sabato, settembre 25, 2021

A proposito de Il buco di Michelangelo Frammartino

Il buco

di Michelangelo Frammartino

genere, documentario

Italia, Germania, Francia, 2021

durata, 93


Sottoposto a continue sollecitazioni il cinema contemporaneo sembra aver dimenticato l’importanza e i significati relativi alla scelta del punto in cui collocare la macchina da presa. Il buco di Michelangelo Frammartino c’è lo ricorda a partire dalla sequenza iniziale, quella ripresa nel poster del film: guardare il mondo che sta per nascere dall’interno della grotta e non viceversa fa tutta la differenza del mondo. Posizionare la mdp nello spazio recondito anziché in superficie per iniziare a raccontare la storia della misteriosa spedizione di un gruppo di speleologi nel sud d’Italia ci dice che quello che stiamo per vedere è un punto di vista interno a quei luoghi, come se a raccontarli non fosse un testimone arbitrario ma un vero e proprio Genius Loci. Un particolare, questo, che crea uno scarto nella lettura del film e nella coerenza delle sue immagini.

Carlo Cerofolini

IL SILENZIO GRANDE

Il silenzio grande

di Alessandro Gassmann

con Massimiliano Gallo. Margherita Buy, Marina Confalone

Italia, Polonia, 2021

genere: commedia

durata: 107’

Dopo il teatro, “Il silenzio grande” arriva sullo schermo, sempre grazie a Alessandro Gassmann che, dietro la macchina da presa, dirige con maestria pochi attori in uno spazio più o meno delimitato.

Presentato alle Giornate degli Autori al Festival di Venezia, il film ha, fin da subito, riscosso un buon successo.

Grande merito, oltre che al cast, ben selezionato e ben assortito, va anche alla location, vera e propria protagonista a tutti gli effetti.

Tutto ruota intorno a una famiglia che vive nella bella, e allo stesso tempo fredda, Villa Primic a Napoli, con vista su Capri. Un’abitazione, però, che Rose (Margherita Buy) ha deciso di mettere in vendita perché offuscata e messa in ombra dalla “presenza” e notorietà del marito Valerio (Massimiliano Gallo), affermato scrittore, da tempo rintanato nel proprio studio che altri non è che una biblioteca che accoglie un incredibile numero di volumi di letteratura. Ma non solo. Lo studio di Valerio ben si presta anche ad ospitare dialoghi, confessioni e segreti dei vari personaggi che si decidono a confidarsi con il padre, rivelando quanto di più segreto c’è in loro. Ma cosa potrà fare il povero Valerio per aiutarli? Il suo unico punto di appiglio, dopo essere venuto a conoscenza di tante rivelazioni, non del tutto positive, da parte della moglie e dei due figli, Adele e Massimiliano, è la domestica Bettina (Marina Confalone), perfetta spalla per il protagonista tanto da diventarlo lei stessa in alcuni frangenti.

Un Gassmann molto abile porta sullo schermo una storia teatrale che ben si presta anche ai tempi del grande schermo, facendo leva su interpreti validi che conferiscono ai propri personaggi quel qualcosa in più.

A tratti mantiene le tempistiche dello spettacolo dal vivo, ma la capacità di mascherare la “conclusione” del film attraverso la regia è il punto a favore di quella che è a tutti gli effetti una commedia, seppur in grado di far riflettere al pari di un dramma.

Piccolo e divertente cameo anche per lo stesso regista che, sempre sfruttando le tecniche cinematografiche, riesce a inserire il suo personaggio.

Uno spazio e un tempo non ben definiti, se non dai colori e dagli elementi intorno ai personaggi. Ma è proprio questa asetticità a dare quel qualcosa in più al film. Oltre a questo, naturalmente, come già detto, c’è da segnalare un cast sempre all’altezza e mai sopra le righe che seguendo la macchina da presa, e facendosi seguire da essa, trasporta lo spettatore nella stessa Villa Primic. Una villa che viene, a tratti solo accennata, e questo alone di mistero fa sì che molti dei segreti si possano nascondere proprio fra le mura di quella che, a tutti gli effetti, diventa parte integrante del cast del film. Ad aleggiare su di essa, e sulla biblioteca in particolare, quei tanti silenzi piccoli che, col tempo, hanno dato vita a un silenzio fin troppo grande che chissà che qualcuno non riesca, prima o poi, a colmare.


