venerdì, marzo 28, 2014

LA LUNA SU TORINO

La luna su Torino
di Davide Ferrario
con Walter Leonardi, Manuela Parodi, Eugenio Franceschini
Italia, 2013
genere. commedia
durata. 90'

A dispetto di un curriculum che lo ha visto non solo regista ma anche talent scout, con rassegne che hanno fatto conoscere in Italia le prime opere di un regista del calibro di Krzysztof Kieślowski, Davide Ferrario nel corso della carriera ha mostrato un approccio diretto e mai mediato rispetto alla materia dei suoi film, sperimentando generi e formati sempre concentrati sul fattore umano e sull'ambiente che lo influenza. Ed è proprio questo determinismo energetico e geografico ad ispirare il suo nuovo lavoro intitolato "La luna su Torino". Già il titolo è indicativo del connubio che sta alla base del film: la capitale sabauda, ancora una volta protagonista dopo le incursioni di "Tutti giù per terra" e "Dopo Mezzanotte", e poi la Luna, influenza celeste che sintonizza il mood del racconto, conferendogli quel misto di romanticismo e levità di cui sono intrise le esperienze dei tre protagonisti, due ragazzi e una ragazza che si dividono una villa immersa nello splendido scenario della collina torinese. Giulio quarantenne perdigiorno passa le sue giornate tra una lettura di Leopardi ed escursioni in bicicletta per le vie della città, Maria aspirante attrice è impiegata in un'agenzia di viaggi che assomiglia a un club per cuori solitari e, infine, Mario, studente di lettere che lavora in un bioparco dove animali e persone convivono in piena armonia. Tutti e tre sono alla ricerca di qualcosa che gratifichi le loro aspirazioni, l'amore probabilmente, il senso della vita sicuramente.

 


Mettendo a frutto esperienza artistica - il documentario innanzitutto - e motivi personali, Davide Ferrario riscrive a suo modo la mappa urbanistica della città operando in una direzione di vera e propria rivalutazione degli spazi abitativi. In questo modo i luoghi della mondanità classicamente intesi, pur presenti, rimangono laterali per fare largo a strutture di una Torino alternativa e post-olimpica che, nel mix di prospettive sfuggenti e di geometrie avveniristiche, si trasforma in puzzle surreale e cubista, in cui le divagazioni dei tre personaggi diventano il mezzo per raccontare lo spirito di una città proiettata verso il futuro - la metafora del 45° parallelo in cui Torino si colloca e che la collega al resto dell'ecumene - ma saldamente ancorata alla sua identità, presente nei ricordi e nelle abitudini dei vecchietti che Giulio va a trovare durante i suoi raid quotidiani.

 

In tale sipario la realtà si frantuma in un'esplosione di fantasie pirotecniche in cui entrano in gioco suggestioni letterarie - non solo quelle derivate dalle parole del sommo poeta mai come oggi così in voga, ma anche di Giulio intento a scrivere il romanzo di una gioventù percepita nella sua indeterminatezza - e passione cinefila, inserita attraverso il personaggio di Maria, appassionata di cinema muto, consumato con un'immedesimazione che prende forma nei trasfert ad occhi aperti in cui la ragazza si sostituisce alle dive dello schermo per sublimare i tormenti della sua irrequietezza.

Alle prese con un soggetto di sublime inconsistenza per l'esilità di una trama che procede per assonanze sentimentali e slanci emotivi, "La luna di Torino" dà vita a una piacevole anomalia, diventando poesia con una profondità che si nutre di divertimento (basterebbe il filone dedicato al rapporto tragicomico tra Giulio e le donne) e di una libertà di cui è manifesto la sequenza d'apertura, quella che trasforma la ricognizione notturna effettuata in assenza di gravità in una danza di traiettorie che sembrano definire l'essenza stessa del film. Insieme a questo il merito di aver proposto la novità dei volti di Walter Leonardi, Manuela Parodi ed Eugenio Franceschini, perfetti nel convertire la freschezza delle prime volte nella contagiosa ingenuità dei personaggi.
Passato al festival fuori concorso, il film è stato molto applaudito al termine della proiezione. Un buon auspicio per l'uscita nelle sale, annunciata per il marzo del prossimo anno. 

(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì, marzo 26, 2014

IN GRAZIA DI DIO

di Edoardo Winspeare
con Celeste Casciaro, Laura Licchetta, Barbara De Matteis, Gustavo Caputo
genere, drammatico
Italia, 2014
durata, 127'

L’amore ai tempi della crisi, e non solo l’amore; ambientato in Puglia, il film narra di una famiglia in declino economico, costretta a vendere la casa dopo il pignoramento dell’azienda, e ad andare a vivere in campagna.

Sono quattro le donne attorno le quali si muove e si contorce la telecamera  disperata ed empatica di Winspear: la nonna, le due figlie e la nipote; tutte catapultate a loro modo in un mondo, quello bucolico, che non le appartiene.  Il tutto raccontato con un realismo che ha epidermide documentaria, ma  non sfugge alla propria drammaturgia potente e coinvolgente, andando ad inquadrare il tutto in una fotografia che slancia la disperazione dei personaggi verso nuovi orizzonti. Tutto coronato dalla scelta dei non-attori, che incarnano a perfezione l’umanità manifesta sullo schermo, e dall’uso sferzante del duro dialetto pugliese.


E proprio la terra, lavorata con fatica, diventa l’elemento archetipico che va a rafforzare e a riprendere le anime tese verso l’abisso, e a riunirle in un’armonia che inizialmente solo la nonna cercava di issare come unico bene rimasto dopo la deriva. Quattro donne, quattro anime salve che vanno “al fondo dell’Ignoto, per trovare il nuovo” (parafrasando Baudelaiere) accompagnate dalla perfezione del dolce canto finale su un’inquadratura, svelata lentamente, che sembra dipinta da Michelangelo in persona.

Antonio Romagnoli
(pubblicata su dreamingcinema.it)

martedì, marzo 25, 2014

CAPTAIN AMERICA: THE WINTER SOLDIER


Captain America: The Winter Soldier
di  Joe Russo, Anthony Russo
con,  Chris Evans, Samuel L. Jackson, Anthony Mackie, Scarlett Johansson, Robert Redford,
genere, azione, fantasy, avventura
Usa, 2014


A breve distanza una dall’altra, il secondo film di “Capitan American: The Winter Soldier” ci presenta due sequenze che sembrano invertire le caratteristiche di riconoscibilità  che sono parte determinante del successo cinematografico dell'universo Marvel. In entrambi i casi vediamo l'uomo a stelle e strisce ripreso dall’alto in un campo lunghissimo, mentre di corsa sfreccia all’inseguimento di un nuovo primato. Nel primo caso si tratta di creare l’occasione per introdurre Sam Wilson, alias Falcon, il supereroe di colore destinato ad affiancare il capitano nella sua nuova avventura. Nel secondo invece, entriamo direttamente nel vivo dell’azione, con il Vendicatore affiancato dalla Vedova nera, in procinto di fermare un pericoloso terrorista. Le immagini sono eloquenti, ma se non conoscessimo il titolo del film faremmo fatica ad attribuire alla macchia nera che si muove sullo schermo, le caratteristiche identificative di Steve Rogers. Un anonimato spiazzante ed inadeguato per la fastosità del contesto, a cui si somma il senso di inadeguatezza derivato dal rapporto di minoranza tra la consistenza puntiforme dell'eroe, e la grandezza volumetrica di ciò che lo circonda. Sentimenti e stati d'animo di cui il primo capitolo di Capitan America si nutriva a piene mani, e che adesso ritornano nel nuovo episodio, ancora una volta segnato dalla sospensione esistenziale del protagonista, diviso tra il passato di un guerra che non è riuscito a vincere, ed un presente a cui per forza di cose non si sente di appartenere. Da qui la perdita del segno distintivo (lo scudo, la calzamaglia ed i colori della bandiera americana) sostituito da un tutto indistinguibile; e poi la profonda solitudine (nonostante la compagnia della vedova nera di Scarlett Johansson) che contraddistingue le gesta eroiche del paladino, impegnato a sgominare la cospirazione della potente Hydra, sopravvissuta alla sconfitta del nazismo, ed arrivata ai giorni nostri con l'intenzione di dominare il mondo, sottomettendo l'antico vincitore.

