul conflitto uomo-donna; basti pensare che
uno dei personaggi più crudeli è la governate delle ragazze e che gli uomini
sono presenti anche in senso positivo. In realtà il film parla della lotta
contro il potere che allora, come oggi, era soprattutto maschile.
Il film ha diverse
sfumature. C’è chi può coglierne l’aspetto femminista, che qui è molto dolce e
non rabbioso, oppure il tema dell’amicizia e ancora il ruolo della musica. Per
altri può essere un film su un’ossessione. Poi è ovvio che, essendo una fiaba,
ci sia bisogno di un cattivo di cui ho scritto sulla base di una lunga ricerca
filologica che non si riduce al concetto di patriarcato, ma che scaturisce da
come all’epoca della storia fosse vietato alle donne di esibirsi fuori dalla
chiesa. Visto con gli occhi di oggi mi sembra una cosa molto violenta mentre
magari in quei tempi lo era meno.
Paolo Rossi nel ruolo di
Perlina, il cattivo del film, si produce in una inedita performance tragica,
capace di cogliere il tratto dominante del suo personaggio, quello di essere
anche lui vittima degli eventi, travolto com’è da responsabilità che neanche
vorrebbe e tutto sommato capace anche di empatia, come succede nei confronti
del ragazzo interpretato da Vincenzo Crea.
Credo che Paolo Rossi al
cinema non abbia mai fatto un personaggio del genere e lui si è calato nella
parte in maniera eccezionale. Sono d’accordo sul fatto che sia anch’egli una
vittima; soprattutto della frustrazione creativa che lo fa essere sprezzante e
invidioso del talento delle ragazze. Mentre loro sono giovani e vitali lui è
arrivato a un punto morto. Il suo atteggiamento è anche il frutto di una dose
di misoginia presente nel clero di quei tempi. Con Cristiano ha una relazione
tossica alimentata dal senso di colpa che nutre nei suoi confronti perché, in
qualche modo, ha contribuito alla sua condizione di eunuco in un’epoca in cui
le donne iniziavano a soppiantare i castrati come voci soliste.
Considerando il contesto
religioso ho trovato molto azzeccato il fatto di ambientare la rivelazione del
talento di Teresa nel seminterrato dell’edificio, e cioè all’interno di un
luogo sporco e dimenticato. Come Gesù salvatore del mondo nasce in una stalla
così la musica di Teresa, chiamata a liberare le ragazze, si manifesta nel
luogo più umile possibile.
Il magazzino ha anche
un’altra valenza, quella di rappresentare tutto quello che appartiene al mondo
notturno, quindi anche a quello dei sogni e dell’irrazionale in cui il nostro
cervello continua a lavorare anche mentre dormiamo. Una dimensione, quella notturna,
che, dal punto di vista iconografico, mi ricordava le riunioni carbonare e
rivoluzionarie, con in più una componente di libertà capace di esaltare le
qualità creative.
La messinscena sintetizza
due spinte ben precise. Da una parte la plasticità del riferimento pittorico,
dall’altra un realismo che emerge dalla presenza di dettagli che fanno la
differenza, come, per esempio, il dettaglio sul pianoforte attraversato dalle
mani di Teresa le cui unghie, come vuole il suo lavoro di inserviente, non sono
perfettamente pulite, e ancora, i primi piani che non nascondono i brufolini
sotto pelle, tipiche delle adolescenti.
Con il direttore della
fotografia Gianluca Palma e con gli altri comparti del film condividevamo
l’idea di creare un microcosmo del tutto inventato senza che questo togliesse
forza alla componente realistica. Se l’istituto Sant’Ignazio è ispirato a congregazioni
realmente esistite, noi lo abbiamo fatto a nostro piacimento ma comunque
rispondente il più possibile al vero. Anche per quanto riguarda i costumi non
volevo che la luce vi rimbalzasse sopra, ma che li attraversasse. Volevo creare
un lungometraggio capace di portare lo spettatore all’interno della fiaba
facendogli dimenticare che sta vedendo una storia in costume. Le unghie sporche
e i volti senza trucco facevano parte di quel realismo che doveva entrare in
collisione con la parte più favolistica alimentata dalla presenza della musica.
