"I miei orizzonti di narratore sono piuttosto limitati,
non riesco ad andare oltre a quello che mi circonda".
Lontano dai proclami, ed all'insegna di un rilassato understament, le parole scelte da Francesco Bruni per incontrare
la stampa a pochi giorni dall'uscita di "Noi quattro" sembrano lo
specchio di quella voglia di sdrammatizzare, e di non prendersi sul serio che in
parte ritroviamo nei personaggi maschili creati per le sue storie. Un
infantilismo che accomuna tanto gli uomini politici che "guardano le partite di
calcio nell'aula del parlamento", che le persone comuni, rappresentate
dagli amici del regista invidiosi della leggerezza di Ettore, interpretato da Fabrizio Gifuni scelto come gli altri attori per " un talento che si mette
a disposizione del personaggio senza soffocarlo".
Nel caso di “Noi quattro” l'egocentrismo narrativo e' ispirato
alle riflessioni del regista a proposito del suo ruolo di genitore, non più
centrale nella vita di figli diventati indipendenti, e più in generale alle
sensazioni scaturite dalla consapevolezza del tempo che passa. “Per scriverlo
ho utilizzato il solito metodo, che è quello di cercare la parte positiva dei
personaggi, e di occuparmi di quei lati del loro carattere, spesso in contraddizione con la maschera che
indossano nella vita di tutti i giorni”. Un caleidoscopio emotivo ottenuto
dalla combinazione delle coppie a cui i protagonisti danno vita nell’arco
temporale della storia, e che, fa notare Bruni, permette allo spettatore di
apprezzare quegli scarti emotivi derivati dalla maggiore o minore affinità tra
le parti in causa. Molto metodo quindi, ma anche un approccio empatico nei
confronti di personaggi che Bruni dichiara di aver amato profondamente.
Un immedesimazione che appartiene anche a Fabrizio Gifuni,
tornato alla commedia dopo lungo apprendistato drammatico, e finalmente felice
di dedicarsi ad un genere che l’attore ritiene adatto alla
propria versatilità: “Il cinema, la stampa ed anche noi stessi siamo vittima
degli stessi stereotipi. Personalmente avrei voluto cambiare ma le offerte
andavano sempre nella stessa direzione. Adesso invece ho avuto la fortuna di
interpretare a breve distanza due personaggi creati dalla stessa penna, ma
diametralmente opposti. Oltre a mettere qualcosa di me in ogni mia performance,
recitare vuol dire anche rinnovare il gioco della pura interpretazione. Nelle
produzioni teatrali la componente attoriale non era primaria, perché parte
delle energie erano assorbite dall’elaborazione del testo e dalla sua
messinscena. Nel cinema invece il piacere della finzione ha la meglio, e con un
autore come Bruni che ti consente di partecipare alla definizione del
personaggio questa sensazione diventa impagabile". Inevitabile poi il confronto
con altri registi, ed in particolare con Gianluca Maria Tavarelli con il quale
Gifuni condivise il set di “Un amore”, e di cui Bruni condivide la stessa compassione per l’umanità che descrive.
Entrando poi nel dettaglio di un mestiere ancora giovane,
Francesco Bruni ricorda la sua disponibilità ad ascoltare i suggerimenti dei
produttori non solo per il rischio finanziario che si assumono investendo i
loro soldi, ma anche perché, come Beppe Caschetto, sono in grado di aiutarlo
nella confezione di un opera che deve essere comunque in grado di raggiungere il
pubblico. A chi gli chiede invece di fornire qualche dettaglio sulle riprese
del film, il regista afferma senza mezzi termini di aver voluto fare un film su
Roma “girando senza comparse, e lasciando che i suoni della città entrassero
nelle parole della sceneggiatura”. Spuntano fuori aneddoti divertenti, come quello
dell’insolito maltempo estivo, che in alcuni casi ha reso difficile catturare
quella luce abbacinante e bianca che per Bruni appartiene all’essenza stessa
della città.
“Volevo raccontare la città in maniera personale,
riferendomi ad un quotidiano in cui i momenti di grande stress, scanditi dal rumore dei clacson e dagli
ingorghi del traffico, si alternano a pause di incommensurabile bellezza, dove magari ti capita di fermarti
davanti ad un monumento e di rimanere estasiato da una così grande armonia. E
poi avevo voglia di parlare di una famiglia borghese, progressista e
metropolitana che il cinema italiano ha del tutto dimenticato. Un’opzione che
mi sembrava spendibile sul piano commerciale per la novità che rappresentava, e
poi anche per il fatto di
riportare l’attenzione sulle persone normali in un panorama dominato da
estremi di ogni genere”.
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