sabato, settembre 30, 2017

CHI M'HA VISTO

Chi m'ha visto
di Alessandro Pondi
con Beppe Fiorello, Pierfrancesco Favino, Sabrina Impacciatore
Italia, 2017
genere, commedia
durata, 105'


Quasi sempre chi scrive di cinema tende ad assegnare un valore negativo a tutti quei film che in qualche modo si fanno promotori di estetiche e contenuti di stampo televisivo. Ora, fermo restando che il livello di qualità raggiunto da certi prodotti realizzati per il piccolo schermo impone una riflessione più articolata e magari la formulazione di nuove e più efficaci categorie di giudizio, non c'è dubbio che almeno in Italia, soprattutto all'interno di un genere popolare come quello della commedia, persista la volontà di replicare, più o meno pedissequamente, formule che sono tipiche delle fiction italiane. Sorvolando sulle ragioni di questa scelta, più volte affrontate e perciò note alla maggior parte dei lettori, ciò che interessa in questa sede è constatare se, di volta in volta, esistano spostamenti in avanti rispetto alla media dei prodotti appartenenti alla categoria in questione. Senza pretendere di farlo, "Chi m'ha visto", opera prima di Alessandro Pondi, ha il merito di giocare a carte scoperte, non facendo nulla per nascondere l'essenza di una natura che, a partire dal titolo - parafrasato dal celebre programma condotto dall'investigatrice Federica Sciarelli - e con la presenza di Giuseppe Fiorello tra i protagonisti, corrisponde a quella altrettanto nazional popolare perseguita dai palinsesti delle emittenti più famose. Il film di Pondi non si accontenta di citare i modelli di riferimento, accompagnando la narrazione con un sotto testo che entra in dialettica con l'universo di riferimento attraverso i personaggi di Peppino (Beppe Fiorello), talentuoso quanto sconosciuto chitarrista deciso a uscire dall'anonimato mettendo in scena la propria scomparsa, e di Martino (Pierfrancesco Favino), l'amico del cuore pronto a reggergli il gioco nella speranza di ricavarne qualche profitto, come pure della conduttrice televisiva - interpretata da Sabina Impacciatore - intenzionata a cavalcare l'onda del successo, alimentando la morbosa curiosità che si scatena intorno alla sparizione del musicista.
 

Detto che la sceneggiatura di "Chi m'ha visto" (scritta tra gli altri dallo stesso Fiorello) ha molti punti in comune con quella di "Omicidio all'italiana" (anche in quel caso la notorietà era il frutto della manipolazione mediatica), rispetto al film di Capotonda quello di Pondi sta attento a non esasperare i toni, esercitando un punto di vista lontano dalla critica di costume come pure dal tentativo di fare satira sugli aspetti più deleteri della società contemporanea, al quale vengono preferite argomentazioni di una retorica quasi sempre all'insegna della simpatia e dei buoni sentimenti. In questa maniera le differenze si appianano e gli scarti tra i vari personaggi convergono su un unico intento, che è quello di intrattenere lo spettatore con uno spettacolo adatto al pubblico di tutte le età. Indicativa, in tal senso, è la figura di Sally (la new entry Mariella Garriga), la quale, chiamata al ruolo della prostituta dal cuore d'oro è fin da subito una sorta di cenerentola alla ricerca del principe azzurro. Senza alzare l'asticella della qualità relativa al genere in questione , "Chi m'ha visto" è comunque una commedia divertente che può contare sulle ottime interpretazioni dei suoi attori (su tutti Favino, in versione cafonal) e che se ha una pecca, è quella di non sapersene che fare della musica, inizialmente in primo piano con estratti di un concerto di Jovanotti e poi relegata ai cameo di alcuni dei nostri cantanti più famosi (da Jovanotti a Elisa) ognuno dei quali si presta a filmare l'appello nei confronti del tormentato collega.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, settembre 29, 2017

L'INTRUSA

L'intrusa
di Leonardo Di Costanzo
con Raffaella Giordano, Valentina Vannino, Marcello Fonte
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 95'



Per misurare la forza del cinema di Leonardo Di Costanzo basterebbe apprezzare il contrasto tra il minimalismo della sua messinscena e la capacità delle immagini di evocare interi mondi. Tra i molti esempi che potremmo fare il film del regista campano c'è ne offre in particolare uno che appare più adatto di altri a spiegare ciò che intendiamo; ci riferiamo per l'appunto a tutte quelle sequenze (e non sono poche) che volgendo al termine si ritrovano a scrutare la città dormiente, con la ragnatela di palazzi che ergendosi come un muro davanti alla vista della protagonista gli preclude la visione di un possibile orizzonte. Detto che qui come altrove la mdp di Di Costanzo ci offre una versione della metropoli partenopea diversa da quella che siamo abituati a conoscere, immersa com'è in un sole senza colore e priva delle pantomime folcloristiche che da sempre ne alimentano l'immaginario popolare, le scene in questione perdono la loro funzione meramente topografica (succedeva la stessa cosa ne "L'intervallo") per diventare il modo con cui il regista - attraverso il personaggio di Giovanna - si interroga sulla problematicità della "sua" città. Ambientato all'interno delle mura che circoscrivono il centro educativo dove Giovanna e gli altri volontari si prendono cura dei bambini delle famiglie più svantaggiate, "L'intrusa" è un film senza via di scampo non solo perché costretto a fare i conti con l'irredimibile fragilità del suo tessuto umano - messo a dura prova dalla sgradita presenza di Maria, la moglie di un pluriomicida e dei suoi due figlioletti - ma per la scelta del regista di occuparsi esclusivamente della conseguenze di questa condizione, lasciando fuori campo le cause che l'hanno prodotta mediante un montaggio che taglia qualsiasi elemento di raccordo visivo tra lo spazio indagato (il centro di accoglienza) e ciò che ne rimane fuori. Una discontinuità a cui fanno eccezione le sequenze di cui parlavamo in apertura, deputate per questo a diventare un vero e proprio collettore di questioni irrisolte e implose, destinate a rimanere tali per un'indifferenza generale che la natura "morta", rappresentata dal magma architettonico su cui drammaticamente si sofferma la telecamera di Di Costanzo ben sintetizza.