Veronica Ranocchi

venerdì, settembre 24, 2021

ANCORA PIU' BELLO

Ancora più bello

di Claudio Norza

con Ludovica Francesconi, Giancarlo Commare, Gaja Masciale

Italia, 2021

genere: commedia

durata: 112’

Tornano le “avventure” di Marta. Dopo il grande successo di “Sul più bello” diretto da Alice Filippi e tratto dall’omonimo romanzo di Eleonora Gaggero, la giovane protagonista affetta da mucoviscidosi, una rara malattia, fa di nuovo capolino sullo schermo. Il secondo capitolo, “Ancora più bello”, diretto da Claudio Norza, non riesce, però, purtroppo a mantenere alte le aspettative.

Marta, che nel primo capitolo, aveva lottato con le unghie e con i denti per vivere la propria storia d’amore con il bell’Arturo, in questo nuovo film ha già dimenticato l’ex ed è felicemente fidanzata da alcuni mesi (come ci dice lei stessa in voice over all’inizio) con Gabriele. La storia d’amore tra i due sembra procedere per il meglio finché al ragazzo non viene fatta una proposta di lavoro che prevede il trasferimento a Parigi per 10 mesi. Marta lo spinge ad accettare proponendo di vivere una relazione a distanza, ma, complici tutta una serie di imprevisti, la storia non sembra andare per il meglio. In parallelo continuano a svilupparsi anche le storie dei due amici di Marta che danno vita a delle sottotrame che aiutano a conferire leggerezza all’intera vicenda.

Un secondo capitolo, insomma, che, nel tentativo di mantenere toni e colori del primo film, non riesce a eguagliarne il successo. Una storia il sui risultato non è fresco come il precedente, nel quale la malattia di Marta era il centro dal quale si diramavano tutta una serie di situazioni in grado di conferire comunque leggerezza all’intera narrazione.

Inevitabile, quindi, il paragone con il primo film, soprattutto considerato il grande successo e la grande riuscita di “Sul più bello”.

Tutti gli elementi che avevano reso fresca, frizzante, leggera, ma anche appassionante la storia di Marta nel primo capitolo, qui vengono meno. Tutti quei punti di forza che tanto avevano reso speciale la storia di questa giovane ragazza “sfortunata” vengono accantonati in favore di caratteristiche ed elementi che, invece, sanno di già visto e che, pur non essendo del tutto negativi, appaiono scontati se si paragonano alle scelte registiche di “Sul più bello”. Un confronto che, a cose normali, non andrebbe fatto, ma che risulta, come detto, inevitabile per capire la direzione presa dalla storia, soprattutto se si considera che è già previsto un terzo capitolo, nel quale il rischio di inciampare è sempre più elevato.

Altra “piccola” nota dolente di “Ancora più bello” è il cambiamento della caratterizzazione dei personaggi, o meglio di un personaggio: la protagonista. Quella che tutti hanno amato in “Sul più bello” è la spensieratezza, seppur nei limiti della sua condizione, di Marta: una ragazza giovanissima che, nonostante tutto quello che le è successo fino a quel momento, non si piange addosso. Anzi, tutto il suo entusiasmo e tutta la sua energia, sprigionati nell’ora e mezzo di film, sono talmente forti che investono completamente chiunque decida di guardare la pellicola. Dopo aver visto “Sul più bello” si esce ancora più freschi dalla sala. Cosa che, purtroppo, non si può dire di “Ancora più bello”.

L’Amélie italiana, come molti l’hanno definita, per il taglio di capelli e per i colori è comunque un personaggio interessante, in grado di dar vita a interessanti riflessioni su temi forti e attuali. E il tutto sempre con la freschezza che la contraddistingue. Ma forse da questo sequel ci si aspettava di più.


