Kid Thing
di David Zellner
con, Sydney Aguirre, Nathan Zellner, Susan Tyrrell
genere, drammatico
USA 2012
durata, 82’
USA 2012
durata, 82’
I hope that
there’s a way
to breathe you
someday
— Idaho —
there’s a way
to breathe you
someday
— Idaho —
Intrappolati, oramai nessuno sa più da quanto, entro un incantesimo consolatorio che rappresenta l’infanzia e la prima giovinezza come la perfetta allegoria del paradiso in terra, e via via persuasi nel medesimo da decenni di allucinazioni propagandistico-pubblicitarie stentiamo o, sarebbe più onesto ammettere, sovente rifiutiamo di constatare - sistemandone per una volta nella giusta sequenza i rispettivi tasselli, senza pregiudizi e interessate precauzioni - le conseguenze di ciò che costituisce il nucleo autentico delle nostre attuali vicende personali al crepuscolo di una avventura collettiva, quella Occidentale (una poltiglia costituita per lo più di materialismo passivo, placida indifferenza, sottaciuta anedonia e, in perversa simbiosi, di ossessioni, rancore, grettezza et.), sulle generazioni che, una dopo l’altra, ci ostiniamo a mettere al mondo.
Per dire: Annie/Aguirre, dieci-undici anni, condivide lo stesso tetto insieme al padre Marvin/Zellner (un semi-inebetito a modo suo ipnotizzatore di galline e devoto del gratta-e-vinci, nonché capace di estrarsi un dente di fronte a lei) in uno spicchio di desolazione texana incistato tra zone approssimativamente inurbate, nello specifico all’interno dei confini rurali di una piccola proprietà tenuta insieme più dalla tassidermia di giorni tutti uguali che dalle attività minime connesse alla gestione di qualche capo di bestiame - quattro vacche, altrettante capre - Giocoforza solitaria, lunghi capelli giallo ananas e lentiggini di complemento, aria dolce/perfida da tesoruccio precocemente scoglionato (qualcosa di paragonabile, sebbene in versione aggressiva - ma utile per ribadire lo sprezzo consustanziale al modo moderno di maneggiare i rapporti - alle vicende narrate in un altro esordio alla regia, quello di Vasily Sigarev a nome “Volchok”, del 2009), di solito silenziosa ma al dunque indisponente, la ragazzina mena la propria giovane biologia collettizia secondo l’estro del momento ossia, tra una sorta di menefreghismo congenito e i primi assaggi di un tedio di cui - per lo meno - ignora vera ampiezza e profondità, non si tira indietro davanti a nulla: fa colazione con quello che trova; stacca le spine a una pianta con le pinze; mette a soqquadro un ripostiglio scovando una maschera antigas che indossa giusto per vedere l’effetto che fa; improvvisa uno scherzo telefonico a un meccanico. Di seguito esce e litiga con un gruppo di quasi coetanei in un parco giochi sgangherato, finendo per prenderli a sassate; ruba dolcetti e porcherie varie presso un minimarket: con quello che avanza bersaglia le automobili di passaggio allo svincolo di una tangenziale. Quindi si inoltra in un’area verde, trova uno specchio d’acqua e prova a farci rimbalzare dei ciottoli; a mani nude scorteccia un albero caduto per estrarne dai resti marci larve d’insetto che si premura di stritolare… Peregrinazioni circolari e insoddisfacenti che un giorno, mentre fa a pezzi un grosso lecca-lecca iridescente, si arricchiscono di un particolare inedito. Dalla boscaglia sembra giungere cioè un lamento o qualcosa del genere: in ogni caso, una variazione che spezza la monodia greve dei soliti pomeriggi. Annie si incammina e senza dannarsi troppo trova l’apertura quadrata di un pozzo da cui, una volta sollecitata, si leva la voce di una tal Esther/Tyrrell, ivi caduta di recente e bisognosa di aiuto. Cosa che però, lì per lì, la nostra piccola impunita, come perplessa e infastidita insieme, è tutt’altro che disposta a prestarle, preferendo mollare la faccenda e tornarsene a casa. Chiaro che a breve la curiosità connaturata all’anagrafe ha gioco facile sulla precauzione e sulla stessa iniziale riluttanza. Fatto sta che Annie torna di quando in quando sul luogo della scoperta offrendo alla misteriosa malcapitata (a questo punto stremata e implorante) un tipo di collaborazione sui generis la quale esclude la pura e semplice chiamata in causa di un soccorritore ma implica invece sia la periodica somministrazione di vettovaglie, preparate a casa o sottratte al già citato minimarket, tramite lancio a peso morto nel pozzo, sia la possibilità di improvvisare scampoli di conversazione (da notare: non di rado battibecchi) tramite un paio di walkie-talkie recuperati nel garage-magazzino del padre, con esiti alla lunga magari intuibili ma non per questo meno atroci.