Ma "L'intrusa" è anche un film di mediazioni che riguardano tanto il narrato che la sua realizzazione. Evidenti quelle relative alla storia che attraverso il personaggio di Giovanna cerca i motivi che possano rendere accettabile agli altri la presenza di Maria, lo sono un po' meno quelle presenti nel dispositivo cinematografico messo a punto da Di Costanzo per la sua opera seconda. Documentarista tra i più importanti della nostra scuola, il passaggio al racconto di finzione è stato paradossalmente il modo con cui Di Costanzo ha salvaguardato l'indipendenza del suo cinema, permettendogli quell'imprevedibilità che ne è sempre stata la costante. Se l'esigenza di verità è rimasta la medesima, a cambiare è stato il percorso che ha consentito di raggiungere questo obiettivo. Ancora una volta è l'analisi del girato a mostrarci le scelte del regista. Dopo una breve introduzione infatti la storia si sviluppa utilizzando un incipit visibilmente artificiale nella sua costruzione. 


La scena, seppur senza la spettacolarità di altri contesti, è segnata dall'improvvisa irruzione della polizia nell'istituto e dalla successiva cattura del killer di fronte allo sguardo esterrefatto di Giovanna e dei suoi colleghi. Di Costanzo inizialmente forza la realtà, la manipola fino a che è possibile per portarla nella sua direzione (poiché prima di quell'evento nessuno sapeva che Maria fosse la moglie del pluriomicida) ma da lì in avanti procede in senso inverso, smantellandola, passo dopo passo, dalle sovrastrutture che le aveva imposto. Per capire come ci riesca ci si potrebbe aiutare rifacendosi alla leggerezza dello strumento cinematografico (macchina a spalla, luci essenziali, libertà di movimento all'interno dell'inquadratura, attori non professionisti etc) ma ciò che davvero fa la differenza sono i momenti dedicati ai riti collettivi, quelli in cui la spontaneità di adulti e bambini si fonde a meraviglia con la fenomenologia del lavoro quotidiano e delle attività (ludiche e non) organizzate dai volontari per animare i pomeriggi dei loro ospiti. Un coagulo di anarchia controllata di cui Di Costanzo si serve per dare forza - drammaturgia - e credibilità narrativa ai contenuti di una marginalità economica, sociale, culturale (dei frequentatori del centro, dell'intrusa e dei suoi figli come pure dei volontari, lasciati da soli di fronte alle loro responsabilità) che ha il solo risultato di dividere gli umiliati e gli oppressi, di mettere le vittime una contro l'altra. Senza dimenticarsi della consistenza dei personaggi, a cui Di Costanzo riesce a donare una centralità tanto più potente quanto minore è la retorica che ne manifesta la loro presenza. Prova ne sia la performance di Raffaella Giordano (ballerina e coreografa, qui alla prima prova d'attrice) a cui bastano poche battute per impossessarsi del corpo dolente ma battagliero di Giovanna. Un capolavoro interpretativo che la candida alla vittoria di categoria nei David di Donatello della prossima stagione.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

BABYLON SISTERS

Babylon Sisters
di Gigi Roccati
con Amber Dutta, Nav Ghotra, Rahul Dutta
Italia, Croazia, 2017
genere, drammatico
durata, 85'


Kamla (Amber Dutta) ha dodici anni ed è figlia di genitori indiani da tempo residenti in Italia. La sua famiglia decide di trasferirsi da Milano a Trieste, in un quartiere degradato ed in particolare in un edificio fatiscente popolato da una comunità multietnica composta da cinesi, croati, turchi. Il proprietario dello stabile è italiano e sottopone  tutti i suoi “inquilini” a continue angherie e ha appena annunciato loro l’immediato rilascio dell’immobile mediante notifica di un’ingiunzione di sfratto esecutiva.
La mamma di Kamla (Nav Gohtra) è una casalinga ma con la passione della danza stile Bollywood; il papà, Ashok, fa il cameriere. Centrale ed emblematica è la figura del “Professore”, Leone (Renato Carpentieri), che da un’iniziale avversione per il diverso e dunque per la società multietnica che convive con lui nello stesso edificio, diviene solidale e paladino di tutti i suoi vicini di casa al punto che decide di dare lezioni di italiano alla piccola Kamla.
Il regista è Gigi Roccati e Babylon Sisters è il suo primo lungometraggio dopo una lunga esperienza come documentarista avendo girato molti documentari in giro per il mondo.
Il film è liberamente ispirato al romanzo "Amiche per la pelle" di Laila Wadia, autrice indiana che risiede a Trieste. 
Gigi Roccati cerca di coniugare il problema attualissimo dell’immigrazione e della integrazione con il genere bollywoodiano attraverso danze stile Bollywood portate in scena da Shanty. Questa commistione di generi conferisce alla storia un sapore di fiaba a lieto fine inneggiando alla solidarietà ed all’integrazione anche attraverso i valori della poesia decantati dal Professor Leone.
Aspetti favolistici del genere “e tutti vissero felici e contenti..” che sono invece del tutto assenti in un altro lungometraggio presentato al Festival di Venezia che tratta dello stesso annoso e cruciale tema dell’immigrazione. Si allude al film “L’ordine delle cose” della regia di Andrea Segre che ci mostra di converso l’Italia come un Paese che non riesce ad essere all’altezza dei propri propositi e che - pur desiderando un’integrazione degli immigrati - ci mostra l’impossibilità e la difficoltà di raggiungere detto obiettivo.