Se le sorti del mondo si decidono come sempre sul campo di battaglia,  settore nel quale "Captain American: The Winter Soldier" si concentra con dispendio di energie, sia nella creazione di un villain del titolo, tanto letale quanto affascinante, che nell'organizzazioni dei fuochi d'artificio, a cui è assegnato il compito di suggellare il film con una battaglia di galattiche proporzioni (anche in termini di minutaggio) il lungometraggio non lascia nulla al caso anche per quanto riguarda le stanze dei bottoni, dove, questa volta, a contendersi la partita ci sono tra gli altri Samuel Lee Jackson nella parte di Nick Fury e, udite udite, Robert Redford in quello di Alexander Pierce, governativo con licenza di uccidere. 


Se lo spettacolo è assicurato dalle polveri da sparo, "The Winter Soldier" riesce persino a coinvolgere quando lasciati da parte il montaggio stroboscopico e le dinamiche da macho,  riesce a trasmettere la malinconia di un personaggio assediato dai fantasmi ( non solo Bucky Barnes ma anche Armin Zola non mancheranmo di far pesare il loro ricordo) e costretto ad obbedire alle strategie di un paese che stenta a riconoscere. Trattandosi di un prodotto mainstream, e per di più hollywoodiano non ci si può aspettare chissà quali sconvolgimenti, ma la presa di coscienza di una nazione destabilizzata nel cuore delle sue strutture è sufficiente a farci schierare dalla parte di Capitan America e dei suoi  coraggiosi amici.

lunedì, marzo 24, 2014

NOI QUATTRO

Noi quattro
di Francesco Bruni
con Fabrizio Gifuni, Ksenia Rappaport, Lucrezia Guidone, Francesco Bacci Testasecca
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 93'




Delle insidie connesse con la realizzazione dell'opera seconda abbiamo già detto. Nel caso di Francesco Bruni ad aumentare il rischio di una possibile delusione era un precedente come quello di "Scialla!", capace di conquistare i favori del pubblico e il plauso della critica con un divertimento che aveva confermato l'intelligenza e la versatilità dello sceneggiatore prima ancora che del regista. Bruni infatti era riuscito a inserirsi nei paludati ambiti della commedia italiana con una fabula che metteva insieme finzione e realtà con un'immediatezza fuori dal comune. "Noi 4" invece, pur partendo dalle stesse premesse produttive, con Beppe Baschetto a coordinare un progetto che coniugava la qualità del prodotto agli incassi del botteghino, dimostra fin da subito le ambizioni del suo autore, nuovamente alle prese con una storia di confronti generazionali, che però, diversamente dalla prima volta, risultano inseriti in una struttura più elaborata, e se vogliamo, sofisticata. La sfida era chiara, e consisteva nel continuare a rivolgersi al mondo circostante e ai suoi personaggi, filtrandoli attraverso i codici di un cinema complesso e stratificato. Un cambiamento d'indirizzo evidenziato dalla coerenza spazio-temporale della trama, circoscritta all'interno del comprensorio cittadino e metropolitano della città di Roma, colta nella dispersione del suo fluire quotidiano, e sviluppata con un excursus corrispondente alle 24 ore di una giornata calendariale. Protagonisti della storia sono i membri di una famiglia segnata dalla separazione dei genitori e alle prese con il problema di far coesistere le vicissitudini del singolo con le liturgie collettive del modello originale. La cartina di tornasole è offerta dagli esami scolastici di Giacomo, il più piccolo dei quattro, impegnato in un esame orale destinato a diventare il motivo di una ronda che scaturisce dal tentativo degli altri componenti di alleggerire l'attesa della prova, con il sostegno della propria presenza. Il desiderio di fare quadrato deve fronteggiare le pulsioni centrifughe di un sodalizio, segnato da una mancanza di stabilità - affettiva, lavorativa e anche relazionale - che "Noi 4" prima ancora che a parole evidenzia con il tour de force topografico imposto alle immagini dalla frenesia motoria dei personaggi.

 

Ed è proprio la dialettica tra la centralità dell'istituto familiare, messa in circolo dal desiderio di un'armonia impossibile ma comunque vagheggiata - come testimonia a un certo punto il sogno premonitore di Giacomo - e la sua disgregazione, rappresentata dalla frammentazione di uno sviluppo narrativo, sincopato ed episodico, che rispecchia il desiderio di fuga e le incertezze dei personaggi a scandire il saliscendi emotivo della vicenda. In questo senso, Bruni è abile nel rilevare le sfaccettature caratteriali, facendole risalire alla maggiore o minore affinità delle combinazioni con cui la sceneggiatura si diverte a far interagire i personaggi, presenti sullo schermo (ove si escluda il catartico finale) attraverso gli accoppiamenti che si creano e si sciolgono durante la giornata. Così facendo veniamo a conoscenza della leggerezza di Ettore, padre inaffidabile ma sincero, delle nevrosi di Lara, razionale ma schiacciata dal suo senso di responsabilità, dell'irrequietezza di Emma, ribelle dal cuore tenero, e infine della tenerezza di Giacomo, innamorato di una compagna di scuola cui non riesce a dichiararsi. Se le intenzioni del regista erano quelle di farsi portavoce di una novità sociologica, allora bisogna dire che "Noi 4" poco aggiunge al quadro di precarietà in cui si barcamena la famiglia italiana, qui rappresentata nella difficoltà di adeguare la rigidità del suo istituto alla fluidità del reale. Diversamente il film, allineandosi a un format di caratteri e situazioni ormai consolidate, si distingue per la potenza di un paesaggio emancipato dagli stereotipi da cartolina utilizzati da molta parte del nostro cinema e finalmente in grado di incidere sulle psicologie dei personaggi. E qui ci riferiamo non solo a quello che abbiamo in parte anticipato, sottolineando l'importanza del contesto ambientale, empaticamente collegato allo stato d'animo dei personaggi; ma piuttosto al legame viscerale con il tessuto storico e urbano testimoniato dall'inserto dedicato alla statuetta della divinità del focolare latino, che emerge dagli scavi archeologici e lì ritorna, non prima di aver benedetto la problematica famiglia. E poi per la finezza di far emergere l'essenza dei personaggi in maniera discreta ma efficace, come capita con quello di Lara, figura emblematica di una femminilità tormentata e complessa (alla pari della figlia Emma, spesso illuminata da una fotografia contrastata), e per questo incorniciata in due sequenze dall'alto valore simbolico. Nella prima, in cui la tendenza di una personalità abituata ad andare in fondo alle cose (diversamente da Ettore superficiale e quindi esposto alla luce del sole) è trasposta nel mestiere della donna, obbligata dal lavoro a calarsi nel ventre della città; nella seconda invece, posta a conclusione del film, in cui la restituzione del talismano riportato al suo luogo di appartenenza, sintetizza una presa di coscienza e un'assunzione di responsabilità che in conformità con gli svilluppi dell'intreccio, può fare a meno di eventuali salvagenti. Qualità che "Noi 4" condivide con una direzione attoriale capace di valorizzare il talento degli interpreti e di farci scoprire una giovane attrice come Lucrezia Guidone, alle prese con il personaggio di Emma, che da solo incarna il caleidoscopio emozionale del film, e che in parte riscatta la sensazione di un meccanismo perfetto ma troppo attento a far tornare i conti.
(pubblicato su ondacinema.it)

 

sabato, marzo 22, 2014

MR MORGAN

Mr Morgan
di Sandra Nettelbeck
con Michael Caine, Clemence Poesy
Germania, 2013
genere, commedia
durata, 118'

Regista tedesca con ambizioni internazionali, Sandra Nettelbeck aveva messo in evidenza il suo talento imbrigliando le guasconerie latine del nostro Sergio Castellitto con la sensualità teutonica di Martina Gedeck ("Le vite degli altri", 2006) con una commedia, "Ricette d'amore" (2001), omaggiata addirittura da un remake americano interpretato da Catherine Zeta-Jones. Annotazioni che ci danno lo spunto per inquadrate il lavoro della Nettelbeck all'interno di un cinema in cui recitazione e direzione attoriale sono le caratteristiche fondamentali. "Mr. Morgan's Last Love" ripercorre questa linea annoverando un cast di interpreti guidato dal carisma e dalla classe di Michael Caine ma anche dalla grazia di Clémence Poésy, attrice francese che le offre il destro in un ruolo che per la prima volta la proietta sotto la luce dei riflettori del cinema internazionali. L'innamoramento fuori tempo massimo dell'inconsolabile vedovo intepretato da Caine per la giovane maestra di ballo incontrata per caso sul bus che lo conduce a casa, potrebbe far pensare al cosidetto filone cinematografico dedicato alla terza età che in ogni stagione non manca di aggiungere nuovi esemplari alla sua collezione. E invece, pur restando nei territori dell'amore platonico e annoverando un certo numero di sequenze - qui ci sono quelle in cui Mr. Morgan si trasforma in un ballerino di cha-cha-cha - in cui la vecchiaia prende in giro se stessa, regalandosi il profumo di un nuova giovinezza, "Mr. Morgan's Last Love" si avvicina maggiormente ad un classico come "Nelly e Mr. Arnaud" (1995). A ricordare il capolavoro di Claude Sautet, il fatto di svolgersi a Parigi, e soprattutto la consapevolezza di due temperamenti che neanche per un attimo perdono il contatto con quello che gli sta accadendo.