Veronica Ranocchi

SUPERNOVA

Supernova

di Harry Macqueen

con Colin Firth, Stanley Tucci, James Dreyfus

Gran Bretagna, 2020

genere: 2020

durata: 95’

Una meteora più che una supernova il film diretto da Harry Macqueen con protagonisti Colin Firth e Stanley Tucci.

La storia è quella di una coppia di sessantenni, Sam (Firth) e Tusker (Tucci), compagni da una vita e innamorati l’uno dell’altro. Il primo è un pianista affermato, il secondo uno scrittore di romanzi di successo. Purtroppo, però, Tusker scopre di essere affetto da demenza precoce e decide di compiere, insieme al proprio compagno, un viaggio in camper che ripercorra luoghi e persone della loro vita.

In questo viaggio, però, verranno fuori alcuni dubbi che daranno vita a delle riflessioni da entrambe le parti.

Un road movie che ruota unicamente e interamente attorno ai due protagonisti e al rapporto di amore che li lega. Non ci sono indicazioni né temporali né spaziali, solo deducibili dal contorno e dal contesto. I personaggi secondari sono un numero davvero esiguo, tanto da non oscurare mai e in nessuna circostanza Sam e Tusker.

Il loro rapporto viene dato per scontato fin dai primi momenti e dalla prima sequenza. Siamo già, fin dai primi istanti, immersi nel “problema” e nella malattia di Tusker. Il suo modo di fare che, in un primissimo momento, può apparire come sopra le righe o esagerato nei confronti di un compagno che, invece, sembra continuamente prodigarsi per lui, è “spiegato” immediatamente dopo attraverso il disvelamento, sempre tra le righe, della malattia. I due ne parlano in un modo che fa comprendere che ne siano ormai a conoscenza da tempo. Ma non è dato sapere al pubblico quando e come. Ed è un peccato perché è come se mancasse un pezzo del puzzle. Fin troppo immerso nella vicenda, da subito in medias res, lo spettatore non sa come rapportarsi nei confronti di due personaggi che, per quanto bravi nell’interpretazione, rimangono in qualche modo distanti. Non si conosce il background, non si sa niente di più specifico sulla malattia di Tusker, non sappiamo i loro rapporti pregressi e, per questo, diventa difficile instaurare un rapporto di empatia sia con l’uno che con l’altro.

Un po’ “The Leisure Seeker” alla Virzì, anche “Supernova” è un film che deve tanto ai due interpreti. Il collante e il punto di forza di una narrazione alla quale manca qualcosa. Peccato perché le interpretazioni dei due sono interessanti ed efficaci, in ogni momento. Ma non bastano a compensare una sceneggiatura priva di alcune spiegazioni e di alcuni momenti che avrebbero meritato di essere mostrati, se non addirittura approfonditi.

Il peso che Tusker porta con sé lo trasmette a chi guarda fin dal primo istante, ma è troppo presto e questo fa sì che lo spettatore arrivi al termine della visione “affaticato”, senza provare quella liberazione o leggerezza che, anche se in negativo, avrebbe dovuto provare.

Grandi potenzialità e grandi aspettative per un film che, invece (e purtroppo), stanca.


Veronica Ranocchi

giovedì, settembre 23, 2021

A proposito di Titane di Julia Ducornau.

Titane

di Julia Ducornau

con Agathe Rousselle, Vincent Lindon

Francia, 2021

genere, drammatico, horror, fantascienza

durata, 108'


Nella prima sequenza del suo film Julia Ducourneau stabilisce un rapporto doppio e opposto. Quello interno, viscerale e nascosto di Alexia con gli “organi caldi” del motore dell’auto su cui sta viaggiando assieme al padre. E poi l’altro, superficiale, divisorio e privo di calore, del genitore rispetto alla figlia seduta dietro di lui. Interrotto prima del suo farsi il senso della scena si inserisce in Titane come una sorta di coito interrotto. Una mancanza di sfogo a cui Julia Ducournau darà compimento agognando un unione dei corpi prima fisica e poi spirituale. In questo senso Titane è un film di superficie/i - anche dal punto di vista visuale -, in cui gli istinti vengono prima di ogni ragione.