Michela Montanari

mercoledì, settembre 27, 2017

GLORY - NON C'E' TEMPO PER GLI ONESTI

Glory - non c'è tempo per gli onesti
di Kristina Grozeva, Peter Valchanov
con Kristina Grozeva, Stefan Denolyubov
Bulgaria, Grecia 2016
genere, drammatico
durata, 101'


Sappiamo che i conti si fanno solo alla fine, ma se l'inizio fosse indicativo delle scelte operate in fase di selezione uno dei temi forti di questa edizione del Festival di Locarno potrebbe essere la ritrovata centralità della narrazione, considerata non solo nelle sue funzioni affabulatorie, ma anche nella capacità di rappresentare il comune denominatore di opposti cinematografici. Riservando al consuntivo finale il compito di verificare la giustezza di tale previsione e limitandoci a considerare quello che abbiamo appena visto nei film che hanno aperto il concorso internazionale e quello della Piazza Grande, l'affermazione di cui sopra non potrebbe essere più calzante. Perché, sebbene "The Girl with All the Gifts", di cui avete letto in queste pagine, e "Slava", del quale ci apprestiamo a parlare, siano quanto di meno paragonabile, sia in termini formali che di produzione, è altrettanto evidente che in entrambi i casi la forza dei lungometraggi in questione consista soprattutto nella loro capacità di raccontare storie. Una caratteristica che permette allo spettatore di passare senza soluzione di continuità dal futuro apocalittico e distopico dell'horror realizzato da Colm McCarthy alle pastoie della quotidianità contemporanea del film bulgaro che, attraverso la  direzione di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, si cala anima e corpo nelle vicende del proprio paese.  Gli eventi  descritti in "Slava" infatti sono ispirati a un fatto realmente accaduto in Bulgaria qualche tempo fa, quando un operaio delle ferrovie dello stato si presentò ai propri superiori per restituire un ingente somma di denaro trovata per caso lungo i binari della ferrovia. L'onestà dell'uomo diventò un esempio per l'intera comunità al punto di trasformare il buon samaritano in una specie di eroe nazionale. Partendo dunque da un episodio di cronaca la sceneggiatura del film immagina (ma non troppo) che il clamore dell'avvenimento e l'attenzione ricevuto dalla stampa e dalla televisione altro non siano che lo stratagemma utilizzato dal sistema per sviare l'attenzione dalle accuse di corruzione e di malgoverno rivolte al ministro dei trasporti; la macchinazione messa a punto dalla spregiudicata Julia Staikova, responsabile dell'ufficio stampa del ministero, funziona però fino a quando Petrov - questo il nome del protagonista maschile - a causa di un orologio mai sostituito, cercherà di far valere le proprie ragioni inimicandosi coloro che ne avevano esaltato le gesta.


Girato con mezzi e libertà da cinema indipendente (low budget, camera a mano e location rubate alla strada) "Slava" in realtà si distacca dalle derive di questo modello non solo perché riesce a scansarne i vezzi, e perciò a evitare la frenesia della macchina da presa e delle riprese volutamente approssimate così come del bisogno ossessivo di parlarsi addosso, ma soprattutto per le qualità di un testo che senza farsene accorgere riesce a passare dal tono grottesco e paradossale della prima parte - quella in cui la circonvenzione  del povero Petrov da parte di Julia e dei suoi accoliti è descritta con accenti quasi kafkiani - a quello crudo e drammatico della seconda, in cui la resa dei conti tanto inaspettata quanto inevitabile dà vita a un finale senza vincitori né vinti. Consapevole dell'importanza della denuncia di cui si fa promotore (la corruzione del sistema e la mancanza di morale dei governanti) "Slava" non commette l'errore di sbandierare i suoi contenuti a mo' di feticcio, ma ne rafforza gli effetti sporcandoli con gli artifici di una drammaturgia che riesce a trasformare l'indignazione in un noir esistenziale serrato ed emozionante. La violenza che ne deriva pur mettendo a dura prova le psicologie dei protagonisti   si mantiene lontana dal contesto visivo a cui siamo stati abituati dal cinema americano; dal quale i registi si distaccano con la decisione di riversare la brutalità dei comportamenti, non tanto nell'esibizione del sangue e dei suoi rituali, quanto piuttosto sulle conseguenze che tali azioni comportano sulla qualità delle relazione umane, intese in senso deteriore e come strumento di oppressione  e di ricatto (sintetizzate dalle reazioni di Julia rispetto alla realtà che la circonda), e come semplice merce di scambio.
Secondo atto di una trilogia dedicata a storie tratte da articoli di giornali "Slava" è interpretato da due attori superbi come Kristina Grozeva e Stefan Denolyubov capaci di rappresentare sui loro corpi le sottili differenze tra vittima e carnefice. Acquistato dalla I Wonder Picture che lo distribuirà in Italia a partire dal prossimo anno "Slava" si candida per un posto nel palmares del festival.
Carlo Cerofolini

(pubblicato su ondacinema.it/speciale festival di Locarno 69)

lunedì, settembre 25, 2017

LA NOTTE BRAVA DEL SOLDATO JONATHAN

La notte brava del soldato Jonathan/The Beguiled
di, Don Siegel
con, Clint Eastwood, Geraldine.Page, Elizabeth Hartmann, Jo Ann Harris, Darleen Carr, Pamelyn Ferdyn
USA 1971
genere, drammatico
durata, 105' 


Sorprendendo un po' tutti - la critica se la cavò arruolando Siegel nella schiera dei cineasti americani dal gusto europeo; il pubblico, più prosaicamente, disertò le sale, decretando il più grosso fiasco nella carriera dell'autore - il regista di Chicago realizza nel 1971 "La notte brava del soldato Jonathan"/"Beguiled" (produzione Malpaso), singolare incursione nel racconto gotico di ambientazione western, misconosciuto capolavoro pessimista, intriso di misoginia e disperazione.

Durante le fasi estreme - quelle, in genere, più cruente in ogni conflitto - della Guerra di Secessione, nel profondo sud degli Stati Uniti un soldato nordista ferito, Jonathan Mc Burney/C.Eastwood viene soccorso dalle donne ospiti di un collegio femminile (una istitutrice, un'insegnante e tre allieve di età diverse), che anziché riconsegnarlo come prassi alle milizie confederate decidono, per motivazioni diverse, di prendersene cura. Guarito in fretta, grazie alle assidue attenzioni prestategli, Mc Burney comincia a fantasticare sulla possibilità di trarre il massimo vantaggio - in specie carnale - dalla permanenza coatta. Ma è appunto una sfiziosa congettura. Ognuna in realtà interessata ad un rapporto esclusivo, le quattro donne adulte (la quinta è una bambina di pochi anni), ad un primo momento di subdola competizione e di personali illusioni infrante sostituiscono ben presto l'antico e ben collaudato sistema della fratellanza al femminile che, nel caso, non concederà scampo al soldato opportunista e gli confezionerà una fine orribile, in linea perfetta col titolo originale del film (beguiled sta infatti per affascinato ma pure ingannatoirretito, cioè preso in trappola). Già rileggere la vicenda per sommi capi si presta a evocare echi letterari, luoghi tipici di una tradizione, rimandi psicologici e dinamiche umane: James ma pure Williams e Faulkner, ossia il mondo immutabile, ovattato quanto violento e crudele del grande Sud americano. Quindi l'appetito e la repressione sessuale legati a filo doppio all'istinto di sopraffazione e di morte; una natura incontaminata che tutto vede e tollera ma che sembra sempre sul punto di richiudersi sull'uomo, sulle sue smanie, le sue azioni, per tacitarlo e riportarlo a sé.