A loro e agli attori che li impersonano la Nettelbeck offre l'equilibrio di una sceneggiatura che sa dosare romanticismo ed emozioni, e che è in grado di offrire una gestione dei personaggi, da Morgan a Pauline passando per Miles, il figlio del protagonista, che finisce per ritagliarsi una parte importante nell'economia della storia, armonizzando le psicologie alla loro funzionalità. Tra occasioni mancate ed improvvvise riabilitazioni, parole non dette e drammatiche confessioni, "Mr. Morgan Last Love" è capace di ricreare quella "dimensione parallela" di cui parlava Herzog nella sua lezione, all'interno della quale la storia del film viene ricostruita ein qualche modo anticipata dalle speranze e dai sentimenti di chi la guarda. Al film della Nettelbeck si rimane attaccati riformulando se stessi attraverso i personaggi. Un risultato non da poco per un film che non mancherà di trovare i suoi estimatori.
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 66 Festival di Locarno)

venerdì, marzo 21, 2014

NON BUTTIAMOCI GIU

 Non buttiamoci giù
di Pascal Chaumeil
con Pierre brosnan, Toni colette, Aaron Paul, Imogen Potts
Gran Bretagna, 2013
genere, commedia
durata, 96'

Foriero di equivoci e fraintendimenti, il rapporto tra cinema e letteratura è stato spesso complicato dalle titubanze del mezzo cinematografico, incapace di rendersi autonomo dalle regole della pagina scritta, e gravato dalla sudditanza di registi filologi, subordinati alla presunta superiorità della fonte letteraria. Questo per dire che il compito di Pascal Chaumeil non era facile, soprattutto perché si trattava di confrontarsi con la sfaccettata leggerezza di Nick Hornby, romanziere dalla scrittura facile ma dai contenuti sostanziosi. “Non buttiamoci giù” non faceva eccezione, mettendo in scena il mancato suicidio di quattro personaggi infelici e depressi, costretti a rimandare la propria dipartita per il fatto di ritrovarsi contemporaneamente all’ultimo piano del palazzo dal quale avevano deciso di saltare giù. Un incipit tanto drammatico quanto paradossale per la reazione che ne scaturisce, con giornali e televisione ansiosi di trasformare la coincidenza in un fenomeno mediatico, a cui contribuisce non poco la scelta dei protagonisti di fissare un nuovo appuntamento per verificare eventuali miglioramenti delle rispettive condizioni.

Se i motivi d’identificazione con una vicenda così particolare si riassumono nella coincidenza tra lo spirito del tempo e lo stato d’animo dei personaggi, egualmente negativi seppur per differente motivo, ed in una struttura narrativa che nell’incontro scontro tra quattro sconosciuti che finiscono per diventare amici, fa il verso all'interazione casuale e compulsiva mutuata dai social network, "Non buttiamoci giù" conferma la sua voglia di arrivare al grande pubblico costruendosi una trasversalità prima di tutto anagrafica, e poi caratteriale, espressa attraverso l'eterogeneità dei protagonisti: così risultano infatti l’uomo maturo e di successo tradito per eccesso d’autostima ed il giovane di talento frenato dalla troppa sensibilità, la ragazzina di buona famiglia aggressiva fuori e debole dentro, ed infine una madre tagliata fuori dal mondo da una disgrazia famigliare.

Alle prese con una materia scoppiettante e variegata, in cui riso e pianto confluiscono all’interno di un impianto da commedia, Chaumeil e soci compiono la scelta peggiore possibile, decidendo di trasformare la vivacità narrativa del romanzo, scandito da continui salti temporali corrispondenti al flusso di coscienza dei vari personaggi, in un racconto ad episodi incrociati, in cui i personaggi si dividono equamente il minutaggio, raccontandosi con overdose di voce narrante. In questo modo l’ironia e l’irriverenza tipiche dello scrittore inglese, come pure la sua capacità di lavorare sui dettagli vengono normalizzate, ed in qualche modo imbrigliate, dal conformismo di un contenitore che privilegia la riconoscibilità del prodotto all'originalita' dei contenuti; penalizzati, ad onor del vero, da una regia neutra e decorativa, che di limita a mettere in fila i vari momenti del film, senza far mai corrispondere le varianti emotive ad uno scarto del linguaggio filmico. Delusione ed indifferenza regnano sovrane.

mercoledì, marzo 19, 2014

LA SENTINELLE

La Sentinelle
di Arnaud Desplechin
con Emmanuel Salinger, Thibault de Montalembert, Jean Louis Richard
Francia, 1992
genere, drammatico
durata 139'


Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.

Per il suo secondo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all’interno del genere utilizzando i codici del “Crime Movie” a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un “nido di vipere” all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai “Patti di Yalta” (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista  e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall’altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera). Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre  da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno. Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente “La vie des morts”, mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l’inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin,  va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una “Comune” in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.

Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio  e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere giovanili, ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità  di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.

In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger)

I FRATELLI KARAMAZOV

I fratelli Karamazov
di  Petr Zelenka
con Ivan Trojan, Igor Chmela, Martin Mysicka, David Novotný, Radek Holub 
Repubblica Ceca 2008
durata, 110' 

Portare sullo schermo Dostoevskij si sa, è un’operazione tutt’altro che semplice;  trasporlo con un’opera in costume,  potrebbe risultare un suicidio artistico che, per fortuna, nessuno ha ancora compiuto.

 Dopo l’appassionata ed elegante rivisitazione americana de “Le notti bianche” da parte di James Grey (il film è “Two Lovers”), il regista cecoslovacco Zelenka propone forse il testo più complesso dell’autore russo, ambientando una messa in scena teatrale all’interno di un complesso industriale. Si può ben capire dunque che la questione andrà ad intrecciarsi su vari livelli narrativi, che vengono sfumati tra loro con dovuta maestria. Zelenka sembra prediligere il teatro al cinema (e oltre all’impressione del film in sé, a far venire il sospetto è anche un piccolo indizio in uno dei personaggi, al quale viene impedito di prendere parte a delle riprese per continuare le prove dello spettacolo). Trattandosi quindi fondamentalmente di meta-teatro, viene naturale il paragone con gli ultimi lavori di Roman Polanski (“Carnage”  e “Venere in pelliccia”), anche se obbiettivamente la grandezza di questi lavori appena citati non viene eguagliata, sia per qualche piccola distrazione ritmica, sia per la preponderanza che ha la messa in scena  teatrale su quella cinematografica.
Ci si trova comunque davanti ad un film sorprendente, dove le interpretazioni rendono chiarissimi i personaggi (anche per chi non avesse mai letto “I fratelli Karamazov”), e dove l’intersecare recitazione d’alto livello con le vite comuni degli interpreti segna un solco profondo su una dicotomia che diventa postulato: l’apice dell’arte e la miseria dell’uomo, che opponendosi si fondono tra loro e creano, dalla disperazione, l’epico.

Alberto Romagnoli
(pubblicata su dreamingcinema.it)

lunedì, marzo 17, 2014

LA GIORNATA PARTICOLARE DI UNA FAMIGLIA NORMALE: INCONTRO CON FRANCESCO BRUNI

"I miei orizzonti di narratore sono piuttosto limitati, non riesco ad andare oltre a quello che mi circonda".



Lontano dai proclami, ed all'insegna di un rilassato understament, le parole scelte da Francesco Bruni per incontrare la stampa a pochi giorni dall'uscita di "Noi quattro" sembrano lo specchio di quella voglia di sdrammatizzare, e di non prendersi sul serio che in parte ritroviamo nei personaggi maschili creati per le sue storie. Un infantilismo che accomuna tanto gli uomini politici che "guardano le partite di calcio nell'aula del parlamento", che le persone comuni, rappresentate dagli amici del regista invidiosi della leggerezza di Ettore, interpretato da Fabrizio Gifuni scelto come gli altri attori per " un talento che si mette a disposizione del personaggio senza soffocarlo".