Carlo Cerofolini

mercoledì, settembre 22, 2021

DUNE (2021)

Dune

di Denis Villeneuve

con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac

USA, Ungheria, Canada, 2021

genere: avventura, fantascienza, drammatico

durata: 155’

Parlare del nuovo e attesissimo film di Villeneuve, presentato a Venezia, è tutt’altro che semplice.

Dovendo scegliere un aggettivo, sicuramente “imponente” è quello che più si avvicina al concetto. Un film tanto atteso quanto poi apprezzato da pubblico e critica. Già David Lynch, negli anni 70, aveva fatto un primo tentativo: quello di portare sullo schermo il grande successo letterario di Frank Herbert. Ma con scarso successo. Addentrarsi, quindi, in un’opera del genere, dopo i vari tentativi già fatti in passato non era scontato. Ma Denis Villeneuve è ormai abituato al genere così come è abituato a toccare grandi must del cinema (vedi Blade Runner 2049).

Siamo in un futuro distopico dove il duca Leto Atreides, padre di Paul, accetta la gestione di un pericoloso pianeta, Dune, unica fonte di una droga in grado di allungare la vita e fornire eccezionali capacità mentali. Ma, viste le potenzialità della spezia, ci saranno anche altri contendenti.

Insomma personaggi, tematiche e dinamiche si intrecciano in quella che si trasforma in una vera e propria avventura e in uno scontro per il potere.

Una delle abilità di Villeneuve è anche quella di essere riuscito a inserire riferimenti al contemporaneo in un’opera che, per certi versi, si presta a questo tipo di lavoro. Dall’ecologia agli scontri per la spezia e per il potere, gli accenni del regista alla società contemporanea sono molteplici.

A livello, invece, di tematiche si possono ritrovare tutte quelle tipiche del cinema di fantascienza e quelle del cinema d’avventura. Il filo conduttore che tiene in piedi un’opera di 2 ore e 35 minuti è quello di uno scontro. Uno scontro che inizialmente sembra quello tra due fazioni, ma che, con l’andare avanti della vicenda, si trasforma in qualcosa di più. Uno scontro con sé stessi e con le proprie paure, debolezze, incertezze.

Un’ambientazione “neutra”, nuda e scarna che aiuta, da questo punto di vista, lo spettatore a entrare in sintonia con i personaggi e capirne le dinamiche (solo talvolta un po’ rallentate). Personaggi ben caratterizzati e interpreti riusciti. Un Paul Atreides, interpretato da Timothée Chalamet, che si pone domande, si interroga su sé stesso e sul futuro. E questo contrasto interno è ben reso dal giovane attore che soffre internamente e, con lui, lo spettatore.

A fare da cornice a una vicenda che, come pecca, ha forse il fatto di dare troppo per scontato alcuni passaggi, soprattutto per i non lettori o appassionati del genere, c’è la musica di Hans Zimmer che richiama un mondo futuro, incerto e pieno di dubbi e domande.

Abilissimo il regista nel rendere lo spazio e il tempo come entità quasi del tutto prive di connotazioni. Quello che Herbert dipinge come qualcosa di infinito e indefinito è reso in maniera praticamente perfetta dagli scenari privi di connotazioni, ma che, anzi, richiamano questa asetticità voluta.

Un primo capitolo e una lunga introduzione necessaria che getta le basi per quella che Villeneuve ha anticipato essere una trilogia e che darà lo spazio e il tempo necessario ai vari protagonisti.

Intanto gli spettatori, protagonisti incontrastati, hanno tutto il tempo che serve per vivere un’avventura fuori dall’ordinario.