Ciò che più di tutto colpisce, però, è la maestria e il tocco con cui Siegel - per il grande pubblico, creatore di macchine filmiche votate all'azione, al pragmatismo della resa - orchestra partiture interiori complicate, maneggia silenzi, ossessioni al limite dell'indagine psicoanalitica; indaga, senza pose da rivoluzionario ma anche senza ritrosie, i lati più torbidi del desiderio, della frustrazione e della pretesa di possesso. E lo fa da par suo, utilizzando tutti i linguaggi e gli stereotipi adatti alla bisogna: cambi ripetuti del punto di vista, dissolvenze incrociate, inquadrature sghembe o eccentriche, accorti ralenti, false piste, interpolazione dei registri realistico e fantastico. Come pure - coadiuvato dalle scelte cromatiche di Surtees e dalle musiche di Schifrin - icone/feticcio dell'immaginario gotico, della favola nera, persino dell'universo horror. Ecco, allora, specchi e avvolgenti scale buie illuminate dalle sole candele; figure femminili in ampi abiti che catturano o restituiscono le sorgenti luminose; viluppi, intrichi vegetali, i live oaks, le leggendarie querce del Sud, che proteggono ma pure assediano e isolano il collegio dal mondo. Addirittura, evidenti riferimenti al rinascimento italiano nelle scene d'impianto onirico/allucinatorio. Ugualmente inattesa è la prova di Eastwood, qui in grado di aggiungere toni maliziosi e sfuggenti alla tradizionale maschera di cowboy/poliziotto/individuo solitario insondabile, di demistificare e quindi capovolgere l'aura virile che lo caratterizza fino a dissacrarla, se è vero che l'amputazione della gamba infertagli ad un certo punto dal quintetto muliebre come primo di tanti castighi a riparazione della sua agognata promiscuità, è fin troppo scoperta metafora di ben altra mutilazione.


Girato tra New Orleans e Baton Rouge, “Beguiled" si avvale inoltre di una precisa ricostruzione delle vicende storiche. Si apre, infatti, su autentiche immagini della Guerra Civile, con Mc Burney/Eastwood a ruota trasportato all'interno del collegio, e si chiude con lo stesso protagonista seppellito al di fuori della proprietà, nel silenzio di una natura rigogliosa e placida, come a sancire la ritrovata sacralità del luogo depurato della presenza dell'elemento estraneo perturbatore. All'interno di questo moto circolare che alimenta tutta la pellicola, Siegel opera anche la propria personale elegia/rilettura dell'epopea della nascita di una nazione, sottolineando con composto disincanto che davvero per gli eroi non c'è più posto. Bene e Male - paradigmi tipici anche del western - sfumano senza attrito l'uno nell'altro. Il Caos, inteso come dissidio - e la guerra è solo uno dei suoi pressoché infiniti volti - s'impone quasi come logico risultato di sempre uguali premesse, mentre il Bene non è certo rappresentato dal soldato Mc Burney, bugiardo (si spaccia, per dire, per mormone), ondivago e profittatore. E tanto meno è incarnato dalle donne, con sfumature diverse tutte infelici, rose al tempo da una gelosia reciproca quanto da una brama di vivere estenuantemente insoddisfatta, che le trasforma - senza troppi ritegni, a guardar bene, o traumi - in un perverso clan omicida. Eliminato l'alone del mito, alla frontiera non resta che assumere le meste sembianze d'una ripetuta e fredda resa dei conti, dove onore e lealtà sono parole stranite d'una macabra litania e nemmeno la presenza femminile è più in grado di offrire ricompensa o consolazione.
TFK

L'INGANNO

L’inganno
di Sofia Coppola
con Elle Fanning, Kirsten Dunst, Nicole Kidman
USA, 2017
genere, thriller
durata, 94’


In piena Guerra di Secessione, nel profondo Sud, le donne di diverse età che sono rimaste in un internato per ragazze di buona famiglia danno ricovero ad un soldato ferito. Dopo averlo curato e rifocillato, costui resta confinato nella sua camera, attraendo però, in vario modo e misura, l'attenzione di tutte. La tensione aumenterà mutando profondamente i rapporti tra loro e l’ospite. Se il segreto di un buon remake sta nel riuscire a rimanere fedele al testo originale attraverso la capacità di tradirlo, Sofia Coppola l'ha capito. In “L'inganno” c'è praticamente tutto quello che c'era ne “La notte brava” del soldato Jonathan e tutto il lavoro della regista americana è stato fatto sui toni e sulle atmosfere, capaci di trasformare il testo in un film del tutto diverso: anche nei temi. Splendido esempio di southern gothic figlio del suo tempo, il film di Siegel, a sua volta basato sul romanzo di Thomas Cullinan da cui anche “L'inganno” è partito, flirtava in maniera abbastanza esplicita con la libertà sessuale, lasciava emergere il tumulto ideologico di quegli anni, trasudava una vitalità gioiosa nonostante i dettagli più crudi e la macabra risoluzione della storia. 