Nel caso di “Noi quattro” l'egocentrismo narrativo e' ispirato alle riflessioni del regista a proposito del suo ruolo di genitore, non più centrale nella vita di figli diventati indipendenti, e più in generale alle sensazioni scaturite dalla consapevolezza del tempo che passa. “Per scriverlo ho utilizzato il solito metodo, che è quello di cercare la parte positiva dei personaggi, e di occuparmi di quei lati del loro carattere, spesso in contraddizione con la maschera che indossano nella vita di tutti i giorni”. Un caleidoscopio emotivo ottenuto dalla combinazione delle coppie a cui i protagonisti danno vita nell’arco temporale della storia, e che, fa notare Bruni, permette allo spettatore di apprezzare quegli scarti emotivi derivati dalla maggiore o minore affinità tra le parti in causa. Molto metodo quindi, ma anche un approccio empatico nei confronti di personaggi che Bruni dichiara di aver amato profondamente.



Un immedesimazione che appartiene anche a Fabrizio Gifuni, tornato alla commedia dopo lungo apprendistato drammatico, e finalmente felice di dedicarsi ad un genere che l’attore ritiene adatto alla propria versatilità: “Il cinema, la stampa ed anche noi stessi siamo vittima degli stessi stereotipi. Personalmente avrei voluto cambiare ma le offerte andavano sempre nella stessa direzione. Adesso invece ho avuto la fortuna di interpretare a breve distanza due personaggi creati dalla stessa penna, ma diametralmente opposti. Oltre a mettere qualcosa di me in ogni mia performance, recitare vuol dire anche rinnovare il gioco della pura interpretazione. Nelle produzioni teatrali la componente attoriale non era primaria, perché parte delle energie erano assorbite dall’elaborazione del testo e dalla sua messinscena. Nel cinema invece il piacere della finzione ha la meglio, e con un autore come Bruni che ti consente di partecipare alla definizione del personaggio questa sensazione diventa impagabile". Inevitabile poi il confronto con altri registi, ed in particolare con Gianluca Maria Tavarelli con il quale Gifuni condivise il set di “Un amore”, e di cui Bruni condivide la stessa compassione per l’umanità che descrive.



Entrando poi nel dettaglio di un mestiere ancora giovane, Francesco Bruni ricorda la sua disponibilità ad ascoltare i suggerimenti dei produttori non solo per il rischio finanziario che si assumono investendo i loro soldi, ma anche perché, come Beppe Caschetto, sono in grado di aiutarlo nella confezione di un opera che deve essere comunque in grado di raggiungere il pubblico. A chi gli chiede invece di fornire qualche dettaglio sulle riprese del film, il regista afferma senza mezzi termini di aver voluto fare un film su Roma “girando senza comparse, e lasciando che i suoni della città entrassero nelle parole della sceneggiatura”. Spuntano fuori aneddoti divertenti, come quello dell’insolito maltempo estivo, che in alcuni casi ha reso difficile catturare quella luce abbacinante e bianca che per Bruni appartiene all’essenza stessa della città.



“Volevo raccontare la città in maniera personale, riferendomi ad un quotidiano in cui i momenti di grande stress, scanditi dal rumore dei clacson e dagli ingorghi del traffico, si alternano a pause di incommensurabile bellezza, dove magari ti capita di fermarti davanti ad un monumento e di rimanere estasiato da una così grande armonia. E poi avevo voglia di parlare di una famiglia borghese, progressista e metropolitana che il cinema italiano ha del tutto dimenticato. Un’opzione che mi sembrava spendibile sul piano commerciale per la novità che rappresentava, e poi anche per il fatto di  riportare l’attenzione sulle persone normali in un panorama dominato da estremi di ogni genere”.

HER

Her
di Spike Jonze
con Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Amy Adams, Rooney Mara
Usa, 2013
genere, drammatico
durata,126'



Il lavoro di Theodore consiste nello scrivere lettere personali per conto di altri, compito svolto con efficacia e a tratti con partecipazione diretta. Una nuova tecnologia consente a dei sistemi operativi di avere un’intelligenza di base artificiale che rasenta quella umana, cambiando la vita di Theodore.
Spike Jonze parte da qui per costruire una pellicola ostica e complessa da rendere efficace, ma ci riesce nel migliore dei modi. Autonoma la scrittura della sceneggiatura (fin ora si era affidato all’estro geniale di Charlie Kaufman) il regista di “Essere John Malkovich” integra l’eleganza della storia d’amore con la sua natura visionaria, ed il risultato è eccezionale. La maggior parte dei dialoghi avvengono tra il protagonista e la voce del computer, dove il volto e le espressioni di Phoenix reggono in toto il peso mimico della conversazione praticamente annichilendo i contro-campi ed esaltando una prestazione attoriale da inserire nella sfera del sublime, come sublime è il lavoro che fa sulla voce Scarlett Johanson, efficace, drammatica e sensuale senza che compaia mai nel film. La costruzione drammatica è grandiosamente orchestrata e ben amalgamata anche in siparietti comici (come le scene del videogioco/ologramma). Dispiace, anche se c’era da aspettarselo, che l’interpretazione di Joaquin Phoenix sia stata per l’ennesima volta snobbata dall’Accademy.
Senza giustamente muovere critica alla società tecnologica nella quale siamo immersi, il fondere fantascienza e melodramma con così tanta naturalezza lascia spiazzati e senza parole, impossibile non commuoversi al termine di una visione così assurda quanto intima. Scevro da inutili virtuosismi o scenografie barocche Jonze rende credibile un futuro (magari nemmeno troppo lontano) in cui l’essere umano non può rinunciare all’emozione e al sentimento, regalandoci un capolavoro immenso, sicuramente tra i migliori film degli ultimi dieci anni.
Antonio Romagnoli

domenica, marzo 16, 2014

IDA

Ida
di PaAgata Trzebuchowska, 
con Agata Kulesza, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik
Polonia, 2013
genere, drammatico
durata, 80'



Anna è una ragazza orfana che vive in convento, ed è in prossimità di prendere i voti per diventare suora. Ma dietro il suo nome si cela una realtà sepolta che verrà pian piano a galla dopo l’incontro con la zia Wanda, cinica e disillusa militante anti-nazista durante la seconda guerra mondiale. In realtà Anna è ebrea di origine ed il suo vero nome è Ida.
 
Pawlikowski mostra un cinema polacco inusuale e fuori dal comune, provocatorio su molti fronti, compreso quello estetico. La densità simbolica (il trasporto della statua è un richiamo al Cristo de “La dolce vita”?) è accompagnata da un bianco e nero elegante, che va a sottolineare la mancanza d’identità della protagonista, già marcata dalle inquadrature fisse (i piccoli movimenti col cavalletto di contano sulle punta delle dita) e dal decentramento di Ida/Anna nelle inquadrature stesse; la vedremo infatti molto spesso in parte tagliata o comunque a margine dello schermo. L’identificazione finale disintegra tutto il costrutto filmico precedente chiudendosi in un lungo piano sequenza fatto con la camera a mano, che ricorda un po’ quello celeberrimo de “I quattrocento colpi” di Truffaut. Il tutto risulta perfettamente coerente, seppure il ritmo ne risente inevitabilmente. Il vero difetto del film è dunque il suo grande pregio, ovvero la poca accessibilità con i codici di un pubblico medio, mentre gli addetti ai lavori si trovano a confrontarsi con un’imponenza simbolica che raramente viene portata sugli schermi.
Ida, prima ancora di essere donna di chiesa, è donna, e per prenderne piena consapevolezza deve prima liberare da sotto terra un passato doloroso, per poi passare al crepuscolo dell’idolatrare la dissolutezza di Wanda, e liberarsi infine nell’alba della propria identità.
Antonio Romagnoli

venerdì, marzo 14, 2014

47 RONIN

 47 Ronin
di Carl Rinsch
con Keanu Reeves, Cary-Hiroyuki Tagawa
UK, Giappone, 2014
genere, 118'

Strano ibrido quello di “47 Ronin”, film che mischia incantesimi e Samurai, e che da tempo figurava nei memento di cinefili e semplici appassionati per la presenza dell’attore che meglio ha rappresentato un modello di mascolinità contemporanea, sempre meno definita sia sul piano emotivo che su quello dell’identità sessuale. Caratteristiche di neutralità che il film di Carl Rinsch prende in prestito, consegnando a Keanu Reeves il ruolo di Kai, mezzo sangue allevato da un signore della guerra di cui sarà chiamato a vendicare l’onore; per farlo Kai si unirà ai Ronin del titolo, disorientati e raminghi, ma pronti alla morte pur di consegnare il colpevole alla meritata punizione. Da questo punto di vista “47 Ronin” è quasi un classico, presentando una storia incentrata sull”ennesimo scontro tra bene e male, con i valori di coraggio e di lealtà  della cultura giapponese simboleggiati dal codice etico del samurai, contrapposti all’ambiguità ed alla cupidigia del diabolico Kira, disposto a tutto pur di soddisfare la sua brama di potere.