Veronica Ranocchi

Margherita Buy e il connubio con Nanni Moretti, regista di Tre piani

Partecipando a quattro dei 13 film diretti da Nanni Moretti Margherita Buy ne è diventata attrice feticcio, figura emblematica del disagio esistenziale raccontato dal regista romano. Pù che un alterego la Buy è una sorella maggiore, unica, tra tanti, in grado di intercettarne le nevrosi e contenerne le esuberanze. A differenza di Laura Morante, compagna di gioventù e specchio di un mondo già allora al di fuori di qualsiasi portata. Carlo Cerofolini


domenica, settembre 12, 2021

QUI RIDO IO

Qui rido io

di Mario Martone

con Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna

Italia, Spagna, 2021

genere: biografico, drammatico

durata: 133’

“Qui rido io” è la frase identificativa di Eduardo Scarpetta. Ma non solo. È anche il titolo del nuovo film di Mario Martone, in concorso a Venezia, con uno strabiliante Toni Servillo protagonista nei panni del grande attore di teatro.

Al centro del film di Martone c’è la storia di Eduardo Scarpetta, noto attore e commediografo napoletano che, nei primi anni del XX secolo, è al culmine del proprio successo grazie al personaggio di Felice Sciosciammocca che aveva oscurato e superato quello di Pulcinella. Le sue commedie riscuoto enorme successo, aiutato dalla sua numerosa troupe che può contare anche nell’aiuto e nella partecipazione della sua famiglia, tra cui Maria, Vincenzo e Domenico, figli della moglie Rosa e degli altri “figli”, nati da una relazione extraconiugale con Luisa, la nipote di Rosa: Titina, Eduardo e Peppino De Filippo.

Tutto sembra procedere nel migliore dei modi finché, a Roma, Eduardo non si imbatte nel dramma firmato Gabriele D’Annunzio de “La figlia di Iorio”. Immediatamente il commediografo ne vede una parodia che inizia a scrivere e presenta direttamente al Vate, nella speranza di una sua approvazione che arriva solo verbalmente. Ottenuto quello che lui considera un via libera, Scarpetta comincia a mettere in scena “Il figlio di Iorio”, parodia del dramma dannunziano. Durante la prima, però, un gruppo di intellettuali vicini a D'Annunzio iniziano a protestare contro Scarpetta, accusandolo di aver plagiato l’opera originale per mettere in cattiva luce il poeta. Eduardo è costretto a interrompere il tutto e presentare al pubblico i suoi personaggi più celebri nella speranza di mettere una toppa al fatto. Nonostante ciò, questo è considerato un vero e proprio momento di svolta al quale fa seguito la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia.

Una storia “alla Martone” nella quale il regista riesce a raccontare un fatto in un modo che solo lui sa usare con efficacia. Reduce da un altro titolo strettamente legato al mondo del teatro e con il rischio di ripetersi o di cadere nel “banale” raccontando una storia del genere, il regista realizza, invece, un film destinato a catturare un vasto pubblico e a incuriosirlo. Andare a documentarsi su questi grandi maestri del palcoscenico è la prima cosa che viene naturale fare dopo essere usciti dalla sala. Martone è riuscito, ancora una volta, a portare il teatro al cinema, senza essere ridondante, esagerato o superficiale.

I personaggi sono tutti ben delineati: ognuno ha il proprio ruolo e ognuno porta con sé una propria evoluzione e un proprio sviluppo, funzionale al proseguo della storia generale, ma anche di quella personale. Come nel caso di Eduardo De Filippo, ben caratterizzato anche se ancora giovanissimo, con lo sguardo già rivolto verso il futuro e una strizzata d’occhio allo spettatore che, naturalmente, ne conosce la storia.

La menzione speciale, però, da fare è quella a un Toni Servillo più che brillante. La sua interpretazione di Eduardo Scarpetta è una di quelle interpretazioni con la i maiuscola e che fa ben comprendere la grandezza, la potenza e il carisma di un grande uomo di spettacolo quale era il commediografo. Sulle scene in un modo e nella vita privata in un altro. Sempre comunque una figura “dominante” che l’attore ha saputo tratteggiare al meglio, dando vita forse a una delle sue migliori performance.


