Il parco americano
è un vuoto circoscritto
riempito d’imbecilli
in catalessi
- H.Miller -
Questo è il mio albero preferito perché, anche se è caduto, continua a crescere, dice la piccola Moonee all’amichetta Jancey, entrambe cavalcioni di un enorme salice reclino, tra un assaggio e l’altro di marmellata rimediata alla distribuzione periodica dell’assistenza sociale, sotto il blu imperterrito di un cielo che assicura la simulazione d’un’estate infinita. E pare il degno compimento, da un lato, d’una precoce nostalgia residuale per le cose che non si ha tempo di comprendere appieno e presto sfuggono in una gelatinosa vaghezza; dall’altro, della dolciastra quanto tossica tirannia d’un perimetro esistenziale silenziosamente ma implacabilmente approssimato alle coordinate d’un sogno non tanto e non solo falso e stupido ma sempre - e con chiunque - esigente e crudele.
Tra i colori vistosi di una terra - la Florida centrale - che pare uscita dai ritocchi zelanti di un esercito d’invisibili imbianchini e i percorsi obbligati d’individui che hanno barattato chissà con quanto costrutto la libertà (qualunque cosa si voglia oggi intendere con questo termine) con un guazzabuglio di giorni dalla monotonia randagia, l’occhio di un film come “The Florida project” isola/fotografa a modo suo - un po’ indagine antropologica, un po’ concentrato di drammaturgia minimale - lo stato d’avanzamento del Sogno Americano, di per sé già promessa/minaccia indigesta, in via ulteriore virata nei decenni verso forme che ne hanno ratificato tanto la compiuta colonizzazione di un immaginario (non solo quello del Grande Paese), quanto la sua torsione in un ibrido in grado di sovrapporsi alla realtà spicciola al punto da rendere sempre più complicato (e inquietante) discernere il discrimine in cui la prima s’acconcia sulla fisionomia del secondo o questo si propone, allo scopo di persuaderne i destinatari, come versione migliorata, più desiderabile di quella e perciò stesso destinato a sostituirla. Già uno come Disney, nei dintorni del cui omonimo mondo alternativo (Disney World) l’opera di Baker si dipana, per tempo aveva vagheggiato il proposito di mettere mano alle radici del sogno svellendole dal loro terreno mitico per ridisegnarne gli ambiti in una prospettiva ludico-futuristica tale da coinvolgere il paesaggio materiale oltre a quello mentale di milioni di persone, arrivando infine a calare il jolly della sempre verde utopia della comunità ideale, ossia il progetto di edificazione di una cittadina nuova di zecca, battezzata poi alla nascita, nel ’96, col nome di Celebration (associazione non a caso evocata nel film sui titoli di testa per il tramite dell’omonimo brano di Kool & The Gang del 1980), concretizzazione e paradosso d’ogni cortocircuito tra vero e falso, immanenza e finzione, in una sorta d’apoteosi dell’omologazione integrale, tra manierismi iper-stilizzati, stravaganze stucchevoli e illusionismi ambigui ma pressoché impercettibili: L’ingresso alla cittadina sembra preso da un film Disney, con palizzate, lampioni stradali in ferro battuto, giardini lussureggianti e un’antica cisterna di legno sopraelevata, tutte cose che servono ad attrarre la gente presentando una visione di tempi in cui tutto era più semplice… Nella brochure pubblicitaria della cittadina si legge infatti: ‘C’era una volta un luogo nel quale i vicini salutavano i vicini nella quieta luce del tramonto. Dove i bambini inseguivano le lucciole. E le sedie a dondolo nelle verande fornivano un rifugio sicuro dai problemi della giornata… Un luogo di mele caramellate e zucchero filato, di fortini segreti e di gioco della campana giocato per strada. Quel luogo è di nuovo qui, in una nuova cittadina chiamata Celebration’… Ma tutta la patetica lotta per dotare di una tradizione la cittadina non ha rivelato che un vuoto al suo centro… Che significato possono avere, in effetti, parole come ‘buona fede’, ‘autenticità’, in una città la cui storia è retroattiva, la cui tradizione è quella dell’azienda d’intrattenimento che l’ha fondata…, i cui creatori dicono ‘stile di vita’ invece di ‘vita’ e inseriscono l’espressione ‘un senso di’ prima di ogni principio fondamentale ? (R.Rhymer, Back to the future: Disney reinvents the company town of Celebration).
