The Devil's Candy
di Sean Byrne
con Ethan Embry, Shiri Appleby, Pruitt Taylor Vince
USA, 2017
genere, horror
durata, 79'
Nel cinema del nuovo millennio la componente sonora è quella che ha guadagnato maggiore terreno nella determinazione del dispositivo filmico. D'altronde, in un'epoca in cui le nuove generazioni di cineasti danno sempre minor importanza al potere della parola, è il sonoro - declinato in tutte le sue forme - ad assumersi la responsabilità di completare il senso delle immagini. Così, per esempio, succede che in "Arrival" Denis Villeneuve decida di rappresentare l'impossibilità di riuscirci a parlare attraverso il mix di suoni, rumori e silenzi creato del formidabile Jóhann Jóhannsson, già autore delle "musiche" di "Sicario". Così fanno Edgar Wright e Sean Byrne rispettivamente in "Baby Driver - Il genio della fuga" e, appunto, "The Devil's Candy" (entrambi in uscita nella prima settimana di settembre), il lungometraggio oggetto della nostra trattazione. Rispetto al film del regista canadese, l'horror di Byrne si dimostra paradossalmente più convenzionale (rispetto alla confezione indipendente) nell'interpretazione del nuovo mantra, perché è la musica propriamente detta, e non altro, a costruire la narrazione dei film e i suoi significati. Alla pari di "Baby Driver", anche "The Devil's Candy" non si limita a considerare le canzoni dei Metallica e soci ("Am I Evil" è uno degli hit messi in pista dal regista, insieme a canzoni degli Slayer, Machine Head, Ghost) come strumenti drammaturgici opportunamente modulati sull'instabilità emotiva di Jesse, pittore impegnato a conciliare ambizioni artistiche e doveri famigliari, come pure sulle turbe mentali di Ray (Pruitt Taylor Vince), il figlio ritardato dei vecchi proprietari della casa dove la famiglia del protagonista si è appena trasferita.
Alla pari della pittura (ad un certo punto le composizioni di Jesse anticipano gli atti efferati compiuti da Rey) anche la musica è parte integrante di un discorso più ampio, incentrato sulla passione artistica (Rey non riesce a fare a meno di suonare la sua chitarra in piena notte), demonizzata (è proprio il caso di dirlo) dal regista nella sequenza d'apertura, in cui assistiamo al "peccato originale" di Rey, che reagisce ai rimproveri della madre uccidendola a colpi di chitarra; oppure destinata a funzionare come nesso logico, quando, attraverso i primi piani di Rey e Jesse (intenti ad assecondare il ritmo scatenato di un brano heavy metal) suggerisce un'analogia tra la follia psicotica del primo e l'attitudine compulsiva del secondo, per non dire della sequenza in cui il protagonista scopre con raccapriccio che il segno dell'anticristo è nascosto dietro il poster dei Ghost (autori della colonna sonora del film). Una trovata, questa, che la dice lunga sull'intento canzonatorio del regista, il quale, lungi dal prendere sul serio, approfitta della boutade per sparare a zero sugli aspetti più retrivi di certa morale conservatrice, quella che ancora oggi etichetta il rock and roll come la "musica del diavolo". Non è quindi un caso che in "The Devil's Candy" l'unica ancora di salvezza per Jesse e la sua famiglia non dipenda tanto dalla capacità fisiche e morali del protagonista, quanto piuttosto dalla scelta di rinunciare alle lusinghe conseguenti al riconoscimento del valore delle sue opere. In questo senso, una delle cose più riuscite del film è il modo con cui la storia riesce a rovesciare le proprie premesse, e, in particolare, a sconfessare quelle relative alla reale natura del protagonista. Il quale, dopo un inizio che ne lasciava intuire una sorta di comunanza con il percorso autodistruttivo intrapreso da Rey, si rivela al contrario una sorta di figura salvifica e cristologica, pronta a rinunciare al proprio ego e a sacrificarsi per gli altri (uno dei temi portanti del film) attraverso un percorso di purificazione che culmina nello scontro con il pericoloso omicida.