Nella pellicola della Coppola, invece, a dominare sono atmosfere cupe e vagamente opprimenti, l'intrico di pulsioni sessuali è molto più morboso che spensierato, e tutto il film è ammantato da una sensazione funebre, quasi mortuaria, che fa risaltare maggiormente l'ironia di situazioni e dialoghi. Non cede a nessuna tentazione pop, la Coppola, nemmeno nella colonna sonora, lasciando che del Sud degli Stati Uniti nel quale è ambientato “L'inganno” prenda lo spirito più decadente. Fin dalle primissime inquadrature, è la natura a dominare, gli alberi del bosco dove il soldato ferito di Colin Farrell viene trovato da Oona Lawrence, alberi, rampicanti e erbacce che si stanno mangiando il giardino della villa teatro dell'azione e la casa stessa. Una vegetazione che, non a caso, lo stesso Farrell tenterà, invano, di controllare quando si propone come giardiniere al gruppo di donne che lo ha salvato e lo sta ospitando. Una chiara metafora, perché con il procedere degli eventi sarà la natura più istintuale e perfino primordiale degli esseri umani, delle donne e degli uomini, del maschile e del femminile, a prendere il sopravvento. Sempre però mediata dalle buone maniere d’un tempo che la Miss Farmsworth di Nicole Kidman, la direttrice della collegio femminile in cui finisce Farrell: da una razionalità esasperata e cinica che darà vita a un sottile e perverso gioco di ruoli e potere che finirà in un educatissimo massacro.
Riccardo Supino


La vera forza de “L'inganno” e della regia della Coppola, che guarda dritta al “Giardino delle vergini suicide” anche nella forma, sta in questa capacità di gestire i toni e gli equilibri, in un film al lume di candela, minimalista e di notevole intelligenza. Il risultato allora è quello di un thriller psicologico che ammicca alla black comedy, fatto di attenzione a dettagli, parole e piccoli gesti, con battute fulminanti e un'ironia crudele affilata come un rasoio.Magari anche un esercizio di stile: ma di quelli che hanno senso, divertono e si fanno vedere con gran piacere, e che parlano di rapporti di genere, solidarietà e rivalità femminile, esuberanze maschili, senza inutili lungaggini o pedanterie
Riccardo Supino

domenica, settembre 24, 2017

SASHA E IL POLO NORD

Sasha e il Polo Nord
di Remy Chayé
genere, animazione
Francia, Danimarca 2016 
durata, 83’


Viaggiare. Dove ? La saggezza dei secoli ammonisce: l’unico itinerario degno è quello che si compie scientemente dentro sé stessi. E’ pure vero, però, che se ti trovi nelle condizioni di una come Sasha Tchernetsov, ovvero sei una ragazzina - per di più di nobili origini, quasi promessa a un principe arrogante e ottuso dell’impero zarista nella San Pietroburgo dell’ultimo scorcio del XIX secolo - il periplo per compiersi abbisogna di percorsi preliminari col portato dei quali l’animo cominci a sgranchirsi, ovvero è necessario attraversare certe frizioni imposte dall’esperienza e dalla conoscenza.

La biondissima Sasha è del tipo educato-ma-testardo. Legata al nonno Oloukine, insigne esploratore (ha trovato lui il passaggio a Nord-Est) scomparso da tempo a bordo del rompighiaccio Davaï nel tentativo di arrivare al Polo Nord, sulla scorta di appunti nautici rinvenuti tra le carte del vecchio viaggiatore si convince che le spedizioni inviate per la sua ricerca abbiano preso la strada sbagliata, pregiudicandone il ritrovamento. Nonostante lo Zar in persona, poi, abbia promesso una ricompensa di un milione di rubli all’equipaggio che riporterà in salvo gli eventuali superstiti del Davaï, di fatto, indizi o notizie certe languono e a Sasha ciò che interessa davvero è trovare le risposte giuste a un interrogativo via via lasciato andare, quasi di pari passo all’ingigantirsi d’un pregiudizio nei confronti del prestigio familiare.


Chayé - esordiente nel lungo d’animazione e già collaboratore per opere come “The secret of Kells” di Moore (2009) e “La tela animata” (2011) di Laguionie - sfrutta la progressione classica dell’anabasi per ricalcare (e retrodatare) la narrativa e la memorialistica d’avventura sullo sfondo storico a venire delle esplorazioni polari dei primi del Novecento (le vicende ardite quanto, a volte, tragiche, che saldano in un solo vincolo leggendario i nomi di Cook, Peary, Scott, Amundsen, Shackleton), adattandole alla figura esile ma determinata di Sasha per il tramite di strutture letterarie consolidate, qui restituite in un amalgama talora prevedibile ma efficace: dal piano più vicino al racconto di formazione (la protagonista accetta obtorto collo un impiego da cameriera/tuttofare per pagarsi il transito verso il grande Nord sulla Norge in partenza, dopo esser stata truffata dal secondo ufficiale della stessa); a quello affine al ritratto picaresco con venature onirico-drammatiche (la lunga traversata della banchisa sulle tracce dell’imbarcazione perduta), passando per i toni da romanzo in costume (le grandi stanze e i saloni della dimora avita, le cerimonie ufficiali, l’aplomb aristocratico, le danze).



I vari registri trovano felice espressione in uno stile figurativo caratterizzato da colori pieni e luminosi per cui i contorni sfumano spesso (si noti, per dire, il gioco di chiaro-scuro tra l’incarnato di Sasha e il suo bianco abito di gala o anche la morbida alternanza di riquadri di luce sulla ritrovata calma delle acque dopo la tempesta), mentre forme e volumi s’aprono in una sorta d’indifferenziato - o, se vogliamo, in un continuum - che mira a riprodurre la suggestione d’una realtà in perenne trasformazione entro cui riecheggiano assonanze legate al Cubismo (i profili allungati e semi-geometrici dei volti); all’elasticità e all’eleganza di confine dell’acquerello (i vasti e cangianti paesaggi marini, i cieli imprevedibili e le immobilità rurali); all’immediatezza e all’irruenza dell’affiche (i contrasti decisi degl’interni, la compattezza delle superfici degli oggetti in movimento, le ombre larghe e piatte), in un caleidoscopio controllato e coerente, specchio fedele del cammino che lega lo slancio irrequieto d’una preadolescente alla temporanea serenità d’una giovane donna.
TFK

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Philip Dick e Ridley Scott

sabato, settembre 23, 2017

2 BIGLIETTI DELLA LOTTERIA

2 biglietti della lotteria
di Paul Negoescu
con Dorian Boguta, Dragos Bucur, Alexandru Papadopol
Romania, 2017
genere, commedia
durata, 86'