Del resto, si diceva, l’intenzione disneyana di uscire dall’alveo del fantastico propriamente detto per travasarne la logica mimetico-trasformatrice nella concretezza del quotidiano, s’affaccia relativamente presto, come opzione, germinando la prima volta intorno alla metà degli anni Cinquanta (Disneyland) facendosi, via via, ipotesi matura dopo l’acquisizione - in pieni Sessanta - di vasti lotti (anche paludosi) in Florida, e fantasia realizzata al momento dell’inaugurazione di Disney World nell’ottobre del ’71. Ciò che è interessante notare a questo riguardo in relazione al lavoro di Baker - in un contundente sdoppiamento tra simulazione/finzione cinematografica e simulazione/finzione della realtà - è la peculiarità della genesi di un punto di vista sul mondo da parte di tre cuccioli d’uomo (della combriccola fa parte anche Scooty, compagno di gioco abituale di Moonee e più o meno suo coetaneo: parliamo, in generale, di protagonisti di 6/7 anni) il cui ambiente naturale è stato concepito a immagine e somiglianza di un’estensione degradata delle linee guida architettoniche ed estetiche della suddetta Celebration. Propriamente, quello che là è lustro e allineato secondo la geometria essenziale e asettica di ville con giardino e vialetto (A Disney World - ma il principio è applicabile anche a Celebration, ndr - squadre di addetti spazzano, raccolgono ed eliminano i rifiuti grazie a un sofisticato sistema di condotte sotterranee in cui il pattume viene scaricato e fatto scorrere a quasi cento chilometri l’ora fino a una centrale di smaltimento collocata lontano dalla vista dei visitatori. La spazzatura sembra sparita per magia: Disney World è surrealmente lindo… - G.Ritzer, Enchanted and disenchanted world: revolutionizing the means of consuption -), qui diventa l’alternanza caotica di edifici dai colori improbabili (nel caso, un baldanzoso malva ribattezzato Magic Castle Inn) a metà fra il motel e il comprensorio completo di ballatoi, enormi chioschi a forma d’arancia e spianate d’asfalto adibite a parcheggio. Il tutto collegato, a margine di autostrade perennemente battute, da viottoli dai nomi evocativi, tipo Seven Dwarfs ln, che finiscono su strutture per l’accoglienza turistica, piccoli mall, brandelli di natura sfuggita (o non appetibile) all’urbanizzazione. Moonee, Scooty e Jancey, cioè, si muovono, e da sempre, all’interno di un microcosmo gli assi portanti del quale non sono che il prodotto di scarto - o, volendo, la simulazione difettosa - di un esperimento sociale fallito oltreché fasullo (gran parte degli agglomerati dei dintorni sono ridotti a vestigia abbandonate e in rovina; la fantasmagoria cromatica in cui sono immersi non produce significativi cambiamenti d’umore e d’atteggiamento nei residenti): un’aberrazione che del sogno finisce ancora una volta per replicare la parte più avvilente e predatrice, quella che vuole e, di fatto, s’adopera affinché il sottoproletariato ignorante e indifeso rimanga schiavo e complice delle proprie debolezze (nonché categoria di persone giocoforza più esposta alle sirene d’una vita migliore spacciata senza tregua come a-portata-di-mano), vittima ignara, quantunque non del tutto innocente, di meccanismi che a parole ne sostengono l’affrancamento e l’inclusione e nella prassi ne vellicano i vizi, ne blandiscono le illusioni e le ingenuità per meglio controllarlo come, alla bisogna, usarlo a mo’ di capro espiatorio d’ogni manchevolezza, d’ogni insuccesso.
Non stupisce, allora, che la routine di Moonee, Scooty e Jancey - di tanto in tanto tenuti a bada dalla burbera bonarietà di Bobby/W.Dafoe, responsabile del complesso - si riduca alla sterile addizione di giornate brade e ciclotimiche, febbrili ma passive (i bambini sono di norma beffardi e/o insolenti, pronti a mentire e a frignare se non ottengono subito quello che vogliono. Liberi dall’obbligo scolastico, trascorrono gran parte del tempo soli, impegnati in giochi senza controllo - arrivano ad appiccare un incendio in una delle tante case fatiscenti del circondario - ruzzano indisturbati in giro, mangiano quello che capita - Vorrei le forchette di zucchero. Così, dopo pranzo, mangerei anche quelle, dice Moonee - s’incollano al televisore. Soprattutto condividono con i rispettivi genitori, spesso ragazze-madri single non di molto più grandi di loro, una sordida promiscuità - Halley, madre di Moonee, non esita a parcheggiare la figlia in bagno, dentro la vasca, mentre riceve estranei con i proventi drenati dai quali arrotonda i magri introiti derivanti per lo più dallo spaccio occasionale, dal taccheggio e dalla vendita al dettaglio ai turisti di passaggio di cosmetici precedentemente acquistati o rubati negli store del posto -), che del sogno, tantomeno di quello dell’infanzia, non hanno nulla ma che, al contrario, della sua subdola, costante presenza, delle sue invadenti lusinghe, del suo prezzo autentico abilmente dissimulato e mai davvero in discussione, chiede conto fin da subito, pretendendo quella fedeltà tassativa che si alimenta dell’adesione inconsapevole a uno stato di cose impacchettato e venduto non solo come ideale ma più ancora come naturale/irreversibile, quindi nella forma d’un vero e proprio destino che, nel caso dei tre ragazzini, sembra essere quantomeno quello di reiterare comportamenti limitati e prevedibili, a dire facilmente manipolabili, del tutto simili a quelli dei genitori, giovani perduti a cui il sogno è marcito in mano prima di maturare e che ora annaspano tra la schiuma di frustrazioni indurite e improbabili rivalse, materiale di risulta pronto per una delle tante discariche della Modernità.
Si svela, così, il vero volto del progetto Florida e delle sue innumerevoli incarnazioni in giro per il mondo: un mondo adatto ai monomaniaci ossessionati dall’idea del progresso, ma di un falso progresso, un progresso che puzza. Un mondo ingombro d’oggetti inutili che uomini e donne, per farsi sfruttare e avvilire, imparano a considera utili… E Disney è il maestro dell’incubo. E’ il Gustave Doré del mondo di Henry Ford e Co… di questo peggio in divenire che ora è dentro di noi, solo che non l’abbiamo tirato fuori. Disney lo sogna: e lo paghiamo pure, questo è il buffo. La gente ci porta i figli a crepar dal ridere (- H.Miller, The air-conditioned nightmare -). Si precisa e si staglia, in altre parole, una volta per tutte e a trecentosessanta gradi, l’orizzonte d’un’allegoria triste nell’inverarsi definitivo della sua placida evidenza, quella che chiama a sé, al proprio cuore multicolore e inerte, sotto un cielo/fondale posticcio che ne scimmiotta e ribadisce la falsa beatitudine, anche l’atto che ogni generazione almeno tenta prima di piegarsi o morire: la fuga.
Una prece.
TFK