Una tradizione che però viene  meno sul piano formale, quando “47 Ronin”, decidendo di mettere in scena un Giappone edenico e feudale, disegnato su sfondi di armoniosa compostezza, e organizzato sulla conservazioe di di valori imprescindibili, quelli degli Shogun e dei samurai, non rinuncia al cortocircuito postmoderno che si fa beffa di steccati e tradizioni, popolandone il paesaggio con  incantesimi e malie, tra arcani incantatori e metamorfosi favolose che, alla maniera del fantasy più recente entrano in gioco ogni qualvolta Kai e la sua banda sono costretti ad incrociare la strega intepretata da Rinko Kikuchi, già apprezzata in “Babel” e “Pacific Rim”, mutaforme e letale nel mettere in pratica la volontà del suo padrone. Se i motivi di curiosità del film si poggiavano sulla curiosità di constatare lo stato di forma, peraltro ottimo, di una star da tempo lontana dagli schermi “47 Ronin” attirava l’attenzione anche per  la sfida di proporsi a metà strada tra vecchio e nuovo, con la rappresentazione di un mondo affascinante e leggendario, chiamato a confrontarsi con le manipolazioni, tecniche e contenutistiche del cinema più moderno. Una scommessa che il film di Rinch vince solo a metà; perché se è vero che i riferimenti alla rappresentazione della stirpe guerriera, con le liturgie ed i rapporti di forza che la contraddistinguono, riesce a rispettare la consuetudine iconografica senza risultare inadeguata alla sua natura mainstream, a non convincere è la sincronizzazione delle sue componenti, diseguale nell’alternare lunghi momenti di stasi, a cambi di passo che l’uso del long take indebolisce nella loro funzione alternativa. La sensazione è quella di un film squilibrato, ed in certi cosi dilatato da affievolire l’impatto drammaturgico.  A suo vantaggio però il fascino vintage, e l’indubbio carisma di Keanu Reeeves, ancora imprescindbile in questo tipo di operazioni.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

giovedì, marzo 13, 2014

NEED FOR SPEED

Need for Speed
di Scott Waugh
con Aron Paul, Imogen Poots, Dominic Cooper
Usa, 2014
genere, azione
durata, 130'
 

La trama, che vi risulterà estremamente semplice e scontata, diventa contorno di un procedimento sui generis non facile da comprendere  né tantomeno da realizzare.

Need for speed, oltre a dover rispondere alle aspettative dei milioni di fan del videogioco da cui è tratto (e fidatevi, ci riesce alla grande), si pone come avversario di una saga diventata ormai celebre e che per anni non ha avuto rivali: Fast and Furious; i punti di forza rispetto a quest’ultimo sono molteplici: La sceneggiatura raramente cade in banalità, e anzi spesso ci sono dialoghi che tengono il ritmo altissimo (strizzando l’occhi all’ormai usatissimo non-sense tarantiniano); la corsa in quanto tale diventa un elemento spettacolare che esalta sia per tecnica cinematografica che per passione motoristica in sé; ultima ma non meno importante analisi è quella dell’attoraggio. Se Fast ‘n’ Furious aveva fatto dell’iconografia mono-espressiva di Vin Diesel un marchio di fabbrica ed incredibilmente anche un punto di forza, in Need for Speed arriva Aaron Paul (ancora fresco del successo di Breaking bad) a reggere tutto il gioco, con una prestazione da grande attore. Degno di nota il rifacimento a tutta una cinematografia passata che i buongustai apprezzeranno; si attraversa tutto uno scenario americano classico che al suo culmine si lancia (nel vero senso della parola) in una citazione spassionata  al cult “Thelma and Louise”.


Insomma tra finestrini che diventano telecamere, e corse per arrivare ad altre corse, la carica adrenalinica potrebbe rendervi pericolosi al volante per le 24 ore successive alla visione.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

mercoledì, marzo 12, 2014

FRUITVALE STATION

Fruitvale Station
di Ryan Coogler
con Michael B Jordan, Melodie Diaz, Octavia Spencer
Usa,2013
genere, drammatico, biografico
durata, 85'

Oscar Grant è una adolescente di colore della Bay area, assassinato da un poliziotto dopo una vicenda sciocca e per motivi poco chiari.

Ryan Coogler, regista esordiente, decide di narrare l’ultimo giorno di vita di Oscar, seguendolo passo passo in una quotidianità che porta la ricorrenza dell’ultimo dell’anno. E’ quindi sempre sul filo tra documentario e finzione la drammaturgia impostata da Coogler, che coraggiosamente apre il film con le immagini di repertorio che mostrano l’uccisione di Grant. Ed è proprio l'irrintraciabilità di una semantica filmica poco chiara a diventare decisiva, grazie anche all'interpretazione di Michael B. Jordan, in un ruolo per niente facile. Il paragone (inevitabile) con 12 anni schiavo su queste pagine lo avevamo già analizzato parlando del film di Mcqueen, che cullandosi sugli allori di un’estetica piacente e compiaciuta (avevamo pronosticato l’oscar al miglior film molto tempo fa) viene surclassato da un’opera prima dove il dramma diviene attenzione principale e diegesi stessa della drammaturgia della pellicola.


Quest’esordio così forte, non farà certo dimenticare a chi ha visto il film la miscela di sensazioni che lascia a fine visione; il potere delle immagini contorce l’animo in un vortice dove rabbia e commozione diventano un unico brivido.

Antonio Romagnoli

martedì, marzo 11, 2014

ALLACCIATE LE CINTURE

Allacciate le cinture
di Ferzan Ozpetek
con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Schicchitano
Italia, 2014
genere, melò
durata, 110'


L'apertura del film e' impegnativa, con il piano sequenza che giocando sui significati di quello che ci aspetta, avanza rasoterra, e poi si alza per inquadrare i due protagonisti, stretti nel nugolo di persone riparate sotto la pensilina di una stazione. La sorpresa del temporale, indicata dal dettaglio sui passi affannanti di viandanti sorpresi dall'improvviso acquazzoneed alla ricerca di un possibile ricovero, si sovrappone alla casualità dell'incontro tra Elena ed Antonio, due opposti che si dichiarano tali esasperando i toni della loro discussione, e che pure, finiranno per innamorarsi senza perdere le rispettive discrepanze. Ma non basta, perchè la violenza verbale di quel confronto, sottolinea non solo il carattere indomabile dei contendenti, ma stabilisce uno segno imprescindibile del cinema di Ozpetek che, alla stregua di una tragedia greca, conferisce alla coralità dei personaggi il compito di partecipare in maniera attiva alle vicende dei suoi protagonisti. Come testimoniano le immagini che seguono, con il drappello pronto a parteggiare per uno o per l'altro durante la furiosa querelle.

 
Dopo quell’inizio circoscritto nello spazio e nel tempo, il film si apre repentinamente al paesaggio circostante, attraverso i movimenti di macchina che nel seguire gli spostamenti di Elena, diventano il presagio di un metamorfosi che non tarderà a verificarsi quando la ragazza, promessa sposa di Giorgio, si innamorerà follemente di Antonio, nel frattempo diventato il fidanzato della sua migliore amica. Basterebbe questo per togliere ogni dubbio sulla natura melò di un film come “Allacciate le cinture”, se non fosse che trattandosi di un'opera di Ferzan Ozpetek, l'enfasi drammatica si espande e si moltiplica sulle vita degli altri, con un osmosi che, alla maniera di una famiglia allargata, coinvolge Fabio, l'amico gay con cui Elena metterà in piedi una fiorente attività imprenditoriale, Paola, madre premurosa e discreta, impegnata in un ondivago rapporto con una compagna stranulata ed eccentrica, ed infine Egle, figura esile ma coraggiosa, che a dispetto dello scarso minutaggio che il film le mette a disposizione, si incarica di rappresentare con il suo approccio positivo alle sventure dell’esistenza, il nucleo centrale di una poetica che “Allacciate le cinture” ribadisce in maniera clamorosa, mediante la svolta che ad un certo cambia le prospettive sui sentimenti che la malattia di Elena aveva fin li suscitato.