Le basi pittoriche, invece, erano quasi ovvie da interpellare perché chiunque
pensa al Settecento ha in mente certi quadri.
Molte scene sono girate a
lume di candela in una maniera che a me ha ricordato Barry Lindon.
Il direttore della
fotografia si è fatto costruire candele con il doppio stoppino in modo che la
fiamma venisse molto più alta per poter assomigliare ai dipinti fiamminghi.
Ispirate dai venti della
rivoluzione francese le protagoniste si danno da fare per organizzarne una
all’interno dell’Istituto. Gloria! la mette in scena sia dal punto di vista
visivo che musicale, mescolando suoni e musicalità di diverse epoche per terminare
nella sequenza del concerto con una sorta di gospel; e ancora con un montaggio
frammentato volto a interrompere la continuità del flusso delle immagini. Come
una rivoluzione “Gloria!” prova a rompere le regole formali.
Sì, alla fine c’è una
specie di coro pagano. Comunque hai ragione sul fatto che le scelte musicali
non sono lineari. Credo che la forma sia sostanza e questo ha influito sulla
forma del film. Mi accade anche quando scrivo le mie canzoni. Se la storia doveva
parlare di una rivoluzione e dunque di una ribellione, montaggio e musiche
dovevano avere una natura istintiva, a volte anche sgangherata, ma comunque
necessaria a raccontare lo stato d’animo che ispira le azioni delle ragazze.
Come sappiamo, la rivoluzione non ha mantenuto ciò che aveva promesso per cui
le ultime sequenze superano i fatti della storia per sconfinare nella favola.
Anche perché poi questi afflati di cambiamento e di rivoluzione sono abbastanza
naufragati.
A parte Paolo Rossi di
cui abbiamo già detto, una delle qualità del film è la proposta di una serie di
giovani attrici che portano nel film bravura e freschezza. Penso in primis a
Galatea Belluggi, a Carlotta Gamba, ma anche alle loro colleghe.
Il casting è stato lungo,
ma importante perché mi ha fatto toccare con mano come gli attori siano gli
unici da cui dipende la verità delle emozioni presenti nel film. Come regista
devi solo fare in modo di metterli nelle migliori condizioni per esprimersi,
poi ti siedi davanti al monitor e tifi per loro. Così è successo nell’assolo di
Carlotta nella sequenza dove a un certo punto la vediamo piangere in primo
piano. Abbiamo parlato a lungo prima di girare, ma poi il risultato è dipeso
solo da lei. Galatèa Bellugi, Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dall’asta, e
Veronica Lucchesi che peraltro è una cantautrice pazzesca, hanno condiviso e
amato il progetto da subito, capendo che, se avessero fatto squadra e diventate
amiche, avrebbero contribuito alla riuscita del film considerando che nella
finzione loro sono sorelle.
Parliamo del tuo cinema
di riferimento.
Cinematograficamente sono
cresciuta con dei punti fermi come “Jesus Christ super Star” e “The Commitments”
di Alan Parker. “La guerra è dichiarata” di Valerie Donzelli del 2011 è un film
meraviglioso che mi ha colpito anche per lo straordinario uso della musica.
Ammiro e amo i film di Alice Rohrwacher, anch’essa prodotta da Tempesta. Lei
riesce sempre a creare dei mondi in cui è preponderante il lato poetico, un
fattore che per me è decisivo. Mi piace il cinema di Nadine Labaki e quello di
Valeria Bruni Tedeschi e, più in generale, lo sguardo delle nuove registe.
Carlo Cerofolini
(articolo pubblicato su taxidrivers.it)
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