Montato su una confezione da cinema indie, rintracciabile in una composizione visiva che restituisce gli eccessi del genere con una messinscena sobria e ammiccante (il montaggio accelerato in cui la famiglia di Jesse prende confidenza con la nuova abitazione è un'assoluta novità per il genere in questione) e nella scelta di proporre una violenza più teorizzata che mostrata, quasi sempre giocata sullo scompenso psicologico invece che sul bagno di sangue. Alla pari di altri prodotti di genere, anche "The Devil's Candy" non sempre riesce a tenere testa al proprio background filosofico, perché la capacità che ha un film di spaventare il pubblico fa il paio con la possibilità di innestare gli elementi fantastici contenuti nella trama in un paesaggio quanto meno verosimile. Cosa che "The Devil's Candy" non riesce a fare, poiché ogni volta che Rey entra in campo ci si chiede per quale motivo possa andare ancora in giro a piede libero, e come sia possibile per lui avere la meglio degli aitanti poliziotti che gli stanno alle calcagna nonostante il suo corpo malfermo. Interrogativi che lo spettatore è destinato a portarsi dietro, una volta uscito dalla sala.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)
di Sean Byrne
con Ethan Embry, Shiri Appleby, Pruitt Taylor Vince
USA, 2017
genere, horror
durata, 79'
Nel cinema del nuovo millennio la componente sonora è quella che ha guadagnato maggiore terreno nella determinazione del dispositivo filmico. D'altronde, in un'epoca in cui le nuove generazioni di cineasti danno sempre minor importanza al potere della parola, è il sonoro - declinato in tutte le sue forme - ad assumersi la responsabilità di completare il senso delle immagini. Così, per esempio, succede che in "Arrival" Denis Villeneuve decida di rappresentare l'impossibilità di riuscirci a parlare attraverso il mix di suoni, rumori e silenzi creato del formidabile Jóhann Jóhannsson, già autore delle "musiche" di "Sicario". Così fanno Edgar Wright e Sean Byrne rispettivamente in "Baby Driver - Il genio della fuga" e, appunto, "The Devil's Candy" (entrambi in uscita nella prima settimana di settembre), il lungometraggio oggetto della nostra trattazione. Rispetto al film del regista canadese, l'horror di Byrne si dimostra paradossalmente più convenzionale (rispetto alla confezione indipendente) nell'interpretazione del nuovo mantra, perché è la musica propriamente detta, e non altro, a costruire la narrazione dei film e i suoi significati. Alla pari di "Baby Driver", anche "The Devil's Candy" non si limita a considerare le canzoni dei Metallica e soci ("Am I Evil" è uno degli hit messi in pista dal regista, insieme a canzoni degli Slayer, Machine Head, Ghost) come strumenti drammaturgici opportunamente modulati sull'instabilità emotiva di Jesse, pittore impegnato a conciliare ambizioni artistiche e doveri famigliari, come pure sulle turbe mentali di Ray (Pruitt Taylor Vince), il figlio ritardato dei vecchi proprietari della casa dove la famiglia del protagonista si è appena trasferita.
Montato su una confezione da cinema indie, rintracciabile in una composizione visiva che restituisce gli eccessi del genere con una messinscena sobria e ammiccante (il montaggio accelerato in cui la famiglia di Jesse prende confidenza con la nuova abitazione è un'assoluta novità per il genere in questione) e nella scelta di proporre una violenza più teorizzata che mostrata, quasi sempre giocata sullo scompenso psicologico invece che sul bagno di sangue. Alla pari di altri prodotti di genere, anche "The Devil's Candy" non sempre riesce a tenere testa al proprio background filosofico, perché la capacità che ha un film di spaventare il pubblico fa il paio con la possibilità di innestare gli elementi fantastici contenuti nella trama in un paesaggio quanto meno verosimile. Cosa che "The Devil's Candy" non riesce a fare, poiché ogni volta che Rey entra in campo ci si chiede per quale motivo possa andare ancora in giro a piede libero, e come sia possibile per lui avere la meglio degli aitanti poliziotti che gli stanno alle calcagna nonostante il suo corpo malfermo. Interrogativi che lo spettatore è destinato a portarsi dietro, una volta uscito dalla sala.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)
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