- Sir Thomas Malory, da Le Morte d’Arthur -
Assisi come siamo su una montagna di più o meno lepide scipitezze (quando di non vere e proprie scemenze), tendiamo a sorvolare o, peggio ancora, ad assimilare passivi operazioni di calco e aggiornamento (verso cosa, poi, esattamente ? L’appiattimento irriflesso e definitivo di ogni differenza ?) proposte con sempre maggiore frequenza soprattutto dai colossi dello spettacolo domestico in ossequio al più banale circolo vizioso secondo cui, assecondando sempre e solo una logica ragionieristica, si riproduce oltre la nausea una formula rivelatasi remunerativa.
Caso di specie - ma è solo uno tra gli esempi possibili a portata di mano - la serie proposta dalla piattaforma Netflix (oramai quasi un paio di centinaia di milioni di abbonati in giro per il mondo; qualche decina di miliardi di dollari di capitalizzazione; dozzine di titoli, tra film e serie Tv, a copertura di, grossomodo, ogni genere cinematografico), nelle intenzioni (?) dedicata alle vicende che dovrebbero avere preceduto (e già la stessa prassi, a pensarci, sempre più diffusa e sempre più figlia della terminale mancanza di idee, di proporre ciò che potrebbe esserci stato prima per, nel frattempo, omogeneizzare quello che conosciamo adesso, allo scopo di preparare il terreno a ciò che potrebbe accadere, complice qualunque escamotage, dopo, esigerebbe lo sforzo di una riflessione) le gesta che siamo soliti associare al cosiddetto ciclo arturiano (canone letterario, estetico e morale - quindi, a suo modo, identitario - che ci è stato tramandato a partire dalle suggestioni in precario equilibrio sulla realtà storica collezionate dall’Historia Regum Britannie di Goffredo di Monmouth, all’incirca nel cuore del sec. XII, quasi a ridosso elevate a espressione poetica dal francese Chrétien de Troyes, infine cristallizzate nella forma ancora comunemente riconosciuta da Sir Thomas Malory, a cavallo della metà del sec. XV). Ci si riferisce alle, per ora, dieci puntate di “Cursed”, adattate a partire da un testo scritto da Tom Wheeler, poi addirittura illustrato dalle matite di Frank Miller e centrate sulla figura di Nimue - quella che, secondo il lascito originario, sarebbe diventata the Lady of the Lake/la Dama del Lago/Langford - giovane predestinata incaricata da un insieme di circostanze superiori di consegnare la spada-del-destino, la leggendaria Excalibur (fin qui mai menzionata come tale), nelle mani di Merlino il Mago/Skarsgård (figlio di Stellan e fratello di Alexander, noto ai più per la sua interpretazione dello sfuggente Floki in “Vikings”), al fine di un suo consono ultimo conferimento presso chi, tra i numerosi pretendenti in aperta e reciproca ostilità - un Uther Pendragon, cicisbeo regnante, vanesio e piagnone quanto, all’occorrenza, crudele; avide (sebbene un po’ in anticipo sui tempi: le prime testimonianze della loro presenza sul suolo britannico risalgono infatti alla fine del sec. VIII) orde il libera discesa dal Nord Europa; esaltati uomini di chiesa, i Paladini Rossi, intabarrati giustappunto in purpurei sai e accesi da una smania a metà tra furore iconoclasta e opportunismo di bottega, secondo gli ordini di tal Padre Carden/ Mullan - se ne fosse dimostrato davvero degno.
Come già si intuisce, lo spirito che sostiene il libero adattamento è tale - tra sovrapposizioni quantomeno dubbie (una spedizione di chierici in armi nella Britannia del, si suppone, V sec. ?); autentiche forzature storiche (Merlino sottolinea, durante uno dei suoi interludi alcolici, l’incostanza di carattere dei tanti sovrani che si sono avvalsi dei suoi servigi, annoverando tra questi Carlo Magno, Re e quindi Imperatore, bontà sua, vissuto tra i secoli VIII e IX, ossia un ingombrante numero di decenni dopo i fatti raccontati nella serie i quali, come accennato, dovrebbero essere collocati - e a maggior ragione per ciò che attiene a un Artù tratteggiato come sconosciuto ex mercenario di belle speranze - intorno al V sec.); pedaggi pagati a mo’ di sinecura ma senza fiatare al politicamente cretino (l’immancabile presenza, da un lato, di esponenti delle etnie più varie - per dire: Artù stesso è un ragazzo meticcio - dall’altro, di blande quanto esornative caratterizzazioni omosessuali che altro non aggiungono se non una scontata e paradossalmente retriva nota di colore) - da fagocitare quasi per intero il già citato canone da cui in teoria avrebbe preso le mosse l’intera faccenda, per restituirlo nelle fogge di guscio buono, perché doviziosamente svuotato, per qualunque esperimento, quindi alla fin fine pre-testo inutile perché, una volta sollecitato oltre i limiti naturali di tensione, ciò che si scopre - qui come altrove, sia chiaro - è un pigro annacquamento/svilimento (di temi, storie, passioni, proiezioni dell’immaginazione) con la scusa di un sincretismo tutto di superficie che deve tenere insieme, visti i veri interessi in gioco - l’inseguimento dei più alti indici di ascolto - e in ragione dell’ipocrita omologazione imperante che ancora si illude di comporre contraddizioni e attriti semplicemente mettendo ogni cosa sullo stesso piano (nel caso, ossia in ambito artistico, fraintendendo a scopo truffaldino la grandezza con la popolarità), il multiculturalismo fasullo da spot pubblicitario e da pseudo avant-garde social; il più che peloso ammiccamento alle sacrosante quanto sovente ambigue rivendicazioni emerse dal tumultuoso mondo femminile contemporaneo; la tolleranza magnanima ma al dunque pilatesca nei confronti delle istanze di genere, et.