Un meccanismo drammaturgico che il regista turco conosce alla perfezione, e che però, a differenza di altre occasioni sembra girare con meno ispirazione. A farne le spese è l'empatia di una storia più costruita che sentita, con personaggi e situazioni che mancano di vita propria, ed esistono quasi sempre in funzione di qualcos'altro; e poi la qualità complessiva delle interpretazioni che, in un quadro generale meno blindato del solito, favorisce mestiere ed esperienza. Non si può quindi rimanere sorpresi dallo squilibrio tra la puntualità di attori come, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci e Paola Minaccioni e la fragilità dubbiosa di un'atto inventato come  Francesco Arca e, in parte, di Kasia Smutniak. Chi sperava in una rilancio dopo le incertezze di "Magnifica presenza" rimarrà deluso.
           

SUPERIPOCONDRIACO

Superipocondriaco
di Dany Boon
con Dany Boon, Kad Merad
Francia, 2014
genere, commedia, azione
durata, 107' 


Promotore di uno dei successi più clamorosi del box office francese, con incassi paragonabili a quelli dei blockbuster americani, “Giù al nord” aveva fatto del sodalizio tra Dany Boon e Kad Merad una delle sue carte vincenti. In quel caso poi, Dany Boon, regista oltrechè attore, si era inventato il classico asso nella manica, con una storia che esasperava pregiudizi e diversità tra due opposti culturali e geografici, capaci di diventare paradigmatici di una condizione universale.
Era perciò logico che Boon, dopo una manciata di sortite non altrettanto fortunate (“Niente da dichiarare?”, “Un piano perfetto”) decidesse di ritornare all’antico, riproponendo la formula che gli aveva consentito simile ascesa.   Questa volta però, forse per cercare di rinnovare il repertorio, Boon si ripresenta con una commedia spuria, nel senso che la comicità ed il divertimento scaturiti dalla dialettica tra il protagonista e la sua spalla sono contaminati da un diverso registro, ora drammatico, ora romantico, che prende piede quando Romain Faubert, ipocondriaco e single viene scambiato per Anton Miroslav, rivoluzionario in fuga dal Tcherkistan, immaginaria nazione dell’est europeo. Da quel momento in poi la storia subisce un’accelerazione improvvisa, trasportando le ossessioni dello sciagurato protagonista in un contenitore assolutamente dinamico, con fughe rocambolesche, scontri a fuoco, e salvataggi all’ultimo minuto che riproducono luoghi e dinamiche frequentate dal cinema d’azione.

Lo scarto, pur evidente, viene tenuto a bada con disinvoltura dal regista che continua a privilegiare gestualità da cartone animato (i capitomboli si sprecano così come le mimiche facciali ) e quelle improvvisazioni linguistiche che appartengono alle specialità della casa, qui utilizzate quando Romain deve far credere di essere un cittadino straniero, e quindi di conoscere a malapena la lingua francese. Caratteristiche che non vengono meno quando gli interni borghesi della Parigi della rive gauche vengono sostituiti dall’anonimato fatiscente e grigio della prigione dove il protagonista ad un certo punto si ritrova, ed in cui, in una scena da libro cuore, assistiamo alla tragicomica consumazione  di un companatico, equamente diviso con topi e scarafaggi. Così come nell’assunzione di responsabilità che Romain sarà obbligato ad accettare durante la cattività, per superare gli ostacoli che lo separano dalla felicità. Diversamente dal capodopera che l’ha preceduto, “Superipocondriaco” rinuncia quasi del tutto all’analisi del contesto sociale ed allo scavo psicologico delle varie tipologie umane che entrano in gioco solamente per innescare le fobie del protagonista. Il meccanismo funziona a fasi alterne, perché se da una parte la scrittura del film assicura un progressione narrativa che non concede pause, dall’altra fa capolino una certa autoreferenzialità  che copre solo in parte i limiti di un ispirazione troppo programmatica.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

FRUITVALE STATION: INTERVISTA A MICHAEL B.JORDAN

Abbiamo incontrato l’attore Michael B. Jordan, protagonista di Fruitvale Station; nel film interpreta Oscar Grant, ragazzo di colore ucciso senza motivo dalla polizia il primo gennaio 2009.

Hai incontrato la famiglia di Oscar per prepararti al ruolo?
Si, li ho incontrati e devo dire che è stato un grande privilegio, ma anche una grande responsabilità. Non essendo Oscar un personaggio famoso l’unico modo per indagare era stare a contatto con chi l’aveva conosciuto, e comprendere i vari modi di essere e di fare che differenziavano il comportamento con la madre e con gli amici per esempio. Ho passato molto tempo con sua figlia, ma senza mai parlare né del padre né del film.

Quasi contemporaneamente “Fruitvale Staton” segue la scia di “12 anni schiavo”. Due film importantissimi, come ritieni che siano collegati tra loro?
Bè prima cosa sono onorato dal fatto che a questo film venga data la stessa importanza di 12 anni schiavo. Credo che Steve Mcqueen abbia fatto un lavoro assurdo. In realtà non era chiaro il nostro intento mentre giravamo, quando fai un film non sai mai bene cosa stai realmente facendo e cosa verrà fuori. E’ molto importante per me che questo lavoro sia così tanto considerato, al posto di Oscar potevo esserci tranquillamente io , o molti altri ragazzi della mia età.

 
Ecco oltre a 12 anni schiavo, Django unchained, Lincoln, The butler; tutti film usciti nel giro di due anni. Come secondo te è differente la ricezione di questo genere di film tra il pubblico americano e quello europeo, non avendo quest’ultimo mai vissuto direttamente la problematica “blackness”?
E’ una domanda difficile. Certo Django affronta il problema gettandosi in un film di genere e gonfiando il tutto, allontanandosi quindi dalla realtà storica. Le altre sono tutte storie vere, e credo che quando si tratta di immedesimarsi col personaggio non ci sia molta differenza il pubblico si commuove tutto allo stesso modo.

Il film viaggia molto sul confine tra realtà e finzione, com’è stato sul set?
Devo dire che Ryan, il regista, mi ha aiutato molto essendo della zona dove si svolgono i fatti. E’ stato lui a delineare il tutto anche nel risultato finale e secondo me ha fatto un lavoro incredibile.

Cosa ne pensi delle polemiche sulla tua presenza ne “I fantastici 4”?
Bè penso sia normale, non penso sicuramente che sia una cosa razzista. Il pubblico ha nel suo immaginario una certa figura della torcia umana, ma credo che quando vedranno il film si ricrederanno. Sarà un’esperienza divertente, un ruolo che ho scelto anche per non stereotiparmi nel personaggio che muore sempre, da quando faccio questo lavoro sono morto un sacco di volte! Non voglio superare il record di Sean Bean! (risate).

Ringraziamo Michael per il suo intervento e gli facciamo un grande in bocca al lupo per il suo prossimo lavoro. Nel frattempo vi consigliamo caldamente di vedere “Fruitvale Station”.

Antonio Romagnoli

venerdì, marzo 07, 2014

300-L'ALBA DI UN IMPERO

300-L'alba di un impero
di Noam Munro
con 
Usa, 2104
genere, azione, drammatico
durata

Immaginiamo i sentimenti di Noam Munro alla vigilia di un debutto importante come quello che gli si prospetta davanti con l’uscita nelle sale di “300-L’alba di un impero”, seguito, si fa per dire, del seminale “300″ di Zack Snyder, lungometraggio la cui importanza va oltre la contingenze del film ma si apre a prospettive di genere e di stile, che hanno influenzato non poco il cinema che ne è seguito.