La new wave del cinema romeno ci ha abituato a storie in cui personaggi, ambiente e situazioni concorrono a definire il quadro di una democrazia alle prese con le (drammatiche) contraddizioni che sono tipiche delle   compagini uscite da un lungo periodo di dittatura. In questo ambito “2 biglietti della lotteria” di Paul Negoescu costituisce una felice eccezione per il fatto di appartenere a un genere, la commedia, che appare poco o niente frequentato dai cineasti di questo paese. Una consapevolezza che Negoescu non si limita a teorizzare attraverso il siparietto nel quale uno dei protagonisti stigmatizza la tendenza dei film autoctoni a insistere sugli aspetti più deprimenti e dolorosi della realtà. “2 biglietti della lotteria” infatti, lungi dall’estraniarsi dal contesto a cui appartiene non esita a prendere in prestito alcuni degli stilemi più ricorrenti nelle opere dei vari Mungiu e Puiu, avendo però cura di invertirne il segno. In questo modo il disfacimento dei valori famigliari (la moglie di Dinel lavora in Italia e probabilmente lo tradisce), la precarietà economica  (tirata in causa dalla precarietà lavorativa dei protagonisti) e soprattutto la desolazione del paesaggio (spoglio e desolato) diventano nel film di Negoescu i motivi di una sorta di western esistenziale (il bar/saloon e le stazioni di servizio inquadrate in campo lungo con commenti musicali che fanno il verso a quelli di Ennio Morricone) in cui i nostri (anti) eroi tentano di sovvertire le sorti di un destino che, per quanto avverso, lascia loro qualche briciolo di speranza.  


Nelle mani di Negoescu il mood dimesso e malinconico che abbiamo imparato a conoscere nei tanti capolavori del cinema romeno diventa la chiave di volta per una comicità che risulta tanto più efficace quanto maggiore è l’understatement con cui i tre amici affrontano le diverse tappe del viaggio che li vede diretti alla volta dei balordi che inconsapevolmente gli hanno rubato la possibilità di cambiare vita e di essere felici. Ciò che colpisce in “2 biglietti della lotteria” è la maniera con la quale il regista riesce a non essere scontato all’interno di una trama semplice e lineare: prova ne sia l’andamento narrativo delle situazioni in cui, volta dopo volta, si ritrovano i protagonisti, quasi sempre caratterizzate dall’imprevedibilità dell’umanità con cui i nostri (magnificamente interpretati da Dorian Boguta, Dragos Bucur, Alexandru Papadopol) si confrontano. Uscito in un numero limitate di sale “2 biglietti della lotteria”  conferma il buon stato di salute del cinema romeno e, come tale, meriterebbe ben altra distribuzione.
Carlo Cerofolini

INTERVISTA A KRISTINA GROZEVA E PETER VALCHANOV AUTORI DI GLORY - NON C’E’ TEMPO PER GLI ONESTI

Locarno 69. Abbiamo intervistato Kristina Grozeva e Petar Valchanov, registi di "Glory - non c'è tempo per gli onesti", presentato nel concorso internazionale del 69° Festival del Film a Locarno., dicui èpoi risultato vincitore. Secondo film della trilogia aperta da "The Lesson", presentato Italia nel corso della scorsa stagione, "Glory" sarà distribuito il prossimo anno nelle nostre sale da I Wonder Pictures. Questo è quello che ci hanno raccontato.

La parola che dà il titolo al vostro film significa "Gloria". Me ne potete spiegare la genesi?
La gloria è quella che ottiene Petrov quando diventa una specie di eroe nazionale per aver fatto semplicemente il proprio dovere. Come spesso accade la scelta di un titolo ha sempre più di un significato.e perciò avendo scritto il termine con lettere minuscole volevamo alludere alla caducità di quel riconoscimento, destinato a trasformarsi in qualcosa di negativo per lui. Che è poi la stessa cosa che accade a Julia, l'altra protagonista della storia quando gli succede di subire il contraltare del successo ottenuto con il suo lavoro. Il titolo in realtà allude alla precarietà dei riconoscimenti che ad un certo punto il mondo esterno tributa ai due protagonisti.

In che misura il vostro film è ispirato a fatti realmente accaduti?
A ispirarci è stata ciò che è capitato a un ferroviere, il quale dopo aver restituito allo stato una grassa somma di denaro trovata per caso diventa un eroe nazionale. Da qui abbiamo ampliato il nucleo centrale della narrazione con altri episodi realmente accaduti che ci permettevano di mostrare in che modo lo stato si serve di questi eventi per distogliere l'attenzione dai problemi del paese e in particolare dalla diffusione della corruzione che in Bulgaria è uno degli argomenti più discussi sui giornali e nelle televisioni.


Parliamo degli attori: come li avete scelti?
Margita Gosheva e Stefan Demolyubov avevano lavorato con noi in "The Lesson", il primo film della nostra trilogia ed è pensando a loro che abbiamo scritto la sceneggiatura. Il fatto di dover recitare ruoli opposti a quelli del film precedente è stata una sfida per noi e per loro. Gli altri attori invece sono giovani registi a cui abbiamo assegnato il resto dei ruoli perchè pensiamo che essendo abituati a dirigere gli attori nessuno meglio di loro fosse in grado di raggiungere il livello di recitazione che desideravamo. Tra l'altro in Bulgaria sta succedendo che tutti gli attori vogliono diventare registi. Nel nostro piccolo siamo andati contro corrente.

Il film è diviso in due sezioni: la prima è grottesca e involontariamente comica, mentre la seconda si rivela cruda e drammatica. Scrivendo la sceneggiatura ricercavate questo effetto oppure è una cosa che vi è venuta in mente nel corso della stesura?
Quello che dici è vero, anche se bisogna dire che per noi la sceneggiatura è solo il punto di partenza di un processo che si modifica durante le riprese grazie al contributo degli attori ai quali chiediamo di intervenire nello sviluppo dei rispettivi personaggi. Tieni conto che entrambi ammiriamo registi come Ettore Scola e Mario Monicelli proprio per la capacità di saper utilizzare  all'interno dello stesso film emozioni di segno opposto.

Accennavi alla direzione degli attori che in "Glory" sono a dir poco strepitosi. Come avete fatto a fargli raggiungere i risultati che vediamo sullo schermo?
Di sicuro privilegiamo la spontaneità e per ottenerla siamo disposti anche di mettere in discussione la sceneggiatura che per noi non è intoccabile ma al contrario fa solo da apripista a quel qualcosa di imponderabile che ricerchiamo durante le riprese. In questo senso preferiamo girare con ampio uso di long take perché vogliamo che gli attori abbiano lo spazio per muoversi liberamente e per improvvisare.

