di: J. Hughes
con: E. Estevez, A. Michael Hall, J. Nelson, M. Ringwald, A. Sheedy, P. Gleason.
- USA 1985 -
97'
"I see the boys of summer in their ruin/lay the gold tithings barren,/setting no store by harvest, freeze the soil". ("Nella loro rovina vedo i ragazzi dell'estate/desolare i campi d'oro/trascurare la messe, raggelare il suolo"). Quando Dylan Thomas buttava già questi versi - "I see the boys of summer", da "18 poems", 1934 - aveva si e no vent'anni e si attrezzava per scaraventare una nuova poesia (gesto "adolescente" che sorride, si tormenta ma stringe la mano alla Vita: "The force that through the green fuse drives the flower/Drives my green age; that blasts the roots of trees/Is my destroyer" - "La forza che nel verde stelo spinge il fiore/Spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi/E' la mia distruttrice" - ["The force that...", D. Thomas, ancora dagli "18 poems"]) in un "mondo nuovo", il mondo della prosperità e del progresso - quasi senza colpo ferire messo subito a repentaglio dall'avvento di un'altra sciagura bellica su scala planetaria - Un mondo in ogni caso strappato per sempre alla compostezza e all'infida armonia dell'ordine tardo vittoriano (gl'imperi, quando le costellazioni erano benigne, commercial-paternalistici; una rigida e ben presidiata divisione sociale; il crescente peso della "visione" economicista dell'esistenza; la baldanza dell'imporsi scientifico e tecnologico: il conseguente e sistematico rimpicciolirsi di quello stesso mondo come possibilità di indicare un "altrove" praticabile) e lanciato verso orizzonti magari promettenti, magari illusori, di sicuro inediti. Mezzo secolo... e sono già gli-anni-ottanta: sembra niente ma "i campi d'oro" sono in buona parte "desolati", adesso; la "forza" fatica a farsi strada nei "verdi steli", questi e quella con metodica "facilità" spesso e volentieri rimpiazzati dalla plastica, dal cemento e dal "business as usual", cosicché i "ragazzi", nell'estate dei giorni, contemplano "la loro rovina" incerti/impauriti/indifferenti all'ipotesi di doversi incamminare verso un futuro reiterazione stanca del presente.
"Breakfast club" arriva tra noi nel 1985, in piena consacrazione orwelliana ("1984", indicava lo scrittore britannico, identico momento del tempo in cui si svolge la vicenda narrata nel film) e slittamento progressivo dell'aderenza alla modernità della generazione dei "boomers" - sedotta/di fatto brutalizzata/messa da parte per eventuale riciclo dal feroce miraggio ludico-materialista e dal delirio di (super)potenza dell'America di Reagan: genitori egotici/sbadati/ottusi di adolescenti che sempre più spesso "trascurano la messe" e "raggelano il suolo" - scritto da un regista con "l'orecchio sulla strada", John Hughes, uno degli autori che più si e' esercitato nella teen-comedy (teniamo a mente almeno il sotterraneo disincanto di "Sixteen candles"/"Un compleanno da ricordare", 1984 e la spassosa gaiezza di "Ferris Bueller's day off"/"Una pazza giornata di vacanza, 1986), mettendosi a caccia di spunti, facce, intrecci, allo scopo di spremerne atmosfere e un barlume di psicologie non preconfezionate e con l'idea - e' il nostro caso - di teatralizzare stereotipi ricorrenti di un segmento problematico di società (i giovani), virandoli in commedia agrodolce e lasciandoli deflagrare in un contesto - primavera dell'84, Chicago, biblioteca della scuola superiore durante un sabato da passare in punizione - claustrofobico quanto simbolico.