Stiamo parlando del connubio tra cinema e fumetto, altrove assorbito con una mimesi cinematografica che  della fonte cartacea escludeva quasi completamente l’apporto visivo fornito dalle chine dei disegnatori, e che invece il film di Snyder ( alla pari del Rodriguez di “Sin City”) riportava in primo piano con  una plasticità degli sfondi e delle figure umane che ne  facevano  un tableau vivents dalla doppia natura: pittorica, propria della graphic novel firmata dal grande Frank Miller, e filmica, conseguente alla peculiarità dello strumento utilizzato. Un body double artistico e concettuale che Munro ha ritrovato anche in sede di sceneggiatura, con una storia “parallela” a quella degli eroi delle termopoli. “300- L’alba di un impero” racconta infatti un altro episodio della resistenza greca che si svolge contemporaneamente al sacrificio degli eroi troiani, con la coalizione ellenica capeggiata da Temistocle, impegnata a contrastare la flotta persiana al comando del re Serse, e guidata dalla temibile Artemisia, abile guerriera mossa dal desiderio di vendicare un antico soppruso.


Stesso scenario ed identiche motivazioni che “300-L’alba di un impero” traduce con effetti speciali che saturano la vista dello spettatore disegnando la superficie dello schermo con cieli lividi di rabbia, paesaggi metafisici e contrasti di colore che riportano inevitabilmente ad un desiderio di morte e distruzione che il film nonostante i proclami di un possibile futuro (la democrazia e lo spirito di libertà da una parte, la regalità ed sogno di un impero universale dall’altra) ricerca nella moltiplicazione delle occasioni di conflitto che non riguardano solo il campo di battaglia, ma sono connaturate in un istinto primordiale e collettivo che sembra placarsi solo nello scontro con il nemico, ricercato persino nell’amplesso amoroso -tra Artemisia e Temistocle-  che il film si concede deponendo per un attimo le armi. Se l’obiettivo di Munro era quello di un’identificazione che non facesse sentire lo scarto con il modello di partenza, allora il risultato è raggiunto perchè “300-L’alba di un impero” sembra davvero una costola del film di Snyder. Il problema però è che il regista non riesce ad armonizzare la razionalità di una messinscena perfettamente controllata, con la mancanza di inibizione ed il velleitarismo legato ad un impresa – quella di Temistocle e dei suoi valorosi compagni – che non prevede calcoli. Il risultato è un film bello ma privo di pathos. Il paradosso meno adatto per un film che si nutre di mito e di leggenda.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

giovedì, marzo 06, 2014

Film in sala da Giovedì 6 Marzo 2014


FELICE CHI E' DIVERSO
di Gianni Amelio
2014 ITA - Doc - 93 min

ALLACCIATE LE CINTURE
di Ferzan Ozpetek
con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Carolina Crescentini
2014 ITA - Drammatico - 110 min

LA MOSSA DEL PINGUINO
di Claudio Amendola
con Ricky Memphis, Edoardo Leo, Antonello Fassari,
Ennio Fantastichini, Francesca Inaudi
2014 ITA - 94 min - Commedia

300 L'ALBA DI UN IMPERO
300: Rise of an Empire
di Noam Murro
con Callan Mulvey, Eva Green, Rodrigo Santoro, Sullivan Stapleton
2014 USA - Drammatico - 102 min

IL SUPERSTITE
For those in peril
di Paul Wright
con George MacKay, Kate Dickie, Michael Smiley
2014 GB - Drammatico - 92 min

PULCE NON C'E'
di Giuseppe Bonito
con Pippo Delbono, Marina Massironi,
Giorgio Colangeli, Francesca Di Benedetto, Piera Degli Esposti
2014 ITA - 97 min - Drammatico

TARZAN 3D
di Reinhard Klooss
2013 GER - 94 min - Animazione

CHOCO'
di Jhonny Hendrix
con Karent Hinestroza, Esteban Copete, Sebastián Mosqueira
2012 COL - 80 min - Drammatico

UN RAGIONEVOLE DUBBIO
Reasonable Doubt
di Peter A. Dowling
con Samuel L. Jackson, Dominic Cooper, Erin Karpluk, Gloria Reuben
2014 USA - 91 min - Thriller

REGISTE
di Diana Dell'Erba
2013 ITA - 76 min - Doc

mercoledì, marzo 05, 2014

LA CRITICA E LA (GRANDE) BELLEZZA, DUE RETTE PARALLELE?



“La grande monnezza”, “La grande schifezza”, “La grande cagata”, “Film osceno”. Sono innumerevoli gli epiteti e le allegorie allergiche al film (e più in generale al cinema?) di Sorrentino, recentemente vincitore alla notte degli Oscar; e sul fatto che i premi dell’Accademy siano tutt’altro che garanzia di alto valore artistico siamo tutti d’accordo (miglior film ad Argo lo scorso anno, il continuo snobbare Di Caprio ed ancora peggio Joaquin Phoenix, scandalosamente nemmeno candidato quest’anno). Certo è che neppure si può affermare il contrario. Correva l’anno 1999, quando Roberto Benigni ebbe il riconoscimento per “La vita è bella”. Vorrei porre per un attimo l’attenzione sui titoli di questi due film,  entrambi sintesi universale dell’arte e dell’uomo, che lascia vagamente presupporre una predisposizione tutta nostrana a toccare i picchi più alti dell’umanità, l’italianità vista come perenne risorgimento (come intuitivamente scriveva qualche giorno fa l’amico Carlo Cerofolini) in continua evoluzione ed espansione. E le critiche a “La grande bellezza”, che ora dilagano sui social tramite improvvisati opinionisti propaganti non-comunicazione murata (modalità vacue che richiamano “l’ars retorica” dei vari Grillo e Travaglio nazionali), provengono, ancor prima del luminoso percorso internazionale, da quella critica ingessata ed immobile che si oppone al progresso dell’arte e del mezzo cinematografico, gli stessi che continuano a sminuire l’estetica Felliniana e portare avanti la bandiera del cinema che fa bene soltanto agli analisti dei film. Ed è pur vero che in Italia, da sempre, si esce fuori dal campo di interesse, sia del pubblico che della critica, se non c’è una denuncia verso il sistema di crisi economica e morale; ideologisti abortiti dal pensiero di sinistroidi che si fanno portatori unici dell’ intellettualità e che promuovono esclusivamente l’impegno civile; illustri esempi sono l’accoglienza in Italia di “Arancia meccanica”, additato come film di destra, (si veda del resto in campo musicale la posizione della critica sul duo Battisti – Mogol). Insomma il bello fine a sé stesso possiamo solo seminarlo, lasciando che possa essere raccolto solo all’estero, e chiudendoci tra le nostre quattro mura ad inveirci contro  inutili dibatti privi di fondamento e base conoscitiva. Il lungimirante blablabla  sorrentiniano diviene paradossalmente diegetico alla maggior parte dei detrattori pre e post oscar, che tutto giudicano tranne che il film in sé. I motivi per cui un film del genere può non piacere sono tanti, ma sono sempre quelli sbagliati a farla da padrone (ma sul fatto che spesso sino sbagliati anche i motivi che portano ad esaltarlo non c’è da dibattere). Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente ma non ci è riuscito; Paolo Sorrentino ci ha fatto un film, e la moltitudine (specie del web), il niente, continua  ad alimentarlo, inconsapevole di accrescere il potere ed il fascino nel tempo di un film,  vi piaccia o no, che ha l’immortalità impressa sulla pellicola.
Antonio Romagnoli

martedì, marzo 04, 2014

THE SQUARE-INSIDE THE REVOLUTION

The square- inside the revolution
Jehane Noujaim
Egitto, Usa 2013
durata, 108'
 


Dopo aver riscosso successo al Sundance Festival e a Toronto, è approddato nelle anche nelle sale italiane The square- into the revolution, negli stessi giorni in cui concorre per l'Oscar. Il documentario racconta gli ultimi tre anni di rivolte in Egitto, quelle cominciate nel 2011 con i 18 giorni di occupazione di piazza Tahrir che portarono alle dimissioni di Mubarak e poi alla destuituzione del regime militare di Morsi. La regista Jehane Noujaim segue gli eventi nel loro farsi, racconta i fatti prima che diventino storia, con il distacco della cronista e la partecipazione di chi ha vissuto piazza Tahrir come fosse l'ombelico del mondo. La macchina in presa diretta sempre puntata sulla piazza, rende perfettamente questi due diversi, forse opposti punti di vista che sembrano completarsi e arricchirsi vicendevolmente. Così duplice è l'effetto suscitato nello spettatore che pur avendo l'impressione di assistere ad un telegiornale si sente inspiegabilmente e inevitabilmente coinvolto negli eventi che vede scorrer davanti a sé, quasi ne fosse partecipe. Il documentario non porta solo “inside the revolution” ma invita a prendervi parte, a sentire quella lotta per la democrazia come propria, come improvvisamente urgente e necessaria. 