Sempre per quanto riguarda il set ti volevo chiedere quanti ciak impiegate in media per arrivare alla sequenza perfetta.
Non c'è una regola, però non amiamo ripetere molte volte la stessa scena; crediamo che cosi facendo si eviti che gli attori si stanchino e finiscano per smarrire la spontaneità che ricerchiamo. In ogni caso per rispondere alla tua domanda può capitare che vada bene la prima scena e comunque generalmente non ne facciamo più di dieci. Se poi ci accorgiamo fuori tempo massimo che qualcosa non funziona cerchiamo di correggerlo in fase di montaggio.

Il finale aperto si rivela un colpo a effetto che spiazza lo spettatore e lo destabilizza.
Era importante lasciare gli spettatori con i loro pensieri senza dargli delle indicazioni precise rispetto a quello che avevano appena finito di vedere. A noi piace che si rimanga con delle domande e che il pubblico secondo la propria sensibilità cerchi di darsi delle risposte. In tal modo lo spettatore diventa costrittore della sceneggiatura fino al punto di decidere quale sia la conclusione migliore. Coinvolgere chi guarda e farlo pensare è una delle funzioni dell'arte.

Uno degli aspetti fondamentali per la riuscita del film è il ritmo con cui la storia si mantiene desta e accattivante senza far pesare allo spettatore i momenti in cui la narrazione si fa più riflessiva. Tu (Petar Valchanov), oltre alla regia ti occupi del montaggio e quindi è scontato che io ti chieda qualcosa a riguardo.
È esattamente quello che hai detto perché la mia preoccupazione è quella di assicurare che i contenuti del nostro film riescano a raggiungere lo spettatore evitando quegli appesantimenti che non ci avrebbero consentito di raggiungere l'obiettivo. Il ritmo del film credo che ci abbia permesso di ottenere il nostro scopo senza perdere nulla in termini di profondità e di chiarezza.

Come registi, chi fa cosa?
Inizialmente Petar si occupava maggiormente degli aspetti tecnici e io privilegiavo il lavoro con gli attori. Adesso penso che le cose siano più uniformi e tutto accade spontaneamente. L'importante è che ci sia uno che comandi (ride, ndr) se no si rischia di mandare in confusione i nostri collaboratori. Condividere le responsabilità ci rende più leggeri e quindi maggiormente creativi. Inoltre quando sono sola, e mi è successo recentemente, mi diverto di meno quindi ben venga il nostro modo di lavorare.

Qual è il cinema e i registi che hanno ispirato il vostro lavoro?
Principalmente i film e i registi del vostro Neorealismo. Poi John Cassavetes non solo perché il metodo con cui dirigeva gli attori è quello a cui ci ispiriamo, ma anche perché il suo era un cinema che si occupava di relazioni umane che è quanto vorremmo fare anche noi attraverso i nostri lungometraggi.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

venerdì, settembre 22, 2017

VALERIAN E LA CITTA' DEI MILLE PIANETI

Valerian e la città dei mille pianeti
di Luc Besson
con Dane Dehaan, Clara Delevingne, Clive Owen Rihanna
Francia, USA, 2017
genere, azione, fantascienza
durata, 137'


Luc Besson è uno di quei registi che non si fatica ad associare alle immagini dei propri film. Se, dunque, la riconoscibilità è da sempre elemento discriminante per distinguere gli autore dai  semplice mestieranti, non possono esserci dubbi sul fatto che Besson appartenga di diritto alla  schiera più nobile della settima arte. Ciononostante, nell’economia dei giudizi espressi sul conto del francese pesano le accuse che ne stigmatizzano l’infantilità dei lavori e la troppo importanza assegnata al dettaglio formale. Un ragionamento non del tutto sbagliato, se non fosse che il profilo di un film come “Valerian e la città dei mille pianeti” non è solo la maniera scelta dal regista per assicurarsi le attenzioni del pubblico ma diventa uno degli strumenti utilizzati per esprimere l’essenza della storia. Dunque, a ben guardare, il tripudio di colori utilizzato per rivestire l’universo fantastico che fa da sfondo alle avventure di Valerian e Laureline, agenti speciali che attraversano la galassia per assicurare la  pace tra le diverse razze, così come la fantasia divertita e divertente del paesaggio - umano e geografico - con cui i due si confrontano, sembrano l’estensione di un’innocenza contagiosa e ludica che appartiene tanto alla coppia protagonista, quanto ai personaggi che incrociano la loro strada: e quindi, tanto ai Pearl, costretti alla diaspora per colpe altrui (le analogie con la Shoah sono evidenti) quanto alla melanconica Bubble, muta forme - interpretata da Rihanna - che anela a un’identità negatagli dalle caratteristiche del suo straordinario potere, come pure al simpatico Mul, l’animaletto che tutti si contendono per la capacità di moltiplicare ciò che ingerisce. 



Rifacendosi alla poetica del regista, “Valerian e la città dei mille pianeti” ci porta all’interno di un universo in cui la consapevolezza è solo al femminile e dove la superiorità della cosiddetta controparte, per quanto stabilita da ruoli e gerarchie, è, in realtà, - e, come spesso accade nei film di Besson - subordinata alle caratteristiche di rapporti uomo donna in cui, a fare da collante non è l’attrazione fisica, bensì la manifestazione di amori talmente casti da rasentare quelli esistenti tra madre e figlio. Non è quindi un caso che in “Valerian e la città dei mille pianeti” la sessualità sia tutt’altro che definita (fatichiamo a distinguere quella dei Pearl) e che, per esempio, Valerian (Dane Dehaan) abbia le fattezze di un adolescente alle prime armi; 

e, ancora, che le astronavi, gli ambienti e certi strumenti d’offesa (vedasi il bozzolo gelatinoso che a un certo punto imprigiona i nostri) rimandino, nelle loro funzioni primarie, a una sorta di limbo che potrebbe essere quello sperimentato nell’utero materno. Per non parlare dell’azione stessa del regista, il quale, come una madre sul punto di partorire, utilizza le sequenze come vettori chiamati ogni volta a dare alla luce nuovi mondi da affiancare o sovrapporre quelli già esistenti. Sarà per questo motivo che in “Valerian” prevalga nei confronti dei cattivi un sentimento di sostanziale comprensione dei loro misfatti e, più in generale, - attraverso la mancata vendetta dei Pearl nei confronti del loro persecutore - l’astensione da un giudizio definitivo sulle loro colpe. Tratto dal lavoro più importante del fumettista francese Jean Claude Mezieres il film di Besson ha come unica pecca quella di essere un piacere per gli occhi e un po' meno per il cuore. Poco male perché “Valerian e la città dei mille pianeti” rimane comunque uno spettacolo imperdibile.
Carlo Cerofolini