Del resto, che il cimento in oggetto non fosse definito in relazione non si pretende alla fedele riproposizione degli ideali e delle imprese di ciò che avrebbe concorso a edificare il cosiddetto mondo cortese, quanto almeno a un coinvolgente succedersi di avventure sul filo di una ricostruzione un minimo puntuale dal punto di vista dei luoghi (qui quasi tutti come presi a noleggio alla fiera itinerante dei fondali che si avvicendano da un set genericamente fantasy all’altro) e così delle situazioni, dei volti e dei gesti, lo si evince dal tono medio di una scansione drammaturgica che indulge di preferenza in un anodino pragmatismo dialogico-esplicativo utile solo a trascinare il corpus della fabula (?) da un quadro al successivo (da una manciata di pop-corn all’altra, verrebbe da dire), senza un intermezzo accattivante (figuriamoci visionario), una stasi dubbiosa buona per ispessire di ambiguità, di non-detti, i profili psicologici dei personaggi; e che, d’altra parte, si pasce di una pienezza figurativa risolta pressoché esclusivamente nella prepotenza cromatica, nella magniloquenza inerte di talune inquadrature, cioè in una visibilità del tutto priva di opportune, stimolanti penombre, quelle che avvolgono, ad esempio, sul versante psicologico ed emotivo, rendendolo unico, lo stampo mercuriale delle donzelle e dei cavalieri della tradizione. A rimorchio di tali evidenze cercano così il proprio posto - spesso e volentieri non trovandolo - figure (leggi: attori) magari funzionali a un discorso vuoi orientato alla riconoscibilità immediata desumibile da altre esperienze televisive simili, vuoi indotto dalla già accennata e ingannevole inferenza per cui a una maggiore varietà di tipi umani corrisponde automaticamente una altrettale universalità di contenuti, che però, oltre a risultare poco credibili, sembrano addirittura impossibilitate per complessione, espressività, loquela a innervare quel piglio lirico - meditabondo/elegiaco - come anche ardimentoso/guerresco impresso sulle loro sembianze romanzesche dalla stratificazione dei secoli. Giusto restando ai ruoli principali, troviamo allora la Nimue della Langford (quella di “13 reasons why” e di “Tuo, Simon”) praticamente calata di peso - absit iniuria verbo - ma, più di tutto, spaesata in un contesto di eterna frenesia latente condito di ruvidezze assortite che poco si addice alla sua aria di ragazza borghese e di fondo ritrosa: non stupisce, di conseguenza, l’evidente goffaggine nel conciliare, mettiamo, aderenti mise in pelle con le presunte abilità di una consumata amazzone, per tacere del legnoso impaccio mostrato nel brandire la suprema spada durante i concitati certami. Di contro o, sarebbe meglio puntualizzare, in scia, l’Artù di Devon Terrell non si eleva mai, per atteggiamento e carisma, al di sopra delle aspettative e del rango di un volenteroso (quantunque a volte persino petulante) comprimario. Il panorama si movimenta un po’ al cospetto di Merlino - come detto, affidato alla longilinea fisionomia di Gustaf Skarsgård - uomo di magia solitario, sornione e doppiogiochista, incline alla depressione e all’alcol, come impone la vulgata recente che lo riguarda (pensiamo a una connotazione analoga proposta in “Transformers - L’ultimo cavaliere” da Bay). A lui si devono per l’appunto i rari momenti di sarcasmo e le sottigliezze argomentative (traccia unica di ambivalenza in una prospettiva retorica uniformata a una didascalica assertività declamatoria) utilizzate per restare a galla nel mare magno delle trame ordite al fine di entrare in possesso di Excalibur. Per il resto, ci si accomoda alla grassa tavola di “Game of Thrones” per rifocillarsi di estetica burina e ferocia enfatica, e per scimmiottare, aggrappandocisi malamente, la monumentalità paesaggistica del tardo archetipo jacksoniano.
Alla seconda stagione, dunque. E al prossimo miliardo di dollari.
TFK