Il sopra accennato equivoco sulla fanciullezza nelle mani dei fratelli Zellner (qui Nathan interpreta e co-produce, David dirige ma non è insolito che i due collaborino anche in sede di scrittura, come in “Kumiko, the treasure hunter”, del 2014, in cui gli autori, alternandosi ancora tra sceneggiatura, regia e recitazione tentano un ulteriore scarto allo scopo di screziare l’inesorabilità della disperazione contemporanea facendo leva sui chiaroscuri offerti da una inerme follia) diventa un non comune esempio di testimonianza indigesta (leggi: affatto conciliante, per certi versi chissà quanto suo malgrado ammonitrice), per la fredda puntualità e la disadorna disinvoltura con cui mantiene il piano della narrazione e le soluzioni visive escogitate - lenti indugi e accorte prolessi prospettiche sugli spostamenti della protagonista; primi piani della stessa da cui emerge la stolida fissità dell’animale inchiodato alla tagliola dell’istante da cui, per interminabili fotogrammi, sembra trapelare una abissale e incosciente frustrazione; ricorsività di un paesaggio in buona parte brullo e agonizzante, eppure talvolta come scoraggiato di fronte all’eventualità di dispensare le proprie residue sorprese a chi non è in grado di coglierne l’intrinseca natura duplice di promessa/responsabilità - in equilibrio sullo scivoloso crinale che separa la repertazione socio-antropologica dalla miniatura sovrapponibile alla dimensione mitica del racconto di formazione, qui entrambe ostaggio di un presagio di sventura eternamente incombente. In tal modo, sotto cieli spesso grigi, impassibili e muti, tra i simulacri sfiniti di una normalità orrenda proprio perché assimilata da sempre come finzione unica e immodificabile, l’agire al tempo sconclusionato e febbrile di Annie, un giorno dopo l’altro, una immemore rinuncia affettiva dopo l’altra, un gesto apatico o brutale dopo l’altro (ci si soffermi sul suo modo di dare il buon compleanno a una pari età costretta sulla sedia a rotelle), finisce per assumere i contorni paradossali di una - per quanto distorta, degradata e alla fin fine futile - fiabesca e autosufficiente atemporalità, i cui ritmi e le cui epifanie, le condizioni di sussistenza e la grammatica di base, le ingenuità e le perversioni (Annie sfida Esther a dimostrarle di non essere il Diavolo in persona o una strega pronti, una volta tratti d’impaccio, a portarla via con loro), in quel mistero mai del tutto penetrabile che lega l’incanto vergine di un bambino alla magia senza utilità del mondo, fluiscono e a loro volta sono generati dalle fantasie e dai raccapricci di una creatura umana incommensurabilmente sola. Di conseguenza, di fronte a un abbandono così radicale e indifferente, non può che perdere significato e sgretolarsi, nel disvelamento della sostanziale menzogna di taluni suoi assunti - i valori, le gerarchie, i sistemi educativi - lo stesso edificio sociale (la famiglia, la comunità) che a quell’abbandono dovrebbe opporre il primo e più resistente argine. Ad Annie che non soppesa, non discrimina, non resta allora che reagire, nell’equivalenza e nell’oblio di ogni cosa, dimentica degli uomini e da essi dimenticata, orfana persino di Dio (con buona pace, ad esempio, degli sciagurati ritratti dalla coppia Ewing/Grady nel documento “Jesus camp” del 2006, tutti intenti a plagiare attoniti marmocchi nel nome di Cristo). E assodato questo, davvero tutto può accadere, in ragione della triste necessità che avvolge i destini banali ma tragici. Destini che, come in questo caso, di fatto nemmeno ambiscono a compiersi, tanto tendono a esaurirsi in una inconsapevole quanto indotta dispersione, lusso ingannevole, quest’ultimo che, su scala più grande - una intera Civiltà - e per scopi tutt’altro che elevati, ci si è voluto permettere nell’illusione che non avrebbe implicato un prezzo da pagare, a dire la perdita di quella condizione aperta a un compromesso dignitoso tra purezza e raziocinio che ad Annie, come detto, non è stata concessa e a cui noi - per ampio demerito - non torneremo più.
TFK
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