NOI SIAMO TUTTO

Noi siamo tutto
di Stella Meghie
con Amandla Stenberg, Nick Robinson, Ana de la Beguera
USA, 2017
genere, drammatico, sentimentale
durata, 96'



Maddy ( è la protagonista ed a causa di una rara malattia, la SCID (Severe Combined Immuno deficiency) non è mai potuta uscire di casa ed ha raggiunto l’età di diciassette anni senza poter vivere nessuna delle normali ed ordinarie indimenticabili esperienze che ogni coetaneo sperimenta.
La SCID è nota anche come “sindrome del bambino nella bolla” ed ha costretto Maddy a vivere relegata in una casa bellissima e elegantissima, una sorta di gabbia dorata a cui solo pochi eletti possono accedere e precisamente la sua infermiera Carla (Ana De Reguera), la figlia di questa che ha la stessa età di Maddy ed è la sua sola amica e – ovviamente - la madre di Maddy (Anika Noni Rose). La madre le ha predisposto allora una riproduzione della realtà esterna all’interno della casa, allestendole una stanza di vetro che racchiude tutti i posti che Maddy predilige. E che non ha mai visto perché non ha potuto.
La famiglia di Olly si è trasferita accanto la casa di Maddy e i due appena incrociano gli sguardi scoprono di essere innamorati l’uno dell’altra.. E anche se nella vita è impossibile prevedere sempre tutto, in quel secondo Madeline prevede che si innamorerà di lui. Anzi, ne è sicura. Come è quasi sicura che sarà un disastro. Perché, per la prima volta, quello che ha non le basta più. E per vivere anche solo un giorno perfetto è pronta a rischiare tutto.
Ma la loro storia non può svolgersi come una normale storia tra adolescenti perchè Olly è malata, non può uscire, non può incontrarlo. Allora iniziano a parlarsi alla finestra (un richiamo a Giulietta e Romeo di shakesperiana memoria ed al loro balcone?) a leggere i loro labiali e poi a chattare on-line.
Il telefono rappresenta il mezzo che può unirli e le loro interminabili chiacchierate on-line surrogano e sostituiscono l’impossibilità di potersi incontrare nel mondo esterno come fanno tutti.
Maddy  trova però la forza di cambiare. Perché come dice Maddy  “La differenza tra sapere e vedere con i propri occhi è la stessa che c’è tra sognare di volare e volare per davvero”.
Il primo bacio, il mare, la spiaggia, gli abbracci finalmente prendono il posto dei molteplici libri letti dalla protagonista, i film di cui lei fa recensioni, i modellini di architettura che lei costruisce per reinventare un mondo in cui non riesce ad entrare.



Una favola moderna della principessa rinchiusa in una torre che attende il suo principe azzurro che è incarnato da Olly Bright (Nick Robinson) e che è un moderno e un po’ crepuscolare principe dal look total black (che di “azzurr”o ha ben poco come anche ammesso nel film dallo stesso Olly).
Olly infatti viene a liberare Maddy dalla sua paura: la paura di vivere di amare di rischiare e di soffrire.
Senza voler fare spoiler il film ha risvolti inaspettati: a sorpresa, il cattivo non è solo il padre di Olly che picchia la moglie e non è solo Maddy ad essere rinchiusa in una prigione. Ma sarà solo e proprio lei a trovare la chiave giusta per aprire le porte della “gabbia dorata” ed eliminare i “cattivi”.
Ancora una volta la soluzione, la svolta ce la offre l’Amore che con la sua semplicità ma la sua forza incessante travolge tutto e tutti, rompe gli schemi e abbatte i muri. “L’Amore apre le porte del mondo” dice Maddy.
Il mare ha un significato liberatorio e rappresenta la voglia di rischiare pur non sapendo cosa ci aspetterà immergendoci nelle sue acque. Maddy ci si immerge e si trova nel bel mezzo di una tempesta ma poi riesce a salvarsi ed a approdare sulla terraferma. Più forte e determinata di prima.  Perché lei ora conosce la differenza che la porta ad affermare: “Prima di incontrare Olly ero felice. Ma adesso sono viva, e tra le due cose c'è una bella differenza. "
Perché le cose capitano quando puoi affrontarle e quando hai la testa per viverle.
Noi siamo tutto ci racconta dell’Amore, quello con la A maiuscola che si articola in varie forme da quello tra genitori e figli a quello tra teenager e non solo (come quello tra un uomo ed una donna), ci evidenzia e ci fa sognare proprio perché è un amore per cui vale la pena sacrificare tutto, è un amore dal sapore antico (Shakespeare docet) che – nonostante la tecnologia – resta ancorato a sguardi, a mani che si sfiorano e a palpitanti attese che fanno rumore in un sospiro.

Il film è la trasposizione cinematografica del fenomeno editoriale del 2015 "Noi siamo tutto", bestseller n. 1 del New York Times, opera dell’ex analista finanziaria Nicola Yoon, nata in Giamaica e cresciuta a Brooklyn. La Yoon dipinge una ragazza positiva e semplicemente incantevole che ha la forza prepotente di uscire dal suo ambiente di sempre e parallelamente di catapultarsi fuori dalle pagine dello stesso libro. E la giovanissima Amandla Stenberg riesce perfettamente a interpretarla.
Amandla aveva già ricoperto il ruolo della piccola Rue di Hunger Games, la ragazzina che poi si allea  con Katniss nel mezzo dei giochi mortali. Invece Olly è interpretato dal bravo Nick Robinson, che abbiamo visto in Jurassic World.
La magia del film è racchiusa nella continua citazione (non a caso) de Il Piccolo Principe, del fatto che per tornare dalla propria rosa e rivederla occorre morire (ergo “rinascere”, “cambiare pelle”) e che il mare rappresenta quella sconfinata parte di noi stessi che non abbiamo mai saputo, ma che abbiamo sempre sospettato di avere.  
Michela Montanari