A moltiplicare un tale effetto di coinvolgimento contribuisce non poco la scelta di affidare la narrazione a chi è protagonista della rivolta. Non un solo protagonista (anche se il filo conduttore sembra tenuto da Ahmed Hassan) ma più co-protagonisti chiamati a rappresentare le diverse anime della rivoluzione. Punti di vista diversi, a volte contrastanti ma tutti diretti verso un'unica meta, la democrazia: quello di cui ha bisogno l'Egitto non è una nuova guida ma una nuova coscienza politica. L'obiettivo potrà essere raggiunto soltanto unendo le tante menti, le centinaia di volti in “una sola mano”, quel tutto che pur essendo molteplice si fa uno. La telecamera rende perfettamente il conflitto tra le diverse individualità e la collettività. Si muove continuamente tra riprese dall'alto che inquadrano la molteplicità e la varietà delle presenze nella piazza, puntando sull'impressione che produce la quantità, e le inquadrature sui singoli, l'attenzione sulle loro riflessioni, sui loro volti. Le une quanto le altre testimoniano la pluralità di questa rivolta, la sua complessa tragicità. Il punto di vista è nello stesso tempo quello di chi sta dentro la piazza, animandola e di chi la racconta, la guardandola dall'alto. C'è insieme il coinvolgimento e il distacco. Chi è protagonista degli eventi ne diviene anche narratore quasi che il partecipare produca come conseguenza necessaria l'esigenza di raccontare. Ben presto questi giovani comprendono l'importanza di filmare tutto quello che accade per poi diffonderlo, per farlo conoscere al mondo. Raccontare diventa un modo per riflettere sugli eventi, per comprenderli meglio. Così i graffiti, sui quali più volte la macchina si sofferma, diventano una sintesi icastica di quanto accaduto, un raccordo con quanto deve ancora accadere, un vero e proprio memento, per non dimenticare.

Il documentario attraversa la lunga notte in cui sembra immerso l'Egitto, in attesa di un'alba che quanto più diventa vicina tanto più sembra allontanarsi per sprofondare poi nuovamente in un buio, ancor più profondo. L’oscurità del regime militare che segue alla caduta di quello di Mubarak. Nel corso di questi tre anni la sola vera protagonista rimane Piazza Tahrir che simile ad una moderna agorà rappresenta l'unica concreta possibilità di democrazia, l'unico luogo in cui la speranza diventa realtà.
Nella piazza c'è prima l'entusiasmo, la determinazione, la volontà di ottenere la democrazia, poi il sangue dei feriti e dei morti di una guerra crudele perché fratricida; ed ancora il dolore, la disperazione, la disillusione ma anche la rabbia e la speranza. Ogni centimetro di piazza conquistato è un centimetro in più di democrazia acquistato dall'Egitto.
Senza mai essere retorico il documentario realizzato da Jehane Noujaim  ha l'urgenza di una cronaca di guerra, la necessità della verità, la concretezza di una lotta intensa e condivisibile, quella per la libertà e la democrazia.
Aretina Bellizzi

THE LEGO MOVIE



”The Lego movie”

di: P.Lord e C.Miller
- animazione -
- USA 2014 - 100 min

Tante volte il Cinema ha utilizzato lo spunto narrativo legato alla figura dell'individuo marginale, "invisibile" che, chiamato in causa da una concatenazione imprevedibile di circostanze, viene a trovarsi nel cuore stesso delle cose; prende ad indirizzarne le svolte, magari recalcitrando e procedendo per tentativi, sino ad assurgere al ruolo - carismatico ed archetipico - di arbitro del loro destino. Tale meccanismo - ad ulteriore conferma della sua enorme valenza simbolica - parimenti si ripresenta, arricchendosi di uno smalto scanzonato ma lucidamente dissacratorio, per l'esordio sul grande schermo dei "mattoncini" più famosi del mondo, ovverosia il semi-leggendario "Lego", vero e proprio universo compiuto ma mai "stabilizzato", grazie all'infinita possibilità insita nella sua natura di essere smontato e rimontato, a dire trasformato, cioè "vissuto", ogni volta come fosse la prima.

Proprio questa sottile eppure tenacissima inerzia indirizzata al continuo cambiamento, alla necessita' di guardarsi nel profondo al fine d'incoraggiare l'espressività personale ad emergere, rappresenta una delle chiavi privilegiate - nonché uno dei fondamenti dell'attitudine-americana-alla-vita (i registi e sceneggiatori Lord e Miller, quelli del primo "Piovono polpette", assieme alla Warner, covavano il progetto da un lustro abbondante) - per accedere allo spirito autentico di un film come "The Lego movie".


Se l'immagine del "mondo" calibrato ad uso e consumo delle ossessioni di ordine e perfezione del "cattivo" Mr. Business - e, per taluni aspetti, più ancora di quello, derivativo del primo, incardinato su binari in superficie tanto spensierati quanto appena poco al di sotto inesorabili, che circoscrivono nella città-Lego di Bricksburg lo spazio vitale del protagonista Emmet Brickowski (operaio in un cantiere di costruzioni - cos'altro, senno' ? - super "uomo qualunque", soggetto contento-di-essere-massa, gioviale e ingenuo, mite esecutore di ordini e istruzioni, tutt'uno col suo appartamento/modulo abitativo per single, i suoi "martedì di svago a base di Taco", il suo show preferito in cui si ripete un'unica gag, sempre la stessa) - rimanda, da un lato, alle funeste (pre)visioni distopiche che tanta letteratura ci ha messo a disposizione da Orwell, passando per Ballard e la narrativa sintonizzata sul "futuribile", e, dall'altro, alle luccicanti costrizioni delle nostre vite contemporanee, fatte spesso anche di bramosie atone come riflessi condizionati quand'anche di squallide pseudo-soddisfazioni: in generale, di una omologazione desiderata, inseguita e ottenuta con una sorta di febbrile e laida ferocia; la rappresentazione che il film ne offre, invece, dosa in una mescolanza quasi sempre bene amalgamata la padronanza delle tecniche (come detto da più parti, "The Lego movie" e' un'opera digitale che sembra 'a passo uno'), la già accennata sofisticatezza dei richiami ma sopra ogni altra cosa il brio dispettoso e anti-consolatorio che tra leggerezza e arguzia fa davvero polpette di tutta una serie di stereotipi oramai interiorizzati dalla mentalità comune: dal mito dell'efficienza, alla cupidigia come valore; dalla mania del controllo, alla smania nevrotica di detenere il potere e di disporne. In tale prospettiva, sberleffi e ironie disvelatrici non salvano nessuno, setacciando in lungo e in largo figure a vario titolo incastonate nel pantheon dell'immaginario collettivo in virtù di una formula, quella dei 'Mastri Costruttori' che, a suo modo, e' già una piccola perla di sarcasmo. Così - mentre Emmet tenta di capire come armeggiare con gl'ingranaggi del mondo per scongiurarne la fine - ce n'è per tutti, tanti di casa proprio alla Warner: si va dal goffo machismo degli eroi in calzamaglia (Batman e Superman in prima linea ma non meglio ne escono Lanterna Verde, Wonder Woman, Gandalf e il Silente potteriano), ai padri nobili dell'arte e del pensiero (Michelangelo, Shakespeare, Lincoln). Dagli specchietti per le allodole delle icone per il consumo materiale e immateriale globale (la Statua della Libertà, l'Astronauta-degli-anni-80), ai feticci della televisione, del cinema, dello sport etc. (l'O'Neal del basket, Han Solo...).

La capacita' di rilanciare trovata su trovata, riflessione su riflessione, per di più, oltre a giovare al ritmo, tiene il film-di-Lego sul filo instabile della sorpresa e della rivelazione in un articolato equilibrio all'interno del quale riesce a trovar posto senza essere troppo invadente pure la miriade di citazioni più o meno esplicite che centrifuga qualche decennio di cinema fantastico nella lavatrice impostata sul "programma del mattoncino": fa capolino la saga di "Guerre stellari", allora, e quella dei "Pirati dei Caraibi". Strizza l'occhio il filone supereroistico e il 'disaster movie' alla "Transformers". E ancora, qui e la', spuntano omaggi sparsi a "L'armata delle tenebre", "Matrix" e tanti altri... E sebbene il contatto col mondo in carne e ossa di fatto intacchi la magia e la meraviglia di una progressione coloratissima che si poteva pensare inarrestabile, ecco che il finale rovescia di nuovo il tavolo, con la nonchalance sorniona e sorridente della beffa più riuscita.

TFK