Veronica Ranocchi

domenica, settembre 05, 2021

IL COLLEZIONISTA DI CARTE

Il collezionista di carte

di Paul Schrader

con Oscar Isaac, Tye Sheridan, Tiffany Haddish

USA, 2021

genere: drammatico, thriller

durata: 112’

Titolo in parte fuorviante per il nuovo film di Paul Schrader presentato in concorso per il Leone d’Oro a Venezia.

Protagonista è un eccellente Oscar Isaac, nei panni di William Tell, ex carceriere di Abu Ghraib finito in prigione in seguito ad alcune violazioni dei diritti umani. Uscito dal carcere, l’uomo si guadagna da vivere come giocatore di poker professionista, avendo imparato a giocare e a contare le carte proprio in cella. Un giorno, tra un casinò e l’altro, William si reca ad un convegno della polizia tenuto da colui che riconosce come il suo vecchio istruttore che, a differenza sua, non è mai stato punito per i crimini commessi. Al convegno William viene riconosciuto da un ragazzo, Cirk, figlio di un ex torturatore che, come il protagonista, è stato istruito dal maggiore, ma che ha “portato con sé” le tecniche apprese diventando violento e arrivando a picchiare moglie e figlio prima di togliersi la vita. Cirk è deciso a vendicare il padre e William cerca di allontanarlo da questo proposito portandolo con sé in giro. Ma non tutto andrà come previsto e anche il protagonista dovrà fare i conti con il passato.

Come i più classici personaggi di Schrader, anche William Tell è un personaggio solo e solitario che non riusciamo mai a conoscere e comprendere fino in fondo. Silenzioso e attento a tutto, William è, per certi versi, un personaggio universale, nel senso che non ha una collocazione e una connotazione ben preciso che lo inquadra e lo vincola in un determinato tempo e luogo.

La scelta di descrivere anche i suoi modi di fare come “anonimi” è sintomatica del personaggio e del peso che esso ha e porta con sé con l’andare avanti della narrazione. Per far risaltare l’azione e le parole di un dato momento, il regista sceglie di rendere tutto asettico, facendo ricoprire al personaggio interpretato da Isaac ogni superficie con un telo bianco legato da dello spago.

Uno dei punti forti del film è sicuramente il poker, spiegato, in più momenti, con la voce fuoricampo del protagonista, in maniera precisa, ma sempre legandolo a precisi momenti da lui vissuti. Un’analogia costante tra il gioco delle carte, e del poker più precisamente, e il carcere. Analogie e simboli che soprattutto gli amanti di questo gioco possono apprezzare per tutta la durata del film.

Interessante è il rapporto che si viene a instaurare tra William e Cirk, che, nel giro di pochissimo tempo, diventa quasi un figlio per il protagonista che lui cerca di aiutare e proteggere il più possibile. Cerca di dargli i consigli che potrebbe dargli un padre pur accompagnandolo in un viaggio che sembra non avere una meta e uno scopo, trascorso in costante movimento tra un luogo e l’altro, o meglio tra un casinò e l’altro perché di questo si tratta. I luoghi frequentati da William sono solo i casinò e la sua vita, come suggerito dallo stesso Cirk, alla fine, appare sempre uguale. Ma questo solo all’apparenza.

Molto bravo il cast e tutti all’altezza del proprio ruolo, compreso il ruolo, quasi marginale, di Willem Dafoe, ma quello di Isaac, in primis, è degno di nota. Un personaggio disegnato su di lui che, agendo nella maggior parte dei casi, in silenzio, non ha bisogno di accessori per essere efficace. Basta uno sguardo e una presenza che, senza batter ciglio, funzionano.

Ultima, ma non per importanza, la rappresentazione del passato, un mix tra ricordi e incubi, resi da una messa in scena che fa precipitare anche lo spettatore in un vero e proprio vortice, senza appigli e senza riferimenti spazio temporali. La sofferenza è ancora più vera e cruda in questo modo. In un modo che solo Schrader poteva descrivere.

Forse non il favorito al Leone d’oro, ma un film da non perdere.


Veronica Ranocchi