Ecco allora il muscolare frustrato (Andy/Estevez), la chicca snob (Claire/Ringwald), il "geek" timido (Brian/Hall), il teppista-sbruffone fascinoso (John/Nelson) e la spostata alternativa (Allison/Sheedy) - per inciso, consistente rappresentanza del fu "Brat pack" - scontrarsi "a mani nude" secondo una prassi verbale e gestuale che rimpasta e rilancia gerghi, luoghi più o meno comuni, pose, consuetudinaria di vari "milieu" di riferimento tipicamente americani: la palestra e il campo di allenamento; la confraternita/cerchia esclusiva; il circolo letterario o scientifico; le bande e i sobborghi; l'alluso microcosmo degli "appartati" a vario titolo. Tra dileggi, ciclotimie, scazzi e supponenze, nei cinque si fa presto largo la stanchezza e la repulsione nei riguardi di quei modi di essere a cui, in fondo, sono i primi a non credere sul serio, e che indossano come maschere utili non tanto a rafforzare un consolidato meccanismo giovanile di difesa e di mimetismo al cospetto della realtà ancora in larga parte considerata incomprensibile e quindi di primo acchito ostile, quanto per scongiurare uno spauracchio ben più conflittuale e doloroso: la convinzione di non essere all'altezza delle aspettative degli adulti vissuta non come opportunità di affermazione individuale ma come presagio/terrore di diventare esattamente come loro, a dire supponenti, astiosi, retrogradi, arrivisti, cinici, brutali. Non a caso nel film l'"adulto" e' assente o circoscritto/imprigionato in un ruolo (il Preside ad incarnare l'Autorita', personaggio sempre pronto ad usare il Potere come una clava e che considera i ragazzi ne' più ne' meno che un branco di idioti, una scocciatura capitatagli inopinatamente tra i piedi) o escluso dal cuore vivo della storia perché latore di un messaggio ovvio e/o innocuo (l'inserviente incontrato a pi˘ riprese che dispensa consigli in precario equilibrio tra banalità e facile buon senso).
Pellicola di scene "scolastiche" e di superfici regolari ben illuminate ma ancora non del tutto respingenti; di stasi prolungate e un qual numero di non casuali momenti morti; di corpi e volti levigati - persino troppo - eppure miracolosamente al di qua del sottovuoto spinto e delle maioliche impenetrabili a cui ci avrebbero addomesticato gli anni a venire, "Breakfast club" scorre veloce e coerente come un'impertinenza giudiziosa, anche e soprattutto in virtù di una sincera insofferenza, di uno spaesamento su cui insistere anche a forza di lacrime, offrendosi/ci pure un abbraccio "generazionale" postumo (la scena di ballo montata per brevi inquadrature sulle performance danzanti dei singoli trascinate dall'energia del rock) e riconsegnando infine Andy, Claire, Brian, John e Allison al mondo di sempre, senza certezze (imprevisti amori ? Maggiore fiducia in se' ? Rinnovata disponibilità all'apertura ? Volontà di non farsi ancora sopraffare dalla rabbia, dal rancore ?) ma con uno spirito diverso, quello che li aiuterà ad imprimere un segno personale sulle cose, a riappropriarsi del "verde" e dell'"oro" dei giorni e delle occasioni "trascurate", così da non essere dimenticati. Sine spe ac metu. Don't you forget about me...
"Breakfast club" arriva tra noi nel 1985, in piena consacrazione orwelliana ("1984", indicava lo scrittore britannico, identico momento del tempo in cui si svolge la vicenda narrata nel film) e slittamento progressivo dell'aderenza alla modernità della generazione dei "boomers" - sedotta/di fatto brutalizzata/messa da parte per eventuale riciclo dal feroce miraggio ludico-materialista e dal delirio di (super)potenza dell'America di Reagan: genitori egotici/sbadati/ottusi di adolescenti che sempre più spesso "trascurano la messe" e "raggelano il suolo" - scritto da un regista con "l'orecchio sulla strada", John Hughes, uno degli autori che più si e' esercitato nella teen-comedy (teniamo a mente almeno il sotterraneo disincanto di "Sixteen candles"/"Un compleanno da ricordare", 1984 e la spassosa gaiezza di "Ferris Bueller's day off"/"Una pazza giornata di vacanza, 1986), mettendosi a caccia di spunti, facce, intrecci, allo scopo di spremerne atmosfere e un barlume di psicologie non preconfezionate e con l'idea - e' il nostro caso - di teatralizzare stereotipi ricorrenti di un segmento problematico di società (i giovani), virandoli in commedia agrodolce e lasciandoli deflagrare in un contesto - primavera dell'84, Chicago, biblioteca della scuola superiore durante un sabato da passare in punizione - claustrofobico quanto simbolico.
Ecco allora il muscolare frustrato (Andy/Estevez), la chicca snob (Claire/Ringwald), il "geek" timido (Brian/Hall), il teppista-sbruffone fascinoso (John/Nelson) e la spostata alternativa (Allison/Sheedy) - per inciso, consistente rappresentanza del fu "Brat pack" - scontrarsi "a mani nude" secondo una prassi verbale e gestuale che rimpasta e rilancia gerghi, luoghi più o meno comuni, pose, consuetudinaria di vari "milieu" di riferimento tipicamente americani: la palestra e il campo di allenamento; la confraternita/cerchia esclusiva; il circolo letterario o scientifico; le bande e i sobborghi; l'alluso microcosmo degli "appartati" a vario titolo. Tra dileggi, ciclotimie, scazzi e supponenze, nei cinque si fa presto largo la stanchezza e la repulsione nei riguardi di quei modi di essere a cui, in fondo, sono i primi a non credere sul serio, e che indossano come maschere utili non tanto a rafforzare un consolidato meccanismo giovanile di difesa e di mimetismo al cospetto della realtà ancora in larga parte considerata incomprensibile e quindi di primo acchito ostile, quanto per scongiurare uno spauracchio ben più conflittuale e doloroso: la convinzione di non essere all'altezza delle aspettative degli adulti vissuta non come opportunità di affermazione individuale ma come presagio/terrore di diventare esattamente come loro, a dire supponenti, astiosi, retrogradi, arrivisti, cinici, brutali. Non a caso nel film l'"adulto" e' assente o circoscritto/imprigionato in un ruolo (il Preside ad incarnare l'Autorita', personaggio sempre pronto ad usare il Potere come una clava e che considera i ragazzi ne' più ne' meno che un branco di idioti, una scocciatura capitatagli inopinatamente tra i piedi) o escluso dal cuore vivo della storia perché latore di un messaggio ovvio e/o innocuo (l'inserviente incontrato a pi˘ riprese che dispensa consigli in precario equilibrio tra banalità e facile buon senso).
Pellicola di scene "scolastiche" e di superfici regolari ben illuminate ma ancora non del tutto respingenti; di stasi prolungate e un qual numero di non casuali momenti morti; di corpi e volti levigati - persino troppo - eppure miracolosamente al di qua del sottovuoto spinto e delle maioliche impenetrabili a cui ci avrebbero addomesticato gli anni a venire, "Breakfast club" scorre veloce e coerente come un'impertinenza giudiziosa, anche e soprattutto in virtù di una sincera insofferenza, di uno spaesamento su cui insistere anche a forza di lacrime, offrendosi/ci pure un abbraccio "generazionale" postumo (la scena di ballo montata per brevi inquadrature sulle performance danzanti dei singoli trascinate dall'energia del rock) e riconsegnando infine Andy, Claire, Brian, John e Allison al mondo di sempre, senza certezze (imprevisti amori ? Maggiore fiducia in se' ? Rinnovata disponibilità all'apertura ? Volontà di non farsi ancora sopraffare dalla rabbia, dal rancore ?) ma con uno spirito diverso, quello che li aiuterà ad imprimere un segno personale sulle cose, a riappropriarsi del "verde" e dell'"oro" dei giorni e delle occasioni "trascurate", così da non essere dimenticati. Sine spe ac metu. Don't you forget